Secondo frammento autobiografico1

La teologia medievale distingue, com’è noto, la condizione dell’uomo secondo tre epoche culturali, prima del Vecchio Testamento, sotto il Vecchio Testamento, e sotto il Nuovo Testamento, e pone questi periodi sotto le parole d’ordine della signoria della natura, della legge e della grazia, sub natura, sub lege, sub gratia. Da adolescente ho dovuto attraversare tutte queste epoche, se si aggiunge come quarta l’epoca della fede nella legge, immanente alla natura, della concezione scientifica del mondo. Ho passato gli anni dai tredici ai diciotto in un liceo scientifico [Realgymnasium] all’epoca della fioritura del darwinismo. Allo stesso tempo entrò in marcato contrasto con esso la concezione religiosa della mia famiglia di parte paterna, di fede rigorosamente ebraica ortodossa, che all’uomo, nel suo intimo inconsciamente religioso, non permetteva altro che ciò che gli riusciva di strappare, ogni giorno di nuovo, attraverso l’azione esterna, a un dio nemico. Questo soggiogamento della libera umanità era intollerabile, da un lato, dal punto di vista della scienza naturale di allora e, ‹dall’altro›, da quello della storia spirituale tedesca, che aveva raggiunto il suo apice, nella lotta per l’emancipazione delle coscienze, all’epoca della Riforma, finché a Marburgo gli spiriti non si separarono, con tragiche conseguenze per l’Europa2. La filosofia di Hegel3, alla quale ero già stato introdotto da un amico4 quando avevo all’incirca sedici anni, ‹mi indusse inoltre› a credere all’immanenza5 della legge, ‹così› che lasciai il liceo da evoluzionista fiducioso nel progresso. Poiché volevo studiare storia dell’arte, dovetti passare un secondo esame di maturità al liceo classico dello Johanneum. Mi fu imposto di superare, dopo un solo anno, un esame di greco così severo che ‹dovetti eseguire una traduzione dal tedesco al greco senza› errori, e la dovetti perfino scrivere mentre in classe la lezione andava avanti, un esame concepito come una trappola e che doveva essere consegnato senza errori di forma, altrimenti sarei stato bocciato. Ho passato l’esame grazie alla rigida guida di un insegnante, il professor Bintz6, che risparmiava se stesso altrettanto poco dei suoi studenti, e mi costringeva dopo una giornata di studio di otto ore a questo inaudito, logorante lavoro7. Benché la soddisfazione per aver superato l’ostacolo mi sollevasse e sostenesse moralmente, soffersi in quell’occasione un trauma del mio sistema nervoso dal quale non mi sono più ripreso. La paura dell’esame, in questo periodo liceale di un anno e mezzo, ha naturalmente rafforzato la mia tendenza alla fantasticheria fobica8 in maniera così decisiva che a essa si deve se la catena delle mie fobie si è ancorata lì e ha, allo stesso tempo, guardato alla scienza come a un mezzo di emancipazione. All’università mi sono, per la prima volta, conquistato una libertà completa, perché mio padre mi permise di abbandonare la ‹alimentazione›9 ortodossa, ma solamente dopo che io, per disperazione a causa della forzata frequentazione di compagni poco congeniali, ero di nuovo caduto in uno stato malinconico, dominato dall’idea fissa di avere una testa di Giano. Ora finalmente mi fu dato di godere la libertà dello studente con i miei amici amburghesi, e dal mio amico Hertz, purtroppo morto troppo precocemente, che sarebbe più tardi divenuto mio cognato, e da sua sorella, la mia cara moglie, mi fu mostrato con infinito amore e pazienza il mondo sub gratia e sub natura, se anche voleva velarsi di fronte al mio sguardo turbato.