Tagliati per la parte

Napoli, Reale Teatro di San Carlo,24 29 novembre 1760

Uno.

… due, tre, quattro.

Due.

… due, tre, quattro.

Il mio maestro mi dice che la musica è la misurazione del tempo, e io conto, ho imparato a contare dentro; sento il tempo come un tamburo, ma dentro di me.

Cinque.

… due, tre, quattro.

Sei.

L’ho sempre sentito anche quando ero al paese in chiesa e cantavo con l’organo, sotto la statua di san Venanzio.

Anche nel silenzio, oppure a lezione, quando don Antonio Floris, il tutore, attacca con il cembalo.

Nove.

… due, tre, quattro.

Non devo neanche stare attento, sento il ritmo, che il maestro Porpora chiama tactus, dice che è latino, e la mia voce sa quando deve suonare.

Ho vinto la paura di non capire.

Chiudo gli occhi.

Respiro.

E canto.

Io sono Venanzio Rauzzini e canto bene.

Dodici.

… due, tre, quattro.

Oppure aspetto, conto le pause, come adesso, conto il silenzio.

Quattordici.

Come i miei anni.

Quindici.

… due, tre, quattro.

Conto le battute d’aspetto, ogni battuta di questo coro vale quattro movimenti, e io sento dentro quattro colpi di tamburo, uno forte, il primo, e poi gli altri tre, che sono il due, il tre e il quattro.

Ma il primo non lo chiamo uno, gli do il numero della battuta che cresce.

È facile.

Diciannove.

… due, tre, quattro.

Venti.

… due, tre, quattro.

Numeri per misurare il tempo.

Numeri per misurare la lunghezza dei suoni.

Numeri per misurare i silenzi.

Numeri per le note.

Numeri per i gradi armonici.

Quanti numeri ci sono nella musica.

Poi chiudo gli occhi, sento i timpani e i corni, respiro e canto.

 

Vinto è l’orgoglio, spento è ’l terror,ove ha la gloria,fede e valor.

Canto, ma poi richiudo gli occhi, perché ho paura.

 

Dopo l’orribile fiero timor,di pace, e giubilo si empia ogni cor.

Ho paura a stare appeso con le corde, attaccato alla graticcia del palco del Reale Teatro di San Carlo, che mi sembro un impiccato, appeso con le ali da angelo.

«Maronna che impressione, Ferruccino».

«Vena’, fai come a me, io non guardo sotto, canto e basta».

«Quel minchione del mio babbo me diceva che un angelo ero, per la Gloria di Dio e della famìjia, ora sto appeso con ’ste ali de cartone che me sembro un fagiano cacciato».

Guardo Ferruccino, strizza gli occhi e suda, ha paura quel povero cristiano.

«Oh, ma quante braccia ce stanno de voto?»

È la prima volta che cantiamo in teatro io e Ferruccio, stasera cantiamo nel coro dell’opera Cajo Fabrizio di de Majo, ma il mio maestro, il Porpora, mi dice che mi porta a Roma. Prima, però, mi fa fare un concerto per il principe di San Severo, Raimondo di Sangro.

Il mio padrone.

Un concerto, io da solo!

Poi Roma.

«Ferruccino, oh» sussurro, perché la musica suona un’aria lenta in pianissimo, «ci vieni con me a Roma?»

Ferruccino trema.

«Oh, Ferrucci’, e dài, ho paura anch’io del vuoto, ma ci sono due arie, poi è finito l’atto e ci fanno scendere».

A Ferruccino gli voglio bene, è diventato come i miei fratelli, da quando ci hanno capponato insieme, ci guardiamo e ridiamo ma dentro i nostri occhi abbiamo visto anche il dolore, quello che fa male.

No, è diventato più dei miei fratelli, che quel dolore lì non sanno cosa sia.

Lui sì.

«Dài Ferrucci’, ora si ride c’è l’aria del vecchio soprano, che tiene una voce che balla come la sua panza di lardo da vecchio castrato. Cantiamo meglio noi Ferrucci’, eh? Di’ la verità, cantiamo meglio noi?»

Non risponde.

Poi ecco il vecchio soprano castrato, ha già il fiatone camminando in scena solo per entrare, soffia passando dalla quinta al proscenio tanto è grasso.

Mi viene da ridere.

«Ferruccino, noi non saremo mai così pacchioni e brutti».

Allora apre gl’occhi, il trucco si è squagliato.

«E chi te lo dice? Noi saremo proprio come lui, se mai ci arriviamo alla sua età, noi siamo tagliati per la parte».

«Io non ci divento così brutto, grasso e con ’sta voce di merda. Ascolta, ascolta come ride la gente».

Il castrato soprano è a metà dell’aria.

«La Maronna se canta male».

Appesi e vestiti da cherubini e serafini siamo in ventiquattro, alcuni tagliati come noi, e altri ancora non toccati dalla lama del barbiere.

Io sono tutto truccato di bianco e celeste, anche la mia faccia è bianca e la parrucca gessata, che pare una statua, le piume delle ali argentate.

Sono bello.

«Ma ’sto vecchio fa ridere, Ferruccino, senti la gente?»

Allora si riprende e sorride anche lui; tutti gli altri angeli, i coristi intorno a me ridono piano.

Il soprano ha un vestito bellissimo tutto damasco, dicono che vada ancora nei teatri per tutti i costumi belli che ha, le piume e le spade. Le donne di Napoli sono qui per vedere i suoi abiti di scena e gli altri a ridergli in faccia.

Carlo Scalzi si chiama, una volta era bravo, ha cantato in tutta Europa, hanno detto anche per Händel, e ora lo prendono per il culo.

«Oh Ferrucci’, però fa ridere! Ridi che ti passa la paura, dài, ridi e sii felice che noi non diventeremo mai così ridicoli!»

Poi un suono, tra i versi e gli applausi, un suono nitido: una voce che ride.

Mi giro, Ferruccino apre gli occhi spaventato e mi cerca.

«L’hai sentita anche tu o so’ pazzo?» mi dice. «Sono tre anni che la sento nella testa, io volevo diventare un angelo del Signore e non me fotteva niente se mi tagliavano i coglioni, era per il Paradiso».

Mi guarda spaventato.

«Ma quella voce, è la voce che sento ogni volta che chiudo gli occhi, ogni volta che vado a dormire e mi fa male; Venanzio, dimmi se so’ pazzo, o l’hai sentita anche tu?»

«Ferruccino, ma stai buono, ridono tutti per quel vecchio cappone afono, è tutto ’n casino: io non ho sentito niente».

Certo che l’ho sentita!

L’aria è alla cadenza, Carlo Scalzi, il vecchio soprano, porta a casa l’acuto con tutta la fibra che ha, spinge il suono così tanto che potrebbe cagarsi addosso.

Risate, fischi, applausi.

E ancora, cazzo se la sento quella risata.

È quella del barbiere.

Lo capisce anche Ferruccino.

«Venanzio, è il bastardo che ci ha tagliato i coglioni, che ci ha fatto male e che ci rideva in faccia tutto sporco del nostro sangue, mentre ci aveva preso nel sonno, rideva col naso rotto per la testata che gli avevi dato, Vena’ gli hai spaccato il naso e rideva come un demonio».

È il barbiere.

Trentadue battute d’aspetto, poi canto.

Uno.

… due, tre.

Due.

… due, tre.

Il finale d’atto è in tempo ternario e io conto il silenzio, conto le battute di pausa prima dell’entrata del coro, trentadue.

«Stai tranquillo Ferrucci’, non è lui, i barbieri che castrano i cristiani muoiono dopo tre notti uccisi dall’arcangelo Gabriele».

Otto.

… due, tre.

Ferruccio ha gli occhi così tristi.

Dieci.

… due, tre.

«Non muoiono, Venanzio».

«Te dico de sì, me l’ha detto don Antonio Floris, anche il barbiere che l’ha castrato è morto ucciso dall’angelo che vuole bene ai bambini, gl’ha ficcato ’n culo un palo così».

Diciotto.

… due, tre.

E ora lo vedo bene nella barcaccia di proscenio.

Il barbiere.

Non voglio guardare dalla sua parte ma non resisto e mi giro e lo vedo in faccia e fa male e mi sento umiliato, mi sento offeso.

«E Gabriele il palo gliel’ha fatto entrare dal culo e uscire dalla bocca».

Quella cazzo di faccia che ho spaccato con una testata e che continuava a ridere, proprio come sta facendo ora.

Ventisei.

… due, tre.

«Vena’, io non ci credo che l’arcangelo Gabriele difende i bambini, il barbiere ci ha fatto male».

Ferruccino dopo il taglio è quasi morto: infezione dicevano, ha camminato dopo tre mesi. Il giorno dopo il fatto gli avevano dato l’estrema unzione.

«E quella voce non andrà mai via, quella risata mi strazierà l’anima per tutta la vita, quella che sento ora. Venanzio, ho paura che sia tornato a farci del male».

Ha il viso stravolto, trema.

Ventinove.

… due, tre.

«Non c’è nessuno!»

È lì nel palco di barcaccia, lo guardo ancora.

«Al barbiere l’angelo Gabriele gli ha mangiato i coglioni, ti dico…»

Trentuno.

«… e li ha sputati in mare».

Trentadue.

… respiro, chiudo gli occhi.

Canto.

Poi il crollo.

Un boato.

Apro gli occhi e si riempiono di terra, polvere. Una trave della graticcia si muove pericolosamente, provo a guardare in su ma non riesco per il bruciore.

Sento urlare, mi volto e un angelo vacilla nel vuoto, un orfano, che canta con voce bianca nel coro, grida.

Pezzi di legno cadono sul palcoscenico, l’orchestra s’interrompe, i solisti scappano in quinta, si strepita ovunque.

Poi un urlo.

«Venanzio!»

Ferruccino è salito in alto sotto la graticcia tirato dal contrappeso precipitato per il crollo. Io non so che fare, sono nel vuoto avvolto in una nuvola di polvere che non mi fa vedere niente.

«Aiuto, Venanzio!»

Il sipario resta aperto.

Tutti si accorgono del bambino che vacilla pericolosamente, ma la polvere nasconde Ferruccino agli occhi degli artigiani di palcoscenico, non vedono il contrappeso crollato e lui trascinato in alto fino a venti metri a toccare col capo e le ali argentate la graticcia del palcoscenico.

Urlo.

Poi un tonfo sotto di me. Una nuvola di polvere.

Ci stanno facendo scendere e non vedo. Sento strepiti, pianti, mi sgancio e mi faccio largo fino a vedere l’angelo caduto.

Ferruccio.

Ora c’è silenzio, non sento il cuore.

E mentre viene tirato lentamente il sipario, sento il suono di quella voce.

Il barbiere, a pochi metri da me nel palco di barcaccia.

Ride.

Sipario.