La Gloria di Dio e della famiglia

Camerino, notte di Natale del 1756

Qui mi ci ha portato padre Massimo; mi diceva che potevo guadagnare soldi per la Gloria di Dio e per la fame della mia famiglia. Mi ha sentito una sera: mio padre mi ha detto canta e io canto; così sono tutti buoni con me e mamma non mi deve difendere e non piglio botte. Così canto, canto in chiesa, perché io canto bene.

A casa faccio schifo, a casa, a lavorare con le bestie e con la terra, che piglio botte da tutti dai miei fratelli, da mia sorella e da mia madre tanti disastri faccio. Papà non mi fa niente perché dice che sono un angelo con ’sta voce e che angelo lo diventerò per la Gloria di Dio e della famiglia.

Qui, io canto.

Qui, nella chiesa di San Venanzio Martire.15

C’è l’organo e mi fa paura quando padre Massimo tira tutte le leve, è forte, fortissimo e mi fa paura ma mi piace pure perché tutto vibra e tutti mi guardano perché aspettano la mia voce dopo l’introduzione del Gloria, aspettano il mio canto; e mi guardano: mica pregano, no, aspettano me non Gesù Bambino ma la mia voce.

Respiro e poi non penso più; padre Massimo è sempre incazzato perché non lo guardo per l’attacco, ma chi se ne fotte io quando sento che devo cantare respiro e non penso più, respiro l’incenso, la polvere del legno dell’organo, respiro il freddo.

E poi stanotte è Natale e mio padre mi ha detto che c’è uno importante che è venuto per me, mica per Gesù ma per me!

Così canto. E lo vedo l’angelo, lo vedo sempre quando la voce sale, mi guarda ma non mi sorride mai; forse una volta era un bambino come me e poi è diventato di pietra e l’hanno messo là in alto. Mi guarda perché lui è geloso della mia voce, lui è muto, immobile e geloso della mia faccia che è anche più bella della sua: mentre canto la cadenza del Gloria il vero angelo sono io e tutti lo sanno stanotte anche il Principe di San Severo lo sa e mi guarda.

Padre Massimo mi dà due soldi non mi aveva mai sorriso, ora lo fa e mi parla pure.

«Stasera sei piaciuto al principe».

Io ho fame, che m’importa del principe, voglio quel pane con l’uva che mi ha promesso e che tiene in mano. Mi sorride stanotte; ’sto minchione sorride, l’altro giorno mi piglia a sberle perché dice che sbaglio la nota puntata, dice che non sono due crome, ma una croma un punto e una semicroma, che è come saltare non come camminare, perché se cammino i passi sono uguali nel ritmo ma se saltello un passo sarà più corto e l’altro più lungo. Io l’avevo capito e glielo stavo dicendo ma lui prima di farmi parlare mi piglia a sberle; per la Gloria di Dio, dice il minchione che ora mi sorride.

«Saluta il principe» strilla ancora con la voce sempre più acuta. Io mangio il pane con l’uva e lui me lo toglie dalle mani, ma non mi mena. Mastico ed è buono.

Uno che sembra un tacchino basso come mio fratello Matteo vicino al principe parla a mio padre, mamma mi guarda, anche il principe mi guarda.

«Venanzio deve studiare, studiare la musica, il canto» dice il tacchino.

Il principe non muove un muscolo del viso, mi guarda, si gira e se ne esce.

«Saluta il principe» strilla padre Massimo.

Io ho fame.

I miei fratelli sono zitti, mamma mi sorride strana, papà parla con il tacchino, io mi ripiglio il pane lo do ai miei fratelli che non lo vogliono.

«Che ’mbecilli, è bòno».

Si fanno indietro e mi guardano strani anche loro.

Per me sono gelosi.

Padre Massimo mi accarezza la testa io mi sposto.

«Teoria poca e non ha mai toccato la spinetta e neanche il violino».

Il tacchino mi guarda ora con occhi piccoli.

«Per il principe il materiale vocale sembra eccellente; lo studio della musica sarà durissimo. Lo faremo studiare dal Porpora al Conservatorio di Sant’Onofrio».

Ora Matteo è l’unico dei miei fratelli che mi sta vicino e mangia con me il pane con l’uva.

«So’ tutti strani stanotte, mamma piagnèva prima» gli dico.

La guardo, mi saluta con la mano. Le cadono ancora delle lagrime.

Papà stringe la mano al tacchino che gli dà qualcosa.

Padre Massimo si china verso di me mi parla vicino al viso.

«Andrai a Napoli».

Mi sposto. Gli puzza l’alito. Ingoio, ho finito il pane.

«Qui me ce trovo bene» gli dico.

Io sono Venanzio Rauzzini. Ho dieci anni, quasi undici. Sono nato a Camerino e non voglio partire.

«Fàmme jì a casa».

Urlo.

Il tacchino guarda fuori dalla carrozza, allora urlo ancora.

«Làsseme jì, famme anna’ a casa» e lui mi colpisce, forte.

«Il principe ha speso soldi per la tua voce, sta’ zitto, proteggila, per il principe sei prezioso».

Mamma, Matteo, Cesare, Margherita, Francesco e Fernando piangevano mentre il tacchino mi portava via e mio padre mi sorrideva strano, e non mi voleva più.

«Babbo…»

«Vai a Napoli a studiare, diventerai un musico, diventerai un angelo».

’Sto minchione.

«Me manni via perché t’ho fatto ’ncazza’? Eh? Me manni via perché ho strusciàto le brìjie der cavallo do fattore?»

Papà non sorride più. Non sa cosa dire.

«Tu nun sì come a noartri, tu sì ’n angelo, ’n angelo pe’ a Gloria de Dio e de la famìjia».

«Qui me ce trovo bene, sù casa me ce trovo bene babbo, e nun faccio più minchiate, nun sbajio più e fatigo come a Cesare e Matteo, fatigo anche de più, anche doma’ matina m’arzo co’ te e nun m’importa si sento freddu».

Piango.

«Babbo! Vengo co’ te doma’ matina. Babbo, nun canto più, fatigo e basta, lasso de canta’ e de sentirmi bello, ho peccato a pensa’ d’esse più bello dell’angelo de pietra là in arto, pure San Venanzio è ’ncazzato e m’ha ditto che so’ brutto e che tutti l’angeli do Paradiso e li cherubini e li serafini so’ molto più belli de me».

Piango e urlo.

E mi attacco a mia madre

«Ho peccato, nun so’ bello, tu sì bella mamma, e l’angeli e San Venanzio cantano bene, non io. Io vojio sta’ co’ te. Nun canto più».

Le prendo le mani, le stringo, le bacio.

«Mamma nun canto più».

Siamo partiti con la carrozza, non ero mai stato su una carrozza così. Nel carro che usiamo noi mi fa sempre male il culo per le buche in terra, questa è morbida e profumata.

Mi ha fatto male ’sto minchione, ma non come padre Massimo, quello mena.

Io sono Venanzio Rauzzini sono nato a Camerino e sono in una carrozza di notte con un minchione con la faccia di tacchino e non mi trovo bene qui.

Fedora

Noi conti di Saint-Germain abbiamo attraversato i secoli aiutati nel nostro compito di risveglio dell’umanità da uomini a volte ignorati dal loro tempo, altre volte celebrati, ma tutti accomunati da eccezionale curiosità, intuizione, saggezza e coraggio. Uomini come Venanzio Rauzzini che dalla profonda campagna dello Stato pontificio divenne l’unico soprano castrato amato da Wolfgang Amadeus Mozart. Uomini come Raimondo di Sangro principe di San Severo che, per amore della ricerca e dell’elevazione alchemica della materia, cadeva nel biasimo sociale del suo tempo.