Primo frammento autobiografico1

Vorrei, in connessione con ricordi precedenti, porre per iscritto i risultati della mia autosservazione a partire dall’inizio della mia malattia mentale nel mese di novembre 1918, perché possano essere d’aiuto come materiale, da un lato, al medico, dall’altro, a eventuali compagni di sofferenza.

Sono stato malato di tifo nel mio sesto anno d’età, se ricordo bene solo per sei settimane e non in modo particolarmente grave, affidato alle cure del dottor Eduard Cohen, allora molto famoso (e che ebbe in seguito in cura, per breve periodo, Bismarck). Da quell’epoca ho conservato le immagini fantastiche provocate dalla febbre con tale chiarezza, che mi appaiono alla memoria come se vi fossero state impresse ieri, associate a sensazioni olfattive, che mi fanno soffrire da allora una tormentosa sovraeccitabilità degli organi dell’olfatto. Così ancora oggi so quale odore avesse la pistola giocattolo che tenevo in mano, quale la tazza di brodo e il brodo che vi era dentro, e anche quali fossero l’aspetto e l’odore della lana che l’anziana governante usava per lavorare a maglia, a cagione della quale ancora oggi ho una accentuata idiosincrasia contro un certo tipo di giallo. In questo periodo del delirio febbrile ebbi anche visioni di una piccola carrozza con cavalli che procedeva sul davanzale di una finestra, un ricordo derivato, mi resi conto più tardi, da una illustrazione in un’opera di Balzac su cui da piccolo cercavo sempre di mettere le mani, senza comprendere il testo2. A quest’epoca risale la paura, provocata da ricordi visivi o stimoli degli organi dell’olfatto e dell’udito sproporzionati e sconnessi, l’ansia evocata dal caos, e il tentativo di portare intellettualmente ordine in questo caos – un tentativo che si può designare in generale come il tragico tentativo infantile dell’uomo pensante – iniziato dunque molto presto e di gran lunga troppo presto per la mia costituzione nervosa. Da quest’epoca del tifo, che mi è particolarmente penoso ricordare, anche perché la crescita inquieta si lasciò dietro l’inclinazione a imprevedibili scatti d’ira, il mio processo di crescita naturale è stato stravolto a tal punto che, per mia sfortuna, l’intelletto mi si sviluppò velocemente e a scuola mi fecero saltare due volte metà anno, per compensare l’inizio ritardato di un anno a causa del tifo. All’asilo avevo già, senza poterlo confessare, fobie febbrili, per così dire, nella veglia e senza temperatura, che erano in parte connesse a memorie olfattive. Posso dire ancor oggi quale fosse l’odore di certi studenti e, soprattutto, l’odore dell’intera classe. Uno, Ernst Mayer, morì di scarlattina, e non ho potuto dimenticare fino a oggi questo mio piccolo collega. L’improvvisa irruzione della morte mi colpì come un accadimento orribile e come l’effetto di un ambiente, come potenza demoniaca che si esprime nel dominio illogico di colori, odori e suoni. Il delirio febbrile appunto isola ed enfatizza l’immagine mnemonica, che ci sta improvvisamente di fronte nella sua sfrenata potenza individuale. Solo che la paura supplisce e complementa in modo terrificante, mentre, in una vita reale, è la comunità normale a intervenire e a porre ordine3. Una circostanza particolare è che la mia fiducia nella vita, già fragile a causa della febbre tifoide, venne ulteriormente danneggiata in anni precoci.

Ho imparato a leggere molto presto, prima della scuola: cercavo di apprendere le lettere contro il desiderio dei genitori e della nostra vecchia Franziska4 ed ero un così avido spigolatore, che un giorno non mi si trovava in casa, perché in una camera da letto cercavo, con la testa nell’armadio, di leggere la carta di giornale usata per foderarlo.

Sfortuna volle che mi capitasse in mano, con questa capacità di leggere, un orribile libro per bambini, all’epoca molto in auge. Era opera dell’allora molto famoso Wildermuth e aveva come titolo: Una strana scuola. Mi resi conto più tardi che non era altro che una traduzione dell’Oliver Twist di Dickens. Tutta l’atrocità del riformatorio inglese di allora mi si impresse nella memoria con le sue illustrazioni, come le potenze in agguato di un mondo satanico a mala pena velato. Ancora oggi so come Mr Morton derubasse i bambini e poi li minacciasse di tagliar loro le orecchie e simili furfanterie. A questo serbatoio limaccioso il mio ancora terribile delirio attinse ricordi supplementari (associazioni stimolate da nuove impressioni), dapprima senza parlarne a nessuno o chiedere consiglio. Conseguenza ne fu, per esempio, che io nei primi due anni presi un signore che ci osservava regolarmente dopo la scuola, per un Mr Morton in agguato. Egli si rivelò più tardi il nostro eccellente preside Friedländer, a cui devo anzi, al contrario, il coraggio di lottare contro il caos nella sua lezione di storia, in prima. Insegnava storia (uno studente di Nitzsch)5 già alla maniera di Lamprecht a Lipsia.

Dopo la sesta fui separato da mio fratello Max, saltai avanti mezz’anno e persi di conseguenza la familiarità faticosamente acquisita con il resto della classe. Mi dovetti abituare da capo a nuovi ragazzi, che si erano già adattati l’uno all’altro. Quando a fatica finalmente vi riuscii, venni di nuovo trasferito dalla quinta alla quarta a metà anno. Nella quinta mi è accaduto qualcosa di banale, ma per me decisamente tragico. Sono stato bacchettato violentemente sulle dita, senza alcun motivo, da un teologo antisemita con un righello profilato di ferro. Proteste da parte di mia madre impedirono che simili attacchi si ripetessero, anche se il candidato Walter si riservò il diritto di continuare a castigare come un padre severo. Nella quarta mi accolse un tipo vecchio e logoro, che amava distribuire schiaffi, ma non così raffinatamente perverso, di nome Liverts. In mezzo a questi dodicenni, capaci delle più efferate malizie, non riuscii a farmi rispettare, così naufragai di nuovo, al terzo tentativo di inserirmi nel processo di crescita di una massa già ordinata, soprattutto perché l’insegnante non aveva il minimo interesse a rendermi più facile l’adattamento. Dovevo lavorare fino a tarda sera, mi immalinconii e un giorno caddi in preda al pensiero di essere stato morso da un cane rabbioso, senza che vi fosse oggettivamente alcun motivo per pensarlo, e di dover morire di idrofobia con conseguente delirio. Mi tormentai per settimane in tal modo in una disperazione senza via d’uscita, finché la nostra Franziska non ne rivelò il motivo, e il dottor Cohen mi fece ritirare temporaneamente dalla scuola, mi pose sotto cura di bromuro e mi fece quindi di nuovo saltare in quinta.