Negli ultimi due decenni dell’Ottocento nasce e comincia ad affermarsi una nuova generazione di studiosi, la cui produzione, in quegli anni e nei primi venti del Novecento, ha innovato profondamente la sociologia europea, e che informa di sè, in maniera più o meno diretta, gli sviluppi anche recenti della disciplina, ormai praticata in moltissime parti del mondo.
Quella produzione, molto varia sia nel metodo che nei temi, persegue l’intento di consolidare lo statuto scientifico della sociologia, soprattutto in due modi: innanzitutto separando per quanto possibile il discorso sociologico dalle preferenze politiche e ideologiche che finora l’avevano non soltanto ispirato, ma ampiamente determinato nel suo contenuto; in secondo luogo costruendo consapevolmente teorie a un alto livello di generalità, relative alla natura stessa del sociale, e capaci di orientare lo studio delle sue diverse manifestazioni senza ridursi all’indagine empirica su di esse, che peraltro rimane una dimensione necessaria di quello studio.
Qui possiamo citare un’opera in cui questo duplice intento dà notizia di sè fin dal 1887: Gemeinschaft und Gesellschaft, titolo traducibile con Comunità e società oppure Comunità e associazione. L’autore, il filosofo tedesco Ferdinand Toennies (1855-1936), presenta questi due termini anche per tracciare approssimativamente l’intero passaggio dalle società primitive a quelle contemporanee; ma essi si prestano a un uso molto più fruttuoso, l’enucleazione di concetti da usare analizzando tutti i rapporti sociali. A questi temi hanno dedicato studi approfonditi in particolare due autori, il tedesco Max Weber (1864-1920) e il francese Emile Durkheim (1858-1917).
Il pensiero sociologico di Weber assegna un posto centrale alla soggettività umana, al complesso di percezioni, criteri, aspettative, valori, giudizi che alberga nella mente di ciascun individuo e ne orienta l’agire.
Gli esseri umani sono animali in una particolarissima relazione con la natura, che ha iscritto nel loro apparato biologico risorse e direttive insufficienti a mantenere la loro esistenza. Gli individui vengono quindi gettati in una realtà che presenta loro un’infinità di aspetti diversi e contrastanti – oggetti, stimoli, tentazioni, rischi, associazioni. Per posizionarsi entro questa realtà invivibile, sono costretti a ordinarla essi stessi tramite processi soggettivi di interpretazione. Attribuiscono cioè essi stessi significato alla realtà selezionando alcuni soltanto tra i suoi infiniti aspetti e valutandoli. Il loro comportamento, secondo Weber, si può designare come azione (Handeln) proprio se orientato da tali processi soggettivi, resi condivisibili tra soggetti dalla comunicazione.
Weber però si distacca dalla tradizione che mira a cogliere intuitivamente i processi psicologici individuali che presiedono a singoli eventi. La sua teoria sociologica propone piuttosto tipi ideali, cioè concetti astratti che identificano molteplici e diversi temi ricorrenti dell’azione sociale, e differenziano nettamente i modi più significativi di affrontarli, a cui variamente si approssimano quelli concreti manifestati in società, culture o gruppi diversi. Al più alto livello di astrazione, la teoria sociologica di Weber concettualizza alcuni tipi fondamentali a cui si può ricondurre ogni azione individuale o collettiva, in qualunque contesto storico, in merito a qualunque tema dell’esperienza sociale. Ciascun tipo è caratterizzato dalla prevalenza dell’uno o l’altro dei seguenti orientamenti:
TESTO
T6: Max Weber, Il “tipo” nella ricerca sociologica
- tradizionale: l’azione è intrapresa in base all’assunto che quel che è stato sempre fatto nel passato è di per sè valido, e gli spetta orientare l’agire presente;
- affettivo: l’azione dà espressione a spontanei impulsi emotivi, senza mediazione della riflessione;
- razionale; l’azione cerca, in vista della situazione esistente, di conseguire un fine determinato col minimo possibile dispendio delle risorse a disposizione.
Weber distingue inoltre tra
- una razionalità puramente di scopo, il cui stesso fine è oggetto di scelta, e
- una razionalità di valore, in cui un particolare fine è considerato degno d’essere perseguito comunque e dovunque.
ESERCIZIO
E9: Sviluppi del pensiero sociologico
A questa partizione si riferiscono innumerevoli tipi ideali, costruiti da Weber in base a vastissime conoscenze storiche e presentati più o meno sistematicamente soprattutto nel suo capolavoro, Economia e società (1922). Ad esempio la trattazione dei fenomeni politici (un tema particolarmente significativo per Weber, sia come studioso che come cittadino) distingue tra mero potere – la capacità di controllare l’altrui agire mediante la minaccia o l’uso della violenza – e dominazione, dove quel potere si manifesta in comandi dall’alto a cui generalmente corrispondono atti di obbedienza dal basso.
Weber propone tre tipi ideali di obbedienza: quella totalmente irriflessa, automatica, di chi si sente inesorabilmente legato a una condizione di inferiorità che considera naturale; quella risultante dal calcolo, da parte del “comandato”, della propria convenienza, in base all’entità e probabilità delle conseguenze rispettivamente dell’obbedienza e della disobbedienza; infine quella che esprime nel comandato un senso della doverosità morale, dell’obbedienza a un comando considerato legittimo.
Ma perché il comandato attribuisce tale legittimità al comando? Weber distingue tra legittimità tradizionale (l’obbedienza è doverosa perché il comando rispecchia la sacralità del passato), carismatica (l’obbedienza esprime la spontanea sottomissione del comandato a un individuo che si dimostra dotato di facoltà straordinarie) e legale-razionale (l’obbedienza è dovuta a comandi emessi da chi occupa determinate posizioni in vista di qualifiche obiettivamente accertate, e i comandi stessi applicano alla situazione presente comandi più generali formati a loro volta in base a regole pubblicamente stabilite).
Ma la legittimità, quale che ne sia la natura, è soltanto una delle proprietà dei sistemi di dominazione politica. Questi hanno numerose proprietà ulteriori, che Weber individua esaminando, ad esempio, come si devono dirimere contese tra privati o sanzionare comportamenti devianti; come vengono conferite risorse economiche all’ente politico; come ne viene esercitata l’amministrazione. Secondo Weber, tutti questi modi corrispondono al tipo di legittimità proprio del sistema; ad esempio, è tipico del sistema a legittimità legale-razionale (rappresentato principalmente dallo Stato moderno) che venga amministrato da una burocrazia, caratterizzata a sua volta da un insieme di tratti distintivi che Weber definisce ed elabora.
Come si vede, la decisione di costruire una sociologia dell’azione, che attribuisce un ruolo fondamentale alla soggettività, conduce Weber a un sistema assai complesso e ramificato di concetti astratti, ai quali ricondurre aspetti molteplici e diversi del processo storico-sociale. È questo il contributo sociologico fondamentale di Weber, completato peraltro da analisi monografiche di fenomeni particolari.
Si pensi ad esempio, alla cosiddetta “tesi di Weber”. Un particolarissimo fenomeno culturale – esposto nel saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905) –, il dogma della predestinazione, indusse i seguaci di Calvino, nella seconda metà del Cinquecento, a gestire i propri affari praticando quello che Weber chiama “ascetismo mondano”, ossia rifiutando il godimento della ricchezza ma, al contempo, impegnandosi attivamente ad accrescerla, in quanto segno tangibile della grazia divina. Questo fornì una legittimazione religiosa a un habitus morale senza precedenti, lo “spirito del capitalismo”, che a sua volta orientò le primissime generazioni di imprenditori ad attività che generarono il capitalismo moderno, considerato da Weber un fenomeno centrale della società contemporanea.
Si è visto nel pensiero sociologico di Weber il prodotto di un suo prolungato “dialogo con il fantasma di Karl Marx”. Questa immagine è molto più calzante di quella, spesso proposta, di Weber come il più radicale (e vincente) antagonista sociologico di Marx. Come suggerisce il termine stesso “dialogo”, il pensiero di Weber in parte concorda con quello di Marx e lo completa – ma altrove lo corregge e lo contraddice.
In parecchi punti Weber si differenzia da Marx per la sua molto maggiore complessità: in particolare per la consapevolezza del fatto che Marx accentua eccessivamente certi aspetti della realtà storico-sociale, ignorandone altri o trattandoli in maniera troppo riduttiva. Ad esempio, Weber condivide l’accento posto da Marx sul conflitto tra gruppi come una determinante fondamentale della struttura delle società. Insiste però sul fatto che contano, in questo processo, non soltanto le classi – cioè gruppi diseguali nel rispettivo controllo (o esclusione dal controllo) sulle risorse da cui dipende, in una determinata società, la produzione e distribuzione della ricchezza materiale; contano anche i ceti, cioè gruppi differenziati nel loro stile di vita, che corrisponde al prestigio sociale di cui godono (o non godono) i suoi membri. I ceti differiscono nelle rispettive spettanze (garantite in certi casi da norme giuridiche, in altri da regole rituali d’origine religiosa) all’accesso a certe occupazioni, e a determinate forme di consumo. Contano infine gli allineamenti di natura politica, che Weber talora chiama “partiti”, in un senso assai generale del termine, e che derivano dalle diseguaglianze nella capacità degli individui di determinare scelte e politiche pubbliche. Weber differisce ulteriormente da Marx nella sua maggiore consapevolezza dell’ineliminabile elemento di contingenza negli accadimenti storici. Marx considera i più significativi fra questi come momenti, per quanto diversi, in un unico itinerario della specie umana, al termine del quale l’antagonismo delle classi avrebbe cessato di essere il meccanismo fondamentale del progresso. Il completo controllo della specie umana sul resto della natura sarebbe stato infatti affidato alle consapevoli scelte della società nel suo insieme.
In questo aspetto del pensiero marxiano Weber avverte e respinge il richiamo esplicito o implicito a una filosofia della storia, molto probabilmente d’origine hegeliana. Egli sottolinea (più di quanto non faccia Marx) il ruolo che svolgono nella storia accadimenti intrinsecamente improbabili e imprevedibili, ma di grande effetto. In particolare la continuità degli ordinamenti sociali e culturali di una popolazione è rapidamente interrotta dall’irruzione del carisma – una carica di poteri straordinari che permette a certi individui di coinvolgere le masse nella propria sfida a principi tramandati e assetti costituiti. Il carisma ha più volte alterato il normale corso degli eventi storici, impersonandosi in un profeta che annunzia imperiosamente un modo nuovo di ottenere la salvezza spirituale oppure in un condottiero capace di modi nuovi di combattere battaglie (e fondare imperi) a vantaggio dei suoi seguaci. Inoltre, Weber dissente dalla visione hegeliana-marxiana di un unico destino finale dell’intera umanità, essendo particolarmente consapevole della diversità dei punti di partenza delle varie civiltà storiche, tutte in possesso di risorse culturali irriducibimente diverse, in buona parte generate da visioni religiose incompatibili tra di loro.
ESERCIZIO
E10: Sviluppi del pensiero sociologico
La sociologia weberiana presta sistematicamente attenzione a processi soggettivi, che operando a monte di un comportamento umano lo qualificano come azione. Per questa ragione Durkheim, se avesse conosciuto gli scritti di Weber, li avrebbe probabilmente considerati in disaccordo con la propria posizione metodologica, secondo cui sono oggetto della sociologia i fatti sociali. Questi, afferma Durkheim in Le regole del metodo sociologico (1895), devono essere trattati dai sociologi come cose, cioè come aspetti della realtà esterna, che limitano, condizionano, “costringono” i comportamenti individuali; solo se e in quanto questo succede la società stessa esiste e può essere studiata. Sbaglia quindi Spencer quando la tratta come il mero, casuale prodotto di una miriade di comportamenti reciproci di individui autonomi e indipendenti, che competono gli uni con gli altri ciascuno per conseguire il proprio interesse.
Durkheim riconosce che comportamenti di questo tipo sono particolarmente frequenti e significativi nella società moderna, nella quale rapporti di natura contrattuale svolgono un ruolo centrale. Ma anche su questo punto egli critica Spencer: primo, per aver indebitamente attribuito a tali rapporti la stessa centralità nel processo sociale in generale, comprese le varie e prolungate fasi premoderne; secondo, per avere frainteso il modo in cui gli stessi rapporti contrattuali si formano e funzionano proprio entro la società moderna.
ESERCIZIO
E11: Sviluppi del pensiero sociologico
Nemmeno in quest’ultima, in effetti, i rapporti contrattuali sono autosufficienti perché “non tutto, nel contratto, è contrattuale”. I contratti si formano, e ordinano le relazioni interindividuali, solo se esiste e funziona l’istituzione del contratto. Questa è un fenomeno di natura pubblica, un insieme di regole prodotte e sanzionate autoritativamente da organi politici, che stabiliscono in merito a quali aspetti dell’esistenza si può contrattare, e come; in quali modi si possono debitamente formare contratti; quali specifici diritti e doveri attribuiscano a ciascuna delle parti le numerose e diverse figure contrattuali riconosciute; a che condizioni una parte contraente può costringere l’altra alla prestazione pattuita o essere indennizzata se questo non è possibile.
Ma se è vero questo, Spencer sbaglia quando deplora nelle società contemporanee la persistenza di assetti politici che sovrappongono gli interessi collettivi a quelli individuali, limitando la libertà dell’individuo di servirsi autonomamente e egoisticamente di tutte le proprie facoltà e risorse. In effetti, osserva Durkheim, anche in queste società le libere attività degli individui devono necessariamente venire condizionate e sostenute da organi pubblici appositamente costituiti e specializzati.
Durkheim presta grande attenzione alla questione della natura della solidarietà, dei processi che inducono gli individui a sentirsi affini e legati l’uno con l’altro. La solidarietà si manifesta in modi radicalmente differenti nelle società primitive e in quelle avanzate. Durkheim chiama meccanica la solidarietà tipica delle prime, in quanto prodotta dall’enorme presa sugli individui delle stesse “maniere d’agire e di pensare”, che li costringe a una loro osservanza continua e precisa; le società primitive condannano chi viola quelle maniere a punizioni che ne riaffermano la validità. È tipica delle società avanzate, invece, la solidarietà organica; qui individui e gruppi, in base a maniere d’agire e di pensare sempre più diverse, svolgono attività differenziate ma complementari, provvedendo ai bisogni gli uni degli altri. A questo fine negoziano gli uni con gli altri delle aspettative; se queste vengono violate essi possono chiedere di venire indennizzati dalla controparte, piuttosto che vederla punire. Per semplificare, la solidarietà meccanica è frutto della somiglianza tra componenti diverse, quella organica delle loro differenze.
Il passaggio dalla società primitiva a quella avanzata non si può ricondurre, come suggerirebbe Spencer, alle iniziative di singoli individui alla ricerca del proprio benessere personale; secondo Durkheim, nella società primitiva individui “spenceriani” non esistevano ancora. Quel passaggio si deve invece a un processo di natura collettiva. Se entro una società aumenta la densità demografica, e diventa insostenibile la pressione della popolazione sulle risorse naturali, essa può accrescere tali risorse facendo del proprio territorio un uso non più estensivo (come nelle società che vivono di caccia, pesca, raccolta di frutti spontanei) ma intensivo (come nelle società agricole e nelle città). Questo richiede il ricorso a insiemi diversi di conoscenze e tecniche da parte di gruppi sempre più differenziati, più consapevoli di proprie regole e valori che di regole e valori generali; quindi il tessuto istituzionale della società si fa più complesso e aperto al cambiamento. A lungo andare nelle società moderne, e in particolare in quelle contemporanee, si verifica un processo di individualizzazione che alla fine produce individui “spenceriani”. Anche questi, però, nella ricerca dei propri privati interessi, devono servirsi di, ma anche assoggettarsi a, istituzioni pubbliche come il contratto.
Se da un lato le “maniere di pensare e di agire” sono per Durkheim i fatti sociali per eccellenza, le componenti base della costituzione morale di ciascun gruppo e ciascuna società, dall’altro esse sono vulnerabili da parte di comportamenti individuali o collettivi “devianti”. Ne risulta l’essenziale fragilità, la natura contingente delle società e dei gruppi stessi. Durkheim esprime drammaticamente questa ansiosa riflessione nella sua ultima grande opera, Le forme elementari della vita religiosa (1912): “Lasciate che l’idea di società si estingua nelle menti e nelle credenze dei singoli, che le tradizioni e aspirazioni della società non vengano più sentite e condivise dagli individui, e la società morirà”.
Una garanzia assoluta contro un evento del genere non si può dare, ma la probabilità che si verifichi può venire drasticamente diminuita se il rapporto degli individui con “le maniere di pensare e di agire” costitutive della società viene mediato e sostenuto da un fondamentale fenomeno sociale: la religione. Questa attribuisce quelle maniere al volere di Dio – un supremo essere sacro, che sovrasta gli individui ma anche li protegge, guida, e ispira. La credenza in Dio può venire rafforzata da pratiche collettive di natura rituale che ne affermano la sacralità e in certo senso la rigenerano, evocando ed esprimendo forti sentimenti di identificazione collettiva e di soggezione individuale. Di conseguenza, gli individui vengono indotti a riconoscere come legittime e a praticare le maniere d’agire e di pensare proprie di ciascuna società non per evitare sanzioni, ma per esprimere, trascendendo il proprio sè mondano, un sè collettivo di cui Dio è rappresentazione e simbolo.
Questa tesi di Durkheim – la società è Dio, e viceversa – è stata comprensibilmente oggetto di controversia, in particolare, da parte di studiosi credenti. Durkheim ne dà una versione meno controvertibile in scritti secondo cui, nel diritto romano, istituzioni mondane come il matrimonio, la famiglia, lo stesso contratto, sono state in origine delle pratiche religiose. In ogni caso, si potrebbe dire che per Durkheim il mito è la maniera di pensare primordiale, e il rito la maniera di agire primordiale.
Il grande interesse di Durkheim per le istituzioni ispira la sua consapevolezza del pericolo che rappresenta per l’ordine sociale, in particolare quello moderno, la tendenza degli individui a sottrarsi all’appello delle norme e prospettive della propria società, quindi ad attivare e gestire le proprie iniziative in maniera – diciamo così – centrifuga. La manifestazione più significativa di questa tendenza è quella che viene attualmente chiamata devianza – la violazione delle norme sociali che costituiscono la fisionomia morale della società. Durkheim ricava da approfondite ricerche su varie forme di devianza alcuni dei suoi insegnamenti più salienti e controversi.
In particolare, Le regole del metodo sociologico (1895) asserisce, scandalosamente, che, dal punto di vista sociologico, “il crimine è normale”. Le norme sociali, anche se empiricamente accertabili, non sono esse stesse descrizioni empiriche di come la gente in effetti agisce, ma prescrizioni di come dovrebbe agire, e, in quanto tali, sono sempre vulnerabili da parte dei suoi comportamenti di fatto. La società reagisce a tale vulnus sanzionando le violazioni, che hanno effetti, oltre che sul violatore, sul resto della società, ricordandole il contenuto delle norme violate.
Nella sua famosa opera Suicidio (1897) Durkheim argomenta, analizzando copiosi dati statistici, che questo specifico comportamento deviante deriva la sua frequenza – assai diversa tra società e società, tra individui dell’uno o dell’altro sesso, di religione o occupazioni diverse, residenti in città o in campagna – da “correnti suicidogene” che sono il prodotto non intenzionale della costituzione morale propria delle società e dei gruppi in questione. Ad esempio, il cattolicesimo generalmente crea tra i propri fedeli una maggiore propensione a tenersi vicini a chi tra di loro affronti crisi esistenziali che possono indurlo a suicidarsi; ne risulta la assai minore frequenza del suicidio tra i cattolici che tra i protestanti.
Affermando l’ineguagliabile importanza delle maniere di agire e di pensare Durkheim si associa al progetto weberiano di una teoria sociologica centrata sulla soggettività umana. Lo fa però inconsapevolmente: non potrebbe infatti conciliare con questa posizione il suo principio che i fenomeni sociali sono fatti da studiare come cose. La tesi durkheimiana dell’identità tra Dio e società lo rende inoltre sostanzialmente indifferente ai diversissimi contenuti dogmatici, rituali e morali delle diverse religioni, mentre L’etica protestante e una serie di grandi saggi weberiani intendono dimostrare che sono proprio quei contenuti a fare la differenza tra una religione e le altre.
Detto altrimenti, fa parte integrante del ricco lascito weberiano al Novecento una sociologia delle religioni, di quello durkheimiano una sociologia della religione. Ma la misura della differenza tra i due non si può ridurre a questo. Concentrando le sue ricerche sulle religioni primitive, il totemismo in particolare, Durkheim accentua il grado di consenso, di compenetrazione tra religione e società. Weber analizza invece in particolare le più grandi tradizioni religiose – ebraismo, cristianesimo (nelle sue varie versioni), islam, buddismo, induismo, confucianesimo – e sostiene che esse hanno in comune (anche se lo giustificano e argomentano molto diversamente) la missione fondamentale di giudicare e di contrapporsi alla società, anzi al mondo. Lo giudicano e lo rifiutano da un punto di vista trascendente (diverso s’intende tra religione e religione); ispirano nei fedeli quanto meno un disagio circa il mondo così com’è e quindi la ricerca della salvazione. Ma anche questa ricerca deve seguire vie molto diverse a seconda del contenuto teologico delle varie religioni, e questa diversità trova una eco in molteplici altri aspetti del patrimonio culturale delle varie civiltà.
Nel pensiero politico l’uso del termine élite risale a Vilfredo Pareto, che lo introduce nel suo Sistemi socialisti (1902). Inizialmente il campo di interesse primario di Pareto era quello economico. Due questioni, tuttavia, lo condussero allo studio politologico, anzi più in generale alla sociologia: l’impossibilità di spiegare, a partire dal modello di azione economica razionale, da un lato i comportamenti sociali in generale e dall’altro, in particolare, la distribuzione ineguale del potere tra i gruppi. Pareto affronta la prima questione separando le azioni razionali da quelle non-razionali; la seconda elaborando la sua teoria delle élites.
La questione dell’irrazionalità dell’agire era un tema di moda nei primi anni del Novecento: oltre all’emergente psicoanalisi di Sigmund Freud, Gustave Le Bon, George Sorel e prima di loro Marx e Nietzsche andavano rivelando il ruolo delle emozioni e dell’irrazionalità nella politica. Anche l’economista Pareto si confronta con i limiti della teoria razionale dell’agire e li supera categorizzando i comportamenti irrazionali come devianti rispetto al modello economico, ma, al contempo, riconoscendo loro un’enorme importanza negli effettivi processi sociali. Pareto dedica il suo pensiero non più di economista ma di sociologo al compito (d’ispirazione illuministica) di elaborare una analisi “razionale” della componente dell’agire umano rappresentata dalle azioni irrazionali, non orientate da conoscenze simili a quelle proprie delle scienze logico-sperimentali. Le azioni irrazionali generalmente esprimono una visione fallace del rapporto tra mezzi e fini dell’agire, anche se generalmente gli uomini le giustificano e elaborano tramite ragionamenti più o meno espliciti – che Pareto chiama “derivazioni”. Le derivazioni sono estremamente variate, ma una loro analisi permette di individuare, dietro quella varietà, alcune classi di “residui” che costituiscono invece i moventi autentici (anche se spesso non consapevoli o confessati) dell’agire. In particolare due residui in deciso contrasto l’uno con l’altro, denominati da Pareto rispettivamente “residuo della conservazione degli aggregati” e “residuo delle combinazioni”, servono a trattare la questione di come si acquisisce e si mantiene il potere, cioè la posizione di élite. Pareto esplora il fenomeno dell’élite non solo nell’ambito del potere politico, ma più in generale dalla marcata, inevitabile diseguaglianza in tutti gli ambiti sociali significativi tra la minoranza dominante, costituita dalle élites, e la maggioranza dominata. L’esercizio del potere è, in altre parole, fondato sullo sfruttamento di sentimenti e atteggiamenti irrazionali – magici, rituali, non logici – da parte di minoranze dotate di abilità superiori.
Benché il dominio dei pochi sui molti sia una realtà politica immodificabile, le élites devono rinnovarsi per poter conservare il potere, e ciò permette alla società di mantenere un equilibrio dinamico e di non andare incontro a un processo di decadenza. Questo principio svolge un ruolo centrale nell’intera dinamica storica; secondo Pareto, infatti, la storia tutta intera può essere considerata come un “cimitero di aristocrazie”.
LETTURE
Politica, classi sociali ed élite