3. La fenomenologia

di Stefano Bracaletti

3.1 Problematica e senso della fenomenologia

La fenomenologia, fondata da Edmund Husserl (1859-1938), è una delle correnti filosofiche più rilevanti e influenti del XX secolo. Una sua prima definizione potrebbe essere “analisi delle diverse modalità di conoscenza con cui opera la soggettività”. Husserl, ha infatti più volte ribadito che il suo unico tema era proprio la soggettività. Questi “atti di coscienza” sono a un primo livello – senza contare cioè le modalità che ineriscono a sfere più complesse come quella estetica, del sentimento e della volizione – la percezione, il ricordo, l’immaginazione, nonché quelli che Husserl chiama “atti categoriali”, cioè atti ai quali è inerente una dimensione linguistica e nei quali si afferma qualcosa di qualcos’altro. Queste problematiche sono certo sempre state al centro della ricerca filosofica, basti pensare agli empiristi inglesi e a Kant. Ciò che distingue la fenomenologia è il metodo con cui queste modalità devono essere comprese.

L’intuizione delle essenze

Questo metodo è l’“afferramento” o intuizione delle essenze, definite da Husserl col termine greco éidos, reso possibile da un passaggio preliminare chiamato epoché. L’epoché è “mettere tra parentesi” (in pratica non considerare) una serie di parametri che attengono alla realtà fisica o fisiologica e alla dimensione psicologica concreta dell’individuo empirico. Ad esempio, analizzando l’atto del ricordare in termini fenomenologici, dovrò “mettere tra parentesi” il fatto che sia un ricordo particolare derivato da particolari stati mentali o esperienze, che avvenga per associazione rispetto ad altri ricordi; che in termini neurofisiologici sia attivazione di certe aree della corteccia piuttosto che di altre. Una volta preparato il terreno attraverso l’epoché, secondo Husserl, sarà possibile intuire le essenze.

Lo sguardo “si dirige” sull’atto stesso del percepire, del ricordare, dell’immaginare e su ciò che in questi atti appare, si manifesta (da qui il termine “fenomenologia”) come contenuto di coscienza, cercando di fissare le caratteristiche universali, non casuali e non individuali di questi atti e di questi contenuti. Ciò può avvenire attraverso il procedimento della variazione appunto eidetica. Prendendo come spunto un singolo atto e il suo correlato oggettuale, per esempio un ricordo, vengono fatte variare una serie di caratteristiche cercando di “vedere” se si tratta di proprietà casuali, inerenti cioè a un particolare ricordo, al fatto che si presenti in un certo modo, oppure essenziali così che qualsiasi atto del ricordare non può non avere queste caratteristiche.

A prescindere da quelle che possono essere le differenze tra ricordo e percezione o tra atti di coscienza qualsiasi, un aspetto fondamentale del metodo fenomenologico è la rinuncia al concetto di immagine mentale. I contenuti mentali – cioè quello che si manifesta alla coscienza quando percepisce o ricorda – non devono essere considerati come immagini dentro la coscienza. È questo un punto su cui Husserl insiste ripetutamente. Non esiste da una parte l’io e dall’altra l’oggetto reale che, nel caso della percezione, imprime nella coscienza un’immagine. La rinuncia al concetto di immagine mentale prepara il terreno a un concetto fenomenologico fondamentale, quello di intenzionalità, che Husserl riprende dalle analisi di Brentano: la coscienza è sempre diretta a un oggetto, cioè “intenziona” qualcosa, e deve essere analizzata sulla base degli stati precisi in cui essa si trova in riferimento a questo qualcosa. Nella percezione qualcosa è percepito, nel ricordo qualcosa è ricordato, nel pensiero qualcosa è pensato. La sua apparente ovvietà nasconde l’aspetto chiave dell’analisi fenomenologica e cioè comprendere la coscienza come insieme di atti di cui vanno chiarite in maniera descrittiva le caratteristiche strutturali e nei quali deve essere fatto emergere un aspetto soggettivo (nóesi) e uno oggettivo (nóema).

LETTURE

Bolzano, Brentano e la reazione a Kant

3.2 Il concetto di intenzionalità

Il concetto di intenzionalità viene presentato nelle Ricerche logiche (1900-1901), opera nella quale Husserl svolge anche una critica a tutte le impostazioni che vogliono in qualche modo ridurre la logica alla psicologia. Contro di esse Husserl insiste sul fatto che le forme logiche e i significati non sono oggetti psicologici legati alla singolarità di chi li pronuncia, ma hanno una dimensione puramente ideale.

L’origine soggettiva del concetto di numero

Le Ricerche seguono di dieci anni la prima opera importante di Husserl, Filosofia dell’aritmetica (1891), in cui viene analizzata l’origine soggettiva del concetto di numero, con una modalità che anticipa l’impostazione fenomenologica successiva. Quest’origine viene vista nell’atto del collegamento collettivo di oggetti qualsiasi privati delle loro caratteristiche sensibili specifiche e considerati come puri “qualcosa”.

L’intenzionalità è, nell’impostazione fenomenologica, il tratto tipico della coscienza, che è sempre coscienza-di-qualcosa, cioè di un oggetto che può essere percepito, ricordato, immaginato, espresso in forma linguistica. È importante precisare che l’oggetto a cui si fa riferimento non è l’oggetto reale ma l’oggetto di coscienza, ciò che effettivamente si manifesta quando si percepisce, si ricorda, si immagina o si formula un pensiero. Ad esempio, se osserviamo un oggetto davanti a noi, esso ci appare solo per il lato rivolto nella nostra direzione. Spostandoci, lo scorcio precedente “si adombra”, rimane per così dire “consaputo” ma non è più presente ed appare un altro scorcio; e così via per ogni mutamento di prospettiva. Ciò che è effettivamente intenzionato sono dunque questi scorci a cui si sovrappone una forma di coscienza indiretta che stiamo guardando sempre lo stesso oggetto. È quindi caratteristica eidetica, cioè essenziale, del darsi dell’oggetto fisico alla coscienza il fatto di manifestarsi sempre per datità parziali. Da un punto di vista fenomenologico ciò implica un’idea regolativa dei processi percettivi, costantemente integrativi, come “sistema […] di interminabili processi di un apparire continuativo” in una “progressiva illimitatezza di intuizioni concordanti”.

3.3 La teoria generale descrittiva degli atti di coscienza

Il concetto di intenzionalità serve non solo per distinguere l’oggetto reale dall’oggetto di coscienza ma anche per distinguere i vari atti e oggetti di coscienza l’uno dall’altro. L’oggetto percepito si dà per scorci e esibisce delle sintesi che, a differenza di quanto affermato da Kant, non sono effettuate dal soggetto – il quale tuttavia effettua una forma di sintesi-unificazione temporale tra i vari scorci in cui l’oggetto fisico si dà – ma imposte dai contenuti percettivi stessi: fusione di colori, forme che si delineano autonomamente tramite accostamenti di linee e posizioni particolari. È questo il concetto di “sintesi passiva”. Al contrario, quando noi intenzioniamo qualcosa attraverso atti categoriali (cioè atti di sintesi, di paragone, di collegamento, di esclusione o di enumerazione), siamo noi che organizziamo i dati già costituiti della percezione a nostro piacimento e diciamo, per esempio, “il libro è a destra della lampada”, oppure “la lampada è alla sinistra del libro”. In queste forme quindi sia l’atto di coscienza che l’oggetto di coscienza sono diversi rispetto al puro atto percettivo.

Un oggetto di coscienza ricordato o immaginato avrà caratteristiche diverse dall’oggetto percepito così come l’atto del ricordare avrà caratteristiche diverse dall’atto dal percepire o dell’immaginare. L’atto del ricordare da un punto di vista fenomenologico può essere definito come un “volgere lo sguardo indietro nel tempo”. Contrassegno essenziale dell’oggetto di coscienza rimemorativo è, corrispondentemente, il contrassegno di passato e di realtà: qualcosa che ricordo è qualcosa che è accaduto e che quindi è stato percepito. Nel ricordo è dunque presente una coscienza secondaria (un’intenzionalità secondaria) dell’impressione originaria percettiva nella quale l’oggetto è stato costituito. Nel caso dell’oggetto di coscienza immaginativo si verifica invece quella che in Idee I Husserl chiamerà “modificazione di neutralità”. La modificazione di neutralità annulla la certezza della credenza ma non pone una negazione: essa piuttosto pone un oggetto di coscienza in uno stato neutrale, che non è né esistente né non esistente, cioè nella forma, tipica degli oggetti di fantasia, del “come se”.

La rappresentazione

Nel concetto di intenzionalità è implicito il manifestarsi di qualcosa nella coscienza. Husserl afferma, infatti, che ogni vissuto intenzionale è esso stesso una rappresentazione o ha alla base una rappresentazione. Con rappresentazione si deve intendere il semplice fatto che qualcosa si oggettualizza per noi manifestandosi nella coscienza. Husserl definisce l’oggettualità di coscienza, cioè quello che noi abbiamo definito provvisoriamente “contenuto”, come “materia d’atto” differenziandola dalla “qualità d’atto”. La materia rappresenta allora l’aspetto dell’atto che “fa sì che l’atto rappresenti proprio questo oggetto e proprio in questa maniera cioè in queste forme e articolazioni con particolare riguardo a queste determinatezze o rapporti”. La qualità è invece l’aspetto soggettivo: una stessa materia d’atto può essere percepita, ricordata, immaginata, essere la base di un atto giudicativo. Su questo primo strato possono sovrapporsi altri atti, altre qualità d’atto di desiderio, di volontà, di sentimento, di valutazione estetica.

ESERCIZIO

E12: Intenzionalità

Secondo lo schema che emerge nelle Ricerche Logiche, gli atti intenzionali di coscienza possono essere poi distinti in atti oggettivanti e atti non-oggettivanti. Gli atti oggettivanti sono atti che “rendono presente un oggetto di coscienza”: essi sono il percepire, il ricordare e l’immaginare, il giudicare predicativo. In contrapposizione a essi si definiscono atti non-oggettivanti quegli atti non autonomi ma che hanno un fondamento nei primi. Essi sono il desiderare, il concupire, il gioire, il rallegrarsi. Affinché qualcosa possa essere oggetto di desiderio, gioia, concupiscenza esso deve infatti essere presente nella coscienza in un atto percettivo, rimemorativo o immaginativo, giudicativo.

A loro volta gli atti oggettivanti possono essere suddivisi in posizionali (tetici) e non posizionali (non tetici). Gli atti posizionali sono quelli che pongono l’oggetto nella modalità di credenza d’essere, lo pongono come esistente – è il caso della percezione e del ricordo. Gli atti non posizionali sono quelli che “neutralizzano” la posizione d’essere, come è il caso dell’atto immaginativo. Anche gli atti non oggettivanti possono essere tetici o non tetici. Ad esempio, l’atto del gioire, a seconda del suo riferirsi ad oggetti di atti oggettivanti o non oggettivanti potrà avere come sua modalità la credenza d’essere o una neutralizzazione di essa.

3.4 Significato e verità nelle Ricerche Logiche

Nella Ricerche logiche Husserl si concentra sul problema del significato e in particolare, nella sesta ricerca, sugli atti categoriali e sul problema della verità. L’intenzione di significato, o segnica come la definisce Husserl (relativa cioé a ciò che il parlante vuole intendere utilizzando segni linguistici e ciò che l’ascoltatore comprende tramite la percezione sensibile dei segni linguistici) per sua natura può essere un’intenzione vuota. Per essere comprensibile essa non ha bisogno di un collegamento alla percezione (o al ricordo e all’immaginazione). Certo questo collegamento alla percezione può avvenire. Rimanere sul piano linguistico, attraverso le descrizioni che mi vengono fatte, mi fornisce una prima “rappresentazione” ma ancora vaga, imprecisa: per capire realmente di cosa si sta parlando devo allora vedere l’oggetto. Quando ciò accade abbiamo una sintesi di identità che porta a un’unità di identità tra livello segnico e intuitivo. L’oggetto del pensiero, dell’espressione linguistica e quello della percezione sono ora lo stesso oggetto. Lo stesso vale per una proposizione: posso pronunciarla senza bisogno di collegarmi a un livello intuitivo (“la macchina è parcheggiata davanti all’edicola”) ma se questa proposizione è nella forma del dubbio o della supposizione (“non sono più sicuro di averla parcheggiata proprio lì”) potrei volere percepire effettivamente la macchina parcheggiata davanti all’edicola. È quindi indiscutibile che nella concezione fenomenologica vi sia in ultima istanza un primato dell’esperienza sensibile. Dunque la verità, e quindi la conoscenza fondata, è una forma di concordanza tra ciò che è inteso nel pensiero e il dato intuitivo. In altre parole, essa è basata sulla possibilità che un atto di pensiero – che per semplificare identifichiamo con un atto espresso linguisticamente – trovi un riempimento più o meno completo nell’evidenza intuitiva percettiva. Questa concezione è stata vista come una riproposizione della vecchia teoria della verità come adaequatio intellectus rei, cioè come concordanza tra il pensiero e l’oggetto; tuttavia il collegamento non è qui tra intelletto e cosa fisica ma semmai tra diversi atti di coscienza, appunto atti di significato (cioè linguistici) e atti percettivi.

Se per un’impostazione fenomenologica la fonte ultima della conoscenza è il livello intuitivo-percettivo, è però evidente che solo a certe parti dell’enunciato corrisponde qualcosa a livello intuitivo e che ci sono forme/oggetti linguistici che non hanno nessun riferimento sensibile. Nell’esempio “la biro è sul tavolo”, al termine “è” non corrisponde nulla a livello percettivo, come invece alla biro e al tavolo. Se quindi, più in generale, la parola “essere” non ha nessun correlato sensibile-percettivo-oggettuale lo stesso discorso vale per altre parti dell’enunciato, come “un”, “e”, “se allora”, “tutti” “nessuno”, “entrambi”, “qualcosa”, “nulla”, le forme della quantità e della determinazione numerica. Queste parti hanno un significato ma non hanno un correlato oggettuale nella percezione, non sono oggetti della percezione sensibile. Husserl le definisce “forme categoriali”.

Tuttavia nel momento in cui impieghiamo queste forme in atti di pensiero e più specificamente in atti linguistici quali atti di congiunzione e disgiunzione, apprensione singolare determinata (“questo”) e indeterminata (“qualcosa”), atti in cui per esempio colleghiamo, distinguiamo, generalizziamo, paragoniamo, noi compiamo un atto sintetico, facciamo sorgere delle oggettualità che non sono date direttamente nella percezione. Queste oggettualità si formano nell’atto di pensiero sintetico stesso e sono poi concretamente date nella forma proposizionale espressa o scritta e si fondano su atti semplici alla loro base. Se quindi a queste componenti dell’enunciato non corrisponde nulla a livello intuitivo diretto, alla loro messa in forma categoriale (cioè alle varie tipologie di enunciato in cui compaiono), corrisponde un’oggettività categoriale, cioè lo stato di cose espresso dall’enunciato stesso nelle sue varie forme di collegamento, di generalizzazione, di singolarizzazione ecc. Questa oggettualità non è in sé percepibile ma la possibilità dell’accertamento della sua sussistenza rende possibile un collegamento con il livello dell’intuizione percettiva.

In una serie di ricerche inedite che verranno pubblicate postume con il titolo di Esperienza e giudizio (1939), Husserl analizzerà in modo approfondito la problematica del rapporto tra atti categoriali e forme linguistico-logiche da un altro punto di vista, cioè quello del sorgere di queste forme proprio dall’esperienza percettiva e dei processi con cui esse si distaccano da questo livello per diventare forme autonome e apparentemente indipendenti.

3.5 La costituzione fenomenologica della temporalità

L’analisi della coscienza interna del tempo (Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo, 1928), e soprattutto la messa in luce dei meccanismi di ritenzione e protensione che di questa analisi sono il fulcro, può essere presa come esempio classico del metodo fenomenologico. La costituzione della temporalità attraverso questi meccanismi ha un’importanza fondamentale dal punto di vista fenomenologico. La sintesi temporale che si attua attraverso di essi è infatti la base anche della percezione, anche se poi questa si attua concretamente attraverso forme di passività.

L’esempio portato da Husserl è quello dell’ascolto di una melodia.

Consideriamo il seguente diagramma:

3.6 L’epoché fenomenologica e il concetto di éidos

I concetti di epoché, di éidos (“essenza”), afferramento/intuizione dell’éidos, già accennati nell’Idea della fenomenologia. Cinque lezioni (1907), e quelli di nóesi e nóema vengono elaborati in Idee per una filosofia pura e una filosofia fenomenologica, Libro I, Introduzione generale alla fenomenologia pura (1913), opera che segna il pieno sviluppo del metodo fenomenologico e quella che viene definita la “svolta trascendentale” del pensiero husserliano. Le analisi delle Ricerche Logiche, secondo Husserl, sono ancora condotte secondo una modalità di cui non sono chiariti i presupposti metodologici. Esse sono, in effetti, descrizioni di tratti essenziali dei vari atti di coscienza, sono quindi effettive analisi fenomenologiche, ma non si fa cenno al metodo peculiare in cui è possibile arrivare a questa descrizione, che deve essere distinto rigorosamente da un metodo psicologico. In Idee I vengono dunque definiti i concetti di epoché, cioè di “messa tra parentesi” della realtà fisica e psicologica, e quello di intuizione/afferramento dell’essenza che l’epoché prepara. Attuando questa “neutralizzazione” non vengono messe in dubbio quelle realtà ma si decide di non assumerle nel modo irriflesso con cui esse vengono assunte nella vita pratica e nell’esperienza quotidiana. Anche l’insieme delle proposizioni che formano il corpus delle scienze positive, sebbene perfettamente evidenti e fondate, “viene messo tra parentesi”. Questo non significa che i risultati di quelle scienze siano messi in discussione come tali ma, semplicemente, che non vengono utilizzati come fondamento per ulteriori conoscenze. In particolare, se attuiamo questa operazione sulla sfera interiore, neutralizziamo l’insieme di conoscenze psicologiche ed empiriche, neurofisiologiche, la psiche perde il senso di uno strato reale della realtà umana e diventa una sfera dell’essere con nuove caratteristiche, cioè una regione di possibili conoscenze completamente nuove, che sono appunto le forme eidetiche, le essenze.

Strutture del mondo reale

TESTO

T3: Edmund Husserl, L’epoché

Con una radicalizzazione della prospettiva, in Idee I si cerca di mostrare come attraverso questa nuova forma di analisi sia possibile studiare da un punto di vista diverso le strutture del mondo reale non come realtà in sé oggettive (studiate dalle scienze positive settoriali) ma come si danno alla soggettività. Ciò equivale a studiare le modalità tramite le quali quelle strutture sono conosciute, dunque a vedere tali modalità come un insieme di forme trascendentali, cioè di strutture universali che rendono possibile la comprensione dei dati empirici concreti e collocati nello spazio e nel tempo. Questa impostazione apre la strada al concetto di “ontologie regionali” e quindi ai modi con cui le oggettualità di queste regioni vengono conosciute. Infatti per “ontologie regionali” Husserl intende le caratteristiche tipiche strutturali di diversi ambiti (regioni) della realtà (la realtà fisico-materiale e le sue sottoregioni: suono, colore, forma; la realtà biologica, psichica, spirituale).

Una volta operata l’epoché, tuttavia, occorre saper individuare le essenze. L’“afferramento” dell’essenza è un aspetto indubbiamente problematico dell’impostazione fenomenologica, visto che non può essere trattato come un insieme di procedure scientifiche codificabile e insegnabile, trattandosi comunque di una forma di conoscenza intuitiva che dipende dall’abilità del fenomenologo. Una via possibile indicata da Husserl è quella – definita della variazione eidetica – di partire da un atto individuale qualsiasi (una percezione, un ricordo, una atto linguistico più o meno strutturato) e poi compiere una variazione delle sue caratteristiche per lasciare cadere quelle che attengono strettamente all’individualità dell’atto e dell’oggetto per far emergere ciò che di universale in questa individualità si manifesta.

3.7 Nóesi e nóema

In un ulteriore sforzo di chiarificazione della complessità degli atti di coscienza, Husserl sente la necessità di definire con chiarezza l’aspetto soggettivo e quello oggettivo di tali atti, e introduce i concetti di nóesi e nóema. Essi riprendono e sviluppano i concetti di materia e qualità d’atto delle Ricerche. La nóesi è l’aspetto soggettivo, l’atto propriamente detto, il nóema è il lato oggettivo, ovvero il correlato oggettuale dell’atto stesso (il ricordato, il percepito come tale). Tuttavia, come sottolineano vari interpreti, Husserl non è riuscito a rendere completamente chiara la distinzione tra i due aspetti e, in particolare, a caratterizzare in maniera sufficientemente non ambigua il nóema, cioè il presunto correlato oggettuale dell’atto di coscienza. Riguardo a quest’ultimo da Idee I sono ricavabili le seguenti interpretazioni:

(1) il nóema è l’oggetto una volta messa in atto la riduzione fenomenologica, cioè l’oggetto intenzionale in quanto distinto dall’oggetto reale;

(2) il nóema è ciò che rimane invariante in molti atti anche separati tra loro, definito da Husserl “nucleo noematico”.

Questo concetto di nóema è più problematico. In effetti, posso inizialmente percepire un oggetto o uno stato di cose nella certezza della credenza: ad esempio, durante le ferie estive acquisto dopo lunghe ricerche e nell’unica edicola aperta un biglietto del tram. L’estate successiva un amico mi chiede dove trovare un’edicola aperta in agosto. Sul momento non mi viene in mente nulla ma il giorno dopo passando da quelle parti ricordo la mia esperienza, mi sincero che l’edicola ci sia ancora e sia aperta e lo confermo all’amico. Nell’esempio, in quanto l’oggetto di coscienza (l’edicola) è dato in forme sempre diverse in atti diversi, esso deve essere inteso non come l’oggetto reale, né come l’oggetto di coscienza istantaneo di un singolo atto, ma come qualcosa di ideale che rimane invariante in vari atti. Per questo possiamo identificare il concetto di nucleo noematico col concetto di significato, in quanto fatto ideale non empirico comune ai vari atti. L’oggetto in senso fenomenologico è allora la possibilità della sintesi di vari atti. Nella potenziale infinità della sequenza di tali atti rimane tuttavia un nucleo invariante di senso. Questo nucleo invariante che appunto possiamo parzialmente far coincidere con l’idealità del significato è proprio ciò che, come idea regolativa, permette l’intersoggettività e la comunicazione.

Merleau-Ponty e la fenomenologia della percezione

Le analisi sviluppate da Husserl nel secondo volume di Idee spingono Merleau-Ponty (1908-1961) a interpretare in una nuova direzione il concetto di riduzione fenomenologica. Quest’ultima non ci fa accedere alla coscienza pura ma al corpo vissuto, alla corporeità. Questa corporeità, e non il cogito, ci dà il rapporto con il mondo, rapporto già in origine storico e intersoggettivo, di cui la percezione è il veicolo fondamentale. È questo livello di esperienza costitutiva primaria che deve diventare oggetto della ricerca fenomenologica ed è questo progetto che viene realizzato nell’opera più importante di Merleau-Ponty, La fenomenologia della percezione (1945).

L’opera parte da una critica alle due impostazioni predominanti nell’analisi psicologica della percezione, quella empirista e quella razionalista. All’impostazione empirista Merleau-Ponty risponde cercando di mostrare che già nella sensazione interviene la coscienza. Si può dunque parlare di una coscienza vissuta, preriflessiva, la quale, per così dire, non può riflettere su se stessa ed è quasi persa nella realtà; tuttavia, grazie a questa collocazione riesce a conferire alla realtà stessa un senso. All’impostazione razionalista Merleau-Ponty oppone un insieme di analisi che mostrano come la coscienza sia sempre limitata e parziale, posta in situazione, collocata all’interno di una determinata prospettiva spazio temporale. Analisi che ruotano intorno al concetto di corporeità, di corpo vissuto.

Il corpo

Merleau-Ponty mostra come il corpo rappresenti il fulcro attivo di tutta l’esperienza. Esso racchiude in sé un insieme di forme a priori che conferiscono senso alla realtà, che permettono l’orientamento spaziale e temporale e il movimento. Il corpo possiede dunque una forma di coscienza, non razionale/astratta ma preriflessiva, che emerge e può essere conosciuta solo quando il corpo compie un insieme di atti complessi coordinati tra loro, come per esempio quelli di un musicista, atti dai quali emerge un sapere sedimentato ma non logico, riflessivo. Questa impostazione vuole sottrarre il corpo a possibili forme di reificazione, a una considerazione di esso come semplice “cosa” corporea. Così non si può dire che il corpo “ha” un sesso, quasi che questo fosse un attributo esterno come il colore di un oggetto ma che “è” sesso. Allo stesso modo, la parola, il linguaggio non sono un semplice strumento per fini particolari (interazioni della vita quotidiana, lavoro) ma sono gesti, forme di comportamento che portano “intenzionalmente” verso il mondo. Il mondo percepito

Nella seconda parte del testo, Merleau-Ponty insiste sul fatto il concetto di coscienza preriflessiva ha senso solo se si considera quest’ultima in rapporto diretto con le cose, con la realtà. Coscienza e mondo sono dunque i termini di un rapporto in cui essi sono originariamente dati insieme e si compenetrano. Separarli a livello analitico è un errore che costringe poi ad artifici logico-intellettuali per rendere possibile la loro riconnessione come è avvenuto nella tradizione filosofica occidentale. Per questo Merleau-Ponty può dire che il corpo “abita il mondo”, si perde in esso. In questo rapporto già da sempre dato, il primo dei due termini, la coscienza/intenzionalità corporea, essendo limitata si muove verso l’altro termine, il mondo, attraverso prospettive che sono sempre limitate e parziali, le quali delineano l’”opacità” e la “contingenza” del mondo stesso. Proprio questi caratteri di opacità e di contingenza della realtà, e la limitatezza della coscienza corporea che li “intenziona”, sono il fattore che permette di superare il solipsismo e di accedere all’intersoggetività originaria: una coscienza che fosse in grado di conoscere ogni aspetto della realtà, infatti, non avrebbe bisogno di altre coscienze che rappresenterebbero solo inutili doppioni. Proprio la limitatezza intrinseca di ogni coscienza/soggettività impone la connessione originaria con altre coscienze nel rapporto con la realtà stessa, in un processo di integrazione reciproca inesauribile, proprio come ogni senso corporeo ci dà solo una conoscenza parziale della realtà e deve essere completato dagli altri.

Libertà e necessità

Nella terza parte della Fenomenologia, dal titolo “L’essere per sé e l’essere al mondo”, vengono affrontati i problemi del cogito, della temporalità e della libertà. Merleau-Ponty valuta globalmente la propria opera come una conciliazione tra il momento della riflessione, del cogito (il per sé) e quello dell’essere in rapporto con le cose, dell’esperienza vissuta (essere al mondo). Anche nelle forme di attività più astratte, come la matematica e la logica, il cogito si collega al mondo attraverso un fondamento di gesti e comportamenti costituito dalla temporalità. A partire da questa prospettiva Merlau-Ponty giunge alla riflessione sulla diade libertà/necessità. In quanto coscienza che conferisce senso alla realtà, il soggetto è libero rispetto a una determinata situazione, nel senso che è in grado di prendere decisioni che possono indirizzare quest’ultima verso certi esiti piuttosto che altri. Tuttavia, non essendo più il soggetto del razionalismo cartesiano e del criticismo, esso deve fare i conti con le tracce e le sedimentazioni che la realtà ha impresso nel suo corpo come abitudini. La libertà è dunque vincolata a queste condizioni e con esse deve di volta in volta fare i conti.

Dalla Fenomenologia della percezione alla Prosa del mondo

La Fenomenologia della percezione e La struttura del comportamento (1942) costituiscono i due testi fondamentali di quella che è stata definita la “prima fase” del pensiero di Merleau-Ponty, legata alla fenomenologia e in particolare alla riflessione sul “mondo della vita” teorizzato da Husserl. A essa, pur senza che si possa riconoscere un momento netto di svolta o di rottura, fa seguito un più marcato interesse per il problema dell’essere, a partire dagli anni Cinquanta. Ne sono testimonianza il progetto della seconda parte della Fenomenologia (l’incompiuta La prosa del mondo) e i frammenti postumi Il visibile e l’invisibile (1964) e L’occhio e lo spirito (1964). In questi anni Merleau-Ponty lavora al recupero della dimensione del sensibile, visto come un essere “bruto e selvaggio” che può essere indagato, più che dal linguaggio verbale e dalle strutture logiche del discorso, dalle forme dell’arte e della percezione visiva. Nell’Occhio e lo spirito la pittura di Cézanne, già indagata ne Il dubbio di Cézanne (1948), si fa possibilità di un accesso originario al mondo prima di ogni categorizzazione e di distinzione concettuale, mostrando come il compito dell’arte non sia quello di riprodurre o rappresentare la realtà ma di “rendere visibile” l’essere nella sua natura autentica. Cézanne “ha voluto dipingere questo mondo primordiale” – scrive Merleau-Ponty – dove il rapporto originario e organico tra noi e il mondo non è ancora spezzato da quei dualismi (soggetto e oggetto, corpo e spirito) con i quali le scienze e la tradizione filosofica occidentale hanno cercato di ridurre l’infinita ricchezza del mondo alle categorie della ragione.

S.B.

3.8 L’esperienza dell’altro in chiave fenomenologica

Nelle Meditazioni cartesiane (1931), in particolare nella quinta, Husserl estende l’analisi fenomenologica al problema dell’esperienza dell’altro, come base per l’intersoggettività. Per la comprensione fenomenologica dell’esperienza dell’altro, Husserl parte da uno “strato inferiore di esperienza” quale datità fenomenologica evidente e cioè l’esperienza del semplice corpo altrui come semplice natura. Il problema è allora comprendere come da questo strato si riesca a fare esperienza dell’altro, a comprenderlo come essere psichico, come essere dotato di vissuti. Il primo passaggio è la somiglianza con il mio corpo che il corpo estraneo esibisce. Tramite questa somiglianza comprendo questo corpo come corpo organico che ha sensazioni e percepisce. Questa appercezione (generalmente intesa come una forma di conoscenza non accessibile in maniera diretta) secondo Husserl non è un’inferenza ma una identificazione-comprensione diretta, in un solo sguardo, per somiglianza. La differenza rispetto al riconoscimento di semplici oggetti consiste nel fatto che nel caso dell’apprensione del corpo altrui, l’originale, cioè il mio corpo, è sempre presente in modo diretto. Ne consegue che la comprensione dell’altro, come essere psichico, si istituisce sempre attraverso quella che Husserl definisce un’“associazione di accoppiamento” tra due unità distinte ma simili date entrambe in presenza.

Percezione del corpo come corpo altrui

Visto che l’esperienza dell’altro è stata costruita per somiglianza con l’io proprio, dal punto di vista dell’analisi fenomenologica sorge il problema di cosa rende il corpo che percepisco un corpo organico altrui e non un duplicato di me stesso. Husserl risponde a questa obiezione affermando che io non appercepisco l’altro come duplicato di me stesso sebbene mi somigli, in quanto io posseggo la mia sfera originaria come localizzata nel “qui”, cioè nel preciso punto dello spazio in cui mi trovo. Per questo motivo dato in evidenza originaria non posso trasferire i miei vissuti direttamente trasponendoli nel corpo altrui che invece è “là”, ma devo trasferirli come se fossero i vissuti che io avrei “se fossi là”. Allo stesso modo, l’altro non può “appresentare” la mia situazione soggettiva, la mia realtà psichica e percettiva perché esso non ha i contenuti connessi alla mia precisa localizzazione, il mio “qui”. Le due prospettive – la mia e quella dell’altro – si escludono reciprocamente. L’altro che mi appercepisce, quindi, associa a me dei vissuti “come se io fossi là” che non possono essere miei perché io sono “qui”. Vi è dunque, dal punto di vista delle datità fenomenologiche, un’incompatibilità originaria tra la mia situazione, il mio vissuto soggettivo e la realtà da me “appresentata” dell’altro corpo che costituisce la sua propria situazione soggettiva. Ed è proprio questa incompatibilità che fonda l’esperienza dell’altro. L’altro non è quindi tale perché i suoi vissuti non mi possono essere dati in originale, ma per una ragione ancora più originaria e costitutiva: e cioè perché viene fatta esperienza di esso in una situazione soggettiva che, strutturalmente, non può essere la mia propria.

Intenzionalità, vissuto ed emozioni: Max Scheler e la fenomenologia tedesca dopo Husserl

Tra i maggiori interlocutori della fenomenologia, con opere come Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori (1916) ed Essenza e forme della simpatia (1923), c’è il filosofo tedesco Max Scheler (1874-1928), il quale condivide con Husserl il fatto che quando facciamo esperienza di qualcosa, ciò non può essere spiegato richiamandosi a una qualche sintesi tra due funzioni separate, le sensibilità e l’intelletto, poiché ciò non darebbe conto di quel che ci accade. Noi intuiamo, cioè abbiamo apprensione diretta di determinatezze (un libro, un sapore, un sentimento positivo o negativo) e non di dati sensoriali da unificare intellettivamente. La nozione di intenzionalità sta proprio a significare che siamo in contatto immediato con il mondo e non bisogna quindi cercare quale sia il ponte che collega soggetto e oggetto, che diventa piuttosto una domanda riflessiva, secondaria, derivata dalla sospensione dell’esperienza diretta. Ma, allora, quando Husserl riconduce il contatto immediato a una soggettività costituente, interrompe artificiosamente tale contatto; e quando l’attività fenomenologica prevede la sospensione della direzione naturale dell’esperire, onde riflettere sui contenuti intenzionali, essa è in contraddizione con se stessa, con l’invito a tornare alle evidenze fenomeniche. Per Scheler la relazione immediata con il mondo è di tipo emozionale e non rappresentazionale; in luogo dell’io trascendentale c’è la vivente persona. Inoltre, le emozioni non sono irrazionali, ma si articolano secondo una scala di valori oggettiva, che va da quelli sensibili sino a quelli spirituali (estetici, conoscitivi, etici, religiosi). Contro la tesi kantiana che vuole la morale formale e universale per non dipendere dagli impulsi materiali, Scheler rivendica l’esistenza di “valori materiali”, valori aventi una concretezza non sensibile, un’essenza universale che ciascuno esperisce intuitivamente, e che può essere descritta fenomenologicamente.

Nicolai Hartmann (1882-1950) riprende il metodo fenomenologico indirizzandolo in senso realistico-oggettivo. Il concetto di intenzionalità permette infatti, secondo Hartmann, di descrivere le strutture essenziali degli atti di coscienza, ma resta legato a una dimensione soggettiva e trascendentale: occorre dunque far emergere, in termini descrittivi, le strutture universali della realtà che vanno intese come irriducibili al soggetto conoscitivo, un progetto messo in pratica in opere come Lineamenti di una metafisica della conoscenza (1921, 1925), La fondazione dell’ontologia (1935) e La costruzione del mondo reale. Compendio della dottrina generale delle categorie (1940).

3.9 L’ultimo Husserl: crisi delle scienze e “mondo della vita”

Nell’ultima opera di Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936), viene introdotto l’importante concetto di “mondo della vita” (Lebenswelt). Esso identifica le strutture di senso della realtà quotidiana, strutture che precedono l’attività scientifica e a cui quest’ultima, trattandosi comunque di una prassi umana, risulta necessariamente connessa. La problematica che il concetto di “mondo della vita” tematizza è in sostanza quella del rapporto tra il mondo astratto dell’atteggiamento scientifico e delle teorie oggettive e il mondo storico concreto della vita soggettiva. Questa vita soggettiva deve essere interpretata non come semplice dimensione percettiva muta e preconcettuale, ma già in origine come una realtà culturalmente e storicamente determinata, oltre che intersoggettiva. La scienza moderna come noi la conosciamo è in realtà il correlato di un’idea teleologica di un mondo esistente in sé e dell’insieme delle proposizioni che lo descrivono concettualmente.

Idealizzazione delle scienze

Tramite l’applicazione di quest’idea alla natura, che nasce con Galilei, viene presupposto nella natura stessa un essere matematico-ideale che deve essere colto eliminando tutti i filtri percettivi soggettivi; progressivamente, tutte le scienze vengono sottoposte a questo processo di idealizzazione. La prassi degli scienziati è dunque determinata da quell’idea teleologica e definisce in modo rigido il loro campo di interessi e i risultati cui essi mirano, cioè produrre delle verità oggettive. Questa prassi sancisce ciò che per essi è reale e ciò che non lo è. Tuttavia quest’idea teleologica è, secondo Husserl, soltanto un’“ipotesi pratica”, un progetto pratico tra altri all’interno della dimensione globale dell’esperienza umana. Il mondo scientifico così descritto, come possibilità ideale di sviluppo e formazione di conoscenze vere che prosegue all’infinito, si fonda necessariamente su una dimensione che precede qualsiasi sfera teoretica. Questa dimensione è appunto il “mondo della vita”. Esso è dunque “il mondo ambiente realmente concreto”, cioè l’effettiva realtà nella quale viviamo, ed è dato sempre in maniera diretta, intuitiva e in costante fluire.

LETTURE

Scienza, politica e società

ESERCIZIO

E13: Husserl