Aspetto nel buio

Napoli, Palazzo di San Severo, 21 marzo 1757

Lo so, oggi è il giorno della Gloria di Dio.

Lo so, lo sento e non dormo; mi alzo, mi metto le braghe, piglio la coperta e mi siedo sulla poltrona; fa freddo e ho paura. Fuori è ancora buio, è assai prima della preghiera del Mattutino.

Dalla finestra vedo la statua di san Domenico Maggiore, è su una colonna17 e mi gira le spalle, non mi guarda; oggi ai santi non fotte niente della mia bella faccia e sento il respiro pesante di Ferruccino, dorme. Beato a lui.

Ieri sera ci hanno cambiato stanza, ci hanno portato in questa al piano nobile, la chiamano il Paradiso. E così ho capito.

Salvatore Arrivabeni, ’sto minchione con la faccia da tacchino, dice che ci porta… in Cielo e don Antonio Floris, il tutore, dice che in Paradiso ci vanno gli angeli; e io sto incazzato fino a vomitare, aspetto, aspetto attento, incazzato perché non mi faccio pigliare da nessuno, non mi faccio toccare.

Oggi nessuno mi taglierà i coglioni.

Ho un coltello, l’ho rubato nelle cucine. Io lo so usare, al paese mio tutti lo sanno usare e io uccido i conigli, l’ho imparato da mamma.

Oggi bestie e cristiani sono la stessa cosa, le mie palle per loro sono uguali a quelle dei capponi, dei buoi, dei castroni, e per me sarà lo stesso con la loro faccia di merda che odio.

Vi odio, vi aspetto e ho voglia di tagliarvi.

Io sono Venanzio Rauzzini, non ho paura di nessuno, non ho paura del tacchino, non ho paura del barbiere.

Piango e digrigno i denti.

Piango e aspetto.

Mi esce il sangue dalla guancia tanto l’ho morsicata.

Aspetto.

Un rumore.

Ferruccino si gira, sogna. Chissà che cosa sogna.

Aspetto sulla poltrona avvolto nella coperta.

Il coltello è grande e lo stringo.

Aspetto nel buio.

Aspetto.

Appoggio la testa.

Poi un rumore alle mie spalle, mi sale il cuore in gola.

«Hai paura Venanzio?» È Ferruccino, dietro la poltrona.

«Ma nun stavi ’nto lettu? Nun durmivi?»

«Dai a me quel coltello Vena’, ti proteggo io, se vuoi scendere dal Paradiso hai solo bisogno delle ali».

Sento il coltello scivolarmi dalle mani, Ferruccino lo prende e va alla finestra, la apre; apre anche i grandi battenti delle persiane; il cielo è scuro, profondo, senza luna e pieno di stelle, entra l’aria di mare, fresca e profumata dalle onde.

«Solo gli angeli possono scènne dal Paradiso» gli dico alzandomi, «Ferruccino, io so’ solo un bambino, nun tengo le ali».

«No, tu sei un angelo, Venanzio, lo sei sempre stato, un angelo che canta ai re alle regine agli imperatori, tu canti la Gloria del Signore, e mo’ puoi salire e scendere dal cielo, hai ali bellissime» poi si mette in piedi sul davanzale e guarda la statua di san Domenico e grida:

«Diglielo anche tu san Domenico, digli che è un angelo».

E la statua sulla colonna in mezzo alla piazza si gira, san Domenico mi guarda.

«Diglielo san Dome’ che è un angelo, diglielo, per la Gloria di Dio» urla forte Ferruccino.

Io sono sul davanzale vicino a Ferruccino annuso l’aria e così canto, canto perché io canto bene, canto perché san Domenico mi vuole sentire, canto, apro le ali e volo.

«Vie’ anche tu, Ferrucci’ » grido e lo vedo alla finestra con il mio coltello nella mano.

«No io sto qua, li aspetto e ti proteggo, tu hai le ali, tu sei un angelo».

Allora mi giro e volo via.

In alto.

Ora lo sento, quel punto dove posso controllare il volo, quel punto nel mio petto dove il maestro Porpora18 mi ha fatto sentire che posso controllare il canto e più canto e più volo. L’aria è buona e mi avvicino a san Domenico:

«San Dome’, jielo dirai a mamma che so’ già diventato ’n angelo, e njisciu’ me farà del male?»

San Domenico mi guarda mi sorride e mi accarezza; il suo viso è strano, sembra quello del maestro Porpora.

Poi un urlo.

È Ferruccino:

«Scappa Venanzio, sono arrivati, scappa ti difendo io» lo vedo con il coltello che avevo rubato in cucina, sta in piedi alla finestra.

«Anche tu sì ’n angelo, vola via co’ me» gli grido dall’alto della piazza davanti al palazzo del principe di San Severo. Ferruccino mi sorride, poi si lancia giù.

Le sue ali sono di cartapesta non sbattono. Cade.

Tanto sangue.

Volo da lui.

Tanto, tanto sangue.

«Venanzio», è la statua, mi giro:

«Tu sì diverso da noartri» san Domenico ha la voce di babbo, «un angelo sì, pe’ a Gloria de Dio e de la famìjia», e io non capisco, allora chiamo Ferruccio e lo guardo; dalla bocca, dalla testa gli esce un fiume rosso, ho paura, ma lo abbraccio. Il sangue mi rende le ali pesanti e inutili.

Poi mi cadono in terra; si rompono in un suono assordante.

Vetri dappertutto.

Mi tengo stretto a Ferruccino: «Voglio ancora le mie ali», ma lui coperto di sangue ride forte, una voce sguaiata, mi ferisce le orecchie, poi si alza in piedi, è altissimo, è grosso, enorme e ride ancora più forte e mi solleva con una mano dal collo, nell’altra ha ancora il mio coltello, stringe e io soffoco, lui ride ancora.

«Ferruccino…» rantolo. «Perché lo fai a me?»

Vedo le mie ali di vetro frantumate a terra in mezzo al sangue e non sento più i polsi e i piedi e il punto nel petto, dove controllavo il volo, mi brucia come se si spaccasse.

«Aspetta Ferrucci’, aspetta, nun me fa’ male, ascolta…» allora molla un po’ la stretta al collo, mi avvicina alla sua faccia; è grossa, io chiudo gli occhi e lo colpisco, una testata con tutta la forza che ho.

Mi molla.

Scappo, corro ma scivolo nel sangue, cado, mi rialzo, cado ancora. Sono tutto sporco e sento ancora quella risata di merda, ma poi arriva san Domenico: non avevo mai visto una statua camminare, non riesco più ad alzarmi. San Domenico ha il mio coltello e lo usa, mi fa male.

Urlo.

Apro gli occhi.

Sono sdraiato nel letto del Paradiso con le mani e i piedi legati, vetri e sangue ovunque. Il barbiere ha il naso rotto ed è tutto sporco di sangue, ma ancora ride.

«Che cazzo te ridi, bastardo».

Anche Salvatore Arrivabeni è ferito, don Antonio piange come un bambino e guarda nel letto vicino al mio, mi giro, Ferruccino è legato come me ha gli occhi chiusi, forse è morto.

Tutti escono. Il barbiere ancora ride.

Dal letto guardo fuori, vedo il cielo rosso dell’alba e la statua sulla colonna nella piazza sbucare tra i vetri rotti della finestra.

San Domenico si gira e ha la voce di mia madre:

«Venanzio, ora sì ’n angelo, pe’ a Gloria de Dio, sì entrato anche tu ’n Paradiso».

Allora sputo e urlo.

«San Dome’, io so’ Venanzio Rauzzini, er Paradiso te lo ficco ’n culo».

Fedora

Noi sarte dell’Opéra Garnier indossiamo tutte grembiuli. Lunghi camici immacolati come quelli di un medico, poiché, anche noi, ci prendiamo cura di qualcosa. Il termine «sarto» deriva dal latino sartus, dal verbo sarcire che significa «rappezzare, riparare». Noi accomodiamo, correggiamo, rafforziamo. Alcune tra noi, le più disinvolte, portano il camice aperto e se si spostano nel laboratorio tengono le mani – quando non sono occupate dalle forbici o dall’ago – sprofondate nelle tasche. Qualcuna di noi mentre lavora canta, canzonette per lo più. Io non canto, io ascolto.