7. L’esistenzialismo

di Giovanni Rota

7.1 Un concetto di difficile definizione

L’esistenzialismo è un movimento filosofico nato nella prima metà del XX secolo in Germania e diffusosi presto in tutta Europa: è una tipica forma culturale che esprime lo sbandamento sociopolitico dell’Europa tra le due guerre mondiali. L’esistenzialismo è caratterizzato da un sostanziale pessimismo, dalla sfiducia nella pretesa di cogliere il senso complessivo della realtà e di dominarla attraverso gli strumenti della razionalità. Questa diffidenza si estende a tutte quelle prospettive storicistiche (l’idealismo, il marxismo) che pretendono di conoscere il senso e il significato profondo della storia. La fiducia nei confronti della filosofia intesa come sistema compiuto e del sapere scientifico che pretende di dare una spiegazione onnicomprensiva della realtà viene sostituita dalla predilezione per la prospettiva di autoriflessione, di indagine del se stesso singolo e irripetibile nella sua concretezza, destinato a sfuggire alle oggettivazioni della scienza. Il protagonista della riflessione filosofica non è più, come per le correnti idealistiche e positivistiche ottocentesche, l’umanità nel suo incessante progresso storico e scientifico, ma piuttosto l’individuo limitato e finito, scaraventato in un contesto assurdo, indecifrabile e problematico.

“Non si può definire in modo soddisfacente il termine esistenzialismo” (Jean Wahl, Piccola storia dell’esistenzialismo, 1947). Si tratta infatti una categoria difficile da precisare in maniera univoca e definitiva. Basti dire che Martin Heidegger, l’autore del libro più importante e influente in questa corrente (Essere e tempo, 1927), giunge a sconfessare apertamente le interpretazioni esistenzialistiche del suo capolavoro, che nelle intenzioni vuole essere solo la prima parte di una ricerca intorno all’essere. Alcuni interpreti parlano di esistenzialismo, in senso lato, come di movimento di pensiero sviluppatosi in seguito alla crisi dell’hegelismo, ovvero al definitivo tramonto del razionalismo metafisico della filosofia moderna. Vi sono poi storie dell’esistenzialismo che fanno rientrare in esso personalità come lo scrittore Franz Kafka, o che – soprattutto in ambito francese – si spingono fino a riconoscerne un precursore in un filosofo lontano nel tempo come Blaise Pascal (1623-1662) o in certi personaggi tormentati dei romanzi di Dostoevskij. Certamente, alle radici della riflessione esistenzialistica c’è l’opera di rottura con il razionalismo della tradizione occidentale svolta da Nietzsche e Kierkegaard, i quali, come suggerisce Karl Jaspers, “hanno portato alla coscienza moderna la considerazione che non c’è più per noi alcun terreno sicuro” (Ragione ed esistenza, 1971).

Una “rinascita kierkegaardiana”

Soprattutto il filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855) va tenuto presente per comprendere la storia di questo movimento. Di “rinascita kierkegaardiana” si parla nella cultura di lingua tedesca del primo dopoguerra. Una rinascita che si manifesta anche nel libro del teologo svizzero Karl Barth, L’epistola ai Romani (1919, 1922), un originale commentario della lettera di san Paolo. L’opera di Barth ha un impatto notevole nella cultura europea del tempo, anche se non può essere considerata espressione del pensiero esistenzialistico in senso stretto, fortemente caratterizzata come è da preoccupazioni di natura religiosa e dall’ansia di tornare al testo biblico. I motivi più propriamente filosofici e psicologici – motivi non “oggettivi”, legati al problema astratto della verità delle cose, ma “soggettivi”, e dunque attinenti alle “individualità esistenti nei loro guai” – derivati dall’immensa e complessa produzione di Kierkegaard passano piuttosto nelle opere dei due principali esponenti dell’esistenzialismo tedesco (Heidegger e Jaspers) e poi ancora in Francia, dove Jean Wahl (1888-1974), studioso originale del pensiero hegeliano, pubblica nel 1938 gli importanti Studi kierkegaardiani.

7.2 Tra esistenzialismo e pensiero dell’essere: Martin Heidegger

Un punto fermo nella storia dell’esistenzialismo è la pubblicazione nel 1927 di Essere e tempo di Martin Heidegger (1889-1976), una delle personalità più controverse nella cultura europea del Novecento.

Nel 1928 è chiamato a Friburgo come successore di Husserl. Nel 1933 assume il rettorato (con un discorso su L’autoaffermazione dell’università tedesca) e aderisce al partito nazionalsocialista. Resterà in carica meno di un anno.

Caduto il regime, viene interdetto (fino al 1949) dall’insegnamento. Nel 1947 appare la Lettera sull’“umanismo”, in cui si rende nota la cosiddetta “svolta” del suo pensiero. I suoi interventi più importanti sono raccolti in quattro volumi: Sentieri interrotti (1950), Saggi e discorsi (1954), In cammino verso il linguaggio (1959) e Segnavia (1967). Ma bisogna ricordare anche le Delucidazioni sulla poesia di Hölderlin (1944), Che cosa significa pensare? (1954), Il principio di ragione (1957), L’abbandono (1959) e Nietzsche (1961). Pochi giorni dopo la sua morte (Friburgo, 26 maggio 1976) appare l’intervista Ormai solo un Dio ci può salvare.

Heidegger si compromette con il regime hitleriano nel 1933, divenendo rettore dell’università di Friburgo con un discorso su L’autoaffermazione dell’università tedesca e con un programma conformato alla politica culturale del partito nazionalsocialista, a cui aderisce. Dopo il 1945 un certo atteggiamento revisionistico lo porta sistematicamente a minimizzare, nelle sue riflessioni, gli orrori nazisti. A dispetto di ciò egli esercita una vera e propria fascinazione sui suoi allievi, spesso di origine ebraica, tra i quali si possono ricordare tanti importanti pensatori (Leo Strauss, Hannah Arendt, Herbert Marcuse, Karl Löwith). Scrittore suggestivo e difficile, Heidegger ha una formazione fenomenologica, avendo avuto per maestro Edmund Husserl. La predisposizione all’analisi particolareggiata da questi derivata, che è un fattore peculiare dell’analitica esistenziale che caratterizza Essere e tempo, viene a essere affiancata da un’attitudine kierkegaardiana, secondo la quale l’esistenza non può essere mai una considerazione disinteressata, neutra, “scientifica” della realtà, ma è sempre caratterizzata da preoccupazione e partecipazione. L’analitica esistenziale si occupa di quell’ente (l’uomo, appunto) che si interroga sul senso dell’essere. L’esistenza è il modo di essere caratteristico dell’uomo, per indicare il quale Heidegger utilizza il termine esserci (Dasein). L’esistenza si presenta come apertura, autoprogettarsi nel mondo, avere cura di ciò che ci circonda; ma questa dimensione esistenziale lega l’uomo alla finitudine dei suoi bisogni, gli rivela la sua “gettatezza”, il suo essere abbandonato nella realtà. La possibilità sempre in agguato di perdere se stessi nella dimensione inautentica della chiacchiera si contrappone alla assunzione consapevole del proprio essere-per-la-morte, morte intesa come nulla di fronte al quale si rivela il carattere finito della nostra esistenza temporale.

Il cammino filosofico di Heidegger si svolgerà poi in una direzione che lo porterà lontano dall’esistenzialismo. Con la Lettera sull’umanismo infatti denuncia le interpretazioni esistenzialistiche di Essere e tempo che fraintendono la direzione del suo pensiero, orientato verso il problema dell’essere. Con un capovolgimento di prospettiva, il pensiero dovrebbe abbandonare la soggettività per spostarsi dalla discussione del problema dell’“essere dell’esserci” (esistenza) e del suo senso (temporalità) al problema del senso dell’essere in generale, verso la luce dell’essere, superando la tradizionale prospettiva della metafisica occidentale.

LETTURE

Il secondo Heidegger: la "svolta"

L’esistenzialismo in Italia

Nel gennaio 1943, la rivista “Primato” ospita due articoli di Nicola Abbagnano (1901-1990) e di Enzo Paci (1911-1976) che aprono un’inchiesta intorno all’esistenzialismo alla quale partecipano alcune tra le voci più importanti della filosofia italiana di quegli anni. Lo si può considerare l’atto ufficiale con cui si apre in Italia il dibattito culturale sull’esistenzialismo. Seppure con sfumature diverse, i due filosofi avanzano la proposta di una forma di esistenzialismo caratterizzata dal rigetto degli esiti fondamentalmente negativi (poiché derivanti da categorie come morte, gettatezza, naufragio, gratuità dell’esistenza ecc.) raggiunti da Heidegger e Jaspers. In particolare, “esistenzialismo positivo” sarà la denominazione della versione di questa filosofia formulata da Abbagnano già prima dell’inchiesta di “Primato” (in La struttura dell’esistenza, 1939, e Introduzione all’esistenzialismo, 1942).

Anche in Abbagnano la collocazione dell’uomo nel mondo va in primo luogo interpretata alla luce delle categorie di instabilità, precarietà, rischio, incertezza e problematicità dell’esistenza; l’esistenza è però anche possibilità e libertà, e dunque si prospetta un atteggiamento costruttivo e operativo, diretto essenzialmente verso il futuro.

In un altro esponente dell’esistenzialismo italiano, Luigi Pareyson (1918-1991), le istanze esistenzialistiche vengono recepite e sviluppate in modo da rifondare il concetto di “persona” in una prospettiva cristiana. L’esito della crisi del razionalismo moderno, secondo Pareyson, consiste in un’alternativa perentoria: bisogna decidersi pro o contro il cristianesimo, ripensando l’esistenzialismo anche in maniera positiva, seppure in una direzione teistica e cristiana.

L’esistenzialismo di Karl Jaspers

Già prima della pubblicazione di Essere e tempo alcune tematiche tipiche dell’esistenzialismo avevano trovato espressione nelle opere di un altro filosofo tedesco che, partito da posizioni vicine a quelle heideggeriane, passerà dall’iniziale collaborazione a un’aperta ostilità, filosofica e personale, dopo l’adesione di Heidegger al partito nazionalsocialista con l’episodio del rettorato: Karl Jaspers (1883-1969). Psichiatra di formazione, Jaspers si avvicina alla filosofia in seguito a una progressiva critica della prospettiva scientistica in psicologia. Anche per Jaspers la riflessione filosofica si presenta come ricerca intorno all’essere. Questa prospettiva, tipica dell’impostazione di pensiero della metafisica occidentale, deve essere però svolta prendendo spunto dalla situazione concreta in cui l’essere si manifesta. Questa situazione è l’esistenza dell’uomo: “che cos’è l’essere? Perché esiste qualcosa e non il nulla? Chi sono io? Che cosa propriamente voglio?” (Jaspers, Filosofia, 1932). L’impulso a questa comprensione conduce però allo scacco: “se voglio afferrare l’essere in quanto essere sono irrimediabilmente votato al naufragio”, l’assoluto è sempre al di là delle possibilità conoscitive dell’uomo. Grande importanza hanno inoltre quelle che Jaspers chiama le “situazioni-limite” (la morte in primo luogo, il caso, la colpa, il dolore), quelle condizioni che mettono in risalto l’impotenza dell’uomo. L’uomo non può che subire queste situazioni estreme, incomprensibili e inevitabilmente indirizzate al naufragio che però al tempo stesso possono portare allo sbriciolamento dei modi di vivere rigidi e preconcetti e possono far presagire ciò che trascende l’esistenza finita.

7.3 L’esistenzialismo in Francia: Sartre

A dispetto di Heidegger, l’assunzione del tema della consapevole e angosciata condizione di finitudine dell’uomo esposta in Essere e tempo diventa lo stimolo principale della fioritura della letteratura esistenzialistica negli anni Trenta. Grazie in primo luogo all’opera e alla fortissima personalità di Jean-Paul Sartre (1905-1980), l’esistenzialismo conosce una stagione di vasta popolarità negli ambienti francesi. Sartre è saggista, romanziere, drammaturgo, polemista, intellettuale e sempre strenuamente in prima fila nei dibattiti culturali e politici del suo secolo. Già prima della seconda guerra mondiale, egli si impone con il romanzo La nausea (1938), il cui titolo esprime la particolare emozione che coglie il protagonista Antoine Roquentin di fronte all’assurdità dell’esistenza: il mondo si presenta all’uomo come un infinito numero di possibilità esistenziali equivalenti e dunque gratuite, prive di senso. L’opera filosofica più importante di Sartre è L’essere e il nulla (1943), chiaramente ispirata a Essere e tempo di Heidegger.

Centrale è nel testo la coppia concettuale “essere in sé” ed “essere per sé”, che definisce rispettivamente la datità oggettiva e la sfera della coscienza. L’essere del fenomeno è presentato come una mera oggettività, ossia come qualcosa che semplicemente “è”, “è ciò che è” ed “è in sé”; la realtà oggettiva, in altri termini, non possiede in se stessa alcuna determinazione, predicato o qualità, essa non ha altra proprietà oltre al fatto di essere. Pensare il dato, farne un oggetto, equivale a fluidificarlo negandone proprio il carattere di statica datità; questa viene, per così dire, sostituita da una sorta di doppione coscienziale che trasforma in senso e significato l’insensatezza del dato. L’“essere per sé” è invece la coscienza. Questa, di contro al carattere massiccio dell’essere per sé, è sempre “coscienza-di-qualcosa”: la coscienza ha una struttura relazionale, sia per ciò che riguarda le cose del mondo, sia per ciò che riguarda se stessa, sempre protesa verso se stessa.

L’essere per sé, quindi, è sempre a distanza da sé, anche se quanto lo separa da sé è il nulla – non c’è una distanza spaziale, o un lasso di tempo, che separi tra di loro delle parti di coscienza –, proprio per questo la coscienza è ciò per cui sorgono il nulla e la negazione. Tutto ciò significa, in primo luogo, che l’uomo è l’unico essere che può compiere una distruzione, mentre la natura, al limite, può effettuare una redistribuzione delle masse d’esseri e, in secondo luogo, che una distruzione è tale solo per una coscienza umana che avverte il senso del non-più. Ma vanno considerate anche le conseguenze per ciò che riguarda la coscienza stessa: questo spazio di nulla che l’uomo trova al suo interno è quanto lo rende un essere “possibile” e mai “dato”; è, insomma, condizione della sua libertà, intesa come quella condizione angosciosa che spinge l’uomo a trascendere la dimensione della realtà. Seconda conseguenza è che, in quanto sempre differente da sé, la coscienza oscilla in un doppio movimento di fuga da sé (“non voler essere se stessa”) e di tendenza verso di sé (“voler essere se stessa”).

In questa visione sartriana del per-sé, acquista una particolare rilevanza il motivo dell’“altro uomo”. Il rapporto con l’altro uomo non può che essere all’insegna del paradosso e della violenza, perché, se la coscienza si rapporta alle cose negandone la datità, essa non potrà che rapportarsi alle altre coscienze negandone l’essere per sé, ossia esattamente negandone l’essere coscienziale. Quando un altro uomo mi guarda, osserva Sartre, il sentimento immediato che provo è di vergogna, poiché il suo sguardo su di me mi ha fatto diventare oggetto. Lo sguardo di una coscienza rivolto ad un’altra coscienza è sempre oggettivante: in quanto guardato dall’altro, io sono l’oggetto del suo sguardo e, attraverso quello sguardo, io vengo rimandato non all’altro, ma a me stesso. L’unica forma di reciprocità nei rapporti umani è il rifiuto: l’“io” e l’“altro” si costituiscono come due poli a un tempo complementari e simmetrici, in quanto entrambi si rifiutano l’un l’altro.

TESTO

T4: Jean-Paul Sartre, L’esistenza degli altri

Gli accenti fondamentalmente tragici de La nausea e di L’essere e il nulla lasciano spazio, nelle opere che seguono la seconda guerra mondiale – e dunque l’engagement (“impegno”) di Sartre nella resistenza contro l’occupazione nazista – a una tonalità nuova. La conferenza parigina intitolata L’esistenzialismo è un umanismo (1946) fa il punto sulle riflessioni passate e al contempo accentua il motivo dell’impegno dell’uomo nel mondo, sulla base del principio che “l’esistenza precede l’essenza”. La scoperta della gratuità del mondo, piuttosto che condurre ad indugiare sull’assurdità dell’esistenza umana, viene declinata da Sartre per negare ogni forma di riduzionismo deterministico e per esaltare conseguentemente la libertà dell’uomo, la cui natura non è determinata da alcunché. Sartre difende l’esistenzialismo dall’accusa di mettere in risalto “il lato deteriore della natura umana”. La condizione di abbandono dell’uomo nel mondo, invece di portare a una sorta di “quietismo di disperazione”, si presenta come fondamento dell’assoluta responsabilità alla quale nessun uomo può sottrarsi. L’uomo ha la responsabilità totale della propria esistenza, delle proprie scelte.

Dostoevskij e la filosofia

Fra i grandi scrittori la cui opera riveste interesse anche nel campo della storia della filosofia, Dostoevskij ricopre un posto di particolare importanza e da diversi punti di vista. In generale, ci troviamo di fronte a un autore in cui oggettività, realismo e sviluppo narrativo sono impensabili senza avvolgersi subito nei grandi temi morali del vivere umano. Su alcune tematiche filosofiche specifiche, poi, è impossibile tracciare una storia del pensiero senza attribuire allo scrittore russo un ruolo come antesignano o significativo esponente. Basti pensare ai molti punti di contatto fra Raskolnikov – protagonista di Delitto e castigo – e la dottrina dell’superuomo di Nietzsche; oppure a molte anticipazioni della psicologia dell’inconscio di Freud o dell’esistenzialismo. Così come non meraviglia che, nell’ambito del pensiero russo, possa essere stato considerato come il più grande “metafisico” (Nikolaj Berdjaev).

Ma Dostoevskij è e rimane scrittore e non filosofo: ed è sempre all’ambito della letteratura e dell’arte, dunque, che è giusto ricondurre l’analisi del suo pensiero morale e filosofico. In questo senso è innanzitutto da sottolineare che, nell’opera del grande russo, la filosofia non entra attraverso la porta secondaria di capitoli a parte, digressioni, sezioni biografiche, ma attraverso quella principale di elementi costituenti del romanzo: in particolare nella costruzione dei personaggi e nei dialoghi. In una importante opera del 1929, il critico russo Michail Bachtin mette l’accento sulla capacità di quest’autore di dare vita e parola a personaggi profondamente indipendenti dal loro creatore, nei quali si incarnano magistralmente idee e teorie “morali” spesso contrastanti fra loro: “Dostoevskij crea non schiavi silenziosi ma uomini liberi, atti a stare accanto al loro creatore, a non condividerne le opinioni e persino a ribellarsi contro di lui”; oppure: “ciò che deve essere scoperto e caratterizzato è non il determinato modo di essere del personaggio, non la sua precisa figura, ma il risultato ultimo della sua coscienza e autocoscienza, in definitiva l’ultima parola del personaggio su se stesso e sul suo mondo”. Per l’autore, dunque, il personaggio non è “egli” e non è “io”, ma un “tu” pienamente valido, cioè un altro “io” estraneo dotato di pieni dirittti (“tu sei”). L’eroe è il soggetto di un atteggiamento dialogico serio, vero, e non retoricamente recitato o letterariamente convenzionale. E proprio da questa autocoscienza portata ai limiti di uno scavo psicologico profondissimo e geniale scaturisce la viva filosofia che caratterizza le opere del grande romanziere.

La rivoluzione poetica implicita in questa visione è già evidente nelle prime opere e, in particolare, nelle Memorie del sottosuolo, con il personaggio dell’”uomo del sottosuolo” e la sua spietata autoanalisi della propria vita. Ma sarà nei capolavori della maturità che questa rivoluzione porterà l’autore a esiti di rilevanza filosofica. In Delitto e castigo, Rodion Romanovič Raskolnikov, spiantato studente pietroburghese, accetta la sfida con se stesso di uccidere un’avida vecchia usuraia pur di dimostrarsi di appartenere a quella ristretta schiera di uomini dal destino eccezionale – come Napoleone – cui la vita non chiede di rispettare le regole, ma anzi di trasgredirle e, dunque, di riscriverle: “Io ho semplicemente formulato l’ipotesi che un uomo ‘straordinario’ abbia il diritto... non un diritto ufficiale, beninteso... di permettere alla propria coscienza di scavalcare certi... certi ostacoli, e ciò esclusivamente nel caso in cui l’esecuzione di un suo progetto (talvolta, magari, salutare per l’intera umanità) lo richieda”.

Almeno fino all’omicidio, dunque, nell’autoscienza e nella “parola autonoma” di Raskolnikov risuonano – come si diceva – i toni grandiosi e prometeici della dottrina del superuomo di Nietzsche (le cui opere erano però ignote a Dostoevskij). Anche se il fascino dell’opera si sprigiona, più che nella fase “delitto”, in quella del “castigo”: cioè nella crisi emotiva, fisica e, appunto, filosofica che l’omicidio scatena nel giovane protagonista.

Nel mondo non meno cupo e complesso dei Demoni, il personaggio che spicca è invece quello altrettanto bello e dannato di Nikolai Stavrogin: dotato di eccezionale forza fisica e spirituale e di eccezionale carisma è il corifeo della gioventù dorata e annoiata russa, spesso messa nel mirino da Dostoevskij. In lui, inevitabilmente, ritorna ad affascinare la figura del superuomo, al di là del bene e del male, connotata nel senso di un’estetica svuotata di valori – per cui spesso si è invocato a paragone l’”uomo estetico” di Kierkegaard e la sua “malattia mortale”. Rispetto a Raskolnikov, tuttavia, la “sfida” filosofica (nonché la molla narrativa) del personaggio di Stavrogin è diversa, collocandosi su uno sfondo fortemente connotato in senso teologico: “se Dio non esiste, tutto è lecito” è il vessillo e, al tempo stesso, la condanna di questa straordinaria invenzione letteraria. Ovunque lui avanzi, dunque, avanzano tragedia e morte, fino alla conquista estrema del suicidio, ultima frontiera di una sbandierata indifferenza. Assai chiari dunque, nel nichilismo di Stavrogin, i punti di anticipazione rispetto all’esistenzialismo. Significativa in questo senso la scelta di un nome alle cui radici si rintraccia il simbolo cristiano della “croce”: poiché appunto questo significa stavrós.

Altra grande figura dai tragici contorni esistenzialisti è Ivan Karamazov, che incontriamo nell’ultima opera di Dostoevskij (da molti considerata il suo capolavoro): I fratelli Karamazov. Anche nel suo caso, la luce che lo avvolge è quella del tramonto della fede nel soprannaturale; anche in lui la morte di Dio viene affrontata e recepita con le sue conseguenze moralmente ineccepibili: “allora non ci sarà più niente di immorale, tutto sarà permesso, perfino l’antropofagia”; per il singolo individuo che non creda né in Dio né nella propria immortalità, “la legge morale naturale deve trasformarsi subito nel perfetto opposto dell’antica legge religiosa, e l’egoismo, portato anche fino al delitto, deve essere non solo permesso all’uomo, ma addirittura riconosciuto come la soluzione necessaria, la più ragionevole, e direi la più nobile, nelle sue condizioni”.

Tale posizione viene programmaticamente illustrata nel racconto allegorico Il grande Inquisitore che, nel romanzo, Ivan espone al fratello Aleksej. Vi si immagina che, in Spagna, ai tempi della Santa Inquisizione, un vecchio inquisitore incarceri e condanni lo stesso Cristo, tornato di nuovo fra gli uomini ad operare i suoi miracoli: la libertà, che era stata il principale dono di Dio agli uomini, infatti si era rivelata come una dannazione per loro e le loro debolezze. Al contrario il popolo, proprio per la sua natura aveva bisogno di un’autorità che lo guidasse nel suo destino; e questa, da secoli ormai, era stata rinvenuta nel Nemico di Dio.

Luca Soverini

L’impegno politico

L’influenza di Sartre sulla cultura francese è decisiva, tanto che si è giunti a parlare del Novecento come del “secolo di Sartre” e dell’esistenzialismo francese nei termini di una moda culturale. L’impegno politico messo in pratica sempre e comunque secondo molti ha inquinato il rigore logico che inizialmente apparteneva all’esistenzialismo sartriano. L’aver sposato a tratti incondizionatamente la causa del comunismo conduce Sartre, nella seconda fase della sua produzione filosofica, al tentativo, non sempre riuscito, di sposare il tema esistenzialista dell’impegno con il marxismo (Critica della ragion dialettica, 1960). Queste scelte sono tra i motivi che lo portano alla rottura insanabile con l’altro intellettuale francese di spicco di quegli anni, suo amico fin dalla giovinezza e con lui animatore dal 1945 della rivista “Les temps modernes”, Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), un autore che più decisamente si manteneva fedele alla fenomenologia di Husserl.

Non solo Sartre

L’esistenzialismo in Francia non si esaurisce comunque con l’opera di Sartre, ma può contare su altri importanti interpreti. Spicca la figura di Albert Camus (1913-1960): anche in questo caso, l’espressione di motivi esistenzialistici si svolge non soltanto in forme filosofiche (del Camus saggista si possono ricordare Il mito di Sisifo, del 1942, e L’uomo in rivolta, del 1952), ma anche – e soprattutto – letterarie (i romanzi Lo straniero e La peste, rispettivamente del 1942 e del 1947).

Se Sartre si compiace della coerenza dell’ateismo del proprio esistenzialismo (se Dio non è più, allora il centro di tutto rimane davvero la soggettività, e l’esistenza precede qualsiasi essenza intesa come modello dato da Dio), altri autori tentano di delineare un esistenzialismo che recuperi la tradizione spiritualistica francese e i valori del cristianesimo. È il caso di Gabriel Marcel (1889-1973), che indirizza il proprio esistenzialismo (sviluppato con una certa autonomia: il suo importante Giornale metafisico viene pubblicato nel 1927, lo stesso anno dell’heideggeriano Essere e tempo) nella direzione di un “socratismo cristiano”, poggiante su di un impegno concreto della propria personalità nella ricerca dell’assoluto. Strettamente legati all’ambiente culturale francese sono anche i nomi di due pensatori esuli dalla Russia che a tutti gli effetti rientrano nella storia dell’esistenzialismo: Lev Šestov (1866-1938) e Nikolaj Berdjaev (1874-1948). Grazie a questi autori, si ha la penetrazione in esso di motivi teologici della tradizione religiosa e spirituale russa e lo sviluppo filosofico di tematiche sollevate dai grandi romanzi dostoevskiani.

ESERCIZIO

E25: Avvio al saggio breve 1: l’esistenzialismo

Albert Camus

Nato nel 1913 a Mondovi, in Algeria, e morto per un incidente d’auto nel 1961, Camus è tra gli intellettuali francesi più influenti del secondo dopoguerra. Come Sartre, si dimostra un geniale poligrafo, affermandosi come saggista, giornalista impegnato, autore di romanzi, opere teatrali e scritti filosofici.

L’assurdo

Il mito di Sisifo e L’uomo in rivolta, i saggi filosofici di Camus, sollevano “questioni mortali”; affrontano direttamente il problema del senso della vita di fronte alla morte, o meglio della sua mancanza di senso, dell’”assurdo”. La nozione di assurdo riposa, secondo Camus, sulla sproporzione tra due elementi: attaccare un “nido” di mitragliatrici all’arma bianca, per esempio, è assurdo per la sproporzione tra l’obiettivo perseguito e i mezzi utilizzati. Analogamente, il sentimento dell’assurdo nella vita deriva dall’incommensurabilità tra la domanda di senso che sorge dalla coscienza umana e un mondo che non dà risposte. Il mito di Sisifo, in particolare, sviluppa la logica dell’assurdo fino alle sue ultime conseguenze: il fatto che la vita non abbia senso significa che non vale la pena di essere vissuta e, dunque, rende lecito il suicidio?

Associato comunemente all’esistenzialismo, con il quale condivide l’idea che la coscienza contrappone l’uomo al mondo, Camus approda nelle sue opere a conclusioni originali. L’assurdo, scrive nel Mito di Sisifo, è generato dalla mia finitezza in quanto essere mortale, sarebbe dunque contraddittorio darsi la morte per sfuggire all’assurdo. Al contrario, Camus incita a vivere pienamente la tensione propria dell’essere umani. La consapevolezza dell’assurdo, infatti, apre delle possibilità, libera dagli obiettivi precostituiti a cui ci si è sottomessi; ci permette di vivere, non meglio, ma “di più”. La vita dell’”uomo assurdo” detta anche delle regole di condotta. Innanzitutto, vivere ora: liberarsi dalla speranza e in particolare dalla speranza religiosa, disastrose per l’essere umano in quanto lo portano a svalutare sistematicamente il presente. Quindi, si impone una disciplina: Camus la desume dalla saggezza assurda che riconosce nella figura di Sisifo. Condannato a uno sforzo inutile, Sisifo rappresenta il destino dell’uomo, il quale non può evitare di interrogare il mondo oltre i limiti del proprio intelletto. Come il peso della roccia infernale, eternamente sospinta verso la cima, non annienta Sisifo, così la frustrazione nella propria ricerca non annulla l’uomo, ma coincide piuttosto col suo modo d’essere.

La rivolta

Nell’Uomo in rivoltaCamus applica la sua “filosofia dell’assurdo” a un tema politico: la rivolta. Lo scrittore descrive il gesto di rivolta come una tensione irriducibile tra i due poli della negazione e dell’affermazione, come l’atto costitutivo del valore e del “noi” (“Io mi ribello, dunque noi siamo”). Lo schiavo che si ribella dice no a una situazione che ha sopportato fino a quel momento; nello stesso istante, egli dice sì, dà la sua adesione a una parte di sé con cui si identifica, e che sente minacciata dall’ultimo ordine ricevuto. La rivolta crea, nella sua dimensione affermativa, un legame di solidarietà tra tutti gli uomini, vittime e carnefici insieme. Camus contrappone questa rivolta ideale alle ideologie rivoluzionarie moderne (dal marxismo al nazionalsocialismo). Queste ultime sono afflitte dallo stesso vizio di fondo che sul piano individuale caratterizza la speranza religiosa, e hanno un esito nefasto: nazismo e stalinismo sacrificano milioni di vite presenti nella promessa di una prosperità futura. Camus non è rassegnato allo statu quo ma solleva il problema del limite oltre il quale la rivolta perde la sua natura. In modo analogo al Mito di Sisifo, egli cerca una risposta nella celebrazione della fisicità della vita, con la quale ribadisce il valore del presente; nella cultura mediterranea, marcata dai suoi elementi naturali che nutrono la “gioia di vivere”. Le pagine conclusive dell’Uomo in rivolta riuniscono tutti questi elementi sotto la formula evocativa di pensée de midi (“pensiero meridiano”): è il tentativo di Camus di offrire un quadro teorico alla rivolta libertaria.

Il saggio politico di Camus è stato l’oggetto di feroci critiche e all’origine di aspre polemiche. La più celebre di queste contrappone Camus e Jean-Paul Sartre sulle pagine della rivista “Les Temps modernes”: quest’ultimo prende le parti della rivoluzione comunista, anche in nome delle prime lotte d’indipendenza nei territori coloniali (favorite da Mosca). Come uomo di sinistra, Camus dimostra coraggio e autonomia nel denunciare, due anni prima della morte di Stalin (1879-1953), l’orrore dei campi di concentramento sovietici.

Camus filosofo e narratore

Filosofia e letteratura fanno tutt’uno nell’opera di Albert Camus. Quando l’oggetto della sua esplorazione resiste a una conclusione logica, allora il filosofo passa la mano all’artista che ricorre a metafore e aneddoti per trasmettere al lettore un messaggio che conta più sulla memoria dei sensi che sulla lucida coerenza del pensiero. D’altra parte, la produzione propriamente letteraria di Camus, come i romanzi Lo straniero e La peste, prolunga il compito della filosofia; mette in scena e fa vivere al lettore le conclusioni “doppie” raggiunte dall’autore nelle sue riflessioni. Felicità e miseria, condizioni costitutive dell’uomo, violenza e solidarietà come qualità antinomiche della rivolta, si incarnano nei protagonisti dei romanzi di Camus. Meursault, protagonista dello Straniero (che anticipa di pochi mesi Il mito di Sisifo), raggiunge la statura dell’eroe assurdo – trionfante nella consapevolezza del proprio destino – attraverso il processo e l’attesa dell’esecuzione. L’evoluzione dal solipsismo alla solidarietà, nella filosofia di Camus, passa attraverso La peste, romanzo che racconta, nella cornice narrativa di una città sconvolta da un’epidemia di peste, il mettersi in moto di un’azione collettiva contro il male che minaccia la comunità. Questa linea di pensiero trova il suo compimento nell’Uomo in rivolta che dà alla filosofia dell’assurdo la sua “etica sociale.

AMBIENTE CULTURALE

Saint-Germain-des-Prés

In un celebre passo dell’Essere e il nulla (1943), Jean-Paul Sartre si attarda sui gesti e i comportamenti di un garçon de café (un cameriere), per esemplificare la figura della “malafede”. Questa scena offre al lettore un indizio sul luogo in cui il ponderoso saggio del filosofo francese è stato, in buona parte, elaborato e scritto: un tavolino del Café de Flore, nel quartiere Saint-Germain-des-Prés a Parigi.

Per due decenni, dalla fine degli anni Trenta alla fine dei Cinquanta, il piccolo quartiere di St.-Germain, tra la chiesa di Saint-Sulpice e la Senna, offre riparo al più variegato e dinamico gruppo culturale del Novecento. Intellettuali, scrittori, poeti, pittori, scultori, drammaturghi, cineasti e filosofi vivono, discutono e lavorano tra i caffè e le brasserie del quartiere. All’ambiente e ai tavolini del Café de Flore, del Deux Magots, della Brasserie Lipp, della Rhumerie Martiniquaise, del Vieux-Colombier, del Bar Vert e del ristorante Cheramy sono legati i successi di due premi Nobel della letteratura, Sartre e Albert Camus, del teatro dell’assurdo di Eugène Ionesco, della canzone francese di Jacques Brel e Georges Brassens. La Nouvelle Vague di François Truffaut parte dalla stessa piazza tranquilla, di fronte all’abbazia di Saint-Germain. L’atelier di Pablo Picasso si trova non lontano, e lo scultore Alberto Giacometti modella alcune delle sue esili figure “preistoriche” sulla terrazza del Flore. “Al Flore c’era una stufa, non c’erano tedeschi e c’era un métro”: così nel Manuale di Saint-Germain-des-Prés (1951) lo scrittore Boris Vian spiega l’esodo degli intellettuali, durante l’occupazione tedesca di Parigi, dal quartiere Montparnasse – sede dei più sofisticati caffè letterari del primo dopoguerra, come La Rotonde e La Coupole – alla “parrocchia” di San Germano. La clientela del Deux Magots (un tempo un magazzino all’ingrosso di tessuti) è, in effetti, più borghese, composta da editori – le principali case editrici, tra cui Gallimard, hanno la loro sede nei paraggi –, avvocati e altri professionisti.

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Drammaturgia

La Brasserie Lipp è un luogo di ritrovo di giornalisti e politici; sarà nei pressi del Lipp che, nel 1936, un gruppo di militanti della formazione di estrema destra Action Française cercherà di assassinare il leader socialista Léon Blum. Sartre fa il suo ingresso al Flore intorno al 1942: dai ricordi di Boubal “le Patron” (lo storico proprietario del caffè), vi trascorre tutta la giornata, dall’apertura a mezzodì e dal pomeriggio alla chiusura. Il caffè è già frequentato dall’intellighenzia artistica: Jacques Prévert e il Groupe Octobre (gruppo del teatro Octobre, composto tra gli altri da Pierre Prévert, Raymond Bussières, Sylvia Bataille, Marcel Mouloudji) ne hanno fatto il loro covo. Ma è con Sartre e Simone de Beauvoir, come animatori politico-culturali, e con l’euforia della Liberazione (agosto 1944), che il movimento artistico-letterario di Saint-Germain si avvia a diventare qualcosa di nuovo e di socialmente più complesso.

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Lo spazio scenico

Negli anni dell’immediato dopoguerra, entrare nel village di St.-Germain diventa una presa di posizione politica, non solo e non tanto per le idee sulla religione e la politica discusse nei libri dei filosofi e ai tavolini dei caffè: è in corso una rivoluzione dei costumi e della morale tradizionale che sia la stampa borghese sia il Partito Comunista francese condannano come un’eresia. Quando a mezzanotte i caffè chiudono, ci si trasferisce nelle cave, ovvero le boîte de nuit, i club musicali aperti negli scantinati di alcuni bar del quartiere. La stampa chiama indistintamente, e spregiativamente, i frequentatori di St.-Germain “esistenzialisti”; loro preferiscono definirsi, ironicamente, “trogloditi”, abitatori notturni delle “caverne” che, dopo mezzanotte, sotto la superficie di St.-Germain si animano alle note sincopate di jazz e boogie-woogie. Il più celebre tra le cave è Le Tabou, aperto nel 1947 e lanciato da Juliette Gréco, Anne-Marie Cazalis e lo stesso Vian. La notte, al gruppo degli “intellettuali”, si aggiunge una popolazione variopinta di giovani tra i 16 e i 22 anni, comparse degli spettacoli teatrali di Sartre e Camus, studenti che si mantengono vendendo libri usati. Ma soprattutto giovani della classe media, che partecipano alle feste del village, vi scoprono la musica americana, e inaugurano un abbigliamento identitario fatto di abiti neri, per le ragazze, e camicie a quadri. Preso nel suo insieme, il movimento culturale di St.-Germain mostra dunque, per la prima volta, quei caratteri specifici che ritorneranno, ciclicamente, in Europa con le “sottoculture” giovanili della seconda metà del XX secolo. L’atteggiamento di ribellione si accompagna a un processo di commercializzazione della cultura. I figli della classe media contestano i valori dei padri e stabiliscono un ponte con la cultura degli Stati Uniti attraverso la musica; nella Francia del secondo dopoguerra, l’influenza degli USA è guardata con sospetto tanto dal PCF quanto dai partiti conservatori. Tra i vicoli di Saint-Germain-des-Prés, il successo delle cave autorganizzate stimola i privati a intraprendere iniziative analoghe a scopo commerciale. Benché in evidente contraddizione con lo spirito delle origini, tale fenomeno crea le condizioni per la notorietà anche presso il grande pubblico degli artisti (e, in particolare, degli chansonnier) che nel quartiere hanno mosso i loro primi passi.

Andrea Piatesi