9. Marxismi contemporanei

di Stefano Bracaletti

9.1 L’allontanamento dal “marxismo ortodosso”

Gli sviluppi più significativi del marxismo del Novecento possono essere interpretati globalmente come una presa di distanza dalla dimensione deterministica e oggettivistica che comincia a imporsi, pur con diverse varianti, nei primi anni del secolo, nella visione della Seconda Internazionale, in particolare a opera di Karl Kautsky (1854-1938), autore di La concezione materialistica della storia (1927), e nella elaborazione teorica di Lenin (1870-1924), autore di Stato e rivoluzione (1917) e L’imperialismo (1917).

Queste concezioni vedono al centro della storia uno sviluppo incessante e unilineare delle forze produttive. Questo sviluppo, nella visione leniniana, crea contraddizioni sempre più acute con la base ristretta dei rapporti di produzione capitalistici: contraddizioni sulle quali si innesta al momento opportuno l’azione del proletariato, portatore di una coscienza di classe e guidato dal partito. Nel pensiero kautskiano, invece, il processo di sviluppo avviene in maniera evolutivamente piana senza salti o conflitti, fino al momento in cui il proletariato, anche in questo caso portato a consapevolezza dal partito, prende il potere con mezzi legali e parlamentari. Una variante ancora più riformistica è quella di Eduard Bernstein (1850-1932), il quale vede nel socialismo la realizzazione nella realtà sociale dell’imperativo categorico kantiano che impone di trattare l’altro sempre come fine e mai come mezzo. La via al socialismo sarà allora una via pacifica, legale e parlamentare, che si concretizza nella possibilità per la classe operaia di partecipare in misura sempre crescente alla ricchezza e al benessere della società capitalista.

Un tratto comune (con pochissime eccezioni) al marxismo filosofico del Novecento è la ripresa di tematiche hegeliane e dialettiche, cioè di una visione del reale che ne mette in risalto la processualità e il divenire attraverso il darsi di conflitti e contraddizioni che impediscono forme di stasi e di irrigidimento. Viene inoltre ritenuta fondamentale la dimensione di una soggettività “agente”, libera e irriducibile a meccanismi oggettivi.

LETTURE

Il socialismo

Totalità e coscienza di classe: Korsch e Lukács

Il rifiuto delle impostazioni economicistiche e deterministiche trova una prima espressione significativa nelle opere di Karl Korsch (1886-1961) e György Lukács (1885-1971). Korsch (Marxismo e filosofia, 1923) rivendica al marxismo la necessità di prendere le distanze dalle partizioni teoriche del pensiero borghese sulla società in varie discipline (economia, diritto, teoria della politica, filosofia) e di proporsi sempre come unità di teoria e prassi.

Anche secondo Lukács (Storia e coscienza di classe, 1923), la visione “borghese” isola complessi parziali di fatti – economia, diritto, politica – e ne fa oggetto di scienze particolari, come se fossero dati naturali e assoluti; essi sono invece globalmente prodotto dell’attività dell’uomo. Il presentarsi dei dati in questa forma reificata è tipico della società capitalistica dove il processo sociale è sfuggito al controllo dell’uomo. A questa visione parcellizzante deve essere opposto il punto di vista della totalità, che considera l’insieme di oggettualità particolari analizzate dalle varie scienze quali prodotti di una matrice comune, cioè l’attività umana, e li vede sempre come momenti di un processo storico. Questa totalità può essere colta solo da una posizione soggettiva che rappresenti a sua volta una totalità, quindi dal punto di vista di una classe sociale.

Solo il proletariato come classe occupa una posizione all’interno della realtà sociale che permette di cogliere questa totalità correttamente. Per esso, infatti, è una necessità essenziale, legata alla sua sopravvivenza, comprendere sia la propria situazione di classe all’interno della società capitalistica, sia la forma sociale nel suo complesso quale premessa della propria azione auto-emancipatrice. Lukács, anche per non essere costretto a rinunciare alla sua attività nel Partito Comunista, svolgerà una severa autocritica delle posizioni espresse nel libro, definite eccessivamente idealistiche.

Nella tarda maturità, Lukács proporrà un’Ontologia dell’essere sociale (pubblicata postuma). La realtà viene vista come stratificata in livelli: inorganico, organico, sociale. Ognuno di essi presuppone il precedente ma presenta categorie a esso irriducibili (quello che in termini contemporanei viene definito rapporto di “sopravvenienza”). La categoria distintiva dell’essere sociale è quella del lavoro e della posizione teleologica. Su di essa si strutturano poi le categorie etiche del dover essere e del valore (l’Ontologia doveva costituire la base preparatoria di un’Etica).

Speranza e utopia concreta: Bloch, Gramsci e Marcuse

Un’antitesi ben più radicale di quella di Lukács a forme di economicismo e di determinismo la troviamo in Ernst Bloch (1885-1977) – autore di Spirito dell’utopia (1918), Il principio speranza (1953-1959), Ateismo nel cristianesimo (1968) – e nella sua rivalutazione della cosiddetta corrente “calda” del marxismo che ne esprime, accanto allo sforzo analitico, l’essere proiettato in avanti e lo slancio autenticamente rivoluzionario oltre il presente. Questa rivalutazione fa riferimento alla costruzione di un’ontologia del “non ancora essere” e di una ricerca dell’utopia concreta (come tale non mera fantasticheria ma sempre tesa a un confronto con le possibilità insite nel reale) che Bloch definisce “principio speranza”.

In contrapposizione a tutte le filosofie finora elaborate, che hanno analizzato l’essere sempre come “essere stato” che diventa poi un presente statico e irrigidito nella forma di un insieme di principi eterni e immutabili, Bloch vede il principio speranza come una forza universale esistente sia nell’uomo che nella natura. Esso trova la sua base appunto in un’ontologia del “non ancora essere”, nella quale il “non ancora conscio” e il “non ancora reale” sono le dimensioni più fondamentali dell’essere e del pensiero. Da questo punto di vista, allora, solo il futuro rappresenta la realtà autentica. Questa ontologia si concretizza nell’esposizione e nell’analisi concreta, svolta nel libro Il principio speranza, delle varie forme di coscienza anticipatrice, da quelle più quotidiane fino alle forme culturali più strutturate. È presente in Bloch un recupero della religione, e in particolare del cristianesimo nelle sue forme non dottrinarie e non istituzionali, interpretata come lo spazio della coscienza dove il disagio psichico e sociale e la consapevolezza dell’ingiustizia danno forma all’immagine di un mondo migliore. In questa visione, dunque, anche la religione è una forma di coscienza anticipante che, contro ogni predicazione alla sottomissione, può portare ad un’effettiva azione emancipatrice.

Una visione compiutamente non meccanicistica del marxismo è quella di Antonio Gramsci (1891-1937) che, nei Quaderni del carcere (1948-1951), sviluppa una serie di riflessioni sulle dinamiche sovrastrutturali che caratterizzano lo scontro tra classi e sui modi in cui si realizza l’egemonia di una rispetto all’altra. Questa egemonia non si definisce solo attraverso la forza e attraverso il dominio diretto dello Stato e dei suoi vari apparati repressivi; un suo aspetto imprescindibile è invece la costruzione del consenso all’interno della società civile, quale realtà intermedia tra la struttura economica e lo Stato.

La società civile si esprime in una molteplicità di livelli, realtà e istituzioni quali ovviamente la scuola e tutto l’apparato scolastico, nonché vari luoghi e strumenti di formazione dell’opinione pubblica: le case editrici, i giornali, le parrocchie, le accademie, le biblioteche, le libere associazioni come i circoli e i club. La lotta di classe deve essere portata avanti all’interno di questi vari spazi, formando le coscienze e agendo sulle oggettivazioni culturali, quale fase preparatoria imprescindibile per la successiva presa del potere. Questo compito è svolto prevalentemente dagli intellettuali.

Una visione diversa sarà quella di un marxista del secondo dopoguerra come Herbert Marcuse (1898-1979), autore di Eros e civiltà (1955) e L’uomo a una dimensione (1964). Marcuse, pur sottolineando gli effetti negativi della cultura ipertecnologica dominante che toglie importanza a qualsiasi discorso intorno ai fini, e della manipolazione culturale che crea falsi bisogni, recupera in chiave più positiva la psicoanalisi. Nelle dinamiche del desiderio che essa analizza, Marcuse vede una base per riaffermare valori estetici ed edonistici offuscati dalle logiche repressive imposte dalla cultura del rendimento e del lavoro.

9.2 La rottura con Hegel

Louis Althusser

Le concezioni finora esposte insistono, pur in modo diverso, sul recupero di temi e suggestioni hegeliane e sull’analisi della soggettività e della prassi storicamente determinata. L’interpretazione del marxismo proposta da Louis Althusser (1918-1990) – autore di Leggere Il capitale (1965) e Per Marx (1967) – si caratterizza invece per una critica radicale di questi concetti, in particolare a quello di soggettività in qualsiasi sua forma. Althusser rivendica alle analisi di Marx una radicale forma di antihegelismo, antiumanesimo e antistoricismo.

Riguardo al primo punto, la dialettica e il concetto di totalità marxiane sono, secondo Althusser, completamente diverse da quelle hegeliane. La totalità marxiana è una struttura nella quale le differenze non si danno, come in Hegel, solo per essere negate. La contraddizione principale (tra capitale e lavoro, tra forze produttive e rapporti di produzione) sussiste accanto a contraddizioni secondarie che sono altrettanto reali e agiscono sulla contraddizione principale. Quest’ultima risulta, per usare il linguaggio di Althusser, “surdeterminata”.

In questo senso, allora, la totalità marxiana appare articolata in maniera gerarchica e la struttura dominante è effettivamente l’economia, ma quest’ultima non può mai essere isolata dagli altri livelli sovrastrutturali: politica, diritto, Stato. Non esiste quindi un livello economico puro attingibile in sé, rispetto al quale gli altri livelli sovrastrutturali possono essere inseriti o rimossi a proprio piacimento per cogliere la vera essenza dei fenomeni.

Questa visione globale fonda in maniera compiuta quelli che, secondo Althusser, sono gli altri aspetti centrali del pensiero marxiano della maturità in contrapposizione al periodo giovanile, cioè l’antiumanesimo e l’antistoricismo. I rapporti di produzione sono irriducibili a qualsiasi forma di soggettività antropologica. Gli individui, sono, secondo la terminologia marxiana, portatori di ruoli e funzioni all’interno della struttura economica. È questo insieme di ruoli e funzioni il vero soggetto (o meglio quindi il “non soggetto”) di una storia fatta di temporalità diverse e non sovrapponibili. Da questa visione complessiva della storia e della società discende l’impossibilità di definire un soggetto della storia – che sia l’idea hegeliana o il proletariato – e un fine ultimo da essa posto. È stata questa la critica mossa ad Althusser dall’interno del Partito Comunista Francese che ha ribadito l’importanza e la necessità di una presa di posizione umanista.

Jürgen Habermas

Una critica più recente all’economicismo e all’oggettivismo, che approda però a un tentativo di recupero della soggettività in chiave non idealistica, è quella di J. Jürgen Habermas (nato nel 1929), autore di Per la ricostruzione del materialismo storico (1976) e Teoria dell’agire comunicativo (1981). Alla base delle visioni tradizionali del marxismo, egli sostiene, c’è una concezione tecnicistica del rapporto tra forze produttive e rapporti di produzione, sorretto da un modello strumentalistico di azione: la tecnica di produzione impone determinate forme di organizzazione del lavoro e attraverso di esse determina anche i rapporti di produzione corrispondenti. Per comprendere l’evoluzione sociale si deve invece fare riferimento anche ai processi di apprendimento, individuali e collettivi. Questi processi di apprendimento si incarnano in livelli sempre più elevati della coscienza morale, secondo uno schema proposto dallo psicologo morale Lawrence Kohlberg (1927-1987) che Habermas riprende.

La scuola di Francoforte

Gli studiosi della scuola di Francoforte – Max Horkheimer (1895-1973) (Teoria critica, 1969), Theodor W. Adorno (1903-1969) (Minima moralia, 1951; Dialettica negativa, 1966), Erich Fromm (1900-1980) (Marx e Freud, 1962; Avere o essere?, 1976) – danno del marxismo un’interpretazione allo stesso tempo lucidamente critica sulla reale natura del comunismo sovietico e fortemente pessimistica sulle possibilità, all’interno del capitalismo avanzato, di un’autentica rivoluzione democratica.

La logica di dominio dell’uomo sull’uomo che permea la società capitalistica, non è un “incidente di percorso” ma rappresenta, secondo i francofortesi (Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’illuminismo, 1947), l’estrema e compiuta realizzazione del progetto illuministico di controllo sulla natura, di cui lo sviluppo scientifico e tecnologico sono il prodotto. A questa logica di dominio neppure una società socialista può sottrarsi, come l’esperienza sovietica dimostra.

Allo stesso tempo, gli esponenti della scuola di Francoforte sono fortemente critici verso la società borghese nel suo insieme, vista come società nella quale, attraverso i meccanismi dell’industria culturale, domina l’omologazione assoluta. A questa omologazione si può opporre solo il pensiero critico individuale, in particolare nella sua forma filosofica. Questo aspetto riecheggia nell’esigenza, espressa con forza da Horkheimer, di proteggere il singolo non solo contro ogni progetto totalitario ma anche contro le utopie che lo sacrificano in nome di presunti ideali di giustizia globale.

Di notevole interesse resta il tentativo della scuola di Francoforte di integrare in maniera non meccanicistica lo studio della realtà sociale e delle dinamiche psicologiche che ne sono ad un tempo il prodotto e il presupposto. Vengono così recuperate le categorie psicoanalitiche – con particolare attenzione ai meccanismi di introiezione e di proiezione – allo scopo di comprendere le dinamiche profonde che portano, a livello sociale, all’accettazione dell’autorità. A questo proposito sono rimaste famose le vaste ricerche empiriche svolte in L’autorità e la famiglia (1936) e in La personalità autoritaria (1950). Alla scuola di Francoforte si deve una delle prime critiche globali alla società della comunicazione di massa.

Marxismo e teoria della scelta razionale

Il punto d’arrivo della ricostruzione non dogmatica del marxismo è rappresentata da quell’insieme di autori riconducibili alla corrente del marxismo analitico. Jon Elster (nato nel 1940), autore di Dare un senso a Marx (1985); John Roemer (nato nel 1945), autore di Una teoria generale dello sfruttamento e della classe (1982); Gerald Cohen (1941-2009), autore di Teoria della storia in Marx. Una difesa (1978). Questa corrente ha tentato un nuovo approccio ai concetti fondamentali del materialismo storico, quali sfruttamento, classe, lotta di classe, agire collettivo, usando gli strumenti e le tecniche della scienza sociale analitica contemporanea. Tali concetti devono essere riletti in chiave non funzionalista (qualcosa accade perché è utile al dominio della classe capitalista o in vista del futuro instaurarsi del socialismo), connettendosi sempre al livello della razionalità individuale.

Lo sfondo teorico del marxismo analitico è costituito dalla teoria della scelta razionale e dall’individualismo metodologico.

Accanto al marxismo più propriamente filosofico teorico è da segnalare un’intensa attività di ricerca da parte di studiosi di varie nazionalità – in particolare inglesi, americani, italiani, francesi, tedeschi – su problematiche più circoscritte, soprattutto legate alla teoria economica marxiana così come sviluppata ne Il capitale. Queste problematiche riguardano la teoria del valore, il problema della trasformazione dei valori in prezzi, la caduta del saggio del profitto, le crisi economiche, la teoria della moneta e del credito. Attraverso un confronto critico a volte aspro con altre scuole di pensiero economico, questi vari aspetti della teoria marxiana sono stati sottoposti a revisioni e sistemazioni teoriche nonché a diversi tentativi di verifica empirica.

LETTURE

Il terzomondismo

LETTURE

Il comunismo

Arte e società di massa in Benjamin: L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica

Arte e tecnica, politica e società di massa: questi i poli attorno ai quali si muove la riflessione estetica del filosofo Walter Benjamin (1892-1940) nato a Berlino da genitori ebrei, intellettuale di grande e raffinata erudizione.

In Benjamin convergono interessi e influenze diverse; questo rende difficile la definizione complessiva di un pensiero che si esprime preferibilmente attraverso frammenti, citazioni, intuizioni e analisi parziali, spaziando dalla teologia al marxismo, dalla sociologia alla mistica ebraica, dalla filosofia della storia alla critica letteraria su Brecht, Proust, Baudelaire, Kafka (Angelus novus, pubblicato nel 1962, raccoglie gli scritti più significativi).

La natura dell’opera d’arte e il suo ruolo nella modernità sono al centro della riflessione di Benjamin fin dalle prime opere: nell’Origine del dramma barocco tedesco (pubblicata nel 1928) l’analisi della figura dell’allegoria nel Trauerspiel tedesco (alla lettera “rappresentazione luttuosa”, generalmente tradotta con “dramma barocco”) diventa occasione per una rilettura critica della modernità, dove l’allegoria barocca, con la sua vertiginosa fuga di sequenze analogiche di simboli, si rivela una forza destabilizzante che giunge a incrinare, all’alba del mondo moderno, la fede in un ordine gerarchico e precostituito della realtà. L’allegoria si profila così, ben oltre la sua funzione retorica nel linguaggio, come segno della modernità: essa è infatti intesa da Benjamin quale presa di coscienza dell’impossibilità – se non nella forma dell’ordine artificiale costruito dall’arte – di riconciliare in una totalità sistematica una realtà che si rivela frammentaria e inconciliabile. Tuttavia è proprio in questa scissione originaria, e nella conseguente e infinita interpretazione che ambisce a ripristinare il legame originario tra segno e realtà, che si agitano le forze in grado di portare alla salvezza e alla redenzione.

Il linguaggio di Benjamin tradisce qui l’atmosfera messianica che attraversa tutta la sua riflessione. La redenzione è la possibilità di un istante trascendente, fuori dal tempo, come l’Angelus novus del dipinto di Paul Klee: esso “ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe” (Tesi di filosofia della storia, 9) e tuttavia è spinto verso il futuro da una tempesta che proviene dal paradiso e che costituisce ciò che gli uomini chiamano “progresso”. L’arte è l’ordine creativo e fittizio che si instaura sulle macerie della realtà ma che al contempo, nel rivelarne il caos e la violenza, rende possibile la liberazione di quelle forze che possono emanciparla.

Con L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) Benjamin affronta direttamente il tema dell’arte e dell’esperienza estetica nell’età della tecnica. Alle origini, l’arte è fenomeno cultuale prima che estetico, e il suo valore all’interno delle pratiche religiose sovrasta il valore espositivo, tanto che delle opere artistiche si può dire che “il fatto che esistano è più importante del fatto che vengano viste”. La natura dell’opera artistica è quindi l’hic et nunc (in latino, “qui e ora”), cioè l’irriducibile unicità dell’oggetto: in questo quadro, ad essere cruciale è la distinzione tra originale e copia, a partire da una collocazione spazio-temporale dell’oggetto che stabilisce la differenza di senso e valore tra l’opera e le sue riproduzioni. È quella che Benjamin definisce “aura”, come “apparizione unica di una distanza, per quanto essa possa essere vicina”; cioè quell’alone di unicità, autorevolezza e autenticità che contraddistingue l’opera d’arte nella sua accezione classica.

L’ingresso nell’età moderna, con l’avvento della società di massa e delle profonde trasformazioni indotte dalla tecnica, segna la fine di questo modello e l’annullamento dell’hic et nunc dell’aura nell’infinita riproducibilità resa possibile dall’apparato tecnologico. Se in linea di principio e nel corso della storia l’opera d’arte è sempre stata riproducibile, ora è l’opera stessa che nasce per essere riprodotta ed è l’arte a essere concepita essenzialmente per la fruizione “di massa” e “delle” masse: “l’opera d’arte riprodotta diventa in misura sempre maggiore la riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla riproducibilità”. Esemplare in questo senso è il caso della fotografia, già oggetto della Piccola storia della fotografia (1931) che anticipava, utilizzandoli come strumenti per un discorso su significato e valore della nuova forma espressiva, i princìpi poi analiticamente esposti nell’Opera d’arte: la distruzione dell’aura si manifesta nella prossimità dell’obiettivo fotografico, che supera la sacrale presa di distanza dall’opera necessaria alla suacontemplazione estetica, e nell’infinita riproducibilità, che in questo caso non è prodotta da fattori esterni (le esigenze del ciclo produttivo, della diffusione e divulgazione etc.) ma è insita nella natura stessa della fotografia. La fine dell’opera come hic et nunc e dell’estetica dell’aura impone una ridefinizione dell’arte secondo i nuovi caratteri che essa viene ad assumere con l’ingresso nell’età della tecnica: l’infinita riproducibilità la emancipa dalle sue funzioni sociali, legate a processi di inclusione ed esclusione (l’arte come prodotto per le élites), e ne fa uno specchio dei gusti e delle esigenze delle masse, consentendo di rendere universalmente fruibile e apprezzabile ciò che per definizione si presentava come unico. Ciò comporta il sorgere di nuove modalità di ricezione e fruizione dell’opera, poiché il mutamento quantitativo, scrive Benjamin, si rovescia in mutamento qualitativo: la ricezione estetica avviene ora nella rapidità e nella distrazione (“il pubblico è un esaminatore, ma un esaminatore distratto”), mossa dalla ricerca del contatto diretto più che del distacco contemplativo.

La massa è quindi “una matrice dalla quale attualmente esce rinato ogni comportamento abituale nei confronti delle opere d’arte”, tanto che Benjamin si spinge a prefigurare scenari futuri nei quali la definizione stessa della natura e dei significati dell’opera non implichi il riferimento a valori estetici: “l’opera d’arte diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale”. Di questo rivolgimento Benjamin intravede i segni nel legame profondo che la produzione artistica va intrecciando con una sfera esterna a quella dei valori estetici, cioè la politica. L’“estetizzazione della politica” è infatti lo scopo perseguito dal fascismo, nel quale la politica, intesa come forma di devozione a un duce, riproduce i modi cultuali caratteristici del rapporto con l’opera d’arte dotata di aura; l’apparato tecnologico è qui il passaggio necessario per consentire la nascita del nuovo culto, e ne è un esempio, nota Benjamin, l’esaltazione futurista della “bella guerra” nella quale la forza della tecnica può sprigionarsi in tutta la sua potenza. Alla violenza che la politica esercita sulle masse corrisponde quella della tecnica di cui i regimi di stampo fascista si servono per alimentare il culto dell’uomo forte. A questa estetizzazione della politica – conclude Benjamin - corrisponde specularmente la politicizzazione dell’arte nel comunismo, nei confronti della quale il giudizio di Benjamin, marxista benché eterodosso, appare più sfumato e non privo di speranze per un uso dell’opera d’arte non coercitivo e propagandistico ma emancipativo e progressista. La politica segna drammaticamente anche la biografia del filosofo tedesco: fuggito da Parigi dopo l’invasione nazista, il 25 settembre 1940 cerca di oltrepassare i Pirenei con la speranza di raggiungere il Portogallo e ottenere un visto per gli Stati Uniti, ma le autorità spagnole rifiutano di concedergli il lasciapassare. Gravemente sofferente di cuore e temendo di essere riconsegnato alla polizia francese, nella notte Benjamin si toglie la vita con una forte dose di morfina.

Roberto Limonta