TEMI E PROFILI Jacques Derrida: filosofia e decostruzione

di Maurizio Ferraris

Una psicoanalisi della filosofia

Benché lo abbia sempre negato, il senso del lavoro di Jacques Derrida (1930-2004) va probabilmente cercato in quella che si potrebbe chiamare una “psicoanalisi della filosofia”. Il suo proposito di “decostruzione” consiste nel “mettere sul lettino” una tradizione più che bimillenaria, caratterizzata da un alto concetto di sé – la filosofia si concepisce come un amore disinteressato per la verità –, e nel chiedersi: quali sono le condizioni che stanno alla base di questo amore? Si tratta davvero di un sentimento privo di qualunque motivazione sensibile, di qualsiasi implicazione tecnica, del pur minimo secondo fine? Messa alle strette, la filosofia cercherà di difendersi, ma dei lapsus nascosti tra le righe dei suoi testi ne sveleranno le resistenze, e la verità verrà a galla.

A questo punto, ovviamente, la ritorsione è scontata: anche la decostruzione cerca la verità, dunque non è immune dai vizi, o dalle ipocrisie, della metafisica. Tuttavia, rispetto alla filosofia classica, Derrida sembra essere interessato piuttosto all’alternativa giusto/ingiusto che non a quella vero/falso: se siamo cattivi e ingiusti, egoisti, razzisti, maschilisti ecc. è perché tendiamo a rimuovere troppe cose, animati da un sogno di presenza e di compattezza, di identità morale, sociale e sessuale. La storia della metafisica appare come la vicenda di una battaglia tra il bene e il male di cui per l’appunto si tratta di smascherare i presupposti, e il filosofo, in tutto questo, apparirà come una specie di parente studioso del rivoluzionario.

In questo lavoro di smontaggio si mette in discussione non solo la purezza delle intenzioni della filosofia, ma anche la sua identità, il fatto, cioè, che esista qualcosa come la filosofia “pura”, separata dalla storia, dalle scienze, dai miti, e ovviamente dalle vicissitudini umane. Questa purezza deve rivelarsi per quello che è, un mito; bisogna mostrare che il centro del discorso filosofico non può prescindere dai suoi margini (la retorica, la tecnica), quando non addirittura dal suo contrario (la letteratura, la finzione). Non sorprende, allora, che questa attività di frontiera abbia avuto due risultati concomitanti: da una parte, una larghissima ricezione di Derrida in ambito non filosofico, dalla letteratura comparata alla giurisprudenza, dall’architettura al cinema; dall’altra, il ricorrente attacco secondo cui la sua non sarebbe propriamente filosofia.

Dalla fenomenologia alla grammatologia

Questa concezione critica della filosofia non è un unicum nel Novecento. Basterà pensare alla dialettica negativa di Theodor Adorno e poi di Jürgen Habermas, o alla ripresa del metodo genealogico nietzschiano in Michel Foucault, che ha esercitato una influenza forte e diretta sul giovane Derrida. Tuttavia, la peculiarità dell’approccio derridiano sta nel fare interagire le istanze delle filosofie radicali con la filosofia accademica per eccellenza nella Francia degli anni Cinquanta, la fenomenologia, in parte seguendo il cammino tracciato dal filosofo vietnamita Tran Duc Thao in Fenomenologia e materialismo dialettico (1951).

Nella sua prima opera Il problema della genesi nella filosofia di Husserl (1952-1953) Derrida usa la fenomenologia come grimaldello per superare l’alternativa tra strutturalismo (tendenzialmente idealistico) e storicismo (tendenzialmente materialistico) di cui molto si dibatteva in quegli anni. Attraverso il richiamo a Husserl, che si era misurato con problemi analoghi alla fine dell’Ottocento, Derrida non solo retrodata il dibattito, ma ne suggerisce la soluzione: fra storia e struttura c’è complementarità e non opposizione, l’una richiama l’altra, perché le strutture ideali non sono cadute dal cielo, hanno una origine a cui tuttavia non possono venire ridotte, non più di quanto si possa risolvere la logica nella psicologia.

Nell’introduzione alla traduzione francese della Origine della geometria di Husserl (1962), Derrida affronta di petto l’alternativa fra storia e struttura, esaminata sotto il profilo della storia di una scienza pura. In geometria, l’idealismo pare obbligato: saremmo disposti ad ammettere che “ogni triangolo equilatero è equian-golo” è una verità dello stesso tipo di “Cesare ha attraversato il Rubicone”? La verità geometrica sembra completamente indipendente da qualsiasi condizione di fatto: il teorema di Pitagora sarebbe vero anche se Pitagora non fosse mai esistito, e se nessuno lo avesse scoperto. Eppure, osserva Derrida, proprio un filosofo idealista come Husserl ha rivisto a fondo questa concezione. Certo, il teo-rema di Pitagora non si identifica con il suo scopritore. Ma che ci sia un ente ideale e non contingente come il teorema di Pitagora dipende proprio dal fatto che un ente reale e contingente come Pitagora sia esistito; se poi Pitagora avesse subito dimenticato la sua scoperta, questa sarebbe sprofondata nel nulla; e se non l’avesse comunicata a qualcun altro, attraverso il linguaggio, sarebbe scomparsa con lui; affinché poi la scoperta non rimanesse confinata nel perimetro della comunità originaria, fu necessario che venisse scritta.

Paradossalmente, ma non troppo, dunque, la condizione della idealità sembra risiedere in qualcosa di materiale, come per l’appunto la scrittura. In La voce e il fenomeno (1967), il testo che segna il distacco di Derrida dalla fenomenologia, egli generalizza questa intuizione: senza la scrittura, senza tracce, memorie, segni e marchi in generale, non ci sarebbe non solo la storia, ma nemmeno la struttura, l’idea. Anche perché, in buona sostanza, ciò che si chiama “struttura” o, kantianamente, “trascendentale”, condizione di possibilità della conoscenza, è in ultima istanza una scrittura. È questo il tema affrontato, sempre nel 1967, con la Grammatologia: le categorie che, secondo Kant, mediano il nostro rapporto con il mondo sono trasposte da Derrida nella nozione di “archiscrittura”, che riassume la funzione della scrittura che abbiamo precisato sin qui. Anche qui, tuttavia, Derrida manifesta scarsi interessi sistematici. Diversamente dalla semiotica generale che si sviluppa in quegli stessi anni, la grammatologia è meno interessata a mostrare il ruolo dei segni nella costruzione della realtà sociale che non a sottolineare come questo ruolo sia soggetto – nella tradizione filosofica così come nella vita quotidiana – a una sistematica rimozione. Derrida chiama “logocentrismo” questa rimozione, che sembra coincidere con il destino della metafisica da Platone a Nietzsche: il fatto che la materia, il segno, gli strumenti della trasmissione e della conservazione scompaiano di fronte all’idea, al significato e allo spirito.

Derrida giunge dunque a quella che potremmo chiamare una “critica della ragione impura”: il filosofo deve guarire se stesso e la propria disciplina da un sogno di purezza e di compattezza che si rivela limitato e totalitario.

Decostruzione e differenza

Attraverso le sue analisi, Derrida giunge dunque a quella che potremmo chiamare una “critica della ragione impura”: il filosofo deve guarire se stesso e la propria disciplina da un sogno di purezza e di compattezza che si rivela limitato e totalitario. In questo quadro, non sorprenderà che la nozione fondamentale della filosofia di Derrida sia, come abbiamo anticipato, la “decostruzione”. Il termine, adottato da Derrida nel 1967, si presenta come una ripresa della nozione di Destruktion o di Abbau che Heidegger aveva introdotto quarant’anni prima, in riferimento alla storia della metafisica (l’idea era di “desedimentare” o mobilitare concetti ereditati, e diventati inerti, per restituirli al loro significato vivente). Per Derrida la decostruzione vuole tuttavia accentuare un aspetto costruttivo. L’idea di Derrida, infatti, è che la decostruzione è immediatamente costruzione di qualcosa di diverso.

Ciò è possibile, per l’appunto, perché la sfera di riferimento di Derrida è pratica prima che teorica. Si può dimostrare che una teoria è falsa senza perciò disporre di una verità alternativa, ma non si può criticare una forma di vita senza proporne, almeno implicitamente, un’altra. Tuttavia, l’idea di “decostruzione” vuole essere più che una semplice sostituzione di valori. L’idea di fondo è che i valori sono sempre relazionali: non c’è bianco senza nero, centro senza periferia, figura senza sfondo, e dunque anche giusto senza ingiusto (normalmente identificato con il diverso, l’altro, l’estraneo). Ora, la decostruzione deve in primo luogo portare alla luce questa relazionalità, il fatto che un termine non può esistere senza l’altro proprio come, nella dialettica di Hegel, il signore non esiste senza lo schiavo, o l’identità senza differenza, e dunque in ultima istanza ne dipende. La differenza è dunque implicazione, complicità nascosta. È l’intuizione che sta alla base della logica di Hegel: basta introdurre la temporalità, e le opposizioni (tra vita e morte, giorno e notte, natura e cultura, natura e tecnica ecc.) si trasformano in complementarità.

Questo è il motivo per cui Derrida ribattezza différance, con la “a”, la differenza. In francese, “differenza”, il fatto che due cose siano differenti, si scrive différence, con la “e”. Anche se le due parole sono omofone, il neologismo, che sembra un errore di grammatica, trasforma la différence seguendo le leggi di formazione del gerundio francese, così che il termine viene a indicare, al contempo, la differenza e l’atto del differire, del rinviare. L’alterazione ortografica esprime in modo economico il pensiero di Derrida: le coppie oppositive che fanno parte della nostra vita non esistono autonomamente ma, per l’appunto, l’una in relazione all’altra, e il tempo è chiamato a mostrare la complicità che sta sotto l’opposizione. Bisogna concluderne che tutto è relativo? Niente affatto. Piuttosto, che niente è definitivo, e che – diversamente che nella dialettica hegeliana – non si arriverà mai al sapere assoluto e all’ultima parola.