Madre Inge

Come un maiale nel trogolo
Un monastero nei pressi di Dresda, XVIII secolo

A madre Inge la Gloria di Dio non faceva paura, la sua unica paura era che lui non tornasse più.

Raggiunse la collinetta dietro le mura e si lasciò cadere a faccia in giù, le gambe divaricate sul terreno gelato, le braccia spalancate a cingere il nulla, le pietre.

Ma non era abbastanza.

Urlò, madre Inge, con tutto il fiato che aveva in corpo. Urlò, ancora e ancora.

Ma non era abbastanza.

Allora cominciò a strappare l’erba, andando a fondo finché piccoli frammenti di legno e minuscole pietruzze non le entrarono sotto le unghie, spezzandogliele.

Ma non era abbastanza.

Così morse la terra, grufolando come un maiale nel trogolo.

Lui era andato via, di nuovo, l’aveva abbandonata, e la carne non trovava pace.

A nulla erano serviti i suoi tranelli. Neppure la piccola Trude, dalle grazie acerbe e la lingua di veggente, aveva fermato il barone. Il barone von Tintenfisch, l’uomo per il quale madre Inge smaniava, il maschio possente che la faceva sentire viva.

Se lui non era lì con lei, perché vivere?

«Perché?» urlò Inge Ursula Wilhelmina von Kreuzer.

Von Tintenfisch era partito, ancora una volta, senza una spiegazione e lei si sentiva morire, ma allora anche la piccola Trude sarebbe morta: ecco l’idea, ecco la vendetta.

Si alzò in piedi e assestò bene il velo che le ammantava completamente testa e spalle, scoprendo solo il pallido contorno del viso segnato da una cicatrice e da un neo scuro e irregolare come un pezzo di tabacco bruciato. Passò più volte le mani aperte e ferite sulla stoffa della veste, in modo da spazzarne via la terra. Una volta rientrata doveva apparire impeccabile.

Le monache, naturalmente, sapevano delle sue crisi, sapevano e subivano, perché non c’era una sola tra loro che non avesse crisi di qualche tipo, debolezze di qualche genere, o qualche sorta di manchevolezza. Erano un gruppo di femmine in balia dell’irrazionale; dentro la riprovevole colpa, fuori l’irreprensibile amor di Dio. Ma la forma doveva essere mantenuta, le vesti ripulite, la persona lavata, gli orari rispettati. Ciò che teneva in piedi il monastero era il carapace di un crostaceo: dentro le carni molli e corrotte, fuori la corazza delle consuetudini, la crosta dura delle convenzioni, l’armatura delle tradizioni inamovibili.

Madre Inge respirò a fondo l’aria gelida della sera. Si era alzato il vento, raffiche disordinate spostavano il suo velo facendolo schioccare sinistro.

Non c’era tempo da perdere.

Trude doveva morire. Per due ragioni: punizione e vendetta, ma soprattutto quest’ultima: perché uccidere Trude le avrebbe dato il sollievo della rivalsa, già pregustava il volto del suo padrone impallidire quando lei gli avrebbe comunicato la notizia, quando fosse tornato, se fosse tornato… Ma certo che sarebbe tornato, non per rivedere lei, ma per rivedere e toccare Trude, la bambina che lui aveva marchiato prima con il suo nome e poi con il ferro ritorto a forma di aquila a due teste. La piccola sgualdrina! E allora Inge avrebbe goduto dello spettacolo del suo sconcerto, del suo dolore, della sua definitiva, conclusiva, impotenza. Una morta non dice, un cadavere non profetizza, basta con le buffonate, con le orge di parole e di carne, sarebbe finita con gli accoppiamenti promiscui, disordinati.

Poi certo lui l’avrebbe punita come responsabile – non dell’omicidio, che quello non l’avrebbe confessato neanche sotto supplizio – ma della trascuratezza nel badare alla piccola preziosa sorella. Preziosa, poi… A ben vedere tutte le profezie erano invenzioni di Inge stessa, era lei a miscelare le erbe allucinogene, era lei che guidava la mano di Trude, sul foglio di carta, sulla pelle di Tintenfisch, sul suo cazzo scuro e annoiato da tutto, tranne che dalla piccola puttanella. Era ora di finirla, un guizzo d’orgoglio le illuminò lo sguardo, d’ora in poi sarebbe stata lei l’artefice del suo destino. Se fosse stato necessario, avrebbe anche pregato, perché no?

Raggiunse l’ingresso secondario che dall’orto portava alle dispense e dalle dispense alle cucine. Entrò furtiva nella stanza dove si facevano essiccare le erbe, cercò nella borsa attaccata alla cintura la chiave che dava accesso alla farmacia, accese una candela, aprì un cassetto e scelse rapida alcune radici. Un rumore improvviso la interruppe, qualcuno tossiva.

«Chi è là?» chiese.

«Sono sorella Theresa, perdoni l’intromissione, reverendissima madre, ho sentito dei rumori nella farmacia e… ho temuto il peggio» spiegò accorata la vecchia monaca guardiana.

«Di quale peggio vai parlando, sorella?»

«Il demonio».

«No, non è il demonio» rispose la reverenda madre, nascondendo sotto il velo il fagotto di radici, «sono io».

Un regalo, Trude si sarebbe fatta un regalo: avrebbe messo fine a tutte le sue sofferenze.

Uscì dalla sua cella e raggiunse l’orto dei semplici dietro la cinta di ponente, una volta entrata nel quadrato di terra delimitato dalle alte mura di pietra si tolse gli zoccoli, raccolse le vesti nel grembo e scoprì le gambe. Annusò l’aria e, per un momento, il profumo fresco della menta la distrasse dalla morsa di rabbia che chiudeva il suo costato, impedendole di respirare.

Il sole era appena tramontato e la linea dell’orizzonte si apriva rossa, ambra e verde come nella pala dell’altare maggiore dove gli angeli estatici, attraverso quel varco di luce, sembravano arrivare vomitati da altri mondi e rotolavano verso il basso ai lati della croce. Quante volte Trude aveva inutilmente rivolto il suo viso in preghiera al Cristo inchiodato e seminudo dell’altare maggiore? Quante volte aveva invano piegato le ginocchia e giunto le mani smaniando il conforto nel figlio di Dio? Sterili erano state le sue invocazioni, arida la terra che aveva accolto il seme della sua supplica.

Il tempo dei dubbi era esaurito, adesso non restava che la morte, solo il coraggio mancava.

Aveva nascosto tra la paglia del materasso un coltello sottratto alle cucine, ne aveva modificato lei stessa la lama utilizzando le pietre più dure del muro esterno unte con l’olio santo rubato all’altare. Di quel povero coltello Trude prima ne aveva fatto una daga dalla lama a doppio taglio in grado di fendere da entrambi i lati, poi ne aveva spezzato irregolarmente il filo, in modo da straziare la carne e procurare maggior dolore a chi avesse assaggiato il suo morso. Seguendo la tradizione dei cacciatori del suo villaggio, si era incisa la punta del dito medio, poiché nessun coltello poteva appartenere a qualcuno fino a quando la sua lama non avesse avuto un assaggio del sangue e dell’anima di chi lo avrebbe impugnato nella caccia o nella battaglia.

Tutto era pronto, il tempo dei dubbi era finito, non restava che la morte. Solo il coraggio mancava, per trovarlo si rivolse prima alla Terra per arrivare al Cielo. Raccolse e frantumò tra i polpastrelli alcune foglie di rosmarino, alloro e ortica, inspirò profondamente e cominciò a invocare soffiando:

«Cherubini, voi che sedete oltre il trono di Dio, guardiani della luce e delle stelle, voi dalle quattro ali e dalle quattro facce, proteggete la mia anima e voi Serafini dalle sei ali, guardiani del seggio divino, che cantate di Dio le sue lodi: Santo, Santo, Santo è il Signore degli eserciti. Tutta la Terra è piena della sua Gloria, voi che siete i miei custodi ed emanate luce insostenibile all’occhio umano rischiaratemi il cuore, che io sia più luminosa di Lucifero, riunite in me la Terra e il Cielo e donatemi il coraggio di vincere i miei persecutori».

Chiuse gli occhi e vide il suo ingresso nella navata: madre Inge inginocchiata di schiena, il freddo che interrompeva il fiato, l’odore d’incenso e muffa, i suoi passi leggeri e svelti, la voglia di uccidere, la voglia di uccidere, la voglia di uccidere che partiva dal cuore e arrivava al braccio, si diffondeva nella mano, armava le dita, faceva crepitare i polpastrelli e si condensava definitiva e micidiale nel coltello, il fendente deciso nelle carni di madre Inge. La lama che sale verso l’alto e poi scende verso il basso, una due tre volte, la vibrazione nel suo fragile polso, le carni lacerate, le ossa frantumate e la gioia che sgorga nel petto insieme ai fiotti di sangue del mostro, gioia, sangue, urla, sorpresa, il mostro si divincola torcendosi nell’inutile tentativo di portare la mano alla schiena, gli occhi del drago rosso amaranto come tizzoni si puntano nei suoi e lei che finalmente canta, Trude canta:

«Santo, Santo, Santo è il Signore degli eserciti. Tutta la Terra è piena della tua Gloria…»

Le parole si spezzarono in gola, un dolore lancinante al basso ventre la fece piegare in avanti e chiudersi come un girasole al tramonto sulla terra insanguinata mentre il pugnale le cadeva dalle mani.

Dalla feritoia madre Inge osservò con compiacimento la mistura allucinatoria e fatale di erbe da lei preparata fare l’effetto previsto.

Trude moriva.

Fedora

La storia che vi racconto coinvolge ricchi e poveri, malati e in salute, menti eccelse e cervelli angusti, re, pedoni, alfieri e cavalli; uomini e donne che si svegliano tra croccanti lenzuola di lino e altri che, aprendo gli occhi, trovano il cadavere del figlioletto morto di fame. Prima di questa ho vissuto molte vite, la mia e quelle di coloro che mi hanno preceduta, è di queste vite che vi voglio parlare, narrandovi la guerra silenziosa tra Mammona7 e Lucifero,8 due demoni per la credenza popolare, in verità due modi lontanissimi di intendere il senso dell’esistere: Mammona mosso dalla fredda avidità, e Lucifero portatore di luce, scintilla che pone fine alla Notte e scatena il Giorno della consapevolezza per tutti, come il sole che non può scegliere chi illuminare.

Io di Lucifero sono la figlia.

Faccio parte di una catena di sapienza, la nostra è vicenda di maghi, guaritori, guitti, fattucchiere e cortigiane. Abbiamo nutrito la vita degli esseri umani distraendoli dal dolore. Il più grande di noi fu il conte di Saint-Germain,9 nelle mie vene scorre il suo sangue, sangue potente, sangue invincibile; sangue non diverso da quello che scorreva nelle vene del maestro Jean-Marie Leclair: musico, danzatore, compositore, uomo eccellentissimo. Ma con un difetto: era pazzamente innamorato di sua moglie Marie-Rose. Un difetto, questo, che noi Figli di Lucifero abbiamo pagato caro.