Alla stesura di questo libro ho dedicato gli ultimi cinque anni della mia vita e mi è stato perciò difficile risalire alle fonti delle mie idee. Non volendo distrarre il lettore con nomi poco familiari e termini tecnici, ho cercato di menzionarle tutte nelle note.
Per dare maggiore autenticità alla narrazione ho chiesto agli intervistati il permesso di citarli con il loro vero nome. In un libro che si prefigge anche di combattere la stigmatizzazione della malattia mentale è importante rifiutare certi pregiudizi e non celare l’identità di chi è affetto da una forma depressiva. Sette dei miei interlocutori hanno però preferito adottare uno pseudonimo per motivi che mi sono parsi più che fondati: nel volume sono citati come Sheila Hernandez, Frank Rusakoff, Bill Stein, Danquille Stetson, Lolly Washington, Claudia Weaver e Fred Wilson. In ogni caso, nessun soggetto è stato tratteggiato riunendo le caratteristiche di più individui e nessun dettaglio è stato modificato. I membri del Mood Disorders Support Groups (MDSG) si conoscono solo per nome di battesimo: per rispettare la loro privacy, esso è stato cambiato. Tutti gli altri nomi sono autentici.
Ho lasciato che i testimoni – le cui battaglie contro la depressione costituiscono il filo conduttore del libro – raccontassero, a modo loro, le loro storie. Ho puntato alla coerenza, senza preoccuparmi di verificare i particolari: in altre parole, non ho insistito affinché i racconti fossero rigorosamente lineari.
Spesso mi viene chiesto come ho reperito i soggetti intervistati. In certi casi sono stati gli stessi medici che mi hanno messo in contatto con i loro pazienti. In altri, persone conosciute occasionalmente, dopo aver appreso l’argomento delle mie ricerche, mi hanno spontaneamente sottoposto le loro complicate vicende, alcune delle quali si sono rivelate interessanti e sono infine diventate materiale prezioso per il libro.
Nel 1998 ho pubblicato un articolo sulla depressione in «The New Yorker»1 e nei mesi successivi ho ricevuto più di un migliaio di lettere sull’argomento. «A volte mi domando come riescano tutti coloro che non scrivono, non compongono musica o non dipingono, a sottrarsi alla follia, alla malinconia, al timor panico inerenti alla condizione umana» disse una volta Graham Greene.2 Io credo che Greene abbia di gran lunga sottovalutato il numero di coloro che scrivono per alleviare in un modo o nell’altro la malinconia e il timor panico. Rispondendo all’enorme numero di lettere ricevute, ho chiesto a quei lettori la cui testimonianza mi era sembrata particolarmente toccante di rilasciarmi un’intervista. Infine, ho parlato e partecipato a varie conferenze durante le quali ho avuto occasione di conoscere gli assistiti dei centri di igiene mentale.
Non ho mai trattato un tema che abbia suscitato tanto interesse e tanta partecipazione in un numero così vasto di persone: la facilità con cui si trova materiale sulla depressione è preoccupante. Mi sono invece reso conto che ciò che manca nel campo degli studi su questo disturbo è la sintesi. La scienza, la filosofia, la giurisprudenza, la psicologia, la letteratura, l’arte, la storia e molte altre discipline si sono occupate, ognuna dal proprio punto di vista, della depressione: la massa di fatti, esperienze personali e storie individuali divulgata e pubblicata è affascinante ma enorme, e il quadro che ne risulta è confuso. Se il primo obiettivo di questo libro è suscitare empatia, il secondo, molto più difficile da raggiungere, è quello di cercare di mettere ordine, un ordine il più possibile basato sui fatti piuttosto che sulle generalizzazioni tratte da un’aneddotica priva di fondamento scientifico.
Vorrei sottolineare che non sono un medico né uno psicologo, e nemmeno un filosofo. Il mio libro è un’opera molto personale, e come tale andrebbe considerata. Pur fornendo spiegazioni e interpretazioni di argomenti complessi, non intende sostituirsi alle terapie del caso.
Per agevolare la lettura, nelle citazioni di fonti scritte o parlate non ho usato parentesi o puntini di omissione dove, a mio avviso, le parole tralasciate o aggiunte non alteravano in modo sostanziale il significato; chi desideri risalire agli originali può consultare le note alla fine del libro. Nel capitolo ottavo ho evitato di ricorrere a «[sic]», laddove le fonti storiche usano una grafia ormai antiquata. Le citazioni prive di riferimenti sono tratte da interviste personali, effettuate perlopiù tra il 1995 e il 2001.
Mi sono basato su dati ricavati da indagini statistiche di riconosciuta affidabilità, preferendo quelle più consolidate e più citate. Tuttavia, ritengo che in questo campo le cifre siano poco probanti e che molti autori se ne avvalgano per costituire un corpus atto a corroborare teorie preesistenti. Per esempio, esiste un importante studio secondo il quale i depressi che abusano di sostanze preferiscono quasi sempre assumere stimolanti, mentre un altro, altrettanto significativo, sostiene che ricorrerebbero agli oppiacei. Numerosi ricercatori traggono dai dati statistici una riprovevole perentorietà, come se dire che un fenomeno avviene nell’82,37 per cento dei casi lo rendesse più reale che dire che si verifica tre volte su quattro. So per esperienza personale che i numeri da soli ingannano giacché sono incapaci di descrivere i fatti in modo esaustivo. L’asserzione più precisa che si possa fare in ordine alla frequenza della depressione è che insorge spesso e che influenza, direttamente o indirettamente, la vita di tutti.
Mi è difficile essere imparziale nei confronti dell’industria farmaceutica, dal momento che mio padre ha operato in questo settore per gran parte della mia vita adulta e ho quindi conosciuto molte delle persone che vi lavorano. Oggi l’opinione pubblica è critica nei confronti di queste aziende, cui rimprovera di sfruttare la sofferenza altrui. A quanto mi consta il settore è gestito con criteri che sono insieme affaristici e idealistici, da uomini attenti al profitto, ma anche convinti che il loro lavoro porterà benefici al mondo intero eliminando per sempre certe patologie. Non disporremmo degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) né degli antidepressivi che hanno salvato tante vite, se le industrie farmaceutiche non avessero finanziato la ricerca. Ho cercato di affrontare il tema con la massima lucidità possibile, giacché rientra nell’argomento trattato. Dopo l’esperienza della mia malattia mio padre ha esteso l’attività della sua azienda al campo degli antidepressivi.3 Come per tutti gli altri medicinali, nel testo non cito il nome commerciale del farmaco da essa distribuito, ma solo il suo principio attivo.
Mi è stato più volte chiesto se la stesura di questo libro abbia avuto su di me un effetto catartico. La risposta è no. La mia esperienza è simile a quella di altri autori che hanno affrontato l’argomento.4 Scrivere sulla depressione implica sofferenza e genera tristezza, solitudine, tensione. Però mi gratificava sapere di stare facendo qualcosa di utile per gli altri; e approfondire le mie conoscenze sull’argomento è servito anche a me. Spero risulti in ogni caso evidente che quest’opera è nata dal piacere letterario della comunicazione, non da una forma di liberazione terapeutica.
Il libro si apre con la descrizione del mio caso; poi ne illustro altri, analoghi, e cerco di inquadrare le diverse forme della malattia. In seguito valuto la depressione in contesti completamente diversi, riportando casi non appartenenti al mondo industrializzato. Spero che il resoconto delle mie esperienze in Cambogia, Senegal e Groenlandia serva a controbilanciare in parte alcune delle specifiche concezioni culturali che hanno limitato non poco l’approccio allo studio dei disturbi depressivi in quelle aree. I miei viaggi in regioni sconosciute sono stati delle vere e proprie avventure venate di un certo esotismo: ho voluto riferirli senza eliminare l’alone di suggestione che li ha contraddistinti.
Per ragioni biochimiche e sociali la depressione è stata ed è, pur sotto varie forme e con diversi nomi, onnipresente. Quest’opera intende appunto delinearne l’estensione temporale e geografica. Se talvolta è ritenuta un disturbo tipico della classe media occidentale, è solo perché la nostra comunità dispone di strumenti più sofisticati per individuarla, definirla, trattarla e accettarla, non certo perché sia una prerogativa esclusiva di tale classe.
Non c’è modo di dar conto della vastità della sofferenza umana, ma cercando di descriverla, mi auguro di riuscire a liberare alcune delle sue vittime. Eliminare l’infelicità è impossibile e d’altra parte alleviare la depressione non è garanzia certa di felicità. Spero tuttavia che il mio libro possa aiutare alcuni depressi a vincere almeno in parte il loro dolore.