Le annuso. Le bacio. Le lecco. Le bacio.

Roma, Palazzo di Sant’Andrea della Valle, estate 1761, notte

Un urlo mi sveglia.

Sono sdraiato nel letto, atterrito. Illuminata dal buio della notte, la figura che grida è in bilico sulla sponda.

Tiene un coltello, lo alza come per colpire.

Per colpirmi.

Sbraita e grida.

Vedo il riflesso della luna sulla lama, e nella sua voce c’è rabbia, dolore, ma sono troppo confuso per capire. Biascico qualcosa, ma le urla mi travolgono come se fosse un’onda del mare.

Ho paura.

Le grida acutissime, il mio corpo trema, anche il suo.

Grida di donna, corpo di donna.

«Pasquale Canessa si chiamava il barbiere».

Pinuccia.

«Pasquale Canessa si chiamava il barbiere che hai squartato» urla, «l’hai squartato in faccia a me; tu l’hai ucciso a Pasquale, e ora sei nel palazzo di un cardinale, non sei in prigione, non ti tagliano la testa in piazza, non ti sputano in faccia non ti pisciano in bocca; tu hai strappato la vita a tradimento nella notte, nel sonno» urla, urla, e ancora urla.

«Vena’, sei una faccia di merda, un assassino che ha venduto l’anima a quel demonio del principe di San Severo, tu meriti la morte; e invece dormi tra le lenzuola profumate in un cazzo di palazzo, e ’sto cardinale di merda ti ha ricevuto come se tu fossi una celebrità; ma tu sei un assassino, assassino, assassino; a Pasquale hai ucciso, assassino bastardo, figlio di tutte le puttane del mondo».

Si getta su di me mi serra tra le sue gambe e prova a colpirmi; cerco i suoi polsi, li blocco ma il coltello mi taglia.

«Assassino, l’hai ucciso con la tua voce che gli squarciava il petto e la pancia; la merda gli tiravi fuori e più cantavi e più colpivi e più mi coprivi di sangue».

Lotto con lei, provo a bloccarla.

«E stasera hai fatto pure il concerto per il cardinale tedesco, e pigli gli applausi e ti preparano la cena, mentre dovresti essere giustiziato».

Il coltello vola a terra lontano dal letto.

«Dovrai essere muto per sempre, perché la tua voce uccide».

Cerco di rialzarmi ma le sue gambe mi bloccano.

«Ti ho sentito cantare stasera, la tua voce mi fa paura, mi ricorda il sangue, Pasquale Canessa sventrato, allora la lingua te la strappo io: muto devi diventare».

Le tengo entrambi i polsi con la mia destra.

«Muto».

Ho la sinistra libera: la colpisco con tutta la forza che ho.

In faccia.

Lei sviene.

Sono tagliato al polso sinistro ma non sento male, sento solo il cuore che rimbomba, fino nelle orecchie.

Questa notte ho tenuto il primo concerto vero della mia vita, con il pubblico ospite del cardinale Franz Konrad von Rodt.

Mi alzo, cerco la candela del comodino, la accendo.

C’era anche Pinuccia al mio concerto nella chiesa di Sant’Andrea della Valle, la vedevo prima dell’inizio, dietro un altare.

Mi avvicino al viso di lei, le esce sangue dalla bocca. Allora la prendo tra le braccia la giro con la testa sul mio cuscino, la copro.

Poi quando ho cominciato a cantare è sparita.

«Pinu’…» Prendo un bicchiere e lo riempio dell’acqua della caraffa, bagno una pezzuola, trovata vicino al pitale, nel bicchiere colmo d’acqua, e le pulisco il viso.

Mi sdraio vicino a lei.

Per tutto il concerto la cercavo con gli occhi senza trovarla.

Il suo profumo è buonissimo, così mi avvicino di più; ha una camiciola da notte che nella lotta è rimasta aperta sul davanti, si vedono le mammelle.

Le annuso.

Le bacio.

Le lecco.

Le bacio.

Pinuccia si muove, poi apre gli occhi.

Appena mi vede ha uno scatto, un gemito. Io non stringo, non la voglio bloccare.

Si ritrae, ma resta nel letto.

Silenzio.

Solo i respiri, e nella mia bocca ancora il sapore delle sue mammelle, sulla lingua la memoria del suo capezzolo.

Mi guarda e non muove un muscolo.

Silenzio.

La candela alle mie spalle proietta una grande ombra nera sul muro in fondo al letto.

La mia ombra.

«Tu sei un demonio come il tuo padrone, il principe, che squarta i cristiani per fare pane col diavolo, tu tieni la faccia più bella che abbia mai visto in un guaglione, e la tua voce, la tua voce è un miracolo» Pinuccia si alza lentamente dal letto, si muove come un animale braccato e mi guarda, «ma sei un assassino e mi fai paura».

«Pinu’, io non sono un assassino» mi alzo in piedi sul letto, «non sono un angelo» comincio a spogliarmi, «non sono un demonio».

Sono nudo.

La mia cicatrice è spessa, dura, scura e io la scopro con le mani.

«Pasquale Canessa si chiamava il barbiere» le dico, «mi ha castrato quattro anni fa, ero piccolo, avevo paura e mi ha preso nel sonno».

Pinuccia vede la piaga sul mio fianco.

«Ma il taglio non è sui coglioni» dice.

«È da lì che si entra per togliere le palle, dall’interno, e si entra con le dita».

Alza lo sguardo nel mio.

«Come le bestie».

«Come le bestie, mi ha capponato».

«Come le bestie l’hai ucciso».

Pinuccia si avvicina.

«Pasquale Canessa si chiamava il barbiere» mentre parla si siede sul letto, «mi prendeva, mi fotteva e non m’ha mai picchiata».

Pinuccia ha occhi neri enormi:

«Invece mi ricordo le mazzate che pigliava Maria».

Siamo seduti vicini, sento le sue cosce appoggiarsi alle mie.

«Pasquale mi pagava già da un po’, prima pagava a mia sorella Maria e prima ancora a mammà. Poi non l’ha più voluta, l’ha ingravidata e non l’ha più voluta a Maria, l’ha mandata a lavorare alla Cappella della Pietà dei Turchini, dalle suore che l’hanno messa a fare le faccende, anche quelle pesanti, perché era peccatrice».

Si avvicina ancora, e io a lei.

«Quelle pesanti, con quella pancia che teneva, la mia povera sorella, il sangue mio che ho conosciuto, perché quello di mio fratello l’ho solo pianto perché me l’hanno portato via, mi han detto che è morto, ma io non ci credo, io lo sento vicino a me, e lo invocavo ogni volta che Pasquale aveva gli occhi brutti, così non mi picchiava, a me, Pasquale Canessa non m’ha mai picchiata, mi fotteva solo».

«E tua sorella ha partorito?»

Sento il suo respiro.

«Sì, al Cimitero delle 366 Fosse».26

Le cade una lagrima.

Pinuccia, Pinuccia quanto sei bella.

Ma non le dico niente e mi avvicino.

Lei, mentre parla, guarda davanti verso il buio della stanza, come se non ci fosse il muro.

Siamo vicinissimi.

Il suo respiro è buono, ma non solo profumato, non buono come un aroma, è buono come se fosse cibo, come un sapore.

Mi prende il viso tra le mani: «Ho paura Vena’, della tua voce».

E mi bacia.

Mi bacia e sento tutto il gusto del suo respiro e della sua lingua e mi bacia ancora.

Con un gesto rapido si toglie la camicia da notte.

È nuda e la stringo. La pelle sulla pelle.

Si mette sopra di me:

«Quanto sei bello Vena’, come un angelo, come le statue» continua a baciarmi sul viso, gli occhi, in bocca e scende sul petto, «e profumi e sai di buono e ti mangerei di baci, ti mangerei tutto».

Poi mi apre le gambe. Si rialza e mi cerca con gli occhi belli che ha:

«Mi farai mai del male, Vena’?»

Ma io non riesco a dire niente, sono emozionato, sono commosso e scuoto solo il capo.

Così Pinuccia comincia ad accarezzarmi la ferita.

«No Pinuccia» poi la bacia. «No, ti prego, mi hanno fatto tanto male» la lecca.

A me cadono le lagrime, e lei continua a leccarmi la ferita, il mio corpo si apre e mi abbandono tra le sue braccia.