Volo

Aprile 1764

«Adoro la Francia» pensò la rondine. Il viaggio dall’Africa era stato bello: correnti ascensionali, nuvole leggere da attraversare facilmente, carezze sulle piume, e poi l’odore del mare, il Mediterraneo con tutta la sua dolcezza, il Golfo del Leone insolitamente calmo, ed era stato semplice raggiungere i campi di lavanda in Provenza, che non erano ancora viola di fiori, ma profumavano comunque. Era stata così felice di riconoscere quell’afrore di terra grassa, sfacciatamente ricca, lei adorava la Francia. Quella primavera sentiva che sarebbe stata importante, che avrebbe visto cose: per questo motivo non si era stupita quando, sopra il porto di Marsiglia, aveva adocchiato la bella signora velata e riccamente vestita, le due bambine di poco più di un anno in braccio a un servitore sfregiato e una quantità di bauli tutt’intorno. Si era chiesta chi fosse, ed era planata verso di loro sostando sul tetto della carrozza dalla quale si continuavano a scaricare casse e cassoni, aveva immaginato che stesse scappando e che una donna così non potesse essere una nobile qualsiasi ma, quantomeno, una cortigiana di Versailles, e che cortigiana! Tutto nel portamento, nonostante l’inequivocabile atteggiamento di protezione dell’identità, urlava «Io sono Io», e lei, che era una semplice rondine, ma curiosa – tant’è che aveva abbandonato il suo stormo sfidando le regole e le abitudini consuete – non poteva non essere attratta da quella scena e, soprattutto, dall’anello a forma di unicorno, un animale che lei apprezzava e con il quale le era capitato di volare qualche volta. Poi aveva sentito la signora dire «Albert, affrettatevi con le piccole, voglio che siano in cabina al più presto, le Americhe ci aspettano». Le Americhe! Le Americhe, le sarebbero piaciute, così era salita sul veliero, proprio come avrebbe fatto la signora; solo che si era appostata in alto, sull’albero di mezzana, dove, per un poco, aveva controllato che il lavoro dei marinai procedesse, ma le loro urla l’avevano infastidita. Aveva deciso di non partire per le Americhe: Londra la chiamava.

Doveva lasciare Marsiglia, così come sembrava la dovesse lasciare il cavaliere che aveva salutato la dama alzandole la veletta e baciandola sulla bocca con passione.

Anche il cavaliere era interessante, di bianco vestito, una sciarpa impreziosita da pietre granata intorno al collo, ma ciò che più colpiva in lui era la possanza, il vigore e un certo distacco dalle umane cose che sembrava affermare «Io sono Dio».

«Addio, Jeanne Antoinette» aveva detto.

«Addio, Rocco, abbi cura di te» aveva risposto lei.

Non era stato facile inseguire il cavaliere, il cavallo sollevava troppa polvere, inoltre la sua direzione era verso est e a lei interessava viaggiare verso nord, Londra la chiamava.

Aveva superato il Massiccio Centrale, i vigneti della Borgogna; i tetti policromi degli Hospices de Beaune come sempre l’avevano rallegrata e le verdi foglie di vite già anticipavano il profumo di pietra focaia che avrebbero espresso i vini di quei luoghi. Non era stanca, era piena di entusiasmo, così aveva continuato il suo viaggio risalendo la strada delle carrozze che da Parigi viaggiavano verso sud, ed era stato alla stazione di posta di Orléans che un inaspettato odore mediterraneo l’aveva sorpresa: menta, finocchio e soprattutto zafferano temperati nell’alcool.

Immagine cui segue didascalia.

«Addio, Jeanne Antoinette» aveva detto. «Addio, Rocco, abbi cura di te» aveva risposto lei.

Il servo dalla faccia di tacchino stava mescendo liquore dorato al suo signore.

La rondine volò in tondo sopra la capote della vettura abbastanza a lungo da sentire il nobile affermare: «… Ah questo Strega, altro che il Grande Chartreuse; come facciamo noi i liquori a Beneventum…»

«… non li fa nessuno, principe» aveva concluso il tacchino.

E la carrozza aveva ripreso il viaggio verso sud.

«Oggi è giornata di gran signori» si era detta la rondine.

Così aveva deciso di continuare il suo viaggio e raggiungere la foresta di Fontainebleau, il bosco infinito, lì c’era da perdersi, anche per una come lei che se c’era una cosa che sapeva fare bene fin da piccola era orizzontarsi, ma quel bosco, quel bosco ti inghiottiva se non facevi attenzione, bisognava arrivarci da molto in alto per poterne dominare tutta l’estensione, e poi passare ai margini, magari concedersi il lusso di scendere su una quercia e sentire le sue fronde stormire. Così aveva fatto, e così aveva visto l’orrore: le bambine dagli occhi vuoti, usate nei corpi e spezzate nelle anime dall’uomo, il mostro, la seppia dai capelli bianchi e l’anima nera, le gengive scoperte, il ghigno. Impellente aveva sentito il bisogno di normalità, di raggiungere la città, di respirare l’aria del fiume e l’odore di gente viva, magari non felice, ma viva. Solo la reggia di Versailles l’aveva distratta dal suo bisogno di umanità affaccendata, quando aveva sorvolato i ricami geometrici delle siepi di bosso, non si era potuta esimere dal giocare planando sul labirinto, scoprendo segreti che a lei non potevano essere preclusi, poi si era abbeverata al bacino di Apollon, trastullandosi con i giochi d’acqua. Ma le luci di candela, sistemate dall’artificiere del re nell’anfiteatro delle feste, l’avevano attirata con il loro calore, e così ancora bagnata e intirizzita si era gettata sulle gradinate, facendosi accarezzare il petto dalle fiammelle. Che felicità, lei adorava la Francia! Ma le urla di un uomo straziato avevano avuto il potere di richiamarla verso la reggia. «Cattiva! Cattiva!» urlava l’uomo, buttato a terra, contratto dal dolore, rivolgendosi a un ritratto di dama.

Alcune considerazioni le passarono per la mente: erano così strani gli umani, capaci di accanirsi contro bambini innocenti, ma anche di affliggersi per una donna dipinta, e viste dall’alto le pene d’amore di un re o quelle di uno stalliere sembravano tormentare l’anima allo stesso modo.

E adesso Parigi, volare, continuando a pensare alle fragilità umane, a quelle anime in lotta che perdevano sempre la battaglia con i demoni che creavano loro stesse. Ma il violinista no, lui l’aveva sorpresa davvero. Si era posata sul davanzale attirata dal suono del suo violino: una musica circolare, una chaconne, che tornava sempre al primo accordo, come le albe e i tramonti, come il riso e le lacrime, come la primavera, come le rondini, come lei. Il duello con se stesso lui l’aveva risolto pugnalando un corpo del tutto simile al suo. Lei si era spaventata, ma non era volata via, era troppo sorprendente quello che stava vedendo. Il violinista aveva continuato a colpire e poi aveva preso il suo violino, che sembrava amare moltissimo e, piangendo, lo aveva abbandonato tra le braccia di quel corpo senza vita.

A quel punto aveva bisogno di festa, e lei sapeva dove andare. Si alzò in alto, nel cielo dove il fumo dei camini si stemperava ed era possibile intercettare i suoni di tutti i teatri e le sale da concerto parigine. Era una serata tranquilla: un paio di quartetti d’archi, vecchie suore in una chiesa cattolica, il cembalo di una femmina triste; solo la voce di un castrato l’aveva impressionata favorevolmente, arrivava da una casa privata sul lungo Senna: Alto Giove, è tua grazia e tuo vanto il gran dono di vita immortale… cantava.

Musica italiana, ma tutta la musica era italiana.

Planò verso il basso e trovò, agile, un riparo sul davanzale al momento della coda strumentale dell’aria, il musico soprano prendeva gli applausi dicendo: «Questa è musica del mio maestro, il grande Niccolò Porpora» poi si voltò grato verso la rondine, per un momento lei pensò che lui avesse capito, che l’avesse riconosciuta, ma ben presto si rese conto che gli occhi che il castrato andava cercando non erano i suoi, ma quelli di una ragazza, una di quelle belle femmine italiane del popolo, che in quel salotto c’entrava poco. Ma la sua anima invece sì che c’entrava con quella musica e quell’interprete, capì la rondine, quando la ragazza schermendosi si voltò verso di lei, gli occhi scuri, lucidi e profondi come due specchi neri: «Grazie Santa Mamma dell’amore eterno» aveva sussurrato baciando la medaglietta della Madonna che teneva al collo.

L’emozione creò la corrente ascensionale che la portò in alto sui tetti di Parigi.

Lei adorava la Francia ma Londra la chiamava, così riprese il volo sotto le stelle, già sapendo dove si sarebbe fermata prima di affrontare i venti che sferzavano sulla Manica. C’era un piccolo ponte sul Ruisseau des Anguilles, l’ultimo prima del mare, le travi che già odoravano di salsedine ma conservavano ancora il profumo rassicurante della terraferma.

Quando arrivò una sorpresa l’accolse, inaspettata ma gradita, un’anima bella; era da un po’ che non ne incontrava, era una di quelle anime riluttanti ad abbandonare il proprio corpo, per quanto volentieri l’avevano abitato.

Il corpo ormai decomposto affiorava dall’acqua, lunghe alghe verdi accarezzavano il viso entrando nelle orbite vuote.

‘Gli occhi sono la prima cosa che viene mangiata dai pesci’ osservò la rondine.

Il corpo giaceva scomposto come una marionetta abbandonata, il collo spezzato e il capo innaturalmente rivolto verso il dorso che esibiva un profondo squarcio nelle carni, su un fianco.

L’anima era senza capelli, occhi verdissimi e l’anello con l’unicorno al dito. Accolse la rondine con un inchino, poi cominciò i suoi giochi di trasformismo, sfiorandosi il volto con la mano destra cambiava connotati e parrucca, e sfiorandosi il petto con la sinistra cambiava d’abito; prima un nobile di bianco vestito, in capo un torrione di capelli rossi e intorno al collo una sciarpa impreziosita di pietre granata; poi la ninfa Galatea, la nereide dai lunghi capelli biondi a celare i seni, ma ecco il terrore di un Polifemo monocolo, subito inghiottito dalla bocca dal vecchio Nereo che con una rapida piroetta si trasformava nel violinista virtuoso, per lasciare poi il posto alla dignità di una gran dama velata di nero con in braccio, come Madonna raddoppiata, due neonati, uno dei quali aveva il capo fiammeggiante come torcia accesa, e infine alla figura di un uomo con due bambini per mano, una femmina e un maschio: il maschio, più piccolo, emanava luce.

Poi il buio improvviso.

Solo un suono: il tuono di un galoppo lontano.

Dal buio tornò l’anima con i suoi occhi verdissimi, sorridente e soddisfatta, certa di aver dato un bellissimo spettacolo, s’inchinò a ricevere applausi verso un gran tea-tro immaginario.

«Ora vorrei andare via di qui» disse alla rondine, «mi mostri la via?»

Si alzarono in volo insieme, mentre il corpo morto veniva definitivamente ingoiato dalle acque.

All’inizio fu lo schiaffo del vento dell’Oceano, prova dura tanto per la rondine ormai stanca, quanto per l’anima che stava abbandonando per sempre quel nido mortale che tanto l’aveva gratificata e nutrita. Ma la rondine sapeva cosa fare, con un rapido guizzo delle penne remiganti aveva puntato in alto, là dove tutto era quiete, dove gli elementi ti sostenevano e accompagnavano, dove volavano gli unicorni.

Là aspettava l’unicorno che la rondine immaginava essere pronto per quell’anima.

E mentre l’ultima cosa che lei percepiva con la coda dell’occhio era la groppa dell’unicorno che puntava sicuro verso Orione, una corrente la trasportò verso cumulonembi rotanti che assecondò fino all’alba, quando le bianche scogliere, da Aurora dardeggiate, la invitarono a picchiare verso il basso.

Londra la chiamava.

E Londra arrivò, annunciandosi di fumo nero vestita, una regina in lutto.

Era venuto il momento di costruire il nido, di sottotetti ce n’erano tanti, per un po’, indecisa, girò in tondo appellandosi alle ultime energie rimaste, quando un bambino si sporse da una finestrella aperta gridando:

«Padre, Nannerl, una rondine, venite a vedere la primavera».

Impulso

Il primo impulso doveva partire da un server sull’isola di Taiwan, più precisamente da una suite dell’International Building in Keelung Road a Taipei. Dalle finestre dell’edificio filtravano gli ultimi raggi di sole e l’uomo, conosciuto come Baal, non vedeva l’ora di finire, per poter raggiungere le ragazze dagli occhi a mandorla e il dirty Martini che lo stavano aspettando insieme a un piatto di ostriche Fines de Claire. Stava per inviare un semplice impulso elettrico.

Il suo viso era illuminato dalla luce di sette monitor; su quella postazione aveva lavorato ininterrottamente per giorni coordinando le sue 66 legioni di diavoli informatici.

Ora tutto era pronto: aveva violato i blocchi di sicurezza ed era entrato nei sistemi di un migliaio di compagnie telefoniche in una modalità che gli hacker chiamavano ‘sottovento’, ossia perfettamente nascosta. Bastava un semplice invio per generare miliardi di chiamate simultanee e fare ascoltare a tutti finalmente il messaggio.

Baal accese il microfono provocando un fischio che scomparve dopo pochi secondi lasciando solo il brusio delle onde corte.

Avvicinò la bocca al microfono e lanciò il preallarme:

«Atención, atención y atención. IL LATTE STA PER SCADERE».

Il tempo era arrivato. Ora tutti aspettavano la voce di Lucifero per scatenare il terrore.

Fedora

«Atención, atención y atención. IL LATTE STA PER SCADERE».

La voce di Baal dalla radio suonava forte e chiara.

Fedora Falconetti sorrise, toccava a lei, era il tempo di Lucifero.

La spalla pulsava. Avrebbe dovuto essere ricoverata tre giorni prima, dopo la sparatoria, ma non poteva permetterselo. L’Ordo Mundi era un mostro dalle molte teste e ogni minuto perso era un rischio incalcolabile. La pallottola era passata da parte a parte e lei aveva preferito affidarsi a bende e morfina. Il conte di Saint-Germain non poteva fermarsi per un buco nella spalla, doveva andare fino in fondo, e subito.

Una vibrazione, il display del telefono si illuminò.

Lesse:

«Il maestro è sul podio».

Era Paolo dal Kazakistan.

Nel Teatro dell’Opera di Astana tutto era pronto.

Il concerto era stato organizzato in poche ore, poiché «Ad Astana Lucifero è di casa».

Fedora respirò faticosamente ma sorrise pensando a Flavio e alla sua orchestra sul palco, poi disse: «Finalmente la musica del Puledro dorato tutto farà tremare, finalmente in Terra si farà silenzio, ogni uomo e ogni donna saranno uniti dalla musica di Mozart, tutto il mondo assisterà a questo concerto; la più grande platea mai esistita, miliardi di anime, insieme, per celebrare l’Uomo».

Poi il suo sorriso diventò ghigno quando, afferrando il microfono gridò:

«Atención atención y atención. IL LATTE È SCA-DUTO».

La luce del lampadario dalle decorazioni egizie che adornava la volta del Teatro di Astana in Kazakistan si spense insieme al brusio del pubblico. Gli orchestrali avevano terminato l’accordatura in attesa del levare del direttore, ma Flavio Tondi, invece di dare l’attacco, si rivolse a loro sussurrando: «Andate a pagina due».

I professori della sua orchestra ancora non sapevano che il maestro, poco prima dell’ingresso del pubblico in sala, aveva allegato un foglio con 33 battute aggiunte alla partitura dell’Ouverture del Don Giovanni, e ancor meno potevano sapere che queste erano le battute scritte da Mozart a sei anni, in fin di vita, e riportate alla luce dai Saint-Germain.

«Suoneremo queste battute, diciamo, ritrovate allo stesso tempo delle precedenti: è Mozart, è la sua musica, e noi siamo una grande orchestra, possiamo leggerla a prima vista interpretandola con arte».

La cembalista spostò subito la pagina cercando il punto di attacco delle battute aggiunte, cominciò a leggerle tra sé, velocissima, poi il suo sguardo interrogativo incontrò quello determinato del maestro, una determinazione che stava contagiando ogni singolo orchestrale.

«Dobbiamo farlo» sussurrò ancora il maestro Tondi.

E tutti sorrisero.

Flavio strinse con la destra l’archetto e con la sinistra il manico del Gagliano; lui dirigeva così, suonando la parte del primo violino, come gli antichi direttori del Diciottesimo secolo. Il suo sguardo era fisso verso la quinta di destra, quella che all’Opéra di Parigi chiamano jardin e alla Scala strada: era lì che Flavio cercava il viso di Paolo illuminato dal display della radio a onde corte, mentre le cuffie riproducevano il grido di Fedora:

«IL LATTE È SCADUTO».

Lo stesso grido che entrava nelle trasmittenti di tutti i suoi hacker in ascolto:

«IL LATTE È SCADUTO».

Baal valutò i monitor con l’eccitazione di chi stava compiendo una grande impresa, perché sbloccare i codici di protezione di un migliaio di compagnie telefoniche rappresentava da anni la nuova frontiera per i demoni della rete. Ma adesso, finalmente, grazie a un nuovo algoritmo lui poteva entrare nei sistemi e restarci per oltre tre minuti: il tempo sufficiente per scatenare l’atto terroristico.

Per scaricare la tensione fece un respiro profondo, poi si alzò dalla postazione e raggiunse uno scaffale, afferrò un vecchio disco in vinile. Era un album del 1967, Something Else by the Kinks.29 Scelse l’ultima canzone del disco, Waterloo Sunset, e posizionò la puntina sulla sesta e ultima traccia del lato B.

Il riff ostinato di chitarra elettrica della ballad invase la stanza e il canale della trasmittente, aperto sulla frequenza di 6840 kHz. Tre minuti e quindici secondi, questa era la durata della canzone, questo il tempo che gli restava per concludere il lavoro.

Waterloo Sunset, ultima traccia lato B.

Dalle casse del vecchio stereo si udì prima il fruscio del vinile, poi quei suoni veri, quei colori musicali autentici che solo il vecchio 33 giri sapeva restituire.

Baal si muoveva danzando e suonando nel vuoto il rullante e i piatti di una batteria invisibile.

 

0:16

Dirty old river,

must you keep rolling,

rolling into the night.

Caro vecchio fiume,

devi continuare a scorrere,

scorrere nella notte.

1:38

I don’t need no friends

as long as I gaze on Waterloo Sunset,

I am in paradise.

Non ho bisogno di amici

finché guardo il tramonto su Waterloo,

sono in paradiso.

2:38

I don’t feel afraid

as long as I gaze on Waterloo Sunset,

Non ho paura

finché guardo il tramonto su Waterloo,

3:14

Waterloo sunset’s fine.

Il tramonto su Waterloo è bello.

Baal schioccò le dita ed esclamò ridendo, con marcato accento cubano: «Y ahora me la mamarán todos!»

Poi fece partire l’invio.

Immaginiamoci la testa di un serpente acciambellato su se stesso che si scinge per proiettarsi in avanti sul terreno, immaginiamola passare tra le case, dentro i muri, sotto i pavimenti calpestati da umani ignari nelle loro faccende occupati. Il serpente viaggia per miliardi di chilometri, a ogni snodo crea altri serpenti, che scivolano su cavi di lunghezze inimmaginabili, attraverso deserti, foreste, galassie metropolitane che lo costringono a scelte di direzione. Oppure procede rettilineo sotto le masse d’acqua degli oceani, protetto e sorvegliato da sommergibili atomici. Geografie diverse, fra loro lontane, messe finalmente in relazione da quell’unico originario impulso elettrico che si sposta fulmineo sotto le piante dei piedi di milioni di passeggeri della metropolitana di Londra, tra i fiori del tempio Sanzenin di Ohara a Kyoto, lungo il Canale di Panama, sotto i percorsi carsici delle acque termali di Saturnia. Il serpente di luce ha una missione: generare serpenti di aria, raggiungere simultaneamente le stazioni radio che attraverso le loro antenne si dovranno connettere con i miliardi di numeri telefonici presenti nei loro database.

Immaginiamoci che il serpente d’aria trasformato in onda radio abbia raggiunto i suoi terminali. Simultaneamente. In tutto il mondo.

Immaginiamolo ora.

New York, Pennsylvania Station. Tra centinaia di persone in attesa, Robert Driver e sua moglie Monica30 aspettavano il treno per Philadelphia. Erano infreddoliti e cercavano conforto nel tepore emanato dai grandi bicchieri di cartone colmi di cappuccino italiano che tenevano tra le mani.

Monica avrebbe voluto accendersi una Marlboro, mentre Robert sarebbe stato fortemente tentato di correggere il suo cappuccino con il brandy nascosto nella tasca interna del cappotto. Mentre le mani si muovevano verso le loro private consolazioni, i telefoni di entrambi cominciarono a vibrare.

Simultaneamente.

Monica si allontanò facendo scattare la chiusura della sua borsa Céline, Robert cercò il cellulare nella tasca del cappotto e, perdendo il controllo del bicchiere, rovesciò il cappuccino. Fu in quel momento che si rese conto, osservando la vibrazione del suo apparecchio nella pozza di latte e caffè, che tutta l’aria della Penn Station era pervasa simultaneamente dalle correnti sonore di migliaia di suonerie.

Parigi, al numero 20 di Rue Leblanc, nella penombra della sala di rianimazione dell’ospedale George Pompidou. Il display del telefono illuminava il viso di Samuela in coma farmacologico.

Astana, Teatro dell’Opera. I professori dell’orchestra erano eccitati, non sapevano cosa avrebbero suonato alla seconda pagina, quale musica avrebbero scatenato, quali colori, quali drammi, quali energie; sapevano solo che era Mozart e che dovevano farlo.

Paolo sollevò le braccia con i pugni chiusi e alzò i pollici verso l’alto. Flavio annuì e diede il levare dell’ouverture.

In volo sul Mare d’Arabia, Carlos era sdraiato sull’ampio sedile del suo Cessna quando i piloti lo svegliarono: «Professor Buyer, un’anomalia: sulla radio e sul telefono satellitare arriva la stessa chiamata. Abbiamo chiesto assistenza alla torre di controllo di Muskat, anche loro hanno lo stesso problema».

Il primo accordo in re minore deflagrò in tutta la sua potenza. Le prime battute erano quelle conosciute, quelle eseguite migliaia di volte dal 1787, per secoli, poi sarebbero seguite le 33 del Puledro dorato, quelle mai udite.

Così cominciò il concerto più straordinario della storia dell’Umanità.

Durante il primo minuto di esecuzione tutto il mondo progressivamente fece silenzio.

In Pennsylvania Station nessuno parlava, tutti erano raccolti su se stessi, attenti a quanto usciva dal telefono. Solo nel momento in cui realizzarono che ognuno di loro stava ascoltando la stessa musica, finalmente si videro.

E cosa videro?

Videro uomini, videro donne; fermi, attenti, silenziosi, insieme.