«Jean-Marie,10 perché hai portato con te il violino?» osservò sua moglie Marie-Rose,11 «tu non suonerai stasera, lo sai bene, in questa corte sei pagato per danzare, Fiorè12 è invidioso, si opporrà all’esecuzione della tua musica, è lui il maestro di cappella».
Jean-Marie Leclair tacque, tormentando i piccoli calli da violinista sulle punte delle dita.
«Jean-Marie, rispondi, per favore» implorò Marie-Rose, «e basta! Non straziarti le mani, ti prego…»
Marie-Rose Casthanie, la bella sposa di Jean-Marie Leclair, era magra, da qualche tempo magrissima, il suo incarnato aveva il colore di chi non gode più del favore degli dèi, Marie-Rose cominciava a sentire il peso della propria anima e ragionava ormai su se stessa, con gli occhi che guardavano dentro, come quando era incinta, ma con ben altro spirito: aveva nascosto troppe pezzuole sporche di sangue, dopo ogni colpo di tosse. Comunque, il colore della morte sarebbe sparito sotto il trucco, si disse Marie-Rose, e gli dèi forse l’avevano abbandonata, ma non Jean-Marie, suo sposo, che ancora una volta sarebbe stato con lei sul palcoscenico, danzando di fronte al re.
«Jean-Marie, per l’amore di Dio, parla».
«Vorrei far ascoltare la mia chaconne al re» si decise finalmente a rispondere lui, «tutto qui, vorrei suonarla e danzarla».
Il colpo di un pugno sul tavolaccio li interruppe:
«Leclair, non sentite che il mio prélude sta finendo e siete di scena voi?» sibilò il maestro di cappella Fiorè spuntando dall’oscurità, «e quanto alla vostra chaconne, dovrete farla ascoltare prima a me perché io possa avere la certezza che non offenda le orecchie di sua maestà».
Quella sera, dopo Le Ballet d’Apollon et Daphné, Vittorio Amedeo II invitò musici e danzatori a una festa nelle sale del palazzo reale. Dal Regio Teatro, per accedere a palazzo, si passava attraverso i lunghi corridoi interni che collegavano i due edifici. I corridoi erano stretti e illuminati dalle candele; chi li percorreva sentiva oppressione e calore. Gli artisti, ipersensibili, come il loro mestiere richiedeva, provavano una sensazione di disagio, e allo stesso tempo di piacere, sapendo di essere in procinto di arrivare al cibo e al vino di sua maestà. Andrea Stefano Fiorè procedeva tracotante con l’intento di mostrare la propria familiarità con quegli spazi, dietro a lui avanzavano incerti gli dèi, le ninfe e i pastori, semplici uomini e donne la cui urgenza massima era azzannare la carne arrostita delle reali cucine. Solo Dafne scalza procedeva diritta e fiera; Marie-Rose, che l’aveva interpretata, sentiva l’umidità del cotto attraverso le piante dei piedi, solo un anno prima si sarebbe preoccupata di un eventuale malanno, ma adesso sapeva che la sua salute era definitivamente compromessa. A differenza della metamorfosi che nel mito avrebbe portato la ninfa a scaturire dalla terra come una pianta di alloro, Marie-Rose si era rassegnata al fatto che il suo corpo, presto, sarebbe diventato nutrimento per quella terra; mentre Apollo non cessava di preoccuparsi con sollecitudine della moglie, tentando di persuaderla a indossare uno scialle di lana prelevato dal camerino, ma Marie-Rose si sottraeva, non si era mai vista una ninfa avvolta in uno scialle di lana.
Entrati nella sala delle feste, i ballerini si calarono sul viso le maschere a forma di testa di cavallo e i musici attaccarono, improvvisando una pantomime sulla sarabande del maestro di cappella Fiorè che, insoddisfatto dell’esecuzione, si scusò con il re: «Mi spiace, maestà, gli artisti sono distratti».
Il re guardava le movenze dei danzatori, cavalli che saltavano e volteggiavano, una danza che per il vino e la festa stava perdendo di grazia, ma acquistava di forza ed eros: Vittorio Amedeo, ormai ebbro, ne era attratto.
Poi, a causa del vino, del calore dei corpi, della mancanza d’aria, consumata dalle centinaia di candele, il primo violino, sfinito, crollò a terra nel mezzo dell’esecuzione.
«Continuate, continuate» strillò invano Andrea Fiorè, livido per la rabbia.
Fu allora che Jean-Marie Leclair prese il suo violino e principiò a suonare la sarabande del maestro Fiorè proprio dal punto in cui si era interrotta.
Alla cadenza finale, Marie-Rose prese la parola:
«Maestro Fiorè, dovete un favore a mio marito, lui vi ha aiutato a far ascoltare al mondo la vostra sarabande, la vostra splendida sarabande! Immagino vogliate ora intercedere presso sua maestà affinché il signor Leclair, mio sposo, possa eseguire la sua chaconne».
«Il signor Jean-Marie Leclair è iscritto al mio libro paga per ballare, madame. Se vuole toccare il violino alla presenza del suo re, lo faccia, ma danzando!»
Fu allora che Jean-Marie Leclair, sempre calzando la maschera dorata a forma di testa di cavallo, raggiunse il centro della sala. La maschera era bellissima, cuoio e gesso, ricoperta di preziosa foglia d’oro, le narici volitive prendevano vita, il cavallo era prepotente, orgoglioso e forte. Il cavallo cantava con la voce del violino.
Vittorio Amedeo era ubriaco. I primi giri armonici esaltarono l’effetto del vino e trascinarono il re giù, nel profondo. Sua maestà vedeva il cavallo con la testa d’oro dominare la scena, dominare la musica, dominare la sua corte, forse il mondo.
Così venne la paura.
Il re posseduto da Bacco, con gli occhi sgranati, balbettò:
«È venuto il tempo del grande ravvedimento. È venuto il tempo del grande ravvedimento» sbraitò quindi, a voce alta.
Jean-Marie Leclair smise di suonare.
Andrea Fiorè sorrise cattivo, si fece avanti: «In effetti non è una buona composiz…»
Sua maestà cominciò a declamare:
«È venuto il tempo del grande ravvedimento, noi potenti proveremo l’angoscia del soldato che affronta la guerra dei mondi» latrò cavandosi la parrucca dalla testa, «un puledro dorato galopperà e il suono dei suoi zoccoli farà sorgere re e regine in moltitudine, tanti quanti sono i figli della Terra: allora la mia corona sarà recisa dal capo e un puledro dorato galopperà…» singhiozzò il re, colpendo con le mani Leclair sulla maschera, una, due, tre volte, «servi! Uccidete il puledro dorato!» comandò.
Allora Marie-Rose prese coraggio e si avvicinò al re.
«Maestà» disse dolcemente, «maestà, lui è il vostro umile servitore, Jean-Marie Leclair, che suona per voi, vi serve con la sua arte! Il puledro dorato, maestà, è solo un travestimento» lo tranquillizzò, levando la maschera dalla testa del marito.
Poi venne la tosse.
Poi lo sbocco di sangue.
Marie-Rose Casthanie si accasciò ai piedi del re.
Moriva, Marie-Rose.
Jean-Marie Leclair non si sarebbe mai più ripreso e l’amò sempre, fino al giorno della sua stessa morte.