III

I trattamenti

Esistono due tipi principali di trattamento della depressione: la psicoterapia, basata sul dialogo, e l’approccio fisico, che comprende sia la somministrazione di farmaci sia la terapia elettroconvulsivante o elettroshock. Conciliare gli aspetti psicosociali e psicofarmacologici del disturbo è difficile ma indispensabile: il fatto che vengano spesso considerati contrapposti può causare non pochi problemi. Farmacoterapia e psicoterapia non dovrebbero essere in competizione tra loro, ma venire usate in modo complementare, in combinazione o a rotazione, a seconda dei casi. In realtà siamo ancora lontani da un modello di terapia globale.

Tra gli psichiatri è diffusa l’abitudine di informare il paziente anzitutto delle cause della depressione (tra le più comuni, i ridotti livelli di serotonina e l’esistenza di traumi passati) e poi della terapia, come se tra i due elementi vi fosse un nesso logico. È una procedura assurda: «Non credo che se le cause del disturbo sono psicosociali esso debba essere trattato con un approccio psicosociale; né che se le cause sono biologiche vada trattato con tecniche biologiche» afferma Ellen Frank dell’università di Pittsburgh. Sorprende in effetti che i pazienti che guariscono dalla depressione grazie alla psicoterapia presentino le stesse variazioni biologiche, per esempio nell’encefalogramma (ECG) durante il sonno, di quelli sottoposti a farmacoterapia.

Gli psichiatri tradizionali considerano la depressione un aspetto integrante dell’individuo che ne è affetto e di cui cercano di modificare la struttura caratteriale, mentre la psicofarmacologia pura vede la malattia come uno squilibrio determinato da fattori esogeni, correggibile senza interferire con il resto della personalità del malato. L’antropologa T.M. Luhrmann ha di recente sottolineato i pericoli di questa dicotomia: «Gli psichiatri dovrebbero considerare i due approcci strumenti differenti ma pur sempre appartenenti alla stessa cassetta degli attrezzi. Invece essi sono presentati come diversi, basati su modelli diversi e usati per scopi diversi».1

Secondo William Normand, uno psicanalista che, quando serve, ricorre al trattamento farmacologico, «la psichiatria, che un tempo era senza cervello, ora è senza mente»: quanti in passato trascuravano la fisiologia cerebrale a favore della componente emozionale ora tralasciano la componente emozionale a favore della chimica cerebrale. In sostanza il conflitto tra terapia psicodinamica e farmacoterapia è un conflitto morale: tendiamo a credere che, se un disturbo risponde al dialogo psicoterapico, possa essere eliminato adottando regole severe e che, viceversa, se risponde all’assunzione di sostanze chimiche, esuli dal nostro controllo e non richieda alcuna disciplina. Se è vero che l’origine delle forme depressive molto lievi è da attribuire al paziente, lo è anche che quasi tutte le depressioni possono migliorare con un maggior rigore.

Gli antidepressivi aiutano chi si aiuta. Se eccediamo nell’impegno, finiamo per peggiorare la nostra condizione, ciononostante dobbiamo impegnarci con una certa intensità se vogliamo davvero sconfiggere il male. Farmaci e psicoterapia vanno utilizzati in base alle effettive necessità. Da parte nostra, noi non dobbiamo né biasimarci né essere troppo indulgenti con noi stessi. Melvin McGuinness, psichiatra al Johns Hopkins Hospital, parla di «volizione, sentimento e conoscenza» che si sviluppano seguendo cicli interrelati, quasi come i bioritmi. Il sentimento influenza la volizione e la conoscenza, senza tuttavia sopraffarle.

La psicoterapia nasce dalla psicanalisi, che a sua volta ha avuto origine dalla rivelazione rituale dei pensieri pericolosi, formalizzata per la prima volta nei confessionali delle chiese. La psicanalisi ricorre a tecniche specifiche atte a riportare alla luce i traumi del passato, responsabili delle nevrosi. Richiede in genere molto tempo (quattro o cinque ore la settimana) e mira a far emergere il contenuto dell’inconscio. Oggi va di moda criticare Freud e le teorie psicodinamiche elaborate dal suo pensiero, ma il modello freudiano, benché imperfetto, è in realtà molto efficace. Secondo la Luhrmann, è pervaso da «un senso dell’umana complessità e profondità, dalla richiesta pressante di combattere i propri rifiuti e dal rispetto per le difficoltà della vita».2

Occupati a criticare Freud per essersi fatto influenzare dai pregiudizi della sua epoca e ad accapigliarci sui dettagli delle sue opere, non ci accorgiamo della sua grande umiltà, della fondamentale verità contenuta nei suoi scritti, ossia che spesso non conosciamo le nostre motivazioni esistenziali e siamo prigionieri di ciò che non riusciamo a capire. Siamo in grado di identificare solo una piccola parte dei nostri impulsi e una parte ancora più piccola di quelli altrui. Se recepiamo anche solo quest’unico concetto, sia che chiamiamo questa forza motrice «inconscio» sia che la definiamo un’«alterazione di alcuni circuiti cerebrali», avremo posto le basi per lo studio della malattia mentale.

La psicanalisi sa spiegare i fatti, ma difficilmente riesce a cambiarli. L’enorme potere del processo psicanalitico è sprecato se l’obiettivo del paziente è quello di ottenere un mutamento immediato del suo stato d’animo. Quando sento che questa tecnica viene impiegata per alleviare la depressione, penso a un uomo su una lingua di sabbia che spara con una mitragliatrice alla marea in arrivo. Le terapie psicodinamiche derivate dalla psicanalisi svolgono invece un ruolo essenziale: è difficile risanare una vita senza sottoporla a un’attenta disamina e la psicanalisi ci insegna che tale esame è sempre illuminante.

Le scuole psicoterapiche più comuni prevedono che il paziente riferisca al terapeuta sensazioni ed esperienze. Per molti anni parlare della depressione è stato il miglior rimedio, e lo è tuttora. «Prendi appunti» scrive la Woolf negli Anni «e il dolore se ne va»: è questo, in sostanza, il processo su cui si fondano gran parte delle psicoterapie. Il ruolo del terapeuta è quello di ascoltare con attenzione e interesse il paziente, che diviene via via consapevole delle sue vere motivazioni e comprende la ragione di certi suoi comportamenti. I principi su cui si basano la maggior parte delle tecniche psicodinamiche affermano che dare un nome alle cose sia un buon metodo per controllarle e che conoscere la causa di un problema sia utile per risolverlo.

Tali terapie non si fermano alla sola conoscenza, ma insegnano strategie efficaci per impiegarla in modo positivo. Il terapeuta non giudica il paziente ma può fornire risposte atte a stimolare la sua percezione interiore e a indurlo quindi a modificare il comportamento in esame, migliorando la qualità della sua vita. La depressione affonda spesso le sue radici nell’isolamento. Un buon terapeuta può aiutare un depresso a entrare in contatto con chi gli è vicino e a costruire strutture che lo sostengano e che mitighino la gravità del suo problema.

Per alcuni, tuttavia, l’indagine introspettiva non ha senso. «A chi interessano le motivazioni e le origini?» si domanda Donald Klein, eminente psicofarmacologo della Columbia University. «Nessuno ha soppiantato Freud perché nessuno ha una teoria migliore della sua. Il punto è che oggi possiamo trattare il disagio. Filosofeggiare sulle sue origini non si è finora rivelato della minima utilità terapeutica.»

È vero che i farmaci ci hanno liberati, ma dovremmo ugualmente preoccuparci dell’origine della malattia. Secondo Steven Hyman «per le coronaropatie non ci limitiamo a scrivere una ricetta. Chiediamo anche ai pazienti di ridurre il colesterolo, prescriviamo loro una certa attività fisica, talvolta una dieta e una terapia di controllo dello stress. Il processo combinatorio non è specifico delle malattie mentali. La diatriba tra farmaci e psicoterapia è ridicola: sono entrambi approcci empirici. La mia visione filosofica mi induce a credere che insieme possano produrre buoni risultati, perché la prima rende i malati più disponibili ad accettare la seconda, contribuisce cioè a creare un circolo virtuoso».

Ellen Frank ha condotto una serie di studi in cui ha dimostrato che la psicoterapia non è certo efficace come i farmaci nella lotta per uscire dalla depressione, tuttavia esercita un effetto protettivo nei confronti di eventuali recidive. I dati raccolti a questo proposito sono complessi, ma suggeriscono che la combinazione dei due metodi sia preferibile all’utilizzo di un’unica tecnica. «È questa la strategia terapeutica utile per prevenire la ricorrenza di un episodio» afferma la Frank «ma non mi è chiaro quanto spazio ci sarà, nell’assistenza sanitaria del futuro, per un approccio integrato, il che mi spaventa.»3

In una recente indagine effettuata in collaborazione con le équipe di altre università su un campione di depressi, Martin Keller, del Dipartimento di Psicologia della Brown University, ha messo in luce che meno della metà dei soggetti era andato incontro a un miglioramento significativo con la sola farmacoterapia. L’analisi cognitivo-comportamentale impiegata da sola aveva portato allo stesso risultato. Nei casi invece in cui le due tecniche erano state combinate i pazienti migliorati arrivavano all’80 per cento. L’opportunità di integrare i metodi è dunque chiara. «La fluoxetina non dovrebbe evitare l’introspezione ma favorirla» ha dichiarato irritato Robert Klitzman della Columbia University. «I medici sentono di essere pronti a identificare e capire quest’assurda pena, ma tutto ciò che possono fare è distribuire leccalecca biomedicali a chi ne è prigioniero» scrive la Luhrmann.

Se la realtà esterna vi ha gettato nell’abisso della depressione, è naturale voler capire, anche quando tutto è finito. L’ottundimento indotto dall’assunzione di sostanze chimiche non equivale alla guarigione. Sia il problema sia la nostra percezione del problema devono essere attentamente considerati. Nella nostra epoca, incline all’assunzione di farmaci, il numero di pazienti trattati è aumentato e lo stato generale della salute è quindi migliorato.

Ma è molto pericoloso relegare la psicoterapia al ruolo di cenerentola. Grazie a questo strumento, infatti, il paziente riesce a dare un senso al nuovo sé che i farmaci gli hanno donato e ad accettare la perdita del sé avvenuta durante la crisi. Dopo un episodio depressivo grave l’individuo deve rinascere e apprendere i comportamenti in grado di proteggerlo dalle recidive. Deve imparare a vivere in modo diverso da prima. «È molto difficile regolare la propria vita, il sonno, la dieta o l’attività fisica, in qualsiasi circostanza» dichiara Norman Rosenthal del National Institute of Mental Health «figurarsi quando si è depressi! Per riuscirci ci vuole un terapeuta che sia quasi un allenatore. La depressione è una malattia, non una scelta di vita, e serve aiuto per guarirne.»

«Le medicine trattano la depressione» mi ha detto un giorno il mio terapeuta. «Io tratto i depressi.» Che cosa ci calma? Che cosa invece aggrava i sintomi? Non c’è una differenza netta, dal punto di vista chimico, tra la depressione scatenata da un lutto in famiglia e la depressione causata dalla fine di una relazione effimera. Benché una reazione estrema appaia più plausibile nel primo caso, l’esperienza clinica è pressoché identica. Come ha affermato Sylvia Simpson, clinico al Johns Hopkins, «Se sembra depressione, trattala come tale».

Quando iniziarono le prime avvisaglie della mia seconda crisi, non ero più in analisi e non avevo quindi un terapeuta. Tutti mi consigliarono di trovarne subito uno. Cercare un terapeuta quando ci si sente allegri e comunicativi è difficile e poco piacevole; farlo quando si è vittima di una depressione maggiore supera ogni limite. Per trovare la persona giusta è importante consultarne molti. Io ne provai undici in sei settimane, ripetendo a ognuno la litania delle mie afflizioni, finché non ebbi l’impressione di recitare un monologo scritto da un altro. Alcuni mi sembrarono avveduti, altri bizzarri. Un’analista aveva ricoperto tutti i mobili per proteggerli dai suoi vivacissimi cani e continuava a offrirmi assaggi di un pesce dall’aria ammuffita che mangiava da un contenitore di plastica. Me ne andai quando uno dei cani mi fece pipì sulla scarpa.

Un terapeuta mi diede un indirizzo sbagliato («Oh, mi scusi, un tempo avevo lo studio proprio lì»). Un altro mi disse che i miei non erano problemi reali e che dovevo sforzarmi di tirarmi su. Una terapeuta mi confessò di non credere nei sentimenti, mentre un suo collega pareva credere solo in essi. Incontrai il cognitivista, il freudiano che si morse le unghie per tutta la durata della seduta, lo junghiano e l’autodidatta. Uno continuava a interrompermi per dirmi che ero proprio come lui; alcuni parvero non capirmi affatto quando tentai di spiegar loro chi fossi.

Supponevo da tempo che numerosi dei miei amici «bene adattati» andassero da un terapeuta. Scoprii allora che molti di questi individui «bene adattati», che hanno una relazione normale con il coniuge, ne instaurano una pazzoide con i loro eccentrici terapeuti, non fosse altro che per amore di equilibrio. «Si cerca di valutare gli effetti della farmacoterapia e della psicoterapia» spiega Steven Hyman. «Perché non si conducono studi analoghi per valutare gli effetti di un terapeuta competente o incompetente?»

Alla fine feci una scelta che mi soddisfa ancora oggi: optai per una persona dalla mente vivace, in cui avevo scorto un lampo di autentica umanità e che mi sembrava intelligente e leale. Vista la mia brutta esperienza con l’analista precedente, che aveva interrotto la terapia e mi aveva appoggiato quando avevo deciso di non assumere farmaci mentre invece ne avevo un disperato bisogno, all’inizio restai sulle mie: impiegai circa tre o quattro anni per fidarmi di lui. Nei momenti di agitazione e di crisi si è sempre dimostrato fermo, in quelli piacevoli si è rivelato divertente e io apprezzo molto il senso dell’umorismo nelle persone con cui trascorro parecchio tempo. È in buoni rapporti con il mio farmacologo e mi ha infine convinto che sa il fatto suo e che vuole aiutarmi.

È valsa davvero la pena di fare dieci tentativi a vuoto. Non andate mai da un terapeuta che non vi va a genio: le persone che non vi piacciono, per quanto esperte, non potranno aiutarvi. Se pensate di essere più intelligenti del vostro analista, probabilmente è vero: un diploma in psichiatria o psicologia non è una garanzia di genialità. Siate molto cauti nella scelta. È stupefacente vedere come certe persone, che affrontano venti minuti in più di auto per portare i vestiti alla tintoria preferita o che protestano con il gestore del supermercato perché sono finiti i pomodori in scatola che preferiscono, scelgano lo psichiatra come se fosse un commesso. Ricordate: gli affidate come minimo la vostra mente. Tenete anche presente che dovrete raccontagli cose che non si possono vedere. «È così difficile» mi ha scritto in un’occasione Laura Anderson «fidarsi di qualcuno quando il problema è nebuloso, al punto che non sai se ti abbiano capito. E anche per loro non è semplice.»

Di fronte a uno psichiatra assumo un atteggiamento incredibilmente controllato, anche se sono in preda alla disperazione più nera. Mi siedo con la schiena diritta e non piango. Mi descrivo con ironia e faccio battute macabre, nel tentativo di conquistare chi si deve prendere cura di me e che in realtà non desidera affatto essere conquistato. Talora mi domando se mi credano quando riferisco i miei stati d’animo, dato che io stesso percepisco il distacco nella mia voce. Immagino quanto deplorino questa specie di corazza sociale attraverso cui i miei veri sentimenti filtrano tanto a stento. Spesso vorrei poter dare pieno sfogo alle emozioni nel loro studio. Non sono mai riuscito a recepire come privato lo spazio della terapia: il modo in cui parlo a mio fratello, per esempio, scompare quando mi trovo di fronte a un medico, forse per ragioni di insicurezza. Solo di tanto in tanto una preziosa scintilla della mia realtà oltrepassa la barriera, sia pure sotto forma di essenza più che di descrizione vera e propria.

Una delle strategie per valutare uno psichiatra è osservare la correttezza con cui inquadra il vostro caso. L’arte dell’anamnesi iniziale sta nel porre le domande giuste. Non ho mai sostenuto un colloquio a quattr’occhi con uno psichiatra, ma sono stato più volte ricoverato in ospedale e sono rimasto stupefatto dalla varietà di approcci usati con i pazienti depressi. Gran parte degli ottimi psichiatri che ho incontrato cominciavano con l’indurre il malato a raccontare la sua storia; poi, all’improvviso, gli ponevano una serie studiata di domande, volte a carpire le informazioni specifiche necessarie.

L’abilità nel condurre tale indagine costituisce uno dei più grandi talenti di un clinico. In dieci minuti di colloquio Sylvia Simpson, medico al Johns Hopkins, è riuscita a stabilire che una paziente, reduce da un tentato suicidio, era affetta da disturbo bipolare. La psichiatra della donna, che la seguiva da cinque anni, non aveva colto questo dato essenziale e le aveva prescritto antidepressivi senza preparati che ne stabilizzassero l’umore, uno schema terapeutico inadeguato per i soggetti bipolari, nei quali causa spesso stati agitati misti. Quando ne parlai con la Simpson, lei mi fece osservare che c’erano voluti «anni di duro lavoro per arrivare a concepire quelle domande».

Tempo dopo assistetti ad alcuni colloqui di Henry McCurtiss, direttore del reparto psichiatrico dell’Harlem Hospital, con individui rimasti da poco senza un tetto. McCurtiss dedicava almeno dieci dei venti minuti previsti alla ricostruzione della storia abitativa dei soggetti. Quando gli domandai perché si attenesse a questo protocollo mi spiegò: «Chi ha vissuto in un posto a lungo e, a causa di circostanze avverse, è al momento senza casa, sa condurre una vita regolata e ha bisogno in primo luogo di un intervento sociale. Chi ha sempre girovagato, è rimasto più volte senza un tetto o non ricorda neppure dove ha vissuto, presenta di solito una patologia sottostante e necessita in prima istanza di un intervento psichiatrico».

Sono fortunato ad avere una valida assicurazione sanitaria, che mi consente di recarmi ogni settimana dallo psicoterapeuta e ogni mese dallo psicofarmacologo: nella maggior parte dei sistemi sanitari si preferisce infatti optare per la farmacoterapia, relativamente economica, piuttosto che per la psicoterapia e i ricoveri, entrambi lunghi e costosi.

Le psicoterapie più efficaci nel trattamento della depressione sono la cognitivo-comportamentale e l’interpersonale. La prima è di tipo psicodinamico (si basa, cioè, sulle risposte emozionali e mentali a eventi esterni, sia presenti sia passati), e rigorosamente mirata al perseguimento di specifici obiettivi.4 Elaborata da Aaron Beck dell’Università della Pennsylvania, è oggi molto diffusa negli Stati Uniti e in Europa occidentale. Secondo Beck, i pensieri che nutriamo nei confronti di noi stessi sono spesso distruttivi, ma se costringiamo la mente a pensare in modo positivo, possiamo modificare la nostra realtà: si tratta, in sostanza, di adottare l’atteggiamento che uno dei suoi collaboratori ha definito «ottimismo acquisito».5 Beck ritiene che la depressione sia conseguenza di una falsa logica e che, correggendo i ragionamenti negativi, sia possibile migliorare la propria salute mentale. La terapia cognitivo-comportamentale mira a insegnare l’oggettività.

Il terapeuta aiuta in primo luogo il paziente a compilare un elenco di «dati storici esistenziali», ovvero a ricostruire la sequenza dei problemi che lo hanno portato alla situazione in cui si trova. In seguito traccia uno schema delle risposte che questi ha avuto di fronte alle difficoltà, cercando di individuare eventuali reazioni eccessive. Il malato comprende perché alcuni eventi gli sembrino così deprimenti e cerca di evitare le modalità di risposta scorrette. Oltre a un aspetto macroscopico, la terapia cognitivo-comportamentale ne presenta uno microscopico: il paziente apprende cioè a neutralizzare i «pensieri automatici».

I sentimenti non sono risposte dirette al mondo: ciò che accade nel mondo influenza il nostro processo cognitivo, il quale a sua volta influenza i sentimenti. Se il soggetto riesce a modificare il processo cognitivo, modificherà anche gli stati d’animo concomitanti. Per esempio, una moglie potrebbe imparare a considerare l’apprensione del marito come una risposta ragionevole ai problemi di lavoro piuttosto che una forma di rifiuto nei suoi confronti. Si renderebbe allora conto di come i suoi pensieri automatici (come quello di «essere uno sgorbio insignificante») si trasformino in sentimenti negativi (biasimo per se stessa) e come questi generino depressione. Una volta interrotto il ciclo, la paziente riesce a recuperare un certo autocontrollo e a distinguere ciò che accade realmente dalla sua idea di ciò che accade.

La terapia cognitivo-comportamentale segue precisi criteri. L’analista assegna al paziente numerosi compiti da eseguire, per esempio compilare elenchi delle esperienze positive e di quelle negative, che talora vengono trasformati in grafici. Per ogni seduta prepara inoltre una specie di ordine del giorno, che viene rispettato seguendo un preciso schema. Ogni seduta termina con un riassunto del lavoro svolto. Fatti e consigli esulano dai colloqui. Il paziente viene aiutato a individuare i momenti gradevoli della sua giornata e ad apprendere l’arte di integrare il piacere emozionale nella vita quotidiana. Diviene inoltre consapevole del proprio processo cognitivo, ossia impara a evitare gli schemi negativi e a modificare la sua elaborazione interiore in base a modalità meno dannose. Tutte queste attività sono strutturate mediante appositi esercizi. La terapia cognitivo-comportamentale insegna, in sostanza, la consapevolezza di sé.

Non ho mai sperimentato questa terapia, ma ne ho tratto alcuni utili insegnamenti. Se durante una conversazione seria sentiamo l’impulso di ridacchiare, possiamo talvolta bloccarlo concentrandoci su qualcosa di triste. Se durante un rapporto sessuale non riusciamo a provare desiderio, possiamo stimolarlo con fantasticherie molto lontane dalla realtà: le nostre azioni e le reazioni del nostro corpo avverranno in tale dimensione irreale. È questa la strategia di fondo della terapia cognitiva. Se siamo convinti che nessuno ci possa amare e che la vita sia priva di senso, possiamo riprogrammare la mente e costringerci a rievocare un ricordo, anche se vago, di un momento migliore.

È difficile lottare con la propria coscienza perché l’unica arma di cui si dispone in questa battaglia è la coscienza stessa. Eppure, i pensieri gradevoli, sereni, leniscono il dolore. Provate a pensare a ciò a cui non avete voglia di pensare: sembra una tecnica artificiosa, ingannevole, ma è molto efficace. Scacciate dalla mente tutte le persone che associate al vostro senso di perdita, impedite loro di accedere alla vostra coscienza. La madre che vi ha abbandonato, l’amante insensibile, il capo odioso, l’amico sleale: chiudeteli tutti fuori. Funziona. Io so quali riflessioni e quali preoccupazioni mi mettono al tappeto, perciò sono prudente. Se, per esempio, penso alle donne che ho amato e sento acutamente la loro mancanza, capisco di dover bloccare quei ricordi e cercare di non evocare troppe immagini di una felicità passata, che nella sua forma materiale è ormai tanto lontana. Preferisco prendere un sonnifero piuttosto che lasciare vagare la mente su questioni tristi mentre, steso a letto, aspetto di addormentarmi. Come uno schizofrenico a cui viene detto di non ascoltare le voci, combatto in continuazione con queste immagini.

Una volta conobbi una sopravvissuta all’olocausto, una donna che aveva trascorso più di un anno a Dachau e che vi aveva visto morire tutta la sua famiglia. Le chiesi come fosse riuscita a farcela e lei mi spiegò che fin dall’inizio aveva capito che, se si fosse abbandonata al pensiero di quanto stava accadendo, sarebbe impazzita e morta: «Decisi di pensare solo ai miei capelli, e così feci per tutto il tempo in cui rimasi lì. Pensavo a quando lavarli, a come pettinarli con le dita, a come comportarmi con le guardie per evitare che mi rasassero a zero. Passavo ore e ore a lottare con i pidocchi che erano dappertutto. La mia mente si concentrò su un obiettivo che era alla mia portata e che divenne tanto dominante da isolarmi dalla realtà di ciò che stava succedendo, aiutandomi a sopravvivere». Questo è, in versione e in circostanze estreme, il principio su cui si basa la terapia cognitivo-comportamentale. Se riusciamo a incanalare i nostri pensieri in determinate direzioni, questo può salvarci.

Quando Janet Benshoof venne a casa mia per la prima volta, provai una forte soggezione. Brillante avvocato, è stata una delle figure di spicco nella lotta per il diritto all’aborto. Janet è una persona che colpisce sotto ogni aspetto: colta, poliedrica, attraente, gradevole, alla mano. Pone domande con l’occhio esperto di chi sa cogliere subito la verità. Perfettamente padrona di sé, mi ha parlato delle sue crisi depressive, che l’avevano quasi ridotta a una larva. «I successi nelle mie attività sono le stecche di balena del busto che mi permette di stare in piedi: senza di essi sarei un ammasso informe. Non so perlopiù chi o che cosa sorreggano, ma so che sono la mia unica protezione» afferma. E aggiunge di aver lavorato molto intensamente sulle sue fobie con l’aiuto di un terapeuta. «Quella di volare era proprio brutta» commenta. «Perciò lui decise di venire con me in aereo per osservarmi. Ogni volta ero certa che mi sarei imbattuta in qualche ex compagno di scuola che non vedevo dai tempi del liceo. Seduta accanto a quel grassone con la camicia che quasi gli scoppiava, avrei dovuto spiegargli: “Questo è il mio terapeuta comportamentale: sta cercando di farmi superare la fobia dell’aereo”. Devo però ammettere che ha funzionato. Analizzammo tutti i miei pensieri, minuto per minuto, e li modificammo. Oggi non ho più attacchi di panico quando volo.» La terapia cognitivo-comportamentale è ormai ampiamente utilizzata e, a quanto pare, ha un’influenza significativa sulla depressione.

Anche la terapia interpersonale, ideata da Gerald Klerman, della Cornell University, e da sua moglie Myrna Weissman, della Columbia, sembra dare ottimi risultati.6 Essa prende in considerazione la realtà immediata della vita quotidiana: invece di elaborare uno schema onnicomprensivo, basato sulla storia personale del paziente, si focalizza su specifici fatti del presente. Non mira a trasformare il soggetto in una persona più profonda, ma a insegnargli a trarre il meglio da sé. Si tratta di una terapia a breve termine, con limiti e margini d’intervento ben definiti, secondo la quale molte depressioni avrebbero come causa o conseguenza un fattore stressogeno esistenziale, eliminabile mediante un’adeguata interazione con gli altri.

Il trattamento si articola in due fasi: nella prima il paziente impara a recepire il suo disturbo come un problema esterno, viene informato sulle sue caratteristiche generali e aiutato a definire i sintomi lamentati. Quindi viene invitato ad assumere il ruolo del malato e a identificare un processo di guarigione, nonché a catalogare tutti i suoi rapporti interpersonali. Con l’aiuto del terapeuta stabilisce ciò che ha e ciò che desidererebbe avere da ognuno di essi. Il terapeuta lo guida inoltre nell’elaborazione delle strategie migliori per ottenere quello di cui necessita nella vita.

I problemi vengono distinti in quattro categorie: dolore, differenze di ruolo con amici intimi e familiari (per esempio quello che si dà e quello che ci si attende in cambio), stati di transizione stressogena nella vita privata o professionale (per esempio divorzio o perdita del lavoro) e isolamento. Infine, terapeuta e paziente si prefiggono alcuni obiettivi realistici e quantificano il tempo in cui raggiungerli. La terapia interpersonale ci mette davanti la nostra vita in termini chiari, equilibrati.

Quando si è depressi è importante non reprimere i propri sentimenti ed evitare sia le discussioni violente sia gli atteggiamenti offensivi. Si dovrebbe rifuggire sempre dai comportamenti emozionalmente dannosi. Gli altri ci perdonano, ma è preferibile non arrivare a quel punto. In una fase depressiva abbiamo bisogno dell’affetto altrui, eppure proprio la malattia ci stimola a compiere azioni che distruggono l’amore. Spesso i depressi si autoaffondano. La mente conscia può però intervenire: non siamo indifesi. Una sera, poco dopo essere uscito dalla terza crisi, andai a cena con papà, che disse qualcosa che mi mise di malumore. Reagii – me ne resi subito conto – alzando la voce e replicando con parole aspre, e mi allarmai. Vidi mio padre chiudersi in sé, allora respirai a fondo e dopo una pausa significativa gli chiesi scusa, aggiungendo che avevo promesso di non gridare mai con lui e di non assumere atteggiamenti manipolatori su determinate questioni.

So che può apparire stucchevole, ma la capacità di intervenire consciamente può davvero mutare una situazione. In un’occasione un amico dallo spirito mordace osservò che, per duecento dollari l’ora, il suo psichiatra avrebbe potuto cambiare la sua famiglia e lasciare lui in pace. Purtroppo, non funziona così.

La terapia cognitivo-comportamentale e la terapia interpersonale offrono numerosi vantaggi, ma è pur sempre vero che qualsiasi trattamento è valido nella misura in cui lo è il terapeuta. La sua figura è, infatti, più importante dell’approccio prescelto. Un soggetto con cui instauriamo un’intesa profonda ci potrà aiutare anche solo chiacchierando in un ambiente informale, più di un individuo ben preparato ed esperto di tecniche complicate, con il quale però non riusciamo a stabilire un contatto. I due fattori chiave sono l’intelligenza e la percezione interiore: il tipo e le modalità dell’introspezione usata hanno un’importanza secondaria.

Un’indagine significativa condotta nel 1979 ha dimostrato che qualsiasi terapia può essere efficace se si rispettano determinati principi: il terapeuta deve agire in buona fede, il paziente deve essere convinto che il terapeuta sappia utilizzare la tecnica adottata, nonché apprezzarlo e rispettarlo. Infine, il terapeuta deve essere in grado di instaurare rapporti umani basati sulla comprensione. Per lo studio sono stati selezionati alcuni docenti di inglese dotati di tale qualità, i quali, in media, sono risultati in grado di aiutare i pazienti come i terapeuti professionali.7

«La mente non può esistere senza il cervello, ma può influenzarlo. A quale dei due appartenga la biologia che non comprendiamo è un problema pratico e metafisico» sostiene Elliot Valenstein, professore emerito di psicologia e neuroscienza all’Università del Michigan. L’esperienziale può essere impiegato per influenzare il fisico. Come afferma James Ballenger, del Medical College della South Carolina, «la psicoterapia cambia la biologia. La terapia comportamentale cambia la biologia del cervello, probabilmente come fanno i farmaci». Alcune terapie cognitive efficaci contro l’ansia riducono il metabolismo cerebrale; le terapie farmacologie diminuiscono il livello d’ansia in modo speculare. Questo è, in sostanza, il principio in base a cui agiscono gli antidepressivi che, variando il tasso di determinate sostanze cerebrali, modificano gli stati d’animo e le azioni del paziente.

Gran parte dei fenomeni che si verificano nel cervello durante una crisi depressiva non sono tuttora manipolabili dall’esterno.8 La ricerca di una cura farmacologia della depressione si è concentrata soprattutto sulla possibilità di influenzare i neurotrasmettitori, forse perché disponiamo della tecnica adeguata per farlo. Poiché è noto che l’abbassamento del livello di alcuni neurotrasmettitori può provocare la depressione, oggi si cerca di scoprire se, aumentando quei livelli, si possa indurre una regressione del disturbo. In effetti, molti farmaci capaci di incrementarli sono spesso ottimi antidepressivi.

L’idea di conoscere il nesso tra neurotrasmettitori e umore appare confortante, ma non è del tutto vera: in realtà, si tratta solo di un meccanismo indiretto. I soggetti che presentano una quantità elevata di neurotrasmettitori cerebrali non sono più felici di quelli che ne hanno pochi. I depressi non ne hanno, in genere, un numero minore. Somministrare dosi extra di serotonina al cervello non arreca alcun beneficio iniziale; se si induce un paziente a consumare più triptofano (presente in molti alimenti fra cui la carne di tacchino, le banane e i datteri), che aumenta il tasso di serotonina, non si ottiene un miglioramento immediato, anche se una riduzione del medesimo nella dieta può aggravare gli stati depressivi.9

Il grande interesse attualmente suscitato dalla serotonina è, nel migliore dei casi, dettato da ingenuità. Come ha osservato con un certo sarcasmo Steven Hyman «si fanno troppe chiacchiere sulla serotonina e poca neuroscienza. Noi qui non intendiamo certo istituire la Giornata celebrativa della Serotonina».10 In condizioni normali la serotonina viene liberata dai neuroni, per poi essere riassorbita e rilasciata nuovamente. Gli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) bloccano il processo di riassorbimento, aumentando quindi il livello di serotonina in circolo nel cervello. Quest’ultima sostanza rappresenta uno strumento diretto per lo sviluppo delle specie: è presente nelle piante, negli animali inferiori e nell’uomo e, a quanto pare, svolge molteplici funzioni, diverse però da specie a specie.

Nell’uomo è uno dei numerosi meccanismi che controllano la vasocostrizione e la vasodilatazione; favorisce inoltre la cicatrizzazione delle ferite, inducendo la coagulazione sanguigna atta a controllare il sanguinamento, è implicata nelle reazioni infiammatorie e influenza la digestione. Interviene direttamente anche nella regolazione del sonno e nel controllo di depressione, aggressività e impulsi suicidi.

Gli antidepressivi impiegano molto tempo prima di indurre cambiamenti tangibili: solo dopo due, sei settimane il depresso beneficerà della variazione del livello di neurotrasmettitori da essi provocata. Ciò suggerisce che il miglioramento interessi alcune aree cerebrali che rispondono a tale variazione: a questo proposito sono state formulate molte teorie, ma nessuna appare definitiva.

Quella più diffusa fino a poco tempo fa era la teoria dei recettori basata, per l’appunto, sui numerosi recettori che il cervello possiede per ciascun neurotrasmettitore. Quando quest’ultimo è presente in quantità elevata, c’è bisogno di un minor numero di recettori perché il neurotrasmettitore «sommerge» tutti quelli esistenti. Viceversa, quando è presente in quantità ridotta, il cervello deve ricorrere a un maggior numero di recettori per poterne assorbire il più possibile. Pertanto, all’aumentare del livello di neurotrasmettitori, diminuisce quello dei recettori, il che consente alle cellule dotate di tale funzione di rispecializzarsi e di svolgere altri compiti.

Studi recenti hanno tuttavia dimostrato che i recettori non impiegano molto tempo per rispecializzarsi: si modificano nell’arco di mezz’ora dal cambiamento dei neurotrasmettitori. La teoria dei recettori non spiega, dunque, l’intervallo di tempo che intercorre tra l’assunzione degli antidepressivi e la loro azione.11 Molti ricercatori ritengono tuttavia che la risposta tardiva a tali preparati sia dovuta a un mutamento graduale della struttura cerebrale. L’effetto dei farmaci è probabilmente indiretto. Il cervello umano è straordinariamente plastico: le cellule possono acquisire nuove specializzazioni e cambiare dopo un trauma, «imparando» funzioni del tutto nuove.

Quando aumentiamo il livello di serotonina e induciamo determinati recettori a cessare la loro funzione, in altre regioni del cervello si verificano fenomeni che correggono lo squilibrio responsabile del nostro malessere. I meccanismi di tale processo sono però sconosciuti. «C’è l’azione immediata del farmaco, che agisce su una specie di scatola nera di cui non sappiamo nulla, la quale a sua volta favorisce la guarigione» spiega Allan Frazer, direttore del Dipartimento di Psicologia dell’Università del Texas a San Antonio. «Aumentando la serotonina si ottengono gli stessi risultati che si registrano aumentando la noradrenalina. Abbiamo quindi due scatole nere funzionalmente diverse? O ne abbiamo una sola? O ancora, un fenomeno causa l’altro, che a sua volta influenza la scatola nera?»12

«È come porre un granello di sabbia in un’ostrica» osserva Steven Hyman a proposito degli antidepressivi. «Con il tempo si trasforma in perla. L’effetto terapeutico si manifesta per gradi, nel corso di più settimane, mediante gli adattamenti alle alterazioni dei neurotrasmettitori.»

«Gli antidepressivi sono farmacologicamente, non comportamentalmente, specifici. La chimica dei prodotti è molto specifica, ma Dio solo sa che cosa accade nel cervello» commenta Elliot Valenstein, dell’Università del Michigan.

«Esistono diversi meccanismi capaci di indurre effetti antidepressivi: farmaci caratterizzati da uno spettro di attività biochimica molto diverso presentano un’azione simile. Le loro affinità sono, peraltro, del tutto inattese. Si possono ottenere quasi gli stessi effetti con il sistema della serotonina e della noradrenalina e, in alcuni soggetti, anche con quello della dopamina. Non è semplice: è come il clima. Se si interviene in un’area e si varia la velocità del vento o l’umidità, si produce un clima completamente diverso. Ma nessun meteorologo, nemmeno il più esperto, può sapere con certezza quale sia il cambiamento cruciale e quale il suo risultato» dichiara William Potter, direttore della sezione psicofarmacologica del National Institute of Mental Health negli anni Settanta e Ottanta, oggi responsabile del settore nuovi farmaci della Eli Lilly.

Ha importanza che gran parte degli antidepressivi sopprimano il sonno REM o si tratta di un effetto collaterale irrilevante? È significativo che gli antidepressivi abbassino di solito la temperatura cerebrale che, nella depressione, tende ad aumentare nelle ore notturne? È ormai chiaro che tutti i neurotrasmettitori interagiscono e si influenzano a vicenda.13

I modelli animali sono imperfetti, ma possono fornire informazioni utili.14 Le scimmie separate dalla madre nell’infanzia diventano psicotiche: presentano una diversa fisiologia cerebrale e un tasso molto minore di serotonina rispetto a quelle cresciute con la madre. In diversi animali le separazioni ripetute dalla madre si associano a un eccesso di cortisolo. La fluoxetina è in grado di eliminare questi effetti.15 Se un maschio dominante di una colonia di cercopitechi viene trasferito in un’altra colonia in cui non ha più tale ruolo, va incontro a dimagramento, calo della prestazione sessuale, alterazioni del sonno e a tutti gli altri sintomi caratteristici della depressione maggiore. Aumentando il suo tasso di serotonina, si ottiene quasi sempre la remissione totale dei sintomi.16 Gli animali con un livello basso di tale sostanza tendono a brutalizzare i loro simili, a correre rischi inutili, illogici, e a competere senza motivo.17

I modelli animali impiegati per studiare la correlazione tra fattori esogeni e livelli di serotonina hanno permesso di ottenere dati illuminanti. Una scimmia che risale la scala gerarchica del suo gruppo presenta un tasso sempre maggiore di serotonina via via che cresce di rango, e una maggiore quantità della stessa si associa con un minor tasso di aggressività e di suicidio.18 Se tale scimmia viene isolata e quindi privata del suo status sociale, va incontro a una riduzione della serotonina pari addirittura al 50 per cento. Se, infine, viene trattata con inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, diviene meno aggressiva e incline a comportamenti autodistruttivi.19

Esistono attualmente quattro categorie di antidepressivi: i più diffusi sono gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), che ne aumentano il livello cerebrale. La fluoxetina, la fluvoxamina, la paroxetina, la sertralina e il citalopram appartengono tutti a questo gruppo. Vi sono anche due tipi più vecchi di antidepressivi: i triciclici, così chiamati per la loro struttura chimica, che influenzano la serotonina e la dopamina. L’amitriptilina, la clomipramina, la desipramina, l’imipramina e la nortriptilina sono tutti farmaci triciclici. Gli inibitori delle monoaminossidasi (MAOI) bloccano la scomposizione della serotonina, della dopamina e della noradrenalina: fenelzina e tranilcipromina sono entrambe MAOI. Un’altra categoria, gli antidepressivi atipici, comprende quei farmaci che agiscono su più sistemi di neurotrasmettitori: tra questi si annoverano amoxapina, amfebutamone, nefazodone e venlafaxina.

La scelta del preparato viene di solito effettuata, almeno all’inizio, in base agli effetti collaterali.20 Sarebbe auspicabile scoprire un metodo per valutare la responsività dei pazienti ai singoli farmaci, ma finora ogni tentativo si è rivelato vano.

«Tranne rare eccezioni, la scelta di un certo antidepressivo per un determinato paziente si fonda su criteri ben poco scientifici» spiega Richard A. Friedman del Cornell’s Payne-Whitney Hospital. «La risposta a un farmaco registrata nel passato è predittiva della risposta futura. Se un paziente è affetto da un sottotipo specifico di depressione, la depressione atipica, in cui mangia e dorme troppo, otterrà risultati migliori con un MAOI piuttosto che con un triciclico, anche se in tali casi gran parte dei clinici usa somministrare i preparati più nuovi. In ogni caso, in prima istanza si sceglie il farmaco in base alla scarsità di effetti collaterali che sembra comportare. Si può optare per un preparato dall’effetto maggiormente attivante, come l’amfebutamone, se il soggetto è affetto da ritiro sociale, o per uno dall’azione inibente, per un depresso agitato ma, a parte ciò, si procede per tentativi. I foglietti illustrativi indicano la maggiore o minore frequenza di effetti indesiderati, ma per esperienza posso affermare che sotto questo aspetto non esistono grandi differenze all’interno di una classe specifica. Le differenze di risposta a livello individuale possono, tuttavia, risultare molto marcate.»

La grande popolarità degli SSRI – la cosiddetta rivoluzione della fluoxetina – è dovuta non solo alla maggiore efficacia, ma anche all’esiguità degli effetti collaterali e alla sicurezza di tali preparati. Con questi farmaci è quasi impossibile suicidarsi, il che rappresenta un fattore importante nel trattamento dei depressi i quali, durante la fase di guarigione, possono sviluppare comportamenti autodistruttivi. «La fluoxetina è un farmaco ben accetto» afferma un ricercatore della Eli Lilly. La riduzione degli effetti collaterali non solo induce più facilmente i pazienti ad assumere il medicinale, ma li spinge anche a osservare con maggiore rigorosità lo schema terapeutico. Ciò in base allo stesso principio secondo cui, se un dentifricio ha un buon sapore, ci laviamo i denti più a lungo.

In alcuni casi gli SSRI causano nausea e, più di rado, cefalea, stordimento, insonnia e sonnolenza. Il loro effetto collaterale più significativo è però la compromissione della sessualità. «Quando prendevo la fluoxetina» spiega Brian D’Amato, un amico affetto da problemi depressivi, «Jennifer Lopez avrebbe potuto apparirmi in vesti succinte accanto al letto e io le avrei chiesto di darmi una mano col lavoro.» Anche i triciclici e i MAOI influenzano negativamente la vita sessuale: prevalenti sul mercato fino alla fine degli anni Ottanta, questi preparati venivano di solito prescritti solo per le forme depressive più gravi, al cui confronto eventuali problemi sessuali apparivano secondari. Pertanto, la loro azione negativa sotto tale profilo non è stata valutata così criticamente come è avvenuto per gli SSRI. Alcune indagini condotte nella fase di introduzione sul mercato della fluoxetina avevano segnalato un numero limitato di casi di compromissione della vita sessuale.

Dagli studi effettuati in seguito, mirati a valutare in modo specifico i disturbi sessuali, è emerso che un gran numero di pazienti ne era affetto. Anita Clayton, dell’Università della Virginia, distingue l’esperienza sessuale in quattro fasi: desiderio, eccitazione, orgasmo e risoluzione. Gli antidepressivi le influenzano tutte e quattro. Il desiderio viene alterato dalla diminuzione della libido, l’eccitazione dall’inibizione della stimolazione sessuale e della sensibilità genitale, dall’impotenza o dalla mancanza di lubrificazione vaginale. L’orgasmo è ritardato, talvolta assente. Per complicare le cose, gli effetti possono essere discontinui: un giorno va tutto bene, il giorno dopo è un disastro; e non c’è modo di prevedere l’esito della prestazione. La risoluzione viene, come ovvio, alterata dall’assenza di desiderio, di eccitazione o di orgasmo.21

Gli effetti collaterali negativi per la sfera sessuale vengono spesso giudicati irrilevanti rispetto alle manifestazioni di una depressione grave. Eppure, anche se in quest’ottica appaiono insignificanti, restano inaccettabili. Un paziente da me intervistato, che non riusciva più ad avere orgasmi durante i rapporti, mi ha descritto il complicato processo di interruzione della farmacoterapia a cui si è sottoposto per cercare di avere un figlio. «Se non avessi conosciuto la gravità delle conseguenze della sospensione della terapia» afferma «non l’avrei più ripresa. Oh, la mia sessualità… è stato così bello riaverla per qualche giorno. Mi chiedo se potrò ancora avere orgasmi con mia moglie.»

Quando si sta uscendo da una crisi depressiva, quando si hanno altri pensieri per la mente, non ci si preoccupa se per vincere una sofferenza insopportabile si deve rinunciare al piacere erotico; ma in seguito ci si sente truffati. Quest’aspetto diviene una valida ragione per non continuare la terapia, il che costituisce forse il problema principale nella gestione della malattia: meno del 25 per cento dei pazienti che assumono antidepressivi continuano il trattamento per sei mesi e una percentuale elevata di quanti lo interrompono lo fanno a causa degli effetti negativi sui ritmi del sonno e sulla vita sessuale.22

I disturbi sessuali provocano l’insorgenza di ansia, che trasforma i momenti erotici in inquietanti esperienze fallimentari. Chi ne è afflitto sviluppa talora una vera e propria ripulsa psicologica per i rapporti sessuali, e ciò peggiora ancor più i sintomi. Gran parte degli uomini impotenti soffrono di depressione: in questo caso basterebbe forse curare l’impotenza per eliminare la forma depressiva. Come osserva la Clayton, è importante ma molto difficile distinguere tra i problemi sessuali caratteristici della psicologia che alimenta la depressione, quelli che insorgono a causa della malattia (il 99 per cento dei pazienti con una depressione maggiore acuta lamenta disfunzioni sessuali) e quelli che sono invece prodotti dalla terapia antidepressiva. A tal fine, sottolinea sempre la Clayton, è indispensabile sottoporre i pazienti a un’analisi discreta, ma rigorosa.

Molte sostanze sono ritenute in grado di contrastare gli effetti collaterali degli antidepressivi in ambito sessuale: gli antagonisti della serotonina, quali la ciproeptadina e il granisetrone; gli alfa-2-antagonisti, quali la yohimbina e il trazodone; gli agonisti colinergici, quali il betanecolo; i farmaci capaci di stimolare la dopamina, quali il bupropione, l’amantadina e la bromocriptina; gli agonisti degli autorecettori, quali il buspirone e il pindololo; gli stimolanti, quali l’anfetamina, il metilfenidato e l’efedrina; nonché alcune sostanze vegetali, quali il ginkgo biloba e la L-arginina.23 Una breve interruzione della farmacoterapia, solitamente di tre giorni, consente talora una buona prestazione sessuale; altre volte, per aumentare la libido, può essere utile cambiare preparato.

Nessuna delle sostanze citate ha un’efficacia significativa, ma tutte esercitano una certa azione benefica, che varia da soggetto a soggetto. Una paziente, di cui riferisco la testimonianza in questo libro, ha vissuto un’esperienza preoccupante dopo aver iniziato ad assumere una combinazione di tali farmaci, fra cui la dexamfetamina: la sua libido crebbe a tal punto che non riusciva più a restare seduta fino alla fine delle riunioni di lavoro. Contrariamente alle sue abitudini, faceva sesso in ascensore con perfetti sconosciuti. «Avevo anche tre orgasmi tra l’ottavo e il quattordicesimo piano. Smisi di portare la biancheria intima perché impiegavo troppo a toglierla. Gli uomini si sentivano al settimo cielo: io provavo un enorme imbarazzo, ma sono certa di aver aiutato più d’un ego maschile. Non potevo però andare avanti così. In fondo sono una borghese molto repressa e neppure tanto giovane. Tutto questo non faceva per me.» Dopo aver apportato lievi modifiche alla terapia, la sua libido si normalizzò.

Gli stessi preparati somministrati a un’altra paziente di mia conoscenza non hanno, purtroppo, sortito alcun effetto. «Non sarei riuscita ad avere un orgasmo nemmeno se fossi restata bloccata in ascensore per quattro ore con Montgomery Clift, quand’era giovane» mi confessò tristemente tempo fa.

Le iniezioni di testosterone miranti ad aumentare il livello dell’ormone in circolo possono risultare utili, ma sono difficili da praticare e da controllare, e i loro effetti non sono del tutto chiari. Sotto questo profilo le migliori speranze sono offerte dal sildenafil che, grazie a un’azione psicofisica, pare influenzare tre delle quattro fasi citate dalla Clayton. È meno efficace solo per quanto concerne la stimolazione della libido. Il preparato può però contribuire a migliorare la fiducia nella propria capacità di interagire sessualmente, il che stimola il rilassamento e, di conseguenza, la libido.

Gli stimolatori della dopamina, oggi in fase di elaborazione, potrebbero rivelarsi determinanti per la soluzione del problema, dato che pare esistere una stretta correlazione tra dopamina e libido. Se assunto con regolarità, il sildenafil ripristina le erezioni notturne, spesso inibite dagli antidepressivi, e ciò a sua volta potenzia la libido. Agli uomini sottoposti a trattamento antidepressivo è stato suggerito di prenderlo ogni sera quale agente terapeutico, anche quando non facciano sesso. Il farmaco può avere infatti un’azione antidepressiva molto rapida ed efficace: nulla risolleva di più l’umore di una buona funzionalità sessuale.24

Le ricerche condotte da Andrew Nierenberg a Harvard e da Julia Warnock all’Università dell’Oklahoma indicano che tale medicinale, benché non ufficialmente mirato alle donne, avrebbe effetti positivi anche sul desiderio sessuale e sull’orgasmo femminili. Ciò in parte perché stimola l’apporto sanguigno al clitoride, favorendone l’inturgidimento.

Per le donne affette da disfunzioni sessuali può risultare utile anche l’ormonoterapia: la presenza di un tasso estrogenico elevato migliora l’umore, mentre una sua improvvisa diminuzione può avere effetti devastanti. La riduzione dell’80 per cento dell’ormone che si verifica con la menopausa è responsabile di marcate alterazioni dell’umore. Le donne con un basso livello estrogenico presentano numerosi disturbi e, come afferma la Warnock, tale livello va normalizzato affinché il sildenafil possa avere un effetto positivo. Nella donna il testosterone non deve essere eccessivo per evitare il rischio di irsutismo e di un’accentuata aggressività, ma è pur sempre necessario per garantirne la libido e va pertanto mantenuto a livelli adeguati.25

Gli antidepressivi triciclici agiscono su vari sistemi di neurotrasmettitori, tra cui l’acetilcolina, la serotonina, la noradrenalina e la dopamina, e sono particolarmente efficaci nei casi di depressione grave o con manifestazioni psicotiche. L’inibizione dell’acetilcolina comporta un’ampia gamma di effetti collaterali indesiderati, quali secchezza del cavo orale e degli occhi, nonché stipsi. I triciclici hanno anche un’azione parzialmente sedativa. Il loro utilizzo in pazienti bipolari può scatenare le fasi maniacali, perciò vanno prescritti con molta cautela. Anche gli SSRI e il bupropione possono, sia pure in misura minore, favorire gli episodi maniacali.26

I MAOI sono utili soprattutto nei casi in cui la depressione si associa a una sintomatologia organica acuta, caratterizzata da dolore, diminuzione dell’energia e turbe del sonno. Tali farmaci bloccano l’enzima che scompone l’adrenalina e la serotonina, aumentando in tal modo il livello di entrambe. I MAOI sono ottimi preparati, ma presentano molti effetti indesiderati. I pazienti che li assumono devono evitare tutta una serie di alimenti, per prevenire pericolose interazioni. Possono inoltre alterare le funzioni corporee. Un paziente da me intervistato mi ha riferito di essere andato incontro a ritenzione urinaria totale: «Dovevo andare in ospedale ogni volta che avevo bisogno di urinare: una faccenda piuttosto scomoda».

Gli antidepressivi atipici sono, come suggerisce il termine stesso, atipici, ossia ognuno ha la sua peculiare modalità d’azione. La venlafaxina influenza serotonina e noradrenalina; l’amfebutamone, la dopamina e la noradrenalina; l’amoxapina e il nefazodone agiscono invece su tutti i sistemi. Oggi si tende a preferire i cosiddetti farmaci puliti, dotati di un’azione molto specifica. Non sono necessariamente più efficaci degli altri: la specificità potrebbe, in certo qual modo, essere correlata con la riduzione degli effetti indesiderati, ma a quanto pare, più sostanze circolano nel cervello, più efficace è la terapia antidepressiva. I farmaci puliti sono un tipico prodotto dell’industria farmaceutica, entusiastica sostenitrice della rigorosa specificità chimica, ma in realtà non sono particolarmente validi sotto il profilo terapeutico.

Gli effetti degli antidepressivi sono imprevedibili e non sempre tollerabili. «Non credo si verifichino tanti insuccessi come si sostiene» afferma Richard A. Friedman. «Credo però che il dosaggio vada modificato e che il farmaco vada tamponato. La psicofarmacologia si basa sul principio dell’adattamento. E molti insuccessi sono dovuti alla perdita dell’effetto placebo, che tende a essere breve.»

Cionondimeno, per numerosi pazienti i farmaci costituiscono solo un rimedio temporaneo. Sarah Gold, affetta da depressione da quando è diventata adulta, è andata incontro a remissione completa grazie all’amfebutamone, ma per un anno soltanto. È quindi riuscita a ottenere lo stesso effetto con la venlafaxina, ma dopo diciotto mesi la depressione è ricomparsa. «Gli altri se ne accorgevano. A quel tempo abitavo con altre persone e una delle mie compagne mi disse che avevo un’aura nera e che non riusciva a sopportare di restare a casa quando me ne stavo in camera mia con la porta chiusa.» Sarah provò quindi una combinazione di litio, sertralina e lorazepam; oggi prende clomipramina, citalopram, risperidione e lorazepam ed è «meno attiva, meno sicura ma più capace di reagire». Tuttavia nessun medicinale esistente potrà forse garantirle la remissione permanente che taluni ottengono: dover sperimentare un’alternativa dopo l’altra può essere fortemente demoralizzante per chi deve sottoporsi a farmacoterapia per il resto della sua vita.

Per controllare l’ansia a lungo termine si usano numerosi preparati, per esempio il buspirone, che agisce sui nervi sensibili alla serotonina. Vi sono anche farmaci ad azione rapida, le benzodiazepine, categoria in cui rientrano clonazepam, lorazepam, diazepam e alprazolam. Anche il triazolam e il temazepam, prescritti per l’insonnia, appartengono a questo gruppo. Tali preparati possono essere assunti, a seconda della necessità, per alleviare rapidamente l’ansia. Il rischio di sviluppare dipendenza ne ha però limitato l’uso in modo considerevole.

Sono farmaci eccezionali nel breve periodo, capaci di rendere la vita sopportabile nei momenti di crisi più acuta. Ho conosciuto persone rose dall’angoscia che sarebbero potute star meglio se solo i loro medici fossero stati più permissivi a questo riguardo. Ricordo sempre ciò che mi disse il mio primo farmacologo: «Se manifesterà dipendenza, la cureremo. Nel frattempo, vediamo di attenuare la sofferenza». La maggior parte dei pazienti trattati con benzodiazepine sviluppa tolleranza e dipendenza: ciò significa che non può cessare all’improvviso la terapia; ma non ricorrerà a dosi sempre maggiori per ottenere un beneficio terapeutico. «Con questi farmaci» afferma Friedman «la dipendenza è un problema soprattutto nei pazienti con una storia di abuso di sostanze. Il rischio di dipendenza da benzodiazepine è ampiamente sovrastimato.»

Nel mio caso l’alprazolam ha cancellato l’orrore, come per magia. Se gli antidepressivi che ho assunto hanno avuto effetti molto lenti e hanno illuminato a poco a poco la mia personalità, riportandola nel mondo noto, strutturato, l’alprazolam ha eliminato subito l’ansia o, per citare James Ballenger, vero esperto in materia, è stato «una toppa provvidenziale». Le benzodiazepine possono salvare la vita a quanti non siano inclini all’abuso di sostanze.

«Ciò che l’opinione pubblica sa» spiega Ballenger «è perlopiù inesatto. La sedazione è un effetto collaterale. Impiegare questi farmaci come sonniferi è un abuso. Impiegarli per controllare l’ansia, non lo è. Sospendendoli all’improvviso si va incontro a una determinata sintomatologia, ma ciò vale per moltissimi preparati.» Per quanto eliminino l’ansia, le benzodiazepine non alleviano di per sé la depressione; possono inoltre influenzare la memoria a breve termine e, nel lungo periodo, avere un’azione depressiva. In caso di somministrazione prolungata richiedono dunque un monitoraggio rigoroso.27

Dalla mia prima visita dal farmacologo, avvenuta sette anni fa, mi barcameno in mezzo alle pillole. Per tutelare la mia salute mentale ho fatto uso, in varie combinazioni e a varie dosi, di sertralina, paroxetina, tiotixene, venlafaxina, amfebutamone, nefazodone, buspirone, olanzapina, dexamfetamina, alprazolam, diazepam, zolpidem e sildenafil. E mi ritengo fortunato, perché ho risposto bene ai farmaci della classe con cui ho iniziato la terapia.

Ciononostante, so quanto sia penoso procedere per tentativi: provare diversi farmaci ti fa sentire come un bersaglio del tirassegno. «Oggi la depressione è curabile» mi sono spesso sentito dire. «Prendi gli antidepressivi come fai con l’aspirina, quando hai mal di testa.» Ma non è così. Oggi la depressione può essere trattata: ti sottoponi agli antidepressivi proprio come ti sottoponi alla radioterapia quando hai il cancro. Talvolta fanno miracoli, ma non c’è niente di semplice e i risultati sono contrastanti.

Finora non ho mai subito un vero e proprio ricovero, ma so che un giorno potrei averne bisogno. In ospedale si viene di solito trattati mediante farmacoterapia o elettroshock. L’effetto curativo è però in parte dovuto all’ospedalizzazione in sé, alle attenzioni del personale, ai sistemi che inibiscono i comportamenti distruttivi o il suicidio. Il ricovero non dovrebbe essere l’ultima spiaggia per i disperati: è una risorsa come un’altra, da utilizzarsi laddove necessario.

Oggi la ricerca sta seguendo quattro indirizzi principali, il primo dei quali enfatizza in misura considerevole la prevenzione: quanto più precocemente si diagnostica un problema mentale, tanto maggiori sono le probabilità di migliorare la salute del paziente. Il secondo persegue la specificità dei farmaci. Il cervello possiede almeno quindici recettori diversi della serotonina. L’esperienza dimostra che gli effetti antidepressivi dipendono solo da alcuni di essi, mentre gran parte delle reazioni avverse degli SSRI appare correlata con gli altri.

Il terzo orientamento mira a elaborare farmaci ad azione più rapida, il quarto, alla maggiore specificità verso il sintomo piuttosto che alla posizione biologica, per ovviare alla necessità di procedere per tentativi nella scelta dei preparati. Se, per esempio, si scoprissero le caratteristiche identificative dei sottotipi genetici della depressione, si potrebbe forse mettere a punto un trattamento specifico. «I farmaci esistenti» sostiene William Potter, ex responsabile di una sezione del National Institute of Mental Health, «hanno un’azione troppo indiretta per poter essere controllati.» Questo tipo di specificità è forse destinata a restare teorica. Nei disturbi dell’umore non è coinvolto il segnale di un solo gene, ma quelli di più geni, ognuno dei quali contribuisce a incrementare il rischio, scatenato a sua volta da circostanze esterne, che determinano la vulnerabilità complessiva del soggetto.

Il trattamento fisico più efficace della depressione è, tuttavia, quello meno «pulito» e specifico. Gli antidepressivi sono utili nel 50 per cento circa dei casi o poco più; la terapia elettroconvulsivante tocca punte del 75-90 per cento. Quasi la metà dei pazienti migliorati in seguito a questa terapia sta bene a un anno di distanza dal trattamento, mentre altri devono sottoporsi a più cicli o a sedute di mantenimento.28

L’elettroshock ha un’azione rapida: già dopo pochi giorni molti depressi si sentono meglio, vantaggio questo non trascurabile rispetto al lungo e lento processo di risposta ai farmaci. Proprio a causa della rapidità d’azione e dell’elevato tasso di risposta la terapia risulta valida soprattutto per chi mostra gravi impulsi suicidi, ossia per gli individui che si feriscono ripetutamente e che rappresentano quindi casi critici. Può inoltre essere impiegata in donne gravide, malati e anziani perché non comporta effetti collaterali sistemici o problemi di interazione, come gran parte dei medicinali.

Dopo un’analisi del sangue, un elettrocardiogramma, talora anche una radiografia toracica e gli accertamenti preanestesia, i soggetti ritenuti idonei alla terapia elettroconvulsivante firmano un modulo di consenso informato, che viene consegnato anche ai familiari. La sera prima del trattamento al paziente vengono prescritti il digiuno e l’inserzione di una linea endovenosa. Il mattino seguente viene condotto in sala e collegato ai monitor. Il personale gli applica dapprima un po’ di gel alle tempie, poi gli elettrodi per la terapia monolaterale, nell’area dell’emisfero cerebrale non dominante (è l’approccio iniziale preferito; si tratta di solito l’emisfero destro) oppure per quella bilaterale. La terapia monolaterale presenta minori effetti collaterali e, come indicato da studi recenti, se somministrata in dosi elevate ha la stessa efficacia di quella bilaterale.29 Il medico può impiegare un’onda sinusoidale, che comporta una stimolazione più intensa, o una quadra, che induce convulsioni dagli effetti secondari più lievi.

Al paziente viene quindi iniettato un anestetico di breve durata, che avrà effetto per una decina di minuti circa, e un miorilassante, per evitare gli spasmi: a differenza di quanto accadeva negli anni Cinquanta, quando i movimenti corporei inconsulti provocati dalla scarica causavano spesso lesioni, l’unico movimento che si verifica oggi durante la terapia è un’impercettibile contrazione delle dita dei piedi.

Il soggetto viene collegato a un elettroencefalografo e a un elettrocardiografo, in modo da monitorarne le funzioni cerebrale e cardiaca. Poi una scarica di un secondo induce una convulsione nelle regioni temporale e del vertice cranico, che dura in genere una trentina di secondi, sufficienti a variare la chimica cerebrale ma non a danneggiare la sostanza grigia. La scarica, in genere di duecento joule, equivalente alla corrente emessa da una lampadina da cento candele, viene perlopiù assorbita dai tessuti molli e dal cranio e raggiunge il cervello solo in minima parte. Dopo dieci, quindici minuti il paziente si risveglia. Gran parte dei malati sottoposti a terapia elettroconvulsivante effettua dieci, dodici sedute nell’arco di sei settimane, oggi sempre più spesso a livello ambulatoriale.30

La scrittrice Martha Manning ha descritto la sua depressione e la sua esperienza con la terapia elettroconvulsivante in un libro splendido e incredibilmente piacevole, Undercurrents. Stabilizzatasi grazie a una combinazione di amfebutamone, litio a piccole dosi, acido valproico, clonazepam e sertralina, Martha oggi scherza: «Quando guardo le mie pillole mi sembra di avere in mano un arcobaleno. Sono un progetto scientifico senza data di scadenza».

Nella fase depressiva più grave la Manning è stata sottoposta a un trattamento elettroconvulsivante prolungato e molto intenso. Decise di sua spontanea volontà di farsi curare dopo che un giorno, determinata a uccidersi, si era procurata l’indirizzo di un negozio d’armi: «Non volevo morire perché mi odiavo: volevo morire perché mi amavo a tal punto da desiderare di porre fine al dolore. Ogni giorno mi appoggiavo alla porta del bagno per ascoltare mia figlia cantare. Aveva undici anni e cantava sempre sotto la doccia: per me era un invito a non rischiare nemmeno un giorno in più. Non mi importava abbastanza di vivere, ma all’improvviso capii che, se avessi comprato un’arma, avrei interrotto il canto di quella bambina, l’avrei soffocato per sempre. Quello stesso giorno chiesi di sottopormi all’elettroshock. Fu come arrendermi a un avversario che mi aveva già messa al tappeto. La terapia durò varie settimane: dopo ogni seduta mi alzavo, la testa pesante, e chiedevo una bibita, ben sapendo che sarebbe stata una tipica giornata da stordimento analgesico».

L’elettroshock compromette la memoria a breve termine e talvolta anche quella a lungo termine. Le alterazioni sono in genere temporanee, anche se alcuni pazienti hanno riportato deficit permanenti. Quando terminò la terapia, una donna di mia conoscenza, ex avvocato, non ricordava più nulla della sua carriera: né gli studi effettuati né il luogo dove aveva studiato né chi avesse conosciuto durante quel periodo. Si tratta di un caso raro, estremo, ma non impossibile. L’elettroshock è stato inoltre associato alla morte di un paziente su diecimila, in genere per complicanze cardiache successive al trattamento.31 Tuttavia non è del tutto chiaro se si tratti di coincidenze o di effetti della terapia.

Durante le sedute la pressione sanguigna aumenta in misura significativa, ma il trattamento non sembra arrecare alcun danno fisiologico. Richard Abrams, autore di un testo fondamentale sulla terapia elettroconvulsivante, ha in effetti descritto il caso di una paziente sottoposta a più di 1250 sedute bilaterali, morta all’età di ottantanove anni con il cervello in condizioni perfette. «Non esiste nessuna prova, e in pratica nessuna possibilità, che l’elettroshock così come viene oggi somministrato causi lesioni cerebrali» scrive Abrams.32 Molti degli effetti secondari a breve termine, fra cui lo stordimento e la nausea, sono attribuibili all’anestesia piuttosto che al trattamento in sé.

Questa resta, tuttavia, la tecnica più stigmatizzata. «Ti senti come Frankenstein su quel tavolo» afferma la Manning. «E nessuno vuole sentirne parlare: nessuno ti porta qualche delizioso manicaretto quando sei in ospedale per l’elettroshock. È molto emarginante per la famiglia.» E per il paziente può essere concettualmente traumatizzante. «So che funziona,» afferma un’operatrice del servizio psichiatrico «l’ho visto. Ma l’idea di perdere ricordi preziosi dei miei figli e della mia famiglia, sa… io non ho più genitori né marito. Chi potrebbe recuperarli per me? Chi potrebbe raccontarmeli? Chi mi ricorderà la ricetta di quella torta speciale che ho fatto quindici anni fa? Essere priva di sogni aggraverebbe la mia depressione. I ricordi sono ciò che mi aiuta ad arrivare alla fine della giornata, i pensieri d’amore del tempo passato.»

D’altronde, la terapia elettroconvulsivante può essere straordinariamente efficace. «Prima ero consapevole di ogni sorsata d’acqua che bevevo, della fatica estrema che comportava» racconta la Manning. «Dopo, mi chiesi se le persone normali si sentissero così tutto il tempo. Era come essere sempre stati esclusi dal bello della vita.» Gli effetti sono, di solito, rapidi. «I sintomi vegetativi scomparvero; il mio corpo mi sembrava più leggero. Alla fine ebbi davvero voglia di un bel panino» continua Martha. «Per un po’ mi sentii come se fossi stata investita da un camion ma, relativamente parlando, la cosa non fu poi tanto grave.»

La posizione della Manning è inconsueta: molti pazienti trattati mediante elettroshock sono refrattari a riconoscerne l’utilità, soprattutto se hanno sviluppato deficit transitori della memoria o se il processo di autoricostruzione è stato lento. Due miei conoscenti si sono sottoposti a tale trattamento all’inizio degli anni Novanta. Entrambi avevano toccato il fondo: non riuscivano più ad alzarsi dal letto e a vestirsi, erano sempre esausti, con un atteggiamento profondamente negativo nei confronti della vita. Non avevano interesse per il cibo, erano incapaci di lavorare e spesso avevano idee suicide.

Furono trattati a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra. Il primo andò incontrò a una perdita grave della memoria dovuta alla terapia: era ingegnere, e non riusciva nemmeno più a ricordare come funzionasse un circuito. La seconda non ebbe alcun miglioramento, in quanto ancora assillata da veri problemi esistenziali. Tre mesi dopo l’ingegnere iniziò a recuperare la memoria e, alla fine dell’anno, si riprese del tutto: usciva, aveva ricominciato a lavorare e stava bene. A suo parere si era «trattato con molta probabilità di una coincidenza». La donna effettuò invece un secondo ciclo terapeutico, pur restando convinta dell’inutilità del primo. Al termine del trattamento la sua personalità iniziò a ricostruirsi. In autunno aveva non solo trovato un impiego, ma anche un appartamento nuovo e un compagno. Eppure, continuò a ripetere che l’elettroshock era un’esperienza terribile, non commisurata ai benefici che offriva, finché non le suggerii che ciò che il trattamento aveva cancellato era forse il ricordo terribile di come si era sentita un tempo.

Quando il libro della Manning uscì, alla presentazione furono organizzati picchetti di protesta.33 Negli Stati Uniti molte amministrazioni locali hanno addirittura promulgato leggi contro la terapia elettroconvulsivante: in effetti, è una procedura di cui spesso si abusa, che non può essere adottata per tutti e che non deve in alcun modo essere usata indiscriminatamente o senza il consenso del paziente. Ma è anche una procedura molto efficace.

Perché funziona? Non lo sappiamo. A quanto sembra, stimola in misura significativa la dopamina influenzando, nel contempo, tutti gli altri neurotrasmettitori, nonché il metabolismo della corteccia frontale. L’elettricità ad alta frequenza parrebbe aumentare il tasso metabolico, quella a bassa frequenza, lo abbasserebbe. Non è però chiaro se la depressione sia un sintomo dell’ipometabolismo o se la depressione e le stesse alterazioni metaboliche siano funzione di altre variazioni cerebrali. La terapia elettroconvulsivante indebolisce in modo temporaneo la barriera ematoencefalica. I suoi effetti non si limitano, tuttavia, alla corteccia frontale: anche le funzioni del tronco cerebrale ne vengono momentaneamente interessate.

Ho deciso di non interrompere la farmacoterapia. Non so se ne sono dipendente, ma di certo ne sono condizionato: senza i medicinali rischierei una recidiva. La situazione è delicata. Sono ingrassato troppo, vengo colpito da strane forme di orticaria senza evidenti motivi e sudo di più. La mia memoria, che non è mai stata molto buona, è lievemente peggiorata: spesso mi dimentico quello che voglio dire a metà frase. Soffro spesso di mal di testa e, di tanto in tanto, di crampi muscolari. Il desiderio sessuale va e viene e le prestazioni sono irregolari: di questi tempi un orgasmo è un evento speciale.

Non è una condizione ideale, ma sembra essersi creato un muro fra me e la depressione. Gli ultimi due anni sono stati senza alcun dubbio i migliori nell’arco di un decennio. A poco a poco recupero il tempo perduto. Quando due amici sono morti in spaventosi incidenti qualche tempo fa, ho provato un’immensa tristezza ma non ho sentito il mio sé scivolarmi di mano, e il fatto di aver provato solo dolore mi ha quasi rincuorato (so che può sembrare atroce, ma in un’ottica in un certo senso egoistica è così).

Stabilire quale ruolo abbia la depressione nel mondo in cui viviamo non equivale a stabilire quale ruolo debbano svolgere gli antidepressivi. Come afferma James Ballenger, «siamo più alti di venti centimetri rispetto al periodo precedente la Seconda guerra mondiale, molto più sani, e viviamo più a lungo. Nessuno si lamenta del cambiamento. Quando viene eliminato un handicap, l’uomo si getta nella vita e vi trova di più, in termini sia positivi sia negativi». Questa è, credo, la vera risposta alla domanda che mi è stata posta da quasi tutte le persone con cui ho discusso del mio libro: «I farmaci non ti rovinano la vita?». No. Ciò che fanno è consentirci di provare dolore per cose più importanti, per cose migliori, per ragioni più valide.

«Abbiamo dodici miliardi di neuroni» spiega Robert Post. «Ognuno di noi ha tra mille e diecimila sinapsi, che mutano tutte con grande rapidità. Siamo ancora molto lontani dal poterle far funzionare in modo che gli uomini siano sempre felici.» «Con tutti i nostri miglioramenti, non mi pare che il livello di sofferenza nell’universo sia molto diminuito e non credo neppure che entro breve raggiungeremo un livello sopportabile. Il controllo della mente non dovrebbe essere oggi al centro della nostra attenzione» sostiene Ballenger.

La parola normale è il tormento dei depressi. La depressione è normale? Negli studi leggo di campioni normali e di campioni di depressi, di farmaci capaci di «normalizzare» la depressione, di sintomi «normali» e «atipici». Una delle persone che ho incontrato durante le mie ricerche mi ha detto: «All’inizio, quando comparvero i sintomi, pensai che sarei impazzito. Fu un grande sollievo scoprire che si trattava solo di depressione clinica e che era sostanzialmente normale». Come dire: un modo sostanzialmente normale di impazzire. La depressione è una malattia mentale e quando ti afferra tra le sue grinfie, perdi il senno proprio come un matto, diventi svanito, eccentrico, stranito.

A un cocktail a Londra incontrai una conoscente e le parlai del mio libro. Mi confessò di aver sofferto di una depressione molto grave e io le domandai come si fosse comportata. «Non mi piaceva l’idea dei farmaci» mi spiegò. «Mi ero resa conto che il problema era legato allo stress, perciò decisi di eliminare tutte le fonti di tensione nella mia vita.» Poi, contando sulle dita, proseguì: «Ho rinunciato al lavoro, ho lasciato il mio ragazzo e non ne ho più cercato un altro. Sono venuta via dall’appartamento che condividevo con un’amica e ora vivo sola. Ho smesso di andare alle feste che finiscono tardi e mi sono trasferita in una casa più piccola. Ho troncato i rapporti con gran parte dei miei amici, ho smesso di truccarmi e ho rinunciato ai vestiti». La guardai inorridito. «So che sembra spaventoso, ma adesso sono molto più felice e meno impaurita di prima.» Poi con un’aria orgogliosa aggiunse: «E ci sono riuscita senza pillole».

Uno dei presenti l’afferrò per un braccio e le gridò che si trattava di un’autentica follia e che non era mai incappato prima in un comportamento tanto assurdo. Ma è davvero una pazzia evitare le situazioni che ci fanno diventare pazzi? O lo è invece prendere medicine che ci consentono di tollerare una vita che ci rende pazzi? Potrei ridimensionare la mia esistenza e prendere meno impegni, viaggiare meno, conoscere meno persone ed evitare di scrivere libri sulla depressione. In questo caso forse non avrei più bisogno di medicine. Potrei cercare di vivere entro i limiti delle mie capacità. Non sarebbe il massimo, ma sarebbe in ogni caso un’opzione ragionevole. Vivere con la depressione è come cercare di stare in equilibrio danzando con una capra: è del tutto logico preferire un compagno più dotato. Eppure, la vita che conduco, complicata e ricca di eventi, mi procura tante soddisfazioni che non sarei mai disposto a rinunciarvi. Sarebbe la scelta più detestabile. Preferirei triplicare il numero di pillole piuttosto che dimezzare la mia cerchia d’amici.

Malgrado le tecniche disastrose scelte per rendere manifesto a tutti il suo spirito luddista, Unabomber ha colto in pieno i pericoli della tecnologia: «Immaginate una società che obblighi le persone a vivere in una condizione che le renda spaventosamente infelici, e che poi dia loro dei farmaci per eliminare l’infelicità. Fantascienza? Sta già accadendo… In effetti, gli antidepressivi sono un mezzo per modificare lo stato interiore dell’individuo in modo da permettergli di sopportare condizioni sociali che troverebbe altrimenti insopportabili» scrive nel suo manifesto.34

La prima volta che mi sono imbattuto in un caso di depressione clinica, non l’ho riconosciuto, anzi, non l’ho nemmeno notato. Era l’estate successiva al primo anno di college e mi trovavo con un gruppo d’amici nella casa in cui la mia famiglia trascorreva le vacanze. Con noi c’era anche la mia cara amica Maggie Robbins, l’affascinante Maggie, sempre traboccante d’energia. A primavera aveva avuto una crisi psicotico-maniacale ed era stata ricoverata in ospedale per due settimane, ma sembrava essersi ormai del tutto ripresa. Non sosteneva più di trovare informazioni segrete nel seminterrato della biblioteca e di dover fuggire di nascosto in treno a Ottawa, perciò supponevamo avesse recuperato la salute mentale.

I suoi lunghi silenzi di quell’estate erano pesanti, profondi, come se avesse imparato a soppesare il valore delle parole. Ci parve strano, tuttavia, che non si fosse portata il costume da bagno: solo anni dopo mi confessò che non si era sentita di restare così nuda, vulnerabile, esposta. Allegri, frivoli e spensierati, ci divertivamo a tuffarci mentre Maggie restava seduta sul trampolino con indosso un vestito di cotone dalle maniche lunghe, le ginocchia al petto. Eravamo in sette, là sotto il sole cocente, e solo mia madre osservò (prendendomi da parte) che Maggie sembrava triste e chiusa in sé. Non avevo idea di quanto si sforzasse, nemmeno il più vago barlume di quello che stava passando. Non notai le occhiaie che con molta probabilità le segnavano il viso, quelle occhiaie che avrei in seguito imparato a individuare. Ricordo che la tormentavamo chiedendole perché non nuotasse, dicendole che si stava perdendo tutto il bello. All’improvviso lei si alzò in piedi sul trampolino e si tuffò vestita. Ricordo la stoffa appesantita, appiccicata al suo corpo, mentre copriva l’intera lunghezza della vasca e arrancava poi verso casa per cambiarsi, gocciolando nell’erba.

Poche ore dopo, in casa, la vidi di nuovo assente. A cena non mangiò molto, ma io pensai che non le piacessero le bistecche o che tenesse alla linea. Stranamente ho un ricordo felice di quel fine settimana e rimasi colpito quando Maggie definì l’esperienza di quei giorni una sofferenza.

Quindici anni dopo Maggie sviluppò la peggiore forma depressiva che io abbia mai visto. Con incredibile incompetenza il suo medico le aveva detto che, dopo quindici anni di stabilizzazione, avrebbe potuto tentare di interrompere il litio, come se fosse guarita e il grave disturbo bipolare da cui era affetta fosse scomparso. Maggie aveva ridotto via via la dose e aveva continuato a sentirsi in forma smagliante. Era dimagrita, le mani non le tremavano più e aveva recuperato parte della sua vecchia energia, l’energia che possedeva quando mi raccontava che il suo sogno era diventare l’attrice più famosa del mondo.

Poi iniziò a sentirsi sempre in forma smagliante. Le chiedemmo se non temesse di avere un comportamento un po’ maniacale, ma lei ci rassicurò di non essere «mai stata tanto bene». Il che avrebbe dovuto bastarci per capire: sentirsi «tanto bene» non era per nulla positivo. Maggie non stava «tanto bene», anzi non stava bene affatto. Di lì a tre mesi si era convinta di essere guidata da Dio e di avere la missione di salvare il mondo. Un amico si prese cura di lei e, quando non riuscì a reperire il suo psichiatra, ne trovò un altro e la indusse a riprendere i farmaci.

Nei mesi seguenti Maggie piombò in una cupa depressione. L’autunno seguente entrò alla scuola di perfezionamento postlaurea. «La scuola mi ha dato molto: tanto per cominciare, mi ha dato il tempo, lo spazio e i mezzi finanziari per sviluppare altri due episodi» racconta con ironia. Nel secondo trimestre ebbe una forma ipomaniacale lieve, poi una depressiva della stessa entità. Al termine dell’ultimo trimestre andò incontro a un accesso maniacale spaventoso, seguito da una depressione tanto grave da sembrare senza fine. La ricordo a casa di un amico, raggomitolata sul divano: sussultava come se le stessero infilando schegge di bambù sotto le unghie. Non sapevamo che fare. Pareva anche aver perso la facoltà di parlare. Quando, alla fine, le strappammo qualche parola di bocca, non riuscimmo a udire ciò che diceva. Per fortuna i suoi genitori si erano documentati sul disturbo bipolare. Quella sera l’aiutammo a trasferirsi da loro.

Non la vedemmo più per due mesi, due mesi in cui restò rintanata in un angolo, senza muoversi, anche per più giorni di seguito. Io avevo conosciuto la depressione e desideravo aiutarla, ma lei rifiutava le telefonate e le visite. I suoi ne sapevano abbastanza per concederle di restare in silenzio. Era tanto lontana che i morti mi sembravano più vicini. «Non passerò mai più un momento simile» commenta Maggie. «So che farò tutto il necessario per evitarlo. Mi rifiuto categoricamente di riviverlo.»

Oggi Maggie sta bene, grazie all’acido valproico, al litio e all’amfebutamone, e malgrado tenga l’alprazolam a portata di mano, da tempo non ne ha più bisogno. Non prende più clonazepam né paroxetina, che invece usava all’inizio, ma resterà in terapia a vita. «Dovevo arrivare a essere tanto umile da affermare: “Forse alcune persone che hanno deciso di prendere medicinali sono proprio come me: per nessuna ragione al mondo avrebbero voluto farlo, ma quando li hanno presi, sono state meglio”.»

Maggie scrive e si occupa d’arte; lavora come correttrice di bozze presso la redazione di una rivista. Non vuole un lavoro più impegnativo: desidera solo una certa sicurezza, una buona assicurazione sanitaria e un posto dove non dover essere sempre brillante. Quando si immalinconisce o s’infuria, scrive poesie sull’alter ego che si è creata e che ha chiamato Suzy. Alcuni versi descrivono i suoi stati maniacali, altri quelli depressivi:

C’è qualcuno in bagno

che fissa Suzy negli occhi.

Qualcuno che sembra una voce

che Suzy non riconosce.

Qualcuno che vive nello specchio,

un volto grasso che piange e piange.

Il cranio di Suzy è zeppo, martellante.

I denti di Suzy traballano.

Le mani di Suzy sono lente e tremanti,

e coprono il vetro con la schiuma.

Suzy ha studiato i nodi un’estate.

Suzy non conosce il cappio.

Suzy sente un velo sollevarsi.

Suzy ode un velo lacerarsi.

La verità mente, inchiodata, davanti a lei:

forte, combattiva, ridestata, esausta.

I morsi della fame sono l’unica certezza,

il nostro solo corredo alla nascita.

«All’età di otto anni» spiega «decisi di essere Maggie. Ricordo che a scuola, in corridoio, mi dicevo: “Sai, sono Maggie. E lo sarò sempre. Adesso sono quella Maggie che sarò anche in futuro. Sono stata diversa e non riesco nemmeno a ricordare parte della mia vita, ma d’ora in poi sarò solo me stessa”. E così è stato. È il mio senso d’identità, sono quella persona. Posso guardarmi indietro e dire: “O Dio, non posso credere di aver fatto quella sciocchezza a diciassette anni”. Ma sono stata io a farla, non c’è alcuna discontinuità nel mio sé.»

Possedere un senso immutabile del sé nonostante l’oltraggio di un disturbo maniaco-depressivo è segno di grande forza d’animo. Maggie è arrivata talora al punto da desiderare di liberarsi di questo sé coerente. Così descrive la fase più grave, catatonica della malattia: «Restavo a letto a cantare Where Have All the Flowers Gone all’infinito, per tenere occupata la mente. Ora mi rendo conto che avrei potuto provare altri farmaci, chiedere a qualcuno di restare a dormire nella mia stanza, ma stavo troppo male per pensarci. Non sapevo che cosa mi spaventasse tanto, ma credevo di esplodere per l’ansia.

«Non facevo che sprofondare, sprofondare, sprofondare. Continuavamo a cambiare medicinali e io continuavo a sprofondare. Avevo fiducia nei miei medici ed ero sicura che alla fine sarei tornata normale. Ma non potevo aspettare, non reggevo nemmeno un minuto di più. Cantavo per coprire la voce in me che diceva: “Sei una … non meriti neanche di vivere, non vali niente, non sarai mai niente, non sei nessuno”.

«Proprio in quella fase cominciai a pensare al suicidio. L’avevo già considerato, ma ora presi a pianificarlo. Avevo di continuo davanti agli occhi l’immagine del mio funerale. Quando stavo dai miei vedevo l’intera scena: io, in camicia da notte, che salivo sul tetto, arrivavo alla gronda. La porta che dava accesso al tetto era munita d’allarme: l’avrei attivato, ma non m’importava, sarei stata al di là del cornicione ben prima che qualcuno giungesse. Non potevo permettermi di fallire. Scelsi anche la camicia da notte. Poi i resti della stima che nutrivo per me stessa si risvegliarono e mi ricordarono che molti avrebbero sofferto se l’avessi fatto. Non potevo assumermi la responsabilità di provocare tanta tristezza. Dovetti prendere coscienza dell’aggressività verso gli altri implicita nel gesto suicida.

«Credo di aver represso gran parte di questi ricordi. Non riesco a recuperarli, mi è impossibile rievocarli perché non hanno senso. Ricordo però alcune zone dell’appartamento e quanto male sono stata in esse. Ricordo anche la fase successiva, in cui avevo il pensiero fisso del denaro. Mi addormentavo e subito mi risvegliavo, preoccupata. Non riuscivo a liberarmene. Era del tutto irrazionale: a quel tempo non avevo problemi finanziari. Che succederà, pensavo, se tra dieci anni non mi basteranno i soldi? Non c’è paragone tra le sensazioni di paura e d’ansia che provo nella vita normale e quelle che avvertivo allora: sono completamente diverse, non solo dal punto di vista quantitativo, ma anche qualitativo. Mio Dio, che periodo terribile! Alla fine ebbi il buon senso di cambiare medici.

«Poi provai l’alprazolam: ne prendevo mezzo milligrammo circa e mi sentivo come se una mano gigantesca mi schiacciasse giù, contro il materasso. Dopo un po’, mi addormentavo. Ero terrorizzata all’idea di sviluppare una dipendenza, ma il medico mi assicurò che non sarebbe accaduto: non prendevo una dose abbastanza elevata e, se anche fosse successo, lui mi avrebbe aiutato a uscirne quando fossi stata in grado di affrontare la vita. Perciò decisi di non preoccuparmi, di continuare la terapia e basta.

«Quando sei depresso non pensi di avere davanti agli occhi un velo grigio e di stare guardando il mondo attraverso la coltre del cattivo umore. Pensi anzi che un velo, quello della felicità, sia stato rimosso, e che solo ora vedi le cose come sono in realtà. Cerchi di individuare la verità, la svisceri, credi sia un’entità immutabile, quando invece è viva e sfuggente. Si possono esorcizzare i demoni degli schizofrenici, che percepiscono in sé una presenza estranea; con i depressi è molto più difficile perché ritengono di conoscere la verità. Ma la verità mente. Mi guardo e penso: “Sono divorziata”, e mi sembra la cosa più tremenda del mondo. Ma potrei formulare lo stesso pensiero e avere una sensazione di gioia, di libertà.

«In tutto quello che ho passato solo una frase di un’amica mi ha davvero aiutato: “Non sarà sempre così. Cerca di ricordarlo. Adesso è così, ma non lo sarà sempre” mi disse un giorno. E poi: “È la depressione che parla. Parla per bocca tua”.»

Psicoterapia e farmacoterapia sono i trattamenti più accessibili per la depressione, ma c’è un altro strumento che ha aiutato molti ad affrontare la malattia: la fede. La coscienza umana potrebbe essere immaginata come un triangolo i cui lati sono teologia, psicologia e biologia. È molto complesso scrivere della fede perché abbraccia l’inconoscibile e l’indescrivibile. Oggigiorno poi fa parte della sfera più strettamente privata.

Ciononostante la fede religiosa resta una delle ancore a cui l’uomo si aggrappa per far fronte alla depressione. La religione infatti risponde a quegli interrogativi che non hanno risposta. In genere non riesce a guarire un depresso: nei momenti più difficili della malattia persino gli individui più religiosi perdono, in parte o del tutto, la fede. Ma lo aiuta a superare il ripiegamento su di sé e a uscire dalle crisi; gli dà una ragione per vivere. Molte religioni ritengono la sofferenza accettabile perché, nella nostra inettitudine, ci conferisce una dignità e uno scopo.

Diversi obiettivi della terapia cognitiva o psicanalitica vengono realizzati grazie a sistemi di credenze che costituiscono il fondamento delle principali religioni della terra e che ci insegnano a orientare le energie verso l’esterno, ad avere rispetto di noi stessi, a essere pazienti e comprensivi. La fede è un grande dono: offre i vantaggi tipici dell’intimità senza essere condizionata dalla volubilità umana, malgrado anche quella divina sia ben nota. Esiste una divinità che abbozza i nostri fini, al di là della nostra volontà. La speranza ha un grande valore profilattico e la fede, nella sua essenza, offre speranza.

Sopravviviamo alla depressione grazie a una fiducia nella vita che è astratta quanto una credenza religiosa. La depressione è la cosa più cinica che esista, ma rappresenta anche la radice di una sorta di fede. Resistere ed emergerne col nostro vero sé significa scoprire che ciò in cui non avevamo il coraggio di sperare potrebbe rivelarsi vero. La fede, come l’amore romantico, ha in sé lo svantaggio di essere potenzialmente un disinganno: per molti la depressione è l’esperienza del rifiuto o dell’abbandono divino e numerosi depressi sostengono di essere incapaci di credere in un Dio che infligge inutili crudeltà al suo gregge. Per gran parte dei fedeli, tuttavia, la rabbia contro Dio svanisce insieme alla depressione.

Se siete credenti, recupererete la fede non appena tornerete alla normalità. La fede istituzionalizzata esula dalla mia educazione e dalla mia esperienza, ma trovo difficile sottrarmi alla sensazione che qualcosa intervenga nel declino e nella rinascita di un malato. È un evento troppo profondo per essere profano.

La scienza si oppone allo studio combinato della religione e della salute mentale soprattutto per ragioni metodologiche: «Quando si considerano questioni come la meditazione o la preghiera, qual è lo standard adeguato per un test a doppio cieco?» si chiede Steven Hyman. «Pregare il Dio sbagliato? È il problema fondamentale quando si valuta la ricchezza terapeutica della preghiera.» Il sacerdote rappresenta, tra l’altro, la versione più facilmente accettabile del terapeuta. Tristan Rhodes, un prete di mia conoscenza, ha assistito per anni una depressa che, pur rifiutando la psicoterapia, si confessava tutte le settimane. La donna gli apriva il suo cuore; il religioso si consultava con uno psichiatra suo amico, al quale rivelava solo le informazioni indispensabili; riferiva poi le osservazioni del medico alla malata, che ricevette in tal modo un’ottima assistenza psichiatrico-religiosa.

Per Maggie Robbins fede e malattia hanno coinciso. Maggie è diventata un membro, spesso molto devoto, della Chiesa episcopale. Va sempre alle funzioni: si reca alle preghiere della sera nei fine settimana, talora anche a due messe domenicali (una per comunicarsi e una solo per presenziare) e all’ora di studio della Bibbia il lunedì. Svolge o segue numerose attività parrocchiali, tra cui la rivista, insegna alla scuola domenicale e dipinge i fondali per la recita di Natale. Dice: «Fénelon scrisse: “Deprimimi o alleviami. Adoro tutti i tuoi disegni”. Il quietismo potrà essere un’eresia, ma è uno dei pilastri della mia fede. Non hai bisogno di capire che cosa succede. Un tempo pensavo che si dovesse realizzare qualcosa nella vita, anche se era senza senso. Ma la vita non è senza senso. La depressione ci induce a credere a certe cose: che sei inutile, che sarebbe meglio essere morto. L’unica risposta possibile è una credenza alternativa».

Nelle fasi peggiori della malattia, però, la fede aiutò ben poco Maggie Robbins. «Quando mi sentii meglio, pensai: “Oh, sì, la religione: perché non l’ho usata come supporto?”. Eppure, nei momenti più neri si è rivelata inutile.» Ma qualsiasi cosa lo sarebbe stata.

Le preghiere della sera la calmano e contribuiscono a mantenere sotto controllo il caos della malattia. «Costituisce un’intelaiatura molto robusta» afferma. «Ogni sera ti metti in piedi e reciti le stesse preghiere. Qualcuno ha stabilito che cosa chiedere a Dio, e gli altri pregano con te. Questi riti sorreggono la mia esperienza. La liturgia è simile alle assi di legno di un contenitore; la Bibbia e soprattutto i Salmi sono un’ottima scatola per contenere l’esperienza. Andare in chiesa comporta una serie di pratiche che ti fanno evolvere spiritualmente.»

È in un certo senso una visione pragmatica: non coinvolge la fede ma la programmazione, e il fine potrebbe essere conseguito altrettanto bene con una seduta di aerobica. Maggie ammette che in parte è così, ma nega la dissociazione tra spiritualità e utilitarismo. «Sono certa che si possa giungere alla stessa profondità con altre religioni e con altre cose, diverse dalla religione. La cristianità è un modello, solo uno dei modelli, e quando discuto della mia esperienza religiosa con il mio terapeuta o della mia esperienza terapeutica con il mio direttore spirituale, i modelli risultano alquanto simili. Il mio direttore spirituale mi ha detto di recente che lo Spirito Santo usa sempre il mio inconscio! Durante la terapia imparo a stabilire i confini dell’ego, in chiesa imparo ad abbatterli e a diventare una cosa sola con l’universo o, almeno, parte del corpo di Cristo. Mi esercito a erigere e ad abbattere i limiti, finché non mi riuscirà di farlo così» dice schioccando le dita.

«In base alla dottrina cristiana non abbiamo il diritto di suicidarci perché la vita non è nostra. Siamo i gestori della nostra vita e del nostro corpo, ma questi non ci appartengono, perciò non possiamo distruggerli. La Chiesa è un esoscheletro per quanti hanno visto la malattia mentale corrodere il loro endoscheletro. Vi entriamo e ci adattiamo alla sua struttura, grazie a essa ci formiamo una spina dorsale. L’individualismo, questa scissione di noi stessi da qualsiasi altra cosa, ha svilito la vita moderna. La Chiesa ci esorta ad agire dapprima all’interno delle nostre comunità, poi quali membri del corpo di Cristo, poi ancora quali membri della razza umana. È ben poco in stile “America del XXI secolo”, ma è estremamente importante. Condivido l’idea di Einstein che gli uomini si affannino, vittime dell’“illusione ottica” di essere separati gli uni dagli altri, separati dal resto del mondo materiale e dell’universo, quando in realtà sono tutti parti interconnesse di quest’ultimo. Per me il cristianesimo è lo studio di quello che è veramente l’amore, l’amore utile, e di quella che è l’attenzione. La gente pensa che il cristianesimo sia contro il piacere, e talvolta lo è, ma in verità è molto, molto favorevole alla gioia. Ci induce a perseguire una felicità che non svanirà mai, al di là delle sofferenze che ci possono affliggere.

«Certo, sperimentiamo in ogni caso il dolore. Quando volevo uccidermi, chiesi al mio sacerdote quale fosse lo scopo della sofferenza. Lui mi rispose che detestava le frasi contenenti le parole sofferenza e scopo, aggiungendo che la sofferenza era sofferenza e nient’altro, “ma credo che Dio sia con te in questo momento, anche se dubito che tu riesca a sentirlo” affermò. Gli domandai allora come avrei potuto affidare a Dio un caso simile, e lui osservò che non era questione di “affidare” e che il caso stava già dove doveva stare.»

Anche un’altra amica, la poetessa Betsy de Lotbinière, ha lottato con la fede da dentro la depressione e l’ha usata come principale strumento terapeutico. Nella fase peggiore della malattia diceva: «Odio gli errori del mio io e, quando perdo la tolleranza, perdo la generosità, odio il mondo e gli sbagli di quanti mi circondano, finisco per aver voglia di urlare perché ci sono perdite, macchie e foglie cadute, multe per divieto di sosta e persone che arrivano tardi o che non ritelefonano. Niente di tutto questo è positivo. Ben presto i bambini si metteranno a piangere e, se li ignoro, finiranno per acquietarsi e diventare obbedienti, il che è peggio perché a quel punto le lacrime divengono interiori. Hanno la paura negli occhi e ammutoliscono. Cesso di ascoltare le loro ferite segrete, che sono tanto facili da sanare quando tutto va bene. Mi odio quando sono così. La depressione mi trascina sempre più giù».

Betsy è cresciuta in una famiglia cattolica e ha sposato un uomo molto credente. Per quanto non frequenti regolarmente la chiesa come il marito, quando ha sentito la realtà scivolarle di mano, quando ha percepito che la disperazione stava distruggendo la sua gioia di crescere i figli, e quella che essi provavano nel mondo, si è rivolta a Dio e alla preghiera. Non si è però limitata al cattolicesimo, ma ha tentato anche altre vie, la meditazione buddista e l’arte di camminare sui carboni ardenti; ha visitato i templi indù, ha studiato la cabala e tutto ciò che avesse attinenza con la spiritualità.

«Quando reciti una preghiera in un momento d’ansia, di grave tensione, può essere come premere un bottone per sganciare il paracadute e rallentare un impatto a piena velocità contro un muro o uno schianto al suolo capace di fracassarti tutte le ossa del corpo emozionale» mi scrisse in un momento in cui ero in grave difficoltà. «La preghiera può essere il tuo freno. O, se hai una fede abbastanza solida, può essere il tuo acceleratore, il tuo amplificatore per inviare all’universo un messaggio circa la direzione che vorresti imboccare. Gran parte delle religioni del mondo prevedono una forma di arresto e una di accesso all’essere interiore: a questo serve inginocchiarsi, assumere la posizione del loto o stendersi bocconi a terra.

«Ricorrono anche al movimento per scacciare la quotidianità e riconnetterci con le idee superiori dell’Essere: a questo servono la musica e i riti. Hai bisogno di entrambi per uscire dalla depressione. Chi possiede la fede già prima di sprofondare nella tenebra devastante dell’abisso, dispone di una strada per uscirne. La chiave è trovare l’equilibrio al buio: proprio qui la religione può risultare utile. Gli uomini di religione sanno come sostenere quegli individui che hanno intrapreso l’antico sentiero che conduce fuori dalle tenebre. Se riesci a cogliere un equilibrio esterno a te, riuscirai probabilmente a trovarlo anche dentro di te. Allora sarai libero.»

Molti non sono in grado di vincere una forma depressiva grave con la lotta: il disagio deve essere trattato o deve passare. Tuttavia, mentre siamo in terapia o aspettiamo che il male passi, dobbiamo continuare a combattere. In questa battaglia prendere i farmaci significa combattere duramente, rifiutarli sarebbe ridicolo e autodistruttivo, come se oggi andassimo in guerra a cavallo.

Farne uso non è un segno di debolezza: non significa che non siamo in grado di affrontare la vita, anzi, è un atto di coraggio. Né è segno di debolezza ricercare l’aiuto di un terapeuta esperto. La fede in Dio e qualsiasi fede in sé hanno grande importanza. Dobbiamo portare le nostre terapie, di qualsiasi genere siano, in guerra con noi. Non possiamo aspettare di guarire. «La fatica deve essere la cura, non la commiserazione. La fatica è l’unica cura radicale per un dolore radicato» ha scritto Charlotte Brontë.35 Non è la cura perfetta, ma resta purtuttavia l’unica possibile. La felicità stessa può essere una grande fatica.

Ciononostante, sappiamo che la fatica non basta a procurare la gioia. Così afferma ancora la Brontë in Villette: «Nessuno scherno a questo mondo mi sembra tanto insulso quanto il sentirmi dire di coltivare la felicità. Che cosa significa un simile consiglio? La felicità non è una patata, da piantarsi nella terra e da concimarsi col letame. La felicità è uno splendore che col suo bagliore giunge fino a noi dal Cielo. È la divina rugiada che, certe mattine d’estate, l’anima si sente gocciolare addosso dai fiori d’amaranto e dai fiori dorati del Paradiso. “Coltivare la felicità!” Ho chiesto bruscamente al dottore: “Lei coltiva la felicità? Come fa?”».

La fortuna ha un ruolo significativo e, quasi per caso, ci elargisce qualche goccia di questa rugiada. Alcuni soggetti rispondono bene a un trattamento, altri ottengono buoni risultati con una terapia del tutto diversa. Alcuni depressi vanno incontro a una remissione spontanea dopo una breve lotta, altri, incapaci di tollerare i farmaci, compiono grandi progressi con la psicoterapia. Altri ancora, dopo anni di sedute analitiche, migliorano non appena prendono una pillola. Vi sono malati che escono a fatica da un episodio grazie a una terapia, per ripiombare in una seconda crisi che richiede un trattamento diverso, e malati che sono affetti da una forma refrattaria, impossibile da alleviare con qualsiasi mezzo. Vi sono pazienti che sviluppano effetti collaterali allarmanti dopo qualsiasi tipo trattamento e, viceversa, pazienti che, pur sottoposti a terapie pesanti, non avvertono il minimo disagio.

Un giorno riusciremo forse ad analizzare il cervello e tutte le sue funzioni, nonché a spiegare non solo le origini della depressione, ma anche le ragioni di tali differenze. Io però non fremo all’idea. Per ora dobbiamo accettare che il fato abbia assegnato ad alcuni di noi una grande vulnerabilità alla depressione e che, tra costoro, alcuni rispondano bene ai trattamenti, altri siano refrattari. Chi, con qualsiasi approccio, riesce a ottenere un miglioramento deve ritenersi fortunato, anche se ha vissuto crisi estenuanti. Dobbiamo inoltre essere tolleranti con chi non ha possibilità di recupero. La resilienza è un dono frequente ma non universale e nessun segreto contenuto in questo libro o altrove potrà mai aiutare i più sfortunati.