«Se per una malattia vengono prescritti molti rimedi» afferma Anton Čechov «si può star certi che è incurabile.»1 Numerosi sono i rimedi prescritti per la depressione: al di là delle procedure standard esiste infatti una gamma sorprendente di alternative. Alcune sono davvero straordinarie ed efficaci, anche se in modo selettivo, altre ridicole, proprio come l’imperatore della fiaba di Andersen, che pur avendo un intero guardaroba nell’armadio finisce per restare nudo.
Da ogni parte del mondo giungono testimonianze di cure meravigliose, osannate con toni rapiti dai neofiti. Pochi di questi trattamenti alternativi sono veramente dannosi, salvo che per il portafoglio: l’unico serio pericolo si verifica quando essi vengono usati al posto di quelli efficaci tralasciando questi ultimi. La grande quantità di terapie alternative esistenti denota in ogni caso l’ottimismo persistente dell’uomo nei confronti di un problema ineliminabile come la sofferenza psichica.
Dopo la pubblicazione dei miei precedenti lavori sulla depressione ho ricevuto centinaia di lettere, sia dagli Stati Uniti sia dall’estero, di persone che in modo toccante hanno voluto suggerirmi cure alternative. Una donna del Michigan mi scrisse che dopo anni di tentativi con i farmaci aveva infine trovato la soluzione: «dedicarsi alla tessitura». Quando le risposi, chiedendole che cosa realizzasse, mi mandò una singolare foto che ritraeva un’ottantina di orsetti di stoffa tutti identici da lei confezionati nei colori dell’arcobaleno, e un manuale sulla tessitura facile, edito a sue spese.
«Forse le risulterà interessante sapere che tutti gli effetti che ha descritto sono dovuti ad avvelenamento progressivo. Si guardi attorno. Ha usato insetticidi o erbicidi in casa o in giardino? Il suo pavimento è fatto di truciolato? Finché scrittori come lei e William Styron non controlleranno l’ambiente in cui vivono per individuare e rimuovere la fonte di eventuali veleni, non starò a perdere tempo leggendo i loro libri sulla depressione» osservò una donna del Montana. Non posso parlare a nome di William Styron, i cui pavimenti trasuderanno forse l’Agent Orange, il defoliante usato in Vietnam, ma posso affermare con sufficiente certezza che casa mia, di cui dopo dieci anni di guai idraulici ed elettrici conosco molto bene le viscere, ha solo pavimenti di legno e strutture portanti dello stesso materiale.
Un lettore riteneva fossi affetto da avvelenamento da mercurio dovuto alle otturazioni dentarie (che non ho), un altro mi ha inviato una lettera anonima da Albuquerque per spiegarmi che soffrivo di ipoglicemia, un altro ancora si offrì di trovarmi un maestro di ballo se avessi voluto provare con il tip-tap. Dal Massachusetts volevano illustrarmi il biofeedback, da Monaco mi proposero di effettuare una sostituzione dell’RNA, suggerimento che molto educatamente rifiutai. Il miglior consiglio arrivò da una donna di Tucson: «Ha mai pensato di andarsene da Manhattan?».
Al di là del caso mio – e di William Styron – gli effetti dell’avvelenamento da formaldeide possono essere simili ai sintomi della malattia depressiva, come del resto la neurotossicità da mercurio causata dalle otturazioni dentarie in amalgama. Anche l’ipoglicemia è correlata con gli stati depressivi. Quanto al tip-tap, non sono in grado di valutarne le potenzialità terapeutiche, ma un’attività fisica ben dosata può migliorare l’umore. Persino lo svolgimento ripetuto di attività manuali rilassanti, come la tessitura, ha con molta probabilità un’azione positiva nella situazione appropriata. E andarmene da Manhattan abbasserebbe senza dubbio il mio livello di stress.
In base alla mia esperienza nessuno, per quanto a prima vista possa sembrare pazzo, è del tutto squilibrato. Molti ottengono risultati sorprendenti con metodi apparentemente strampalati. Secondo Seth Roberts del Dipartimento di Psicologia dell’Università della California a Berkeley, alcune forme di depressione si associano al fatto di svegliarsi il mattino senza nessuno accanto: in tali casi può essere utile osservare per circa un’ora qualcuno che parla. I suoi pazienti possiedono alcune videocassette realizzate con la stessa tecnica dei talk show, in cui si usa una sola telecamera e la persona viene riprodotta sullo schermo a grandezza naturale. Dopo averle guardate per un’ora circa dopo il risveglio, numerosi soggetti si sentono molto meglio. «Non avrei mai pensato che la TV sarebbe diventata la mia migliore amica» mi ha confessato un depresso. Attenuare la solitudine, anche in modo artificioso, può avere un effetto corroborante.
Ho anche conosciuto un tizio che ho soprannominato «il mistico incompetente». Costui mi scrisse delle terapie energetiche che praticava. Dopo una fitta corrispondenza, lo invitai a casa mia per una dimostrazione. Si rivelò una persona molto piacevole, animata da buone intenzioni. Ci scambiammo qualche opinione, poi ci mettemmo all’opera. Mi invitò a unire pollice e medio della mano sinistra a formare una O e a fare altrettanto con la mano destra. Poi mi fece unire le due O e mi chiese di recitare una serie di frasi, sostenendo che, se avessi detto il vero, le mie dita avrebbero resistito al suo tentativo di disgiungerle. Se avessi mentito, si sarebbero invece staccate. I miei affezionati lettori possono facilmente immaginare l’imbarazzo che provai a restare seduto in salotto esclamando «mi odio» mentre un uomo zelante con un vestito blu chiaro mi tirava le mani.
Descrivere le procedure che seguirono richiederebbe pagine e pagine: dirò solo che arrivammo al culmine quando il «mistico», nel bel mezzo di una nenia che stava cantilenando, si dimenticò le parole. «Resti fermo solo per un attimo» esclamò mentre frugava nella ventiquattr’ore. Infine trovò il testo e proseguì: «Lei vuole essere felice, Lei sarà felice». Decisi che chiunque potesse scordarsi due frasi simili era un emerito idiota e, non senza difficoltà, lo cacciai di casa.
Dopo quell’episodio ho conosciuto pazienti che hanno avuto esperienze più felici con la terapia energetica e devo ammettere che alcuni invertono effettivamente la loro «polarità corporea» raggiungendo, con la pratica ispirata di queste tecniche, uno stato di gioia e d’amore per se stessi. Resto tuttavia piuttosto scettico al riguardo, benché convinto che esistano al mondo ciarlatani molto più abili di quello da me incontrato.
Dato che la depressione è una malattia ciclica e quindi, anche in assenza di trattamento, va incontro a remissioni temporanee, è facile attribuire a qualsiasi pratica prolungata, utile o inutile, il merito del miglioramento. Sono persuaso che in quest’ambito non esistano placebo. Se un malato di cancro decide di sperimentare una terapia poco ortodossa e ritiene in seguito di essere migliorato, potrebbe sbagliarsi. Se un depresso decide di sperimentare una terapia poco ortodossa e ritiene in seguito di essere migliorato, significa che lo è davvero. La depressione è una malattia dei processi mentali ed emozionali e se qualcosa riesce a orientare questi processi nella giusta direzione, ciò basta a indurre la guarigione.
A dire il vero, penso che la migliore terapia antidepressiva sia la capacità di credere, indipendentemente da ciò in cui si crede. Se crediamo davvero di poter alleviare il disturbo stando a testa in giù e sputando monetine per un’ora ogni pomeriggio, è probabile che questa scomoda attività ci faccia davvero bene.
Esercizio e dieta hanno un ruolo importante nel decorso delle malattie affettive2 e credo che tali disturbi si possano tenere ottimamente sotto controllo con un buon regime dietetico e un valido programma di esercizio fisico. Fra i trattamenti alternativi più efficaci si annoverano, a mio parere, la stimolazione magnetica transcranica ripetuta (rTMS), l’impiego della luce per i malati affetti da disordini affettivi stagionali (SAD), la desensibilizzazione e la rielaborazione attraverso i movimenti oculari (EMDR), la massoterapia, i corsi di sopravvivenza, l’ipnosi, la terapia della privazione di sonno, l’iperico, la s-adenosilmetionina o SAMe, l’omeopatia, la fitoterapia cinese, le terapie di gruppo e la psicochirurgia. Ma per descrivere tutte le tecniche alternative disponibili non basterebbe un libro.
«L’attività fisica rappresenta il primo passo per tutti i miei pazienti» spiega Richard A. Friedman del Payne-Whitney. «Aiuta tutti.» Io detesto fare sport ma non appena riesco a trascinarmi giù dal letto faccio alcuni esercizi di callistenia o, se possibile, vado in palestra. Quand’ero in fase di recupero, non mi importava quale attività svolgere: allenarmi al tapis roulant o allo step era la cosa più semplice. Avevo la sensazione che il movimento mi aiutasse a eliminare la depressione dal sangue, a ripulirmi.
«È una questione molto semplice» osserva James Watson, presidente del Cold Spring Harbor Laboratory, nonché uno degli scopritori del DNA. «L’attività fisica produce endorfine, sostanze endogene dall’azione simile alla morfina e capaci di farci sentire in splendida forma quando ci troviamo in condizioni normali o di farci star meglio quando siamo abbattuti. Basta mantenerne alto il livello. Esse agiscono a monte del sistema dei neurotrasmettitori e quindi l’esercizio fisico contribuisce ad aumentare anche questi.» La depressione ci rende pigri e pesanti, il che aggrava ulteriormente il problema. Se manteniamo attivo il corpo, anche la mente ne trarrà beneficio. Allenarmi in modo serio è la prospettiva meno allettante che possa concepire quando sono depresso e non rappresenta affatto un’esperienza gradevole, ma dopo sto molto meglio. Il movimento placa l’ansia perché brucia l’energia nervosa e aiuta così a controllare la paura irrazionale.
Siamo quello che mangiamo. Ci sentiamo quello che siamo. Non possiamo indurre la remissione della malattia solo scegliendo gli alimenti giusti, ma possiamo scatenare una forma depressiva non consumando i cibi adeguati, e anche proteggerci da eventuali recidive seguendo una dieta bilanciata. A quanto sembra zuccheri e carboidrati aumentano l’assorbimento del triptofano nel cervello, il che a sua volta incrementa il livello di serotonina. La vitamina B6, contenuta nei cereali integrali e nei crostacei, è importante per la sintesi di tale sostanza: se presente in quantità insufficiente, può causare l’insorgenza di depressione. Anche l’ipocolesterolemia è stata correlata con la presenza di una sintomatologia depressiva. Non esistono ancora dati ufficiali sull’argomento, ma un’alimentazione a base d’aragosta e di mousse al cioccolato potrebbe migliorare non poco lo stato d’animo di un depresso.
«Con molta probabilità l’enfasi del XX secolo su una dieta sana» afferma Watson «ci ha indotti a seguirne una psicologicamente malsana.» La sintesi della dopamina è garantita dalle vitamine del gruppo B, soprattutto dalla B12 (contenuta nel pesce e nei latticini), dall’acido folico (presente nel fegato di vitello e nei broccoli) e dal magnesio (contenuto nel merluzzo, nello sgombro e nel germe di grano). I depressi presentano sovente bassi livelli di zinco (presente nelle ostriche, nell’indivia, negli asparagi, nel tacchino e nei rapanelli), di vitamina B3 (contenuta nelle uova, nel lievito di birra e nel pollame) e di cromo, tre sostanze impiegate, per l’appunto, nel trattamento della depressione. La scarsa quantità di zinco è stata associata in particolare con la depressione postparto, dal momento che tutte le riserve del minerale passano dalla madre al bambino al termine della gravidanza. Aumentandone il consumo, è possibile migliorare l’umore.3 Secondo una recente teoria, i popoli mediterranei presenterebbero un minor tasso di depressione proprio a causa del consumo elevato di pesce azzurro, ricco di olio di pesce e di vitamine del gruppo B, che aumenterebbe il livello di acidi grassi omega-3. Gli effetti benefici che questi ultimi hanno sull’umore sono peraltro tra quelli meglio documentati.4
Se certi cibi possono essere utili per prevenire la depressione, altri possono provocarla. «Molti europei sviluppano allergie al grano, molti americani al mais» spiega Vicki Edgson in The Food Doctor. Anche le allergie alimentari possono determinare l’insorgenza di una forma depressiva. «Queste sostanze comuni si trasformano in tossine per il cervello, scatenando tutta una serie di disturbi mentali.»
Molti vanno incontro a una sintomatologia depressiva nell’ambito della sindrome da esaurimento surrenalico, secondaria al consumo eccessivo di zuccheri e carboidrati. «Se il livello glicemico varia in continuazione, con numerosi picchi minimi e massimi durante la giornata, assumere dolciumi e cibi poco sani quale rimedio immediato per il problema finirà per causare turbe del sonno e compromettere non solo la capacità di affrontare i problemi quotidiani, ma anche la pazienza e la tolleranza verso il prossimo. I soggetti colpiti da questa sindrome sono costantemente stanchi, non provano alcun desiderio sessuale e hanno dolori in tutto il corpo. Lo stress a cui sono sottoposti i loro apparati è deleterio.»
Alcuni soggetti soffrono di celiachia, che ne altera le condizioni trofiche generali. «Chi è depresso si illude che il caffè sia l’unica sostanza in grado di fornirgli energia» afferma la Edgson. «Invece gli sottrae energia e stimola una risposta ansiosa.» Anche l’alcol esige, com’è ovvio, un alto prezzo dall’organismo. «Talvolta» prosegue l’autrice «la depressione è il modo con cui il corpo ci dice di smettere di abusarne, è la prova che stiamo andando a pezzi.»
Robert Post, del National Institute of Mental Health, ha studiato la stimolazione transcranica ripetuta (rTMS),5 che utilizza il magnetismo per generare uno stimolo metabolico simile a quello della terapia elettroconvulsivante, anche se di minore entità. Grazie alla tecnologia moderna il magnetismo può essere concentrato in modo tale da inviare uno stimolo intenso ad aree cerebrali specifiche. Se la corrente elettrica deve essere abbastanza elevata per poter attraversare cuoio capelluto e cranio, e giungere al cervello, i flussi magnetici viaggiano nei tessuti con relativa facilità. Per questa ragione, l’elettroshock causa una convulsione cerebrale, la rTMS no.
Secondo Post, con il perfezionamento delle tecniche di neuroimaging si riuscirà un giorno a individuare con precisione le aree cerebrali depresse da trattare con stimolazione magnetica, e a elaborare quindi terapie mirate per le singole forme della malattia. La rTMS presenta inoltre il vantaggio dell’elevata specificità: la stimolazione magnetica può essere indirizzata con grande precisione alle regioni interessate. «In futuro» osserva Post «useremo una tecnologia che permetterà di incappucciare la testa del malato, come i vecchi caschi asciugacapelli. In questo modo esamineremo il cervello, identificheremo le aree ipometaboliche e le tratteremo mediante stimolazione. Mezz’ora dopo il paziente se ne andrà con il cervello riequilibrato.»
Norman Rosenthal scoprì di essere vittima del disordine affettivo stagionale (SAD) quando, trasferitosi dal Sud Africa agli Stati Uniti, iniziò ad avere forti sbalzi d’umore d’inverno.6 Molti vanno incontro a variazioni stagionali dell’umore e finiscono per sviluppare una depressione stagionale ricorrente, in particolare in inverno. I cambiamenti di stagione, «il fuoco incrociato tra estate e inverno» come l’ha definito un paziente, sono difficili per tutti. Ma soffrire di un disordine affettivo stagionale non significa semplicemente non amare i mesi freddi.
Secondo Rosenthal, l’uomo è predisposto per rispondere alle variazioni stagionali, ma oggi tale facoltà è inibita dalla luce artificiale e dagli obblighi della vita moderna. Quando le giornate si accorciano, molti si chiudono in sé e «chieder loro di restare attivi malgrado il blocco biologico può indurli a sviluppare una depressione. Come si sentirebbe un orso in letargo se fosse costretto a esibirsi al circo in inverno?». Il disordine affettivo stagionale è correlato con la luce, che influenza la secrezione di melatonina e, di conseguenza, le reti di neurotrasmettitori.
La luce stimola l’ipotalamo, in cui sono localizzati molti sistemi compromessi dalla depressione, quali quelli del sonno, dell’alimentazione, della temperatura e del desiderio sessuale; influenza inoltre la sintesi della serotonina a livello retinico. Una giornata di sole offre una quantità di luce circa trecento volte maggiore rispetto all’ambiente interno medio di un’abitazione.7
La terapia in genere prescritta per tale sindrome è la fototerapia o terapia della luce, che consiste nell’esposizione programmata del paziente a una fonte di luce bianca artificiale molto intensa. A me dà un lieve senso di vertigine e notevole fastidio agli occhi, ma conosco persone che ne traggono grande beneficio. Alcuni si dotano, addirittura, di visori luminosi o di elementi luminosi applicabili al capo. Tali dispositivi, molto più brillanti di qualsiasi luce artificiale d’interni, sono davvero in grado di aumentare il livello di serotonina. «I soggetti con un disturbo affettivo stagionale iniziano a star male in autunno, parallelamente al cadere delle foglie» spiega Rosenthal. «Sottoposti a un’intensa esposizione alla luce, rifioriscono.»
La terapia di desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari (EMDR) fu elaborata nel 1987 per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress.8 Si tratta di una tecnica un po’ bizzarra, in cui il terapeuta muove la mano a diversa velocità a partire dal campo visivo periferico destro fino a quello sinistro del paziente, in modo da stimolare prima un occhio e poi l’altro. In una variante il soggetto indossa un paio di cuffie per ascoltare suoni alternati, atti a stimolare ora un orecchio, ora l’altro. O ancora: tiene due piccoli vibratori, uno per mano, e ne viene stimolato in modo alternato.
Durante la procedura il malato, con un processo psicodinamico, ricorda e rivive il trauma. Al termine della seduta se ne è liberato. Molte terapie, fra cui la psicanalisi, si basano su teorie affascinanti, che producono però scarsi risultati; altre, come la terapia EMDR, si ispirano a principi strani ma danno ottimi risultati. Chi la pratica sostiene che l’EMDR è efficace perché stimola i due emisferi cerebrali in rapida alternanza, contribuendo in tal modo al transfert dei ricordi da un centro della memoria all’altro. Ma l’ipotesi è poco plausibile. I suoi sorprendenti effetti sembrano in ogni caso correlati proprio con l’alternanza della stimolazione.
Oggi l’EMDR viene sempre più utilizzata nel trattamento della depressione. Dato che opera sul ricordo di un trauma, viene spesso prescritta nelle forme depressive provocate da eventi drammatici più che in quelle generalizzate. Le ricerche condotte durante la stesura del libro mi hanno indotto a sperimentare un gran numero di tecniche, fra cui proprio l’EMDR: convinto che si trattasse di un sistema suggestivo ma inefficace, sono rimasto molto colpito dai suoi effetti.
Mi era stato detto che avrebbe «accelerato l’elaborazione», ma non ero pronto a vivere un’esperienza tanto intensa. Misi le cuffie e cercai di evocare i miei ricordi: fui sommerso da un’ondata potente di immagini della mia infanzia, di particolari che non sapevo nemmeno di avere memorizzato. Facevo associazioni velocissime: tutto nella mia mente era più rapido di quanto non lo fosse mai stato. Fu elettrizzante e il terapeuta, con cui mi trovai a mio agio, mi aiutò a rievocare ogni sorta di problemi infantili ormai dimenticati. Non so se l’EMDR abbia un effetto tanto immediato su una depressione scatenata da più fattori, ma nel mio caso si è rivelata interessante e stimolante al punto da convincermi a effettuare un ciclo di venti sedute.
Dice David Grand, uno psicanalista esperto che oggi usa la tecnica con tutti i suoi pazienti: «L’EMDR può aiutare un soggetto a realizzare in sei, dodici mesi quello che non si otterrebbe in cinque anni di terapia convenzionale. Non faccio paragoni astratti: confronto il mio lavoro integrato con l’EMDR e quello senza. L’elaborazione scavalca l’ego e consente una stimolazione profonda, rapida, diretta. L’EMDR non è un approccio, come la terapia cognitiva o la psicanalisi, è uno strumento. Non si può essere un terapeuta EMDR generico: bisogna anzitutto essere un bravo terapeuta, quindi trovare il modo giusto per integrare tale tecnica nel trattamento. La sua apparente stranezza sconcerta, ma io la uso da otto anni e non potrei più tornare al vecchio metodo sapendo ciò che ora so».
Dopo una seduta provavo sempre una sensazione positiva di euforia; quanto ho appreso mi è stato di grande insegnamento e ha arricchito la mia mente conscia. Si tratta davvero di un processo efficace, che raccomando vivamente.
Nell’ottobre del 1999, in un periodo di grave stress, mi recai a Sedona, in Arizona,9 per sottopormi a una massoterapia New Age di quattro giorni. Sono in genere alquanto scettico nei confronti delle terapie New Age e guardai con sospetto l’«analista» che mi avrebbe somministrato il primo trattamento mentre disponeva i cristalli in fondo alla stanza e mi raccontava i suoi sogni. Non credo che la tranquillità interiore si possa acquisire in modo automatico, grazie al massaggio con una serie di oli tibetani e del sacro Cacho Canyon, e non so se la collana di quarzo rosa che mi fu posata sugli occhi a mo’ di rosario fosse entrata in contatto con i miei chakra. Né credo che i cantici sanscriti di cui riecheggiava l’intera stanza abbiano inscritto virtù antidepressive nei miei meridiani. Ciò premesso, quattro giorni di delicate attenzioni da parte di belle ragazze in un ambiente confortevole e lussuoso mi rimisero a nuovo e mi riconciliarono col mondo.
Un massaggio accurato, capace di risvegliare un corpo che la depressione ha separato dalla mente, può essere uno strumento molto utile ai fini terapeutici. Non penso che un’esperienza come la mia a Sedona serva a chi è stretto nella morsa di una depressione maggiore, ma può risultare davvero straordinaria per ritrovare il proprio equilibrio.
Il teorico Roger Callahan10 combina, a quanto sostiene, la kinesiterapia con la medicina cinese tradizionale, partendo dal presupposto che cambiamo prima di tutto a livello cellulare, poi a quello chimico, neurofisiologico e infine cognitivo. A suo parere, quando trattiamo l’aspetto cognitivo e, solo in un secondo tempo, quello neurofisiologico, procediamo in modo contrario alla logica delle cose. Callahan e i suoi numerosi allievi partono, dunque, dalla realtà mistica delle risposte muscolari. Per quanto le loro pratiche mi sembrino alquanto strane, ritengo valida e fondata l’idea di prendere in considerazione prima di tutto la componente fisica. La depressione è una malattia organica e curare il corpo è di grande aiuto.
Durante la Seconda guerra mondiale molti soldati britannici andarono a lungo alla deriva nell’Atlantico dopo l’affondamento delle loro navi: ebbene, i militari che presentarono il maggior tasso di sopravvivenza non furono quelli più giovani e robusti, ma quelli più esperti che, grazie a una straordinaria forza d’animo, riuscirono a trascendere i loro limiti fisici. Convinto che tale forza d’animo possa essere acquisita, l’educatore Kurt Hahn fondò l’Outward Bound, che oggi comprende un vasto numero di associazioni in tutti i paesi del mondo. Mediante il contatto ben gestito con la natura selvaggia, l’organizzazione si propone di divulgare i principi di Hahn: «Compito primario del programma formativo è, a mio avviso, garantire la sopravvivenza delle seguenti qualità: una viva curiosità, uno spirito indomabile, la tenacia nel perseguire i propri obiettivi, la capacità ragionata di sacrificio e, soprattutto, la compassione».11
Nell’estate del 2000 partecipai a una spedizione con la Hurricane Island School dell’Outward Bound. Non avrei mai potuto compiere un’impresa simile in preda alla depressione, ma realizzarla in un periodo in cui stavo bene sembrò rafforzare quei baluardi che in me ancora resistevano alla malattia. Il corso, durissimo, perfino vessatorio, e tuttavia piacevole, mi ha aiutato a capire di essere connesso con i processi organici di un mondo più vasto e mi ha procurato una sensazione di calma: trovare il proprio posto nell’oceano dell’eternità è incredibilmente confortante.
Praticammo il kayak in mare e le nostre giornate esigevano uno sforzo fisico ininterrotto. In genere ci alzavamo alle quattro, correvamo per oltre un chilometro, quindi raggiungevamo uno scoglio alto quasi nove metri e di lì ci tuffavamo in mare nelle fredde acque del Maine. In seguito levavamo il campo, caricavamo le nostre scorte nei kayak – imbarcazioni a due posti, di circa sette metri – e li mettevamo in mare. Remavamo per circa cinque miglia contro corrente (percorrendo poco più di un miglio all’ora) finché non arrivavamo a un’insenatura adatta allo sbarco. Ci riposavamo un po’, cucinavamo e facevamo colazione.
Poi tornavamo in kayak e remavamo per altre cinque miglia, sino a individuare un punto adatto per allestire il campo per la notte. Pranzavamo e quindi ci addestravamo a compiere salvataggi in mare: rovesciavamo i kayak e imparavamo a liberarci sott’acqua dalle cinghie che ci bloccavano, a raddrizzarli e a risalirvi. Infine venivamo condotti ognuno in un luogo isolato per la notte, muniti solo di un sacco a pelo, una borraccia, un’incerata e un pezzo di spago. Per fortuna durante la mia spedizione il tempo fu sempre bello, ma se anche avesse diluviato, il programma non avrebbe subito variazioni. Avevamo istruttori molto validi, persone che parevano veri sopravvissuti, dall’aria forte e saggia. Grazie al contatto ravvicinato con la natura e alla loro attenta guida riuscimmo a carpire una briciola della loro profonda competenza.
A volte mi pentivo di aver preso parte al corso e pensavo che il fatto di aver acconsentito a privarmi di ogni comodità fosse la conferma definitiva della mia follia. Eppure, mi sentivo di nuovo in contatto con qualcosa di profondo. Vivere immersi nella natura allo stato primitivo, anche se lo fai in un kayak di vetroresina, ti riempie d’esultanza. Il ritmo della pagaia è di grande aiuto, come del resto la luce, e le onde sembrano accompagnare il fluire del sangue al cuore e il defluire della tristezza dal corpo.
L’esperienza con l’Outward Bound mi ha ricordato la psicanalisi per più ragioni: è stata un processo di autorivelazione che mi ha portato a conoscere il senso del limite. In quest’ottica l’organizzazione tiene fede agli intendimenti del suo fondatore: «Senza autoscoperta» scrive Hahn ampliando le idee di Nietzsche «una persona può essere sicura di sé, ma si tratta di una sicurezza costruita sull’ignoranza, che svanisce di fronte alle gravi difficoltà. L’autoscoperta è frutto di una grande sfida vinta, in cui la mente ordina al corpo di fare ciò che apparentemente è impossibile, in cui la forza e il coraggio vengono stimolati sino all’inverosimile per amore di qualcosa che sta al di fuori di sé: un principio, un compito oneroso, un’altra vita umana».
In altre parole, per sopravvivere alle future ondate di disperazione, è saggio, tra una crisi e l’altra, svolgere attività che potenzino la nostra resilienza, proprio come lo è praticare con costanza un po’ d’esercizio fisico per rafforzare il corpo. Non sto affatto suggerendo di sostituire la terapia con una spedizione Outward Bound, ma quale trattamento integrativo essa può arrecare grande beneficio, oltre a essere, nel suo complesso, molto gratificante. La depressione ci allontana dalle nostre radici e, per quanto si associ in genere a una sensazione di appesantimento, può talora generare un’impressione di totale instabilità. L’Outward Bound è stato il mio modo per ritrovare le mie radici nella natura; fare quello che ho fatto mi ha dato un senso d’orgoglio e di sicurezza.
Come l’EMDR anche l’ipnosi, più che un trattamento in sé, può costituire un’efficace integrazione della terapia antidepressiva. Mediante questa tecnica è possibile ricondurre il paziente a esperienze passate, affinché le riviva e risolva il problema che lo affligge. Secondo Michael Yapko,12 autore di un magnifico libro sull’uso dell’ipnosi nel trattamento della depressione, la tecnica è più efficace quando la causa del disturbo è attribuibile alla percezione negativa che il soggetto ha di un’esperienza, percezione che può essere mutata in una più positiva. L’ipnosi è anche impiegata per evocare l’immagine di un futuro sereno, la cui aspettativa può alleviare lo stato di infelicità e contribuire a migliorare la realtà. La tecnica è quanto meno utile per interrompere le modalità negative di pensiero e di comportamento.
Uno dei sintomi principali della depressione è l’alterazione dei ritmi del sonno. A volte i soggetti veramente depressi non presentano fasi di sonno profondo e trascorrono molte ore a letto senza nemmeno riuscire a riposarsi. Ma dormiamo male perché siamo depressi o cadiamo in depressione anche perché dormiamo male?
«Il dolore, che genera depressione, altera il sonno in un modo; l’innamoramento, che può portare alla mania, lo altera in un altro» spiega Thomas Wehr del National Institute of Mental Health. Persino a quanti non soffrono di depressione è capitato di svegliasi troppo presto, in preda a una sensazione di profondo terrore: questo stato di paura e di disperazione, che in genere scompare subito, è quello che più si avvicina all’esperienza della depressione.
Quasi tutti i depressi stanno peggio il mattino e migliorano col passare delle ore. Thomas Wehr ha quindi condotto una serie di esperimenti atti a dimostrare che con la privazione controllata del sonno è possibile alleviare alcuni sintomi della malattia. Non è un sistema adottabile per lunghi periodi, ma può risultare utile, per esempio, nel lasso di tempo in cui non si avverte ancora l’effetto degli antidepressivi. «Impedendo a un soggetto di dormire, si protrae il miglioramento che si instaura durante il giorno. Anche se i depressi ricercano l’oblio del sonno, è proprio lì che la depressione si alimenta e si intensifica. Quale sorta di orrendi incubi visitano di notte i malati e li trasformano?» si chiede Wehr.13
Nel racconto L’incrinatura Fitzgerald scrive: «Ma alle tre del mattino, un pacchetto dimenticato assume la stessa importanza tragica di una condanna a morte, e la cura non ha effetto – e in una reale notte fonda dell’anima sono sempre le tre del mattino, giorno dopo giorno».14 Il demone delle tre del mattino ha fatto visita anche a me.
Nei periodi più cupi della depressione vado incontro a un lieve miglioramento col passare delle ore: benché mi stanchi con molta facilità, la tarda sera resta il momento più proficuo; se potessi scegliere, vivrei sempre a mezzanotte. Poche sono le ricerche in quest’ambito, visti anche gli scarsi risvolti commerciali; tuttavia alcuni studi indicano la presenza di meccanismi complessi correlati con i ritmi del sonno, con la fase in cui ci si trova al momento del risveglio e con molti altri elementi.
Il sonno è il fattore più importante tra quelli che determinano i ritmi circadiani del corpo; se viene alterato, la liberazione delle sostanze endocrine e dei neurotrasmettitori risulta compromessa. Eppure, anche se siamo in grado di identificare gran parte dei fenomeni che accadono nel sonno e di seguire il tuffo nell’emozionale che esso avvia, non siamo ancora in grado di trarne alcuna correlazione diretta. L’ormone tireotropo si abbassa mentre dormiamo: è forse questa la causa dell’immersione emozionale? Scendono i livelli di noradrenalina e di serotonina, salgono quelli dell’acetilcolina. Alcuni ipotizzano che la privazione del sonno aumenti i livelli di dopamina; una serie di esperimenti ha in effetti suggerito che l’atto di battere le palpebre causi la liberazione di dopamina, la quale cesserebbe pertanto a occhi chiusi.
Come ovvio, non si può impedire del tutto a un soggetto di dormire; si può però evitare che entri nella fase di sonno REM, svegliandolo non appena questa inizia. Sembra una buona tecnica per tenere sotto controllo la depressione: io stesso l’ho sperimentata con ottimi risultati. Sonnecchiare, cosa che desidero molto fare quando sono depresso, è controproducente e può annullare tutti i benefici dello stato di veglia. Il professor Berger dell’Università di Friburgo ha praticato un metodo che anticipa il momento del sonno: i soggetti vengono messi a letto alle cinque del pomeriggio e svegliati prima di mezzanotte. Il trattamento sembra avere un effetto benefico, anche se nessuno capisce perché.
«Sembrano tecniche stravaganti» ammette Wehr «ma se l’elettroshock non fosse una pratica così diffusa e io le dicessi che trasmettendole una scarica elettrica convulsiva al cervello potrei alleviare il suo problema, non mi crederebbe.»
Michael Thase dell’Università di Pittsburg ha osservato che numerosi depressi dormono un numero molto minore di ore rispetto alla norma e che l’insonnia in una crisi depressiva è un fattore predittivo della tendenza suicida. La qualità del sonno durante la malattia risulta alterata anche in quelli che riescono a dormire. Il loro sonno è poco redditizio giacché entrano di rado, o addirittura mai, nella fase di sonno profondo, associata con la sensazione di rigenerazione e di riposo. Hanno vari episodi brevi di sonno REM al posto di quelli, più rari ma prolungati, degli individui sani. Dato che la fase REM può essere considerata come una forma lieve di risveglio, il sonno risulta stancante più che riposante.
Gran parte degli antidepressivi riducono gli episodi REM, anche se non sempre migliorano la qualità del sonno in generale. Se tale effetto rientri nel loro meccanismo d’azione non è noto. Thase ha rilevato che i depressi che hanno un sonno normale rispondono meglio alla psicoterapia, mentre quelli con un sonno alterato devono di solito essere sottoposti a farmacoterapia.
Se quando si è depressi dormire peggiora i sintomi, la carenza cronica di sonno potrebbe essere la causa dell’insorgenza di una forma depressiva. Da quando la televisione è entrata nelle nostre case, dormiamo in media due ore di meno per notte: l’incremento dei casi di depressione dei nostri giorni è forse in parte legato alla diminuzione delle ore di sonno? Qui gli ostacoli sono addirittura due, perché non solo non sappiamo molto della depressione, ma non sappiamo nemmeno a che cosa serva il sonno. Effetti simili alla privazione del sonno si registrano con l’esposizione al freddo che, almeno in certi animali, provoca un rallentamento generale delle funzioni. I caribù, che restano fermi nella lunga notte del gelido inverno polare per riprendere a muoversi solo in primavera, si trovano in uno stato che è stato definito «rassegnazione artica»,15 molto simile alla depressione umana.
L’erba di San Giovanni o iperico è una bella arbustiva che fiorisce nel periodo in cui cade appunto la festa di San Giovanni (24 giugno).16 La sua utilità in ambito medico fu descritta già nel I secolo d.C. da Plinio il Vecchio che la consigliava per i problemi vescicali. Nel XIII secolo era ritenuta in grado di scacciare i diavoli. Oggi negli Stati Uniti viene venduta sotto forma di estratto, polvere, tè e tintura madre, nonché quale ingrediente di qualsiasi toccasana e integratore alimentare; è di gran moda anche nell’Europa settentrionale. Tuttavia, dato che non vi sono incentivi finanziari a condurre ricerche sulle sostanze naturali non brevettabili, sono pochi gli studi effettuati su questo vegetale, fatta eccezione per alcune indagini finanziate dal governo statunitense.
L’erba di San Giovanni sembra in grado di alleviare efficacemente sia l’ansia sia la depressione. Ciò che non è chiaro è la sua modalità d’azione; anzi, si ignora anche a quale delle numerose sostanze attive in essa contenute siano attribuibili tali proprietà. La componente meglio conosciuta è l’iperico, che di solito costituisce lo 0,3 per cento circa degli estratti e parrebbe in grado di inibire il riassorbimento di tutti e tre i neurotrasmettitori, nonché di ridurre la produzione di interleuchina-6, una proteina legata alla risposta immunitaria, il cui eccesso tende a compromettere l’umore.
Il guru della medicina naturale Andrew Weil17 sostiene che gli estratti vegetali sono efficaci perché agiscono su più sistemi: a suo parere, più agenti esercitanti un’influenza congiunta sono preferibili all’uso di sofisticate molecole, malgrado la loro modalità d’azione e la loro effettiva interazione restino tuttora ignote. Weil esalta l’aspecificità d’azione dei rimedi vegetali e la loro capacità di influenzare più sistemi in modi diversi, teorie che hanno scarso fondamento scientifico ma notevole fascino.
Gran parte di coloro che scelgono di assumere l’iperico non lo fanno però per l’azione aspecifica del preparato, ma perché preferiscono avvalersi di un rimedio naturale piuttosto che di una sostanza sintetica. Il mercato è naturalmente molto attento a sfruttare simili pregiudizi. Sui manifesti che per un certo periodo hanno tappezzato la metropolitana londinese una bionda dall’espressione raggiante veniva identificata come «Kira, la ragazza solare», sempre allegra grazie alle «foglie delicatamente essiccate» e ai «vivaci fiori gialli» dell’iperico.
Il messaggio implicito in quel ridicolo annuncio pubblicitario (che l’essiccazione delicata e il colore brillante fossero garanzia dell’efficacia del trattamento) è indicativo delle potenti strategie di mercato che hanno trasformato tale pianta in un rimedio molto popolare. C’è ben poco di «naturale» nell’assumere regolarmente una specifica quantità di iperico. Il fatto che Dio abbia posto una determinata molecola in una pianta e abbia lasciato che un’altra venisse invece scoperta dall’uomo non è un valido motivo per preferire l’una all’altra. Non c’è nulla di affascinante in malattie «naturali» come la polmonite, in sostanze «naturali» come l’arsenico e in fenomeni «naturali» come la carie, né va dimenticato che molte sostanze presenti in natura sono altamente tossiche.
Alcuni soggetti rispondono negativamente agli SSRI. L’erba di San Giovanni, per quanto cresca selvatica nei prati, non è meno pericolosa.18 I preparati naturali in vendita non subiscono controlli stringenti e perciò non si può essere certi che ogni capsula o pillola contenga la stessa quantità di principio attivo; inoltre, possono interagire pericolosamente con altri farmaci.19 L’iperico, per esempio, può diminuire l’efficacia dei contraccettivi orali, delle statine ipocolesterolemizzanti, dei beta bloccanti, degli inibitori dei canali del calcio somministrati in caso di ipertensione e malattie coronariche, e degli inibitori della proteasi in caso di HIV.20
Non c’è nulla di particolarmente nocivo nell’iperico, ma nemmeno nulla di particolarmente positivo. Tuttavia, è meno controllato, meno studiato e più fragile delle molecole sintetiche, e tende a essere assunto in modo più irregolare rispetto ai farmaci antidepressivi prodotti dall’industria farmaceutica.
Sempre alla spasmodica ricerca di rimedi «naturali», i ricercatori hanno scoperto un’altra sostanza terapeutica, la S-adenosilmetionina, abbreviata in SAMe.21 Se l’iperico rappresenta una specie di panacea nell’Europa del nord, la SAMe è molto diffusa nell’Europa meridionale, soprattutto in Italia, dove gode di grande popolarità. Come accade per l’erba di San Giovanni, la sua vendita non è regolata: la sostanza è acquistabile in erboristeria sotto forma di compresse bianche.
La S-adenosilmetionina non viene estratta da un grazioso fiore, come l’iperico, ma si trova nel corpo umano e nei singoli individui varia quantitativamente con il sesso e con l’età. È presente in tutto l’organismo e consente lo svolgimento di numerose funzioni chimiche. Nei depressi non risulta diminuita; ciononostante, gli studi sulla sua efficacia come antidepressivo appaiono incoraggianti: la SAMe è di gran lunga migliore dei placebo per quanto concerne l’alleviamento dei sintomi e sembra possedere la stessa efficacia dei triciclici con cui è stata confrontata. Molte delle indagini condotte sulla SAMe sono poco articolate e potrebbero quindi non essere del tutto affidabili. La sostanza ha scarsi effetti collaterali, ma può scatenare episodi maniacali nei pazienti bipolari.22
La sua modalità d’azione è ignota. Si ipotizza che influenzi il metabolismo dei neurotrasmettitori: negli animali la somministrazione prolungata ne aumenta infatti il livello, agendo soprattutto su dopamina e serotonina.23 La sua carenza viene correlata con una scarsa metilazione, fenomeno questo che sottopone l’intero organismo a una condizione di stress.24 Gli anziani tendono a presentare bassi livelli di SAMe: secondo alcuni ricercatori ciò sarebbe attribuibile alla riduzione delle funzioni cerebrali causata dall’invecchiamento. Numerose sono le spiegazioni fornite in ordine all’efficacia di tale sostanza, ma nessuna appare suffragata da prove attendibili.
Per controllare la depressione si ricorre talora all’omeopatia, sistema che prevede la somministrazione in piccolissime dosi di quelle stesse sostanze che, in quantità elevate, sarebbero in grado di indurre una sintomatologia depressiva in un soggetto sano. Anche varie tecniche terapeutiche orientali possono risultare utili nella lotta contro questa malattia: dopo aver combattuto le crisi per tutta la vita, ottenendo peraltro scarsi risultati con l’assunzione di antidepressivi, una paziente è guarita, ormai sessantenne, col Qigong, una disciplina cinese basata sulla respirazione e su specifici esercizi corporei. Con l’agopuntura, tecnica che gode di sempre maggior favore in Occidente (in America si spendono cinquecento milioni di dollari l’anno per tali trattamenti)25 si ottengono talvolta risultati sorprendenti. Lo stesso National Institute of Health ha dichiarato che questa pratica medica è capace di influenzare la chimica cerebrale. La fitoterapia cinese sembra invece meno affidabile, per quanto abbia aiutato diversi pazienti a ritrovare un loro equilibrio.
Molti depressi che ricorrono ai trattamenti alternativi hanno sperimentato anche quelli convenzionali. Alcuni preferiscono i primi, altri cercano solo di integrare le terapie convenzionali. Altri ancora sono più inclini a adottare metodi curativi meno invasivi rispetto ai farmaci o all’elettroshock. Evitare le psicoterapie è, nel migliore dei casi, indice d’ingenuità, ma trovarne di alternative o abbinarle a trattamenti non convenzionali può sembrare preferibile che non ingerire farmaci di cui sappiamo ancora troppo poco.
Tra quanti hanno esplorato ogni possibilità offerta dall’omeopatia c’è Claudia Weaver, una donna dalla forte personalità e che stimo molto. Vi sono persone che si adeguano alle circostanze, divenendo una sorta di riflesso dei loro interlocutori. Non Claudia Weaver, troppo franca ed eccentrica per poterlo fare: questo tratto del suo carattere può sconcertare, ma è apprezzabile. Con lei sai sempre a che punto sei: non perché sia poco educata (i suoi modi sono anzi impeccabili), ma perché non le interessa mascherare la sua vera personalità. Te la getta in faccia come un guanto di sfida: sta a te accettarla, apprezzarla così com’è ed essere ricambiato, o decidere che è un’impresa troppo complicata e proseguire per la tua strada.
Più la si conosce, più la sua mente idiosincratica risulta affascinante. Il temperamento deciso si accompagna a una lealtà e a un’integrità assolute. Claudia è una persona di grande moralità. «Ho le mie stravaganze, certo, e visto che non sapevo come vivere senza, ho imparato ad andarne fiera» esclama. «Sono sempre stata un tipo molto particolare e dalle idee chiare.»
Quando la incontrai per la prima volta non aveva ancora trent’anni e cercava di tenere sotto controllo le allergie, i problemi digestivi, l’eczema e gli altri disturbi di cui soffriva. Nello stesso tempo praticava la meditazione e aveva cambiato dieta.
Portava sempre con sé trentasei boccette di sostanze diverse in compresse (ne aveva un’altra cinquantina a casa), numerosi oli e un tè ayurvedico. Effettuava la terapia in base a uno schema incredibilmente complesso, talora ingerendo pillole intere, talaltra macinandole e sciogliendole in altri rimedi o applicandosi unguenti a livello topico. Sei mesi prima aveva eliminato tutti i farmaci che, dall’età di sedici anni, aveva assunto a intermittenza: le avevano causato problemi e aveva deciso di tentare un’altra strada. Come le era già accaduto, dopo la sospensione della terapia andò incontro a una fase maniacale per poi piombare in quella depressiva. Un breve tentativo con l’iperico si era rivelato fallimentare. I rimedi omeopatici l’avevano salvata all’ultimo minuto: nel suo caso parevano davvero efficaci.
Non aveva mai conosciuto di persona il suo omeopata, che viveva a Santa Fe e che aveva trattato una sua amica con ottimi risultati.26 Claudia lo chiamava ogni giorno o a giorni alterni per aggiornarlo sulle sue condizioni. Lui le poneva varie domande, chiedendole, per esempio, se si sentisse la lingua impastata o se avvertisse ronzii alle orecchie; in base alle risposte, le prescriveva i rimedi, in genere sei pillole al giorno. Il corpo, sosteneva, è come un’orchestra, e i rimedi sono il diapason. Claudia adora i riti e credo si sia lasciata convincere proprio dalla complessità dello schema terapeutico. Amava le boccette, i consulti, il protocollo. Adorava prendere medicine costituite da elementi naturali – zolfo, oro, arsenico – nonché da miscele e composti più esotici – belladonna, noce vomica, nero di seppia. Concentrarsi sul trattamento la distraeva dal pensiero della malattia. Il suo omeopata era quasi sempre in grado di affrontare un problema acuto pur non riuscendo a stabilizzare il suo umore.
Claudia ha alle spalle una vita di analisi e di disciplina in ordine al suo male. «Quando sono depressa, ho molte difficoltà a ricordare gli eventi positivi. Rivango all’infinito le esperienze negative vissute con gli altri, per le quali ho una memoria da elefante, le occasioni in cui sono stata offesa, umiliata o messa in imbarazzo. La situazione degenera finché non mi appaiono peggiori di quanto non fossero in realtà, ne sono certa. E una volta che ricordo uno di questi episodi, ne posso ricordare dieci, che ne rievocano altri venti. In una riunione del gruppo di spiritualità alternativa che frequento mi è stato chiesto di elencare gli avvenimenti negativi che hanno influito sulla mia vita. Ho riempito venti fogli. Poi mi hanno domandato di citare i positivi: bene, non sono riuscita a trovare nulla. Inoltre, sono affascinata dagli avvenimenti tragici, da Auschwitz o dagli incidenti aerei: immagino di morire in circostanze simili. Il mio omeopata riesce di solito a intuire il medicinale giusto da prescrivermi per alleviare questa paura ossessiva delle sciagure.
«Mi conosco a fondo. Il prossimo mese saranno ventinove anni di convivenza con me stessa. So che oggi ti posso raccontare una storia plausibile della mia vita e che domani te ne racconterò una altrettanto plausibile ma diversa: a tal punto la mia realtà cambia con l’umore. Un giorno ti posso spiegare quanto terribile sia la depressione, quanto mi abbia rovinato la vita, il giorno dopo, se mi sembra di controllarla meglio, ti dico che va tutto bene. Cerco di pensare ai momenti felici, di fare cose che mi tengano lontana dall’introspezione, che mi getta dritta in pasto alla depressione. Mi vergogno di qualsiasi cosa mi riguardi, quando sono depressa. Non riesco a concepire che anche tutti gli altri siano esseri umani e che, molto probabilmente, attraversino stati emotivi analoghi. Faccio sogni umilianti: persino quando dormo non posso sfuggire alla sensazione spaventosa, schiacciante, di essere sopraffatta, e all’idea che la vita sia senza futuro. La speranza è la prima a svanire.»
Claudia si sentiva oppressa dalla scarsa elasticità dei genitori: «Desideravano che fossi felice, ma a modo loro». Già quand’era piccola viveva nel suo mondo. «Sentivo di essere diversa, piccola, di non contare niente, e mi perdevo nei miei pensieri fino a diventare quasi inconsapevole degli altri. In giardino vagabondavo qua e là, senza vedere nulla.» La famiglia era «molto rigida». In terza elementare manifestò i primi segni di ritrosia fisica: «Detestavo essere toccata, abbracciata o baciata, anche dai miei. A scuola ero sempre molto stanca. Ricordo che gli insegnanti mi dicevano più volte di sollevare la testa dal banco. Nessuno però se ne preoccupò. Un giorno, durante l’ora di ginnastica, mi addormentai sul calorifero.
«Odiavo la scuola e non avevo voglia di fare amicizie. Qualsiasi cosa dicessero gli altri poteva ferirmi. Ricordo, quand’ero alle medie: percorrevo i corridoi senza interesse per niente e nessuno. Provo molta amarezza per la mia infanzia, malgrado a quel tempo fossi stranamente orgogliosa della mia diversità rispetto al resto del mondo. La depressione? Era già lì; ci volle solo un po’ per arrivare a identificarla. Papà e mamma erano molto affettuosi, ma nessuno dei due intuì mai – come accadeva spesso alla loro generazione – che la loro bambina aveva un disturbo dell’umore.»
L’unica sua gioia era cavalcare, attività per la quale dimostrava un certo talento. I genitori le regalarono un pony. «Cavalcare mi dava sicurezza, felicità, un barlume di speranza che non trovavo da nessuna parte. Ero brava e le mie capacità venivano apprezzate. Amavo quel pony. Insieme formavamo una squadra: due partner allo stesso livello. Il pony sembrava sapere che avevo bisogno di lui. Cavalcare mi strappò alla mia infelicità.»
Poi entrò in collegio e lì, dopo uno scontro con l’istruttore di equitazione per una questione di stile, abbandonò lo sport. Disse ai genitori di vendere il pony perché non aveva più energia per cavalcare. Il primo trimestre di collegio fu il periodo in cui iniziò a meditare su quelli che oggi definisce «gli interrogativi spirituali: perché sono qui? Qual è il mio scopo?». La sua compagna di stanza, con cui discuteva di tali problemi, riferì la faccenda alla direzione della scuola, citando stralci delle conversazioni fuori dal loro contesto. Il collegio decise su queste basi che Claudia aveva impulsi suicidi e la rimandò all’istante a casa. «Fu così imbarazzante. Me ne vergognai molto. E non ebbi più voglia di appartenere a niente. Superare quei momenti fu molto difficile. Anche se gli altri li dimenticarono subito, io non vi riuscii.»
Più tardi, in quello stesso anno, in uno stato di grave turbamento, prese a ferirsi, vittima di quella che definisce «un’anoressia alternativa». Praticava un taglio senza farlo sanguinare, poi ne divaricava i lembi per far uscire il sangue. Le incisioni erano tanto sottili da non lasciare cicatrici. A scuola conosceva quattro o cinque ragazze che facevano lo stesso. Le accade ancora oggi, ma molto più di rado; al college Claudia si feriva sistematicamente e, poco prima dei trent’anni, si martoriò parte della mano sinistra e il ventre. «Non è una richiesta d’aiuto» afferma. «Solo senti questo dolore dentro e vuoi evitarlo. Vedi per caso un coltello e pensi che è ben affilato, liscio, ti chiedi che effetto farebbe se vi esercitassi sopra una certa pressione… ti lasci affascinare dal coltello.» La sua compagna di stanza vide i tagli e segnalò ancora una volta il fatto alla direzione. «Conclusero che avevo davvero tendenze suicide, e ciò fece di me una squilibrata. Battevo i denti, tanto mi rendeva nervosa quella faccenda.»
Claudia venne rimandata a casa con la raccomandazione di farsi visitare da uno psichiatra. Il medico a cui si rivolse le disse che era sana e normale, e che i pazzi erano la sua compagna e il personale scolastico. «Disse che non stavo affatto tentando il suicidio, ma solo verificando il limite, cercando di capire chi ero e cosa volevo.» Pochi giorni dopo tornò a scuola, ma ormai non si sentiva più sicura e iniziò a sviluppare i sintomi di una depressione acuta. «Ero sempre più stanca, dormivo sempre di più e desideravo stare da sola sempre più spesso. Ero profondamente infelice, e sapevo di non poterlo dire a nessuno.»
Ben presto arrivò a dormire quattordici ore al giorno. «Mi alzavo nel cuore della notte e andavo in bagno a studiare, cosa che veniva giudicata una stramberia. Bussavano alla porta e mi chiedevano che cosa facessi là dentro. Quando rispondevo che stavo studiando, mi domandavano perché dovessi farlo proprio lì. Spiegavo che mi piaceva così, ma loro insistevano, suggerendomi di andare nella sala comune. Se l’avessi fatto, avrei dovuto interagire con qualcuno, ed era proprio quello che non volevo.»
Alla fine dell’anno Claudia aveva smesso di mangiare in modo normale. «Consumavo da sette a nove barrette di cioccolato al giorno perché così potevo evitare la mensa. Se vi fossi andata, tutti mi avrebbero chiesto come stessi, e quella era l’ultima domanda a cui avrei voluto rispondere. Continuai a studiare e finii l’anno: era il miglior modo di passare inosservata; se fossi rimasta a letto tutto il tempo, la scuola avrebbe avvertito la mia famiglia e avrei dovuto dare spiegazioni. Non potevo permettermi di essere visibile, né concedermi la vulnerabilità che questo comportava. Non pensai nemmeno di telefonare ai miei, di dire loro che desideravo tornare a casa. Credevo di essere intrappolata lì. Era come se fossi ottenebrata e non vedessi a più di due metri da me. Persino la mamma mi sembrava lontana. Provavo una tale vergogna per il fatto di essere depressa; pensavo che tutti dicessero cose terribili di me. Sai che trovavo imbarazzante andare in bagno anche se ero sola? Non riuscivo ad affrontare me stessa. Non mi sentivo degna come essere umano, persino in quell’atto particolare. Avevo la sensazione che qualcuno sapesse ciò che stavo facendo e mi vergognavo. Era molto penoso.»
L’estate fu difficile. Claudia sviluppò un eczema di origine nervosa che tuttora la tormenta. «Stare in mezzo alla gente era l’esperienza più estenuante che potessi immaginare… anche solo parlare con qualcuno. Evitavo il mondo intero e perlopiù restavo a letto, le persiane chiuse. La luce mi feriva.» Di lì a poco iniziò la farmacoterapia, a base di imipramina. Quanti le stavano accanto notarono in lei un costante miglioramento. «Alla fine dell’estate avevo accumulato abbastanza energie da andare a fare acquisti a New York con la mamma. Fu la giornata più entusiasmante e movimentata di quell’estate.» Instaurò anche un profondo legame con la sua terapeuta, che resta ancora oggi una delle sue amiche più strette.
In autunno cambiò scuola. Nel nuovo collegio aveva una stanza singola e per lei era l’ideale. Le piaceva l’ambiente e i farmaci le sollevavano il morale. Claudia capì che quell’estate la sua famiglia aveva infine compreso la fondatezza dei suoi disturbi, il che l’aiutò non poco. Prese a studiare con grande impegno e a svolgere numerose attività parascolastiche. Durante l’ultimo anno ricoprì cariche studentesche e fu ammessa a Princeton.
Qui mise in atto strategie che le sarebbero state d’aiuto anche in futuro. Malgrado fosse molto riservata, non amava restare sola e per risolvere il problema dell’isolamento notturno aveva trovato sei amici che a turno l’aiutavano ad addormentarsi. Spesso dormivano addirittura con lei. Claudia non era ancora sessualmente attiva e gli amici rispettavano i suoi principi: rimanevano solo per farle compagnia. «Dormire con altre persone e quella sensazione di stare vicini, raggomitolati, divenne per me un potente antidepressivo. Per “raggomitolarmi” rinunciavo al sesso, al cibo, al cinema, al lavoro. Voglio dire, per avere un ambiente sicuro, confortante, avrei rinunciato a tutto, tranne che a dormire e ad andare in bagno. A dire il vero, mi chiedo se non stimoli alcune reazioni chimiche nel cervello.»
Claudia impiegò un po’ di tempo prima di passare alla fase dell’intimità fisica. «Nutrivo sempre imbarazzo per il mio corpo nudo. Non credo di aver mai provato un costume da bagno senza esserne sconvolta. Gli altri passavano ore e ore a tentare di convincermi che il sesso era un’esperienza positiva: io non la pensavo così. Per anni ritenni che non mi sarebbe piaciuto. Proprio come con certi cibi: non li ho mai assaggiati né mai li assaggerò. Alla fine però mi ricredetti.»
Durante l’inverno del primo anno di università interruppe per un po’ la farmacoterapia. «L’imipramina, che assumevo da tempo, mi dava sempre effetti collaterali nei momenti sbagliati: era proprio quando dovevo tenere un discorso davanti all’intera classe che la bocca mi si seccava al punto da non riuscire più a muovere la lingua.» Claudia andò incontro a un rapido declino. «Ancora una volta non riuscii più ad andare in mensa» spiega «così un amico cucinava per me ogni sera e mi imboccava. Andò avanti così per otto settimane. E tutto doveva avvenire solo nella sua stanza, in modo che non fossi costretta a mangiare davanti ad altri.
«Speri sempre di farcela senza le medicine, ma quando entri in quest’ottica d’idee non ti accorgi più quanto grave sia la situazione.» Gli amici riuscirono infine a convincerla ad assumere di nuovo i farmaci. Quell’estate praticò lo sci nautico e un giorno un delfino le si accostò. «È stata l’esperienza che più mi ha avvicinata a Dio. Era come… come se avessi compagnia quaggiù.» Claudia si sentì tanto felice che interruppe di nuovo la terapia.
Sei mesi dopo la riprese.
Alla fine del terzo anno provò la fluoxetina, che si rivelò efficace, ma che annientava una parte del suo io. Visse così per otto anni. «Prendo le medicine per un po’, poi smetto perché penso di stare bene, di non averne bisogno. Smetto, sto bene per un certo periodo, poi accadono un paio di sciocchezze e crollo di nuovo. È come se portassi un peso eccessivo. Succede qualcosa di banale: non so… il tappo del dentifricio finisce nello scarico del lavandino. Non è grave, certo, ma il fatto che vi sia finito rappresenta per me l’ultima goccia; diviene più sconvolgente della morte di mia nonna. Impiego sempre un po’ a comprendere che cosa sta succedendo: è un continuo su e giù e faccio fatica a capire a che punto sono.» Quando non riuscì a recarsi a un matrimonio («Non ce la facevo a uscire di casa e prendere un autobus») si rese conto di non essere più in grado di reagire e ricominciò con la fluoxetina.
Col tempo mise da parte le medicine per tentare di recuperare il desiderio sessuale e iniziò la terapia omeopatica che seguiva quando la conobbi. Per un certo periodo i rimedi omeopatici parvero funzionare. Claudia ritiene che la stabilizzino, ma quando la depressione fa di nuovo capolino non l’aiutano a uscirne. Passò momenti duri, ma riuscì a perseverare per un lungo inverno. Una volta al mese cadeva in preda al panico perché temeva che la malattia recidivasse, ma subito dopo si accorgeva che era solo la sindrome premestruale. «Sono sempre tanto contenta quando mi arrivano le mestruazioni! Penso sollevata: “Bene, era solo questo”.» L’assenza di farmaci non le ha mai provocato una regressione grave, ma di fronte alle difficoltà della vita ha dovuto lottare con tutte le sue forze. Il programma omeopatico generale sembrava però inadeguato per i suoi disturbi organici, soprattutto per quelli di origine nervosa. L’eczema peggiorò al punto che la pelle del seno le sanguinava, macchiandole la camicetta.
In questa fase Claudia smise la psicoterapia e iniziò a scrivere quelle che Julia Cameron definisce le «pagine del mattino», ovvero venti minuti di scrittura ispirati al flusso di coscienza mattutino. Sostiene che l’aiutino a far chiarezza sull’esistenza e da tre anni si attiene a questo rito tutti i giorni. Ha inoltre appeso alla parete della camera un elenco di cose da fare quando inizia a sentirsi giù di morale o annoiata. Le prime voci sono: «Leggere cinque poesie per bambini. Fare un collage. Guardare le fotografie. Mangiare un po’ di cioccolato».
Pochi mesi dopo aver cominciato a scrivere le pagine del mattino incontrò l’uomo che oggi è suo marito. «Ho capito che mi sento molto più felice se nella stanza accanto c’è qualcuno che lavora. La compagnia è molto importante per me; molto importante per la mia stabilità emotiva. Ho bisogno di essere confortata, ho bisogno di ricevere piccoli doni e attenzioni. Meglio un legame imperfetto che sola.» Il compagno accettò la sua malattia. «Sa di dover stare in guardia, pronto ad aiutarmi quando, per esempio, torno a casa dopo aver discusso della mia depressione con te. Sa di dover essere sempre pronto in caso io abbia una recidiva. Quando mi è vicino, sto molto meglio con me stessa e sono più attiva.» Claudia si sentì tanto bene dopo averlo conosciuto che decise di interrompere anche la terapia omeopatica. Passò un anno sereno, tranquillo, a fare progetti matrimoniali.
Le nozze furono una splendida cerimonia estiva, studiata con la stessa meticolosità di un trattamento omeopatico. Claudia aveva un aspetto radioso: viveva uno di quei momenti in cui poteva godersi appieno l’affetto degli amici che la circondavano. Tutti noi che la conoscevamo eravamo felici per lei: aveva trovato l’amore, aveva trasceso la sua esistenza di dolore e ora era raggiante di gioia. Oggi la sua famiglia vive a Parigi, ma ha conservato la casa in cui lei è cresciuta, una costruzione del XVII secolo in una fiorente città del Connecticut. Ci radunammo proprio laggiù, di mattina, per il rituale scambio delle promesse. Seguì il pranzo, a casa di un amico di famiglia, dall’altra parte della strada. Il matrimonio si tenne alle quattro del pomeriggio in uno splendido giardino e fu seguito da un cocktail. Claudia e il marito aprirono una scatola piena di farfalle, che ci svolazzarono magicamente intorno.
La sera ci fu una cena raffinata per centoquaranta invitati. Io sedevo accanto al sacerdote, che sosteneva di non aver mai celebrato un matrimonio tanto ben organizzato. La cerimonia aveva, a suo avviso, le caratteristiche di «un’opera lirica». Era tutto molto curato. I segnaposto erano xilografati su carta fatta a mano, come il menu e il foglietto della funzione religiosa. I disegni erano stati creati per l’occasione. Lo sposo aveva preparato con le sue mani la torta nuziale, un dolce enorme a quattro piani.
I cambiamenti, anche se positivi, sono fonte di stress e il matrimonio è uno dei più incisivi. Le difficoltà insorte prima delle nozze peggiorarono nei primi tempi di vita coniugale. Claudia credeva che il problema fosse del marito, e impiegò un po’ ad accettare che la sua situazione fosse sintomatica. «In verità, era più preoccupato per me e per il mio futuro di quanto non lo fossi io. Il giorno del matrimonio tutti mi ricordano felice. In fotografia appaio così. Passai l’intera giornata a ripetermi che dovevo essere innamorata, davvero innamorata per fare un passo simile. Eppure, avevo la sensazione di essere un agnello mandato al macello. La prima notte di nozze ero esausta e la luna di miele fu un disastro. Non volevo stare con lui, non volevo vederlo. Tentammo di fare sesso, ma per me fu un’esperienza dolorosa e fallimentare. Vedevo quanto fosse innamorato e pensavo: “È impossibile”. Pensavo che sarebbe andata in modo diverso e stavo male all’idea di avergli rovinato la vita e spezzato il cuore.»
A fine settembre Claudia riprese la terapia omeopatica, che la stabilizzò senza però aiutarla a uscire da quella che si era ormai trasformata in una depressione acuta. «Ero al lavoro» ricorda «e all’improvviso avevo l’impressione che stesse per sopraggiungere una crisi, e piangevo. Mi agitavo a tal punto da comportarmi in modo ben poco professionale e da riuscire a stento a svolgere le mie mansioni. Non potevo far altro che scusarmi, spiegare che avevo mal di testa e andarmene a casa. Detestavo tutto, detestavo la mia vita. Volevo il divorzio o l’annullamento. Credevo di non avere né amici né futuro. Avevo commesso un terribile errore. Mi dicevo: “Mio Dio, di che cosa parleremo per il resto della vita? Ceneremo insieme e che cosa ci diremo? Io non ho più niente da dirgli”.
«Lui, ovviamente, pensava fosse tutta colpa sua, nutriva un profondo disprezzo per se stesso e non voleva più radersi né lavorare né altro. Non sono stata buona nei suoi confronti e ne sono consapevole. Mio marito aveva tentato di tutto e non sapeva più che fare. Ma qualsiasi cosa avesse fatto, non mi sarebbe andata bene. A quel tempo non lo capivo. Gli dicevo di andarsene, perché volevo stare sola, e in realtà quello che desideravo era che insistesse per restarmi vicino. Mi chiedevo cosa contasse per me veramente. Non lo sapevo. Che cosa mi rendeva felice? Non lo sapevo. Che cosa volevo? Non lo sapevo. E questo mi spaventava a morte. Non ne avevo la più pallida idea e non c’era nulla a cui aspirassi. Gli riversai tutto il mio malessere addosso. Sapevo di comportarmi molto male: lo capivo mentre lo facevo, eppure non riuscivo ad agire diversamente.» A ottobre Claudia pranzò con un’amica che le disse che aveva «quell’aria felice delle persone sposate» e lei scoppiò in lacrime.
Fu il periodo peggiore dopo la crisi alle superiori. Alla fine, nel mese di novembre, gli amici la persuasero a tornare alla medicina occidentale. Il suo psichiatra osservò che era stata pazza a curarsi con i medicinali omeopatici per tanto tempo e le diede quarantott’ore perché il suo organismo se ne liberasse prima di iniziare la terapia con citalopram. «Il cambiamento fu immediato. Ho ancora pensieri e momenti depressivi, e non provo più alcun desiderio sessuale, al punto che devo sforzarmi di farlo per mio marito… non solo svanisce l’interesse per il sesso, ma sorgono anche problemi fisici, di lubrificazione. Provo, forse, il due per cento d’interesse nei giorni dell’ovulazione, ed è il momento clou del mese. Ma nel complesso va meglio. Mio marito è tanto dolce, dice che non mi ha sposata per il sesso, che non ha importanza. Credo si senta sollevato perché non sono più il mostro che ero all’inizio del matrimonio. La nostra vita si è stabilizzata. Oggi vedo in lui le qualità che cercavo: la sicurezza emotiva è tornata. Il “raggomitolarsi” è tornato. Ho bisogno di molte cose e lui mi dà tutto ciò che mi serve. Anche a lui piace “raggomitolarsi”. Mi fa sentire buona. Sono felice perché siamo di nuovo insieme. Mi ama, e questo sentimento è un grande tesoro. Oggi il nostro rapporto è quasi sempre bellissimo.
«Mi sento un po’ “artificiale” per via del farmaco. Quando ne prendevo dieci milligrammi in meno avevo ancora momenti depressivi piuttosto gravi, devastanti e dolorosi da superare, per quanto infine riuscissi a vincerli. Ma capisco che ne ho bisogno per tenermi su: non mi sento stabile, non mi sento in grado di veleggiare leggera come nel periodo in cui facevamo progetti matrimoniali. Se fossi ragionevolmente sicura, smetterei la farmacoterapia, ma non lo sono.
«Trovo sempre più difficile tracciare una linea tra la Claudia depressa e la Claudia non depressa. Credo che in me la tendenza depressiva vada oltre i singoli episodi. Ma la depressione non è l’essenza né lo scopo della mia vita: non ho intenzione di restare a letto a soffrire per il resto dei miei giorni. Chi ha successo nonostante la malattia fa tre cose: primo, cerca di capire che cosa succede; secondo, accetta che si tratti di una condizione permanente; terzo, deve cercare di trascendere la sua esperienza, apprendere da essa e gettarsi nel mondo delle persone vere. Quando giungi alla comprensione e cresci, capisci di poter interagire col mondo, vivere la tua vita, svolgere il tuo lavoro. Smetti di sentirti invalido e provi un’esaltante sensazione di vittoria! Un depresso che riesce a smettere di pensare solo a se stesso non è poi così insopportabile.
«All’inizio, quando mi resi conto che avrei passato la vita schiava del mio umore, restai molto, molto amareggiata. Ma oggi non mi sento più inetta. Il mio principale obiettivo è trovare sempre il modo di crescere in base all’esperienza, anche se fa male.» Claudia piega la testa di lato: «Sono arrivata a capirlo. È una fortuna». Grazie al suo spirito intraprendente e ai tanti tentativi fatti, è riuscita a conservare una vita pressoché intatta, malgrado le difficoltà che ha dovuto affrontare.
Tra le varie terapie di gruppo che ho esaminato quella che mi è parsa più sottile e stimolante, quella che porta i pazienti più vicini alla guarigione, si basa sulle ricerche del tedesco Bert Hellinger. Ex sacerdote e missionario presso gli zulu, Hellinger gode di un grande favore per le sue tecniche affini alla terapia della Gestalt. Nel 1998 Reinhard Lier, uno dei suoi allievi, venne negli Stati Uniti27 per effettuare un trattamento intensivo a cui presi parte e nel corso del quale il mio naturale scetticismo svanì, lasciando il posto a un profondo rispetto per la procedura. La terapia ebbe un certo effetto su di me e uno ancora più significativo sul resto del gruppo. Come l’EMDR, l’approccio di Hellinger risulta probabilmente più efficace in presenza di un trauma, anche se per Lier l’evento traumatizzante può essere una semplice constatazione (come per esempio «mia madre mi odiava») più che un avvenimento specifico, circoscritto nel tempo.
Il gruppo, costituito da una ventina di persone, si riunì e mediante appositi esercizi instaurò un rapporto di fiducia reciproca. In seguito, a ognuno fu chiesto di raccontare il fatto più doloroso accadutogli nella vita e di condividerlo con gli altri, scegliendo alcuni dei presenti per impersonare le figure coinvolte nella vicenda. Reinhard Lier funse, se così si può dire, da coreografo di un complicato balletto: usava le persone come pedine, ponendole l’una di fronte all’altra, spostandole da una parte all’altra e rielaborando la storia in modo da darle un finale più positivo. Definiva queste combinazioni «costellazioni familiari».
Io scelsi di considerare la morte della mamma il momento originario della mia malattia: tre partecipanti impersonarono mia madre, mio padre e mio fratello. Lier volle che aggiungessi anche i nonni: quello che avevo conosciuto e i tre che non avevo mai conosciuto. Mentre ci spostava di qua e di là, mi chiese di parlare a ognuno di loro. «Che cosa vuoi dire al padre di tua mamma, che morì quando eri ancora molto piccolo?» mi domandò. Di tutte le terapie a cui mi sono sottoposto, quella fu, con molta probabilità, la più dipendente da una personalità carismatica. Lier riuscì a risvegliare in noi qualcosa di potente: dopo venti minuti di spostamenti e di discorsi ebbi la sensazione di stare parlando con la mamma, spiegandole ciò che pensavo o provavo.
Poi l’incantesimo si ruppe e mi ritrovai in una sala conferenze del New Jersey. Ma terminai quella giornata con un senso di calma, come se dentro di me un nodo si fosse sciolto. Forse fu solo il fatto di rivolgermi con parole a degli scomparsi, a entità cui non avrei mai parlato: il procedimento pareva avere in sé qualcosa di sacro e mi toccò in profondità. Per quanto il trattamento non riesca a guarire un paziente dalla depressione, può dargli una grande pace.
Il personaggio più interessante del nostro gruppo era un uomo di origine tedesca. Aveva saputo con raccapriccio che i suoi genitori avevano lavorato in un campo di concentramento e, incapace di elaborare l’orrore di tale scoperta, era caduto in una grave depressione. Mentre parlava ai vari membri della sua famiglia, che Lier gli metteva ora più vicino, ora più lontano, non riusciva a smettere di piangere. «Questa è tua madre» esclamò il terapeuta. «Ha fatto cose terribili. Però quand’eri piccolo ti ha voluto bene e ti ha protetto. Dille che ti ha tradito e poi che l’amerai per sempre. Non cercare di perdonarla.» Sembra una procedura artificiosa, è invece dolce ed efficace.
Quando si è depressi è difficile parlare della propria sofferenza anche con gli amici. L’idea di frequentare un gruppo di sostegno appare quindi, a prima vista, assurda. Ciononostante, con l’aumento dei casi diagnosticati di depressione e la diminuzione dei fondi destinati alle terapie, questi gruppi sono proliferati. Non li ho frequentati nei miei momenti di crisi, non so se per snobismo, apatia, ignoranza o riservatezza. L’ho però fatto quando ho iniziato a raccogliere materiale per questo libro.
Negli Stati Uniti e nel resto del mondo esistono centinaia di organizzazioni, perlopiù ospedaliere, che gestiscono centri di sostegno. La Depression and Related Affective Disorders Association (DRADA), con sede al Johns Hopkins, coordina sessantadue gruppi, ha organizzato un sistema d’aiuto ai singoli e pubblica un bollettino molto interessante che si chiama «Smooth Sailing». I Mood Disorders Support Groups (MDSG), con sede a New York, sono la principale organizzazione di sostegno statunitense: gestiscono quattordici gruppi ogni settimana e contano circa settemila frequentatori l’anno. La struttura allestisce anche dieci conferenze ogni anno, ognuna delle quali è frequentata da circa centocinquanta persone, e cura un bollettino trimestrale, distribuito a circa seimila lettori.
Gli incontri si tengono in più strutture: io ho frequentato soprattutto quelli al Beth Israel Hospital di New York, fissati il venerdì sera alle sette e mezzo, visto che di solito un depresso non ha appuntamenti galanti. Per entrare si paga un biglietto di 4 dollari e si riceve un adesivo con scritto solo il nome di battesimo, che va portato per l’intera durata della riunione. Il gruppo si compone di una dozzina di persone e di un responsabile. Per cominciare ci si presenta e ognuno spiega perché è lì, poi si avvia una discussione più generale. I presenti raccontano le loro vicissitudini e si scambiano consigli, a volte scadendo nel vittimismo. Le sedute durano due ore: sono incontri drammatici e strazianti, affollati di persone isolate, abbandonate a se stesse, che non rispondono alle terapie e con gravi forme depressive. I gruppi tentano di ovviare all’atteggiamento impersonale dilagante nel sistema sanitario; molti dei partecipanti hanno perso familiari e amici a causa della malattia.
In attesa di raccontare la loro storia i soggetti si riuniscono di solito in una stanza illuminata a giorno da luci al neon. I depressi non curano molto l’abbigliamento e spesso trovano l’igiene personale troppo faticosa. La maggior parte è malconcia, e non solo psicologicamente. Andai alle riunioni per sette venerdì e, all’ultima, John prese per primo la parola: gli piaceva parlare e stava reagendo bene. Veniva agli incontri da dieci anni ed era pratico della procedura. Aveva conservato l’impiego e non aveva mai perso un giorno di lavoro. Non voleva assumere farmaci e si stava curando in via sperimentale con erbe e vitamine, convinto che ce l’avrebbe fatta.
Dana invece era troppo depressa per aprire bocca: si portò le ginocchia al petto e promise che avrebbe tentato di parlare più tardi.
Anne mancava da tempo alle riunioni. Era reduce da un brutto periodo: aveva preso la venlafaxina, che si era rivelata molto efficace. Tuttavia, quando le avevano aumentato la dose, aveva sviluppato comportamenti paranoidi, cioè «era uscita di testa»: credeva che la mafia le stesse dando la caccia e si era barricata in casa. Alla fine l’avevano ricoverata in ospedale, dove le «avevano dato di tutto». Giacché nessun farmaco aveva avuto effetto, l’avevano sottoposta a elettroshock. Non ricordava molto di quella fase: la terapia elettroconvulsivante le aveva danneggiato la memoria. Aveva un impiego da dirigente e ora si guadagnava da vivere dando da mangiare ai gatti di chi doveva assentarsi. Quel giorno aveva perso due clienti ed era stata un’esperienza dura, umiliante. Per quello aveva deciso di venire all’incontro. «Siete tutti così buoni, vi ascoltate a vicenda» esclamò con gli occhi pieni di lacrime. «Là fuori nessuno bada a me.» Cercammo di consolarla. «Avevo moltissimi amici. Adesso sono tutti scomparsi. Ma io resisto. Andare da tutti i miei gatti è bello, mi obbliga a muovermi: camminare mi fa bene.»
Jaime era stato costretto a lasciare l’impiego presso un’«agenzia governativa» perché aveva perso troppi giorni di lavoro. Era stato tre anni in congedo per malattia. La gente che frequentava non poteva capire. Così lui fingeva di avere ancora il posto e durante il giorno non rispondeva al telefono. Quella sera sembrava star bene, meglio di quanto non l’avessi visto in precedenza. «Se non riuscissi a mantenere le apparenze mi ucciderei. È questo che mi spinge ad andare avanti» osservò.
Poi parlò Howie: era restato seduto tutta la sera, stretto nella giacca a vento. Veniva spesso agli incontri, parlava poco e si guardava sempre attorno. Aveva quarant’anni e non aveva mai avuto un lavoro fisso. Due settimane prima ci aveva detto che gliene era stato offerto uno: avrebbe guadagnato dei soldi e sarebbe diventato una persona normale. Ma esitava: prendeva farmaci efficaci, che parevano aiutarlo, ma che cosa sarebbe successo se la loro azione fosse terminata? Avrebbe potuto recuperare la sua indennità di malattia di 85 dollari il mese? Tutti l’avevamo esortato ad accettare l’impiego, a tentare, ma quella sera ci disse di avere rinunciato: aveva troppa paura. Anne gli chiese se i suoi stati d’animo fossero costanti, se gli eventi esterni li influenzassero, se si sentisse diverso quando andava in vacanza. Howie la fissò, inespressivo: «Non sono mai andato in vacanza» rispose. Lo guardammo tutti e lui mosse nervosamente i piedi sul pavimento: «È che… non ho mai avuto nulla da cui andare in vacanza».
«Sento la gente parlare di cicli, di sbalzi d’umore e sono invidiosa. Per me non è mai stato così. Da bambina ero morbosa, infelice, malinconica. Ho qualche speranza?» chiese Polly. Assumeva fenelzina e aveva scoperto che la clonidina in dosi minime le bloccava l’abbondante sudorazione di cui soffriva. Aveva iniziato col litio, che però l’aveva fatta ingrassare di quasi sette chili in un mese, perciò lo aveva interrotto. Qualcuno le suggerì di provare l’acido valproico, che insieme alla fenelzina avrebbe potuto risultare utile. Le limitazioni alimentari che quest’ultima comportava erano però molto fastidiose.
Jaime osservò che la paroxetina aveva peggiorato le sue condizioni e Mags aggiunse che nel suo caso non aveva funzionato. Mags sembrava parlare da un altro mondo. «Non riesco a prendere decisioni,» disse «non riesco a decidere niente.» Era tanto apatica che a volte restava a letto per settimane. Il suo terapeuta l’aveva quasi costretta a partecipare al gruppo. «Prima di prendere i farmaci ero nevrotica, infelice, con tendenze suicide» commentò. «Adesso non mi importa più di nulla.» Ci guardò come se fossimo una giuria celeste. «Qual è meglio? Che persona dovrei essere?» John scosse il capo e disse: «Questo è il problema: se la cura sia peggiore della malattia».
Poi fu il turno di Cheryl: si guardò attorno, ma era chiaro che non vedeva nessuno. Il marito l’aveva portata alla riunione nella speranza che l’aiutasse, e aspettava fuori. «Mi sento come se fossi morta alcune settimane fa e il mio corpo non se ne fosse ancora reso conto» disse con voce piatta.
Quel triste momento di condivisione delle sofferenze era per molti una pausa dall’isolamento. Ricordavo i miei momenti peggiori, gli sguardi ansiosi, interrogativi che mi venivano rivolti, mio padre che chiedeva «va meglio?» e il profondo senso di delusione che provavo quando gli rispondevo «no, non proprio». Alcuni amici erano stati davvero fantastici, con altri ho dovuto usare tatto. E un po’ d’umorismo: «Mi piacerebbe venire, ma proprio in questo momento ho una crisi depressiva. Si potrebbe rimandare?». È facile non essere creduti e conservare i segreti se si dice la verità in tono ironico.
Durante una fase depressiva c’è molto che non si può dire e che può essere intuito solo da chi sa. «Se camminassi con le stampelle, non mi chiederebbero di ballare» osservò una donna a proposito dei tentativi incessanti della sua famiglia di portarla fuori a divertirsi. C’è tanto dolore nel mondo e gran parte di queste persone serbano per sé i loro segreti, consumano la loro vita di sofferenza su invisibili sedie a rotelle, immobilizzate in invisibili busti di gesso. In quelle riunioni ci sostenevamo a vicenda con i nostri racconti. Una sera Sue, in preda all’angoscia e al pianto, il volto rigato dall’abbondante mascara, esclamò: «Devo sapere se qualcuno di voi si sia mai sentito così e se ce l’abbia fatta. Ditemelo: sono venuta fin qui per sentirlo dire, per sentire che è vero, per favore ditemi che lo è». In un’altra occasione un partecipante affermò: «La mia anima soffre. Ho solo bisogno di parlare con qualcuno».
Agli incontri degli MDSG si discute anche di questioni pratiche, soprattutto a beneficio di quanti non godono dell’aiuto di amici e familiari o non possiedono una valida assicurazione sanitaria. Chi è depresso non vuole che il datore di lavoro, reale o potenziale, venga a conoscenza della sua malattia: come comportarsi, allora, per non essere costretto a mentire? Purtroppo, le persone che ho conosciuto nel gruppo sapevano sostenersi a vicenda, ma erano del tutto incapaci di dare consigli validi. Se vi siete slogati una caviglia, chi ha subito lo stesso incidente può esservi d’aiuto, ma se siete affetti da un disturbo mentale, non dovreste rivolgervi ad altri malati di mente per sapere come comportarvi.
Ho cercato di fare appello alle mie letture, inorridito dai pessimi consigli che numerosi pazienti avevano ricevuto, ma era difficile farsi ascoltare. Christian era bipolare, non aveva mai assunto farmaci e iniziava a mostrare comportamenti maniacali: sono certo che prima che questo libro sia pubblicato sarà entrato nella fase suicida. Natasha non avrebbe dovuto neppure pensare di interrompere la paroxetina tanto presto, Claudia sembrava essere stata sottoposta a troppi elettroshock, per giunta mal somministrati, e poi imbottita di farmaci fino a ridursi a uno zombie. Con l’elettroshock Jaime avrebbe forse potuto mantenere il lavoro, ma non sapeva nulla di quel trattamento e ciò che Claudia gli disse di certo non lo rassicurò.
In una seduta si parlò del tentativo di spiegare la propria situazione agli amici. Frequentatore di vecchia data degli MDSG, Stephen domandò al gruppo: «Avete amici fuori di qui?». Solo un altro partecipante e io rispondemmo di sì. «Io cerco di farmi nuovi amici» osservò Stephen «ma non so più come funziona. Sono rimasto solo troppo a lungo. Ho preso la fluoxetina e per un anno ha fatto effetto, poi basta. In quell’anno credo di aver fatto progressi, ma dopo sono regredito.» Stephen mi guardò con curiosità. Era un uomo triste, gentile e intelligente: chiaramente una persona amabile, come qualcuno gli aveva detto quella sera, ma ormai perduta. «Come fate a conoscere altre persone al di fuori di questo gruppo?» Prima ancora che potessi rispondere, aggiunse: «E quando le avete conosciute, di che cosa parlate?».
Come tutte le malattie, la depressione è una grande livellatrice, eppure non ho mai incontrato nessuno che fosse tanto diverso dalla classica figura del depresso quanto Frank Rusakoff. Ventinove anni, cordiale, educato, buono e di bell’aspetto, Frank è quel tipo di persona che sembra normale e che invece soffre di una terribile forma depressiva. «Vuoi vedere che c’è nella mia testa?» scrisse una volta. «Accomodati. Non è quello che ti aspettavi? Nemmeno io.»28 Una sera, circa un anno dopo aver terminato il college, Frank andò al cinema con un amico: tutto cominciò allora. Nei sette anni che seguirono Frank subì trenta ricoveri.
Il primo episodio si manifestò all’improvviso: «Tornando a casa dal cinema mi resi conto che sarei finito con l’auto contro un albero. Avevo l’impressione che un peso mi tenesse schiacciato il piede sull’acceleratore, che qualcuno mi strappasse via le mani dal volante. Sapevo che non avrei potuto guidare fino a casa perché c’erano troppi alberi lungo la strada e resistere alla loro tentazione diventava sempre più arduo, così andai dritto all’ospedale». Negli anni seguenti Frank sperimentò tutti i farmaci possibili, senza successo. «In ospedale tentai di soffocarmi» racconta. Alla fine fu sottoposto all’elettroshock che lo aiutò, pur scatenandogli una breve fase maniacale. «Avevo le allucinazioni: aggredii un altro paziente e fui messo in isolamento per un po’» ricorda.
Per cinque anni Frank fu sottoposto a elettroshock (una sola seduta per volta invece di una serie) ogniqualvolta la depressione si ripresentava, il che accadeva in genere ogni sei settimane. Gli prescrissero inoltre una combinazione di litio, amfebutamone, lorazepam, doxepina, liotironina e levotiroxina. «L’elettroshock funziona, ma lo detesto. È sicuro e lo raccomanderei ad altri, ma ti scaricano elettricità nel cervello e questo mi inquieta. Detesto i problemi di memoria. E poi mi fa venire il mal di testa; e ho sempre paura che sbaglino, che non ne uscirò vivo. Conservo i giornali in modo da poter ricordare ciò che è accaduto, se mai ce ne fosse bisogno.»
Ognuno si forma una propria classifica dei vari trattamenti, ma per tutti l’intervento chirurgico è l’ultimo dell’elenco. La lobotomia, effettuata per la prima volta all’inizio del XX secolo, divenne popolare negli anni Trenta e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale. I veterani che tornavano dal fronte con uno shock da granata o una nevrosi venivano sottoposti all’incisione del lobo frontale (o di altre regioni cerebrali). Nel periodo della sua massima diffusione si praticavano negli Stati Uniti circa cinquemila interventi l’anno, che causavano dai duecentocinquanta ai cinquecento decessi. Ancora oggi la psicochirurgia non si è liberata di questa cattiva fama.
«Purtroppo» afferma Elliot Valenstein, autore di una storia della psicochirurgia, «la gente continua a collegare questi interventi con il controllo della mente e li rifugge.» In California, dove per un certo periodo l’elettroshock fu proibito, la psicochirurgia lo è ancora. «I dati sulla psicochirurgia sono significativi» spiega Valenstein. «All’incirca il settanta per cento della popolazione-bersaglio, ossia pazienti in cui tutti gli altri tipi di terapie si sono rivelati fallimentari, risponde almeno in misura minima, mentre il trenta per cento va incontro a un netto miglioramento. La procedura viene attuata solo per quei soggetti con malattie psichiatriche gravi e di vecchia data, che non rispondono alla farmacoterapia e all’elettroshock, che non sono migliorati con alcuna tecnica e che restano gravemente malati o invalidi. Cioè ai casi più refrattari. È una specie di ultima spiaggia. Adottiamo solo procedure mini-invasive, talora dobbiamo ripeterle anche due o tre volte, ma le preferiamo al modello europeo, che prevede l’attuazione immediata di un intervento chirurgico più pesante. Con la cingulotomia non abbiamo riscontrato alterazioni permanenti della memoria né delle funzioni cognitive o intellettive.»
Quando incontrai Frank per la prima volta aveva appena subito una cingulotomia. L’operazione prevede che il cuoio capelluto venga crioanestetizzato, poi il chirurgo pratica un piccolo foro nella parte anteriore del cranio e vi inserisce un elettrodo fino a raggiungere il cervello. Lo strumento è impiegato per distruggere alcune aree cerebrali delle dimensioni approssimative di otto millimetri per diciotto. L’intervento, effettuato in anestesia locale, con sedazione del paziente e l’ausilio di un casco stereotassico, viene attuato solo in alcuni centri, il più importante dei quali è il Massachusetts General Hospital di Boston, dove Frank è stato seguito da Reese Cosgrove, il più eminente neurochirurgo statunitense.
Non è facile venire candidati alla cingulotomia: anzitutto si viene esaminati da una commissione valutatrice e bisogna superare tutta una serie di test e colloqui. Gli accertamenti prechirurgici richiedono almeno dodici mesi. Il centro di Boston, la struttura più attiva in quest’ambito, esegue solo quindici o venti operazioni l’anno. Come gli antidepressivi, l’intervento ha di solito un effetto ritardato e in genere i benefici si manifestano a sei, otto settimane di distanza. È dunque probabile che non siano dovuti tanto all’eliminazione di determinate cellule quanto all’effetto di tale eliminazione sulla funzione di altre cellule. «Non conosciamo la fisiopatologia, non sappiamo nulla dei suoi meccanismi d’azione» afferma Cosgrove.
«Ripongo grandi speranze nella cingulotomia» mi disse Frank quando ci incontrammo, e mi descrisse la procedura con un’aria di lieve distacco. «Ho sentito il trapano penetrarmi nella testa, come quando sei dal dentista. Hanno praticato due fori, per poter bruciare le cellule cerebrali. L’anestesista mi ha avvisato che, se volevo, avrebbe potuto darmi un’altra dose di anestetico. Io me ne stavo lì, ad ascoltarli mentre mi aprivano il cranio: risposi che la cosa mi sembrava un po’ macabra e che forse sarebbe stato meglio stordirmi di più. Spero che funzioni; in caso contrario, ho un piano, un piano per farla finita perché non posso andare avanti così.»
Alcuni mesi dopo Frank migliorò lievemente e tentò di ricostruirsi una vita. «Adesso il futuro mi appare piuttosto fosco. Vorrei scrivere, ma ho pochissima fiducia in me stesso. Non so che cosa scrivere. Credo che essere sempre depresso rappresentasse una specie di scudo di sicurezza. Non avevo le preoccupazioni reali che hanno tutti perché sapevo di non poter essere funzionale al punto da prendermi cura di me stesso. Che faccio ora? Cerco di abbandonare anni e anni di abitudini indotte dalla depressione con l’aiuto del mio medico.»
L’intervento di Frank, combinato con l’olanzapina, ha avuto successo. L’anno seguente ebbe un paio di crisi, ma non fu necessario il ricovero. Mi scrisse dei suoi progressi e mi comunicò di essere riuscito a rimanere sveglio una notte intera alla festa di matrimonio di amici. «Prima» osservava «non ero in grado di farlo perché temevo sempre che mi alterasse l’umore, già molto precario.» Fu ammesso a un corso propedeutico all’elaborazione di articoli scientifici al Johns Hopkins e, con grande trepidazione, decise di frequentarlo. Aveva una ragazza con cui, all’epoca, si sentiva felice. «Resto un po’ stupito quando qualcuno accetta i problemi che mi porto dietro, ma sono davvero entusiasta all’idea di avere sia compagnia sia una storia d’amore. La mia ragazza è una meta cui guardare.»
Frank completò il corso e trovò impiego in una società informatica. All’inizio del 2000 mi scrisse per raccontarmi il suo Natale. «Papà mi ha fatto due regali: un porta-CD meccanico, del tutto inutile e stravagante, di cui mi ero incapricciato. Ho aperto lo scatolone e dentro ho trovato qualcosa di cui non avevo bisogno: ho capito che papà festeggiava il fatto che fossi autonomo, che avessi un lavoro che sembrava piacermi e che potessi mantenermi.
«L’altro regalo era una foto della nonna, morta suicida. Quando lo scartai, iniziai a piangere. Era splendida, di profilo, lo sguardo rivolto verso il basso. Papà mi disse che probabilmente risaliva all’inizio degli anni Trenta: era in bianco e nero, con una lieve tonalità azzurrina, metallica, e racchiusa in una cornice d’argento. La mamma si avvicinò e mi chiese se piangessi per via dei parenti perduti. Le risposi che la nonna aveva avuto la mia stessa malattia. Ora sto piangendo, ma non sono triste, solo sopraffatto. Anch’io avrei potuto ammazzarmi se chi mi sta attorno non mi avesse persuaso a continuare a vivere… e poi, io ho potuto operarmi. Sono vivo e grato ai miei genitori e ad alcuni medici. Viviamo nell’epoca giusta, anche se non ci sembra sempre così.»
La gente viene da tutta l’Africa occidentale e persino da regioni più lontane per assistere alle cerimonie mistiche ndeup, praticate sui malati mentali dai lebou (e da alcuni serer) in Senegal.29 Incuriosito, decisi di andarci anch’io. Il direttore del principale ospedale psichiatrico di Dakar, il dottor Dou-dou Saar, che ricorre alle tecniche psichiatriche occidentali, si dichiara convinto che tutti i suoi pazienti abbiano sperimentato i trattamenti tradizionali. «A volte provano imbarazzo nel raccontarmelo» spiega. «Ma credo che la medicina tradizionale e quella moderna debbano coesistere, pur restando separate. Se avessi un problema che la medicina straniera non riuscisse a curare, anch’io tenterei con i rimedi tradizionali.»
Nella sua struttura vigono i costumi senegalesi. Per farsi ricoverare un malato deve venire con un parente che funga da accompagnatore. Entrambi sono alloggiati nell’edificio. All’accompagnatore vengono quindi date istruzioni e insegnati i rudimenti dell’assistenza psichiatrica, perché possa garantire la continuità della terapia erogata al paziente. L’ospedale è piuttosto spartano: le camere private costano 9 dollari al giorno, quelle semiprivate 5 e le stanze comuni poco meno di 2 dollari. La palazzina è maleodorante e i soggetti dichiarati pericolosi sono rinchiusi in stanze con porte di ferro: gemono e picchiano contro il metallo in continuazione. C’è però un bel giardino, dove i pazienti coltivano un orto, e la presenza dei numerosi accompagnatori attenua quell’atmosfera inquietante che rende tanti ospedali occidentali così cupi.
La cerimonia ndeup è un rituale animistico forse più antico del vudu. Il Senegal è un paese musulmano, ma i religiosi locali chiudono un occhio su queste pratiche che si svolgono in pubblico, pur con una certa riservatezza: se si organizza un rito ndeup, la gente arriva e si raduna intorno, ma tende a non parlarne molto.
La madre di un mio lontano conoscente che da alcuni anni si è trasferita a Dakar conosce una guaritrice locale: grazie a quel labile contatto, riuscii sottopormi a un rituale ndeup. Nel tardo pomeriggio di un sabato, insieme con alcuni amici senegalesi, presi un taxi da Dakar fino alla cittadina di Rufisque. Percorremmo angusti vicoli oltrepassando abitazioni fatiscenti e raccogliemmo via via le persone che avrebbero partecipato al rito.
Alla fine raggiungemmo la casa di Mareme Diouf, l’anziana guaritrice. Era stata istruita dalla nonna, che un tempo effettuava gli ndeup nello stesso luogo, secondo una tradizione che si perdeva nel tempo. Mareme ci venne incontro a piedi nudi, con un bizzarro copricapo e un lungo abito di batik stampato con spaventosi disegni di occhi e ornato di pizzo verde pisello. Ci portò nello spiazzo dietro la sua capanna dove, sotto gli ampi rami di un baobab, si trovavano una ventina di grossi recipienti d’argilla e altrettanti pali di legno d’aspetto fallico. Mi spiegò che gli spiriti che scacciava dalle persone finivano nella terra sottostante e che lei li nutriva con quei vasi, pieni d’acqua e di radici. Se i soggetti che si erano sottoposti a uno ndeup si trovavano nei guai, venivano a bagnarsi in quell’acqua o a berla.
La seguimmo in una stanza piccola e piuttosto buia. Discutemmo dello svolgimento della cerimonia e lei osservò che tutto sarebbe dipeso da ciò che volevano gli spiriti. Mi prese la mano e la studiò con attenzione, come se vi fosse scritto qualcosa. Poi vi soffiò sopra, me la pose sulla fronte e iniziò a esaminarmi il capo. Mi chiese come dormissi e se soffrissi di mal di testa, quindi dichiarò che avrebbe placato gli spiriti con un pollo bianco, un galletto rosso e un montone candido.
Mercanteggiammo un po’ e abbassammo il prezzo a circa 150 dollari, concordando di acquistare noi stessi l’occorrente: sette chili di miglio, cinque di zucchero, uno di noci di cola, una zucca, sette metri di stoffa bianca, due grandi pentole, una stuoia, un contenitore per battere il grano, una pesante mazza, i due polli e il montone. Mareme mi disse che alcuni dei miei spiriti (in Senegal ci sono spiriti dappertutto, alcuni indispensabili, altri neutrali, altri ancora nocivi, un po’ come i microbi) erano gelosi della mia attuale relazione sentimentale e ciò rappresentava la causa del disturbo. «Dobbiamo fare un sacrificio per placarli» dichiarò. «Così staranno tranquilli e lei non soffrirà più a causa di questa pesantezza legata alla depressione. Le tornerà l’appetito, dormirà bene, senza incubi, e la paura sparirà.»
Compimmo il secondo viaggio a Rufisque all’alba di lunedì. Poco prima della città vedemmo un pastore e ci fermammo a comprare il montone. Ci fu qualche difficoltà per sistemarlo nel bagagliaio del taxi, da dove emise versi lamentosi per tutto il viaggio e dove sporcò abbondantemente. Guidammo per altri dieci minuti e infine entrammo nel dedalo di stradine di Rufisque. Lasciammo il montone da Mareme e andammo al mercato per acquistare il resto. Una delle mie amiche impilò la spesa sopra la testa, formando una sorta di torre pendente. Alla fine un carretto tirato da un cavallo ci riportò alla casa della guaritrice.
Lì mi fu chiesto di togliermi le scarpe, quindi venni condotto nello spiazzo sotto il baobab. Il terreno era stato cosparso di sabbia. Arrivarono cinque donne dalle vesti larghe, con enormi collane d’agata e cinture di stoffa piene di tasche simili a salsicce (contenenti simboli e preghiere). Una, quasi ottantenne, esibiva un paio di larghi occhiali da sole alla Jackie Onassis. Fui fatto sedere sulla stuoia con le gambe distese e i palmi rivolti verso l’alto, per la divinazione. Le donne presero una gran quantità di miglio e lo versarono nel contenitore per battere i grano, poi vi aggiunsero una serie di oggetti sciamanici: bastoncini corti e spessi, un corno e una zampa di animale, un sacchetto legato con un lungo filo, una specie di oggetto rotondo di stoffa rossa con sopra cucite alcune cipree e un crine di cavallo.
Mi coprirono con un telo bianco e mi posarono il contenitore sei volte sul capo e sei su ogni braccio, per poi ripetere la procedura sull’intero corpo. Mi diedero i bastoni da tenere in mano, poi mi dissero di lasciarli cadere: le donne esaminarono i disegni che questi avevano formato, consultandosi. Ripetei il tutto sei volte con le mani e sei con i piedi. Numerosi uccelli si avvicinarono e si appollaiarono sul baobab sopra di noi, il che parve di buon auspicio. Le donne mi tolsero quindi la camicia, mi misero al collo una collana d’agata e mi sfregarono il petto e la schiena col miglio.
Alla fine mi chiesero di alzarmi e di sfilarmi i jeans. Mi porsero un telo per cingermi i fianchi e, quando fui pronto, fecero lo stesso con le braccia e le gambe. Poi raccolsero i chicchi caduti, li avvolsero in un pezzo di giornale e mi dissero di porlo sotto il cuscino e di dormirci sopra per una notte. Il giorno dopo avrei dovuto darlo a un mendicante dotato di buon udito e senza deformità fisiche. Dato che l’Africa è una terra di incongruenze, durante l’intera procedura la radio trasmise la colonna sonora di Momenti di gloria.
A quel punto arrivarono cinque suonatori di tamburo, che iniziarono a suonare i loro tama. Nei paraggi si aggiravano già una decina di spettatori e via via che il ritmo dei tamburi si diffondeva, ne arrivarono altri, che formarono un assembramento di forse duecento persone disposte a cerchio attorno al prato. Il montone aveva le zampe legate e giaceva sul fianco, alquanto stupito dagli eventi. Mi fu detto di stendermi dietro all’animale e di abbracciarlo, come se fossimo due innamorati a letto.
Mi coprirono quindi con un lenzuolo, poi con una ventina di coperte e io e la povera bestia (che dovevo trattenere per le corna) ci ritrovammo completamente al buio, in una calura soffocante. Una delle coperte, come avrei avuto modo di osservare in seguito, aveva ricamate sopra le parole Je t’aime. Il suono dei tamburi si fece sempre più forte e il ritmo più inesorabile. Udivo le cinque donne cantare. Al termine di ogni canto, il rullo dei tamburi si fermava. Poi una voce ricominciava, seguita dagli strumenti e dalle altre quattro voci, spesso accompagnate anche da quelle degli astanti. Le donne danzavano in cerchio attorno a me e al montone, e ci colpivano dappertutto con quello che avrei scoperto dopo essere il galletto rosso. Non riuscivo quasi a respirare e la puzza dell’animale era tremenda (aveva fatto i suoi bisogni anche nel nostro piccolo giaciglio). Il suolo vibrava per il movimento della folla e io facevo fatica a trattenere il montone, che si divincolava sempre più disperato.
Finalmente tolsero le coperte, mi sollevarono e mi invitarono a ballare al ritmo dei tamburi, che aumentava di continuo. Mareme guidava la danza; mentre cercavo di copiare i suoi passi pesanti e le sue mosse energiche, tutti battevano le mani. Le altre donne si fecero avanti, a turno, affinché le imitassi; lo stesso fecero poco dopo alcune spettatrici. Ero stordito: Mareme protese le braccia verso di me e io quasi le crollai addosso. Una donna venne posseduta all’improvviso e prese a ballare istericamente, saltando di qua e di là come se il terreno fosse in fiamme, per poi accasciarsi al suolo. Più tardi appresi che aveva avuto il suo ndeup l’anno prima.
Quando non ebbi più fiato, i tamburi cessarono di colpo. Mi fu detto di togliermi le mutande e di tenere solo il telo attorno ai fianchi. Il montone era steso a terra e io dovetti scavalcarlo, sette volte da destra a sinistra e sette volte da sinistra a destra. Poi, mentre stavo a cavalcioni dell’animale, un suonatore di tamburo si avvicinò, gli pose la testa sopra una bacinella metallica e lo sgozzò. Pulì un lato del coltello sulla mia fronte, l’altro, sulla mia nuca. Il sangue sgorgava a fiotti e riempì ben presto il recipiente. Mi dissero di immergevi le mani e di sciogliere i grumi non appena avessero cominciato a formarsi. Sempre stordito, obbedii; nel frattempo l’uomo decapitò il galletto e ne mescolò il sangue con quello del montone.
Lasciammo quindi la folla per avvicinarci all’area dei vasi d’argilla, dove mi ero recato quel mattino. Lì le donne mi cosparsero di sangue. Ogni centimetro del mio corpo doveva esserne bagnato: i capelli, il viso, i genitali, le piante dei piedi. Me lo sfregarono addosso: era caldo, e i grumi semicoagulati si schiacciavano sulla mia pelle, procurandomi una sensazione particolarmente piacevole. Quando ne fui ricoperto, una di loro mi disse che era mezzogiorno e mi offrì una Coca-Cola, che accettai di buon grado. Mi permise di sciacquarmi parte del sangue dalle mani e dalla bocca, per poter bere. Un’altra mi portò un pezzo di pane. Qualcuno con un orologio da polso osservò che avremmo potuto rilassarci fino alle tre.
Un’improvvisa ventata d’allegria alleggerì il rituale e una delle donne cercò di insegnarmi le canzoni che avevano cantato quel mattino, mentre mi trovavo sepolto sotto le coperte. Il telo che mi copriva i fianchi era inzuppato di sangue e migliaia di mosche mi presero d’assalto, attirate dall’odore. Il montone era stato appeso al baobab: un uomo lo stava scuoiando e macellando. Un altro, munito di un lunghissimo coltello, stava scavando lentamente tre buche circolari, profonde circa mezzo metro, accanto ai contenitori d’acqua dei precedenti ndeup. Mi alzai in piedi, nel tentativo di scacciare le mosche dagli occhi e dalle orecchie. Quando le buche furono terminate e giunsero le tre, fui di nuovo invitato a sedermi. Le donne mi attorcigliarono l’intestino del montone intorno alle braccia e alle gambe e mi dissero di conficcare sette bastoni in profondità in ogni buca, esprimendo un desiderio o recitando una preghiera per ciascuno.
Poi dividemmo la testa del montone in tre parti e ne mettemmo una per buca; vennero aggiunte alcune erbe, un pezzetto di ogni porzione dell’animale e alcune minuscole parti del galletto. Io e Mareme facemmo a turno per porre nelle buche sette tortine di zucchero e miglio. Mareme prese quindi sette sacchetti di foglie e cortecce in polvere e cosparse il contenuto delle fosse con un pizzico di ognuno.
Alla fine dividemmo e versammo il sangue residuo. Mi tolsero l’intestino del montone di dosso e lo gettarono nelle buche. Mareme vi mise sopra un po’ di foglie fresche e insieme all’uomo (che continuava a tentare di pizzicarle il sedere) ricoprì il tutto. Dovetti quindi pestare ogni fossa col piede destro per tre volte e ripetere le seguenti parole ai miei spiriti: «Lasciatemi vivere, datemi pace, lasciatemi svolgere il lavoro della mia vita. Non vi dimenticherò mai». Qualcosa in quell’incantesimo mi colpì: «Non vi dimenticherò mai», come se ci si dovesse rivolgere all’orgoglio degli spiriti, come se si desiderasse che fossero contenti dell’esorcismo.
Una donna aveva versato il sangue su un vaso d’argilla, che era quindi stato collocato nell’area di terra appena ricoperta. Una mazza fu conficcata nel suolo, poi una miscela di miglio, latte e acqua fu versata su tutti i vasi capovolti delle precedenti cerimonie e sui bastoni fallici. La nostra ciotola era piena d’acqua e di varie polveri vegetali. Il sangue sul mio corpo si era ormai seccato e, con la pelle quasi soffocata, avevo la sensazione di essermi trasformato in una crosta enorme. Mi informarono che era arrivato il momento di lavarsi. Ridendo allegre, le donne si accinsero a togliermi di dosso il sangue secco. Io rimasi in piedi, mentre loro si riempivano la bocca d’acqua e me la sputavano addosso: in questo modo, a forza di sfregare, venni ripulito.
Al termine dovetti bere circa mezzo litro d’acqua mescolata con le polveri vegetali usate in precedenza da Mareme. Quando fui completamente pulito e coperto con un telo bianco, i tamburi ripresero a suonare e la folla tornò. Questa volta la danza fu celebrativa. «Sei libero dai tuoi spiriti, ti hanno lasciato» esclamò una delle donne e mi porse una bottiglia d’acqua mescolata alle polveri vegetali, invitandomi a bagnarmi con quella pozione se gli spiriti mi avessero infastidito ancora. I suonatori aumentarono il ritmo, gioiosi, e con uno ingaggiai una sorta di competizione, saltando sempre più in alto mentre lui suonava con sempre maggior vigore: alla fine l’uomo ammise che eravamo pari. A tutti vennero distribuite alcune tortine e un pezzo del montone (a noi toccò una coscia per il barbecue), poi Mareme annunciò che ero libero. Erano le sei di pomeriggio. La folla seguì il nostro taxi finché poté, poi si fermò e ci salutò con la mano. Tornammo a casa con la sensazione di aver partecipato a una festa.
Il rito ndeup mi ha colpito più di quanto non abbiano fatto molte terapie di gruppo oggi praticate negli Stati Uniti e mi ha suggerito una nuova prospettiva da cui valutare la depressione, considerandola come un’entità esterna, distinta dalla persona che ne è affetta. Mi ha dato una scossa sicuramente capace di iperstimolare la chimica cerebrale, una specie di elettroshock senza corrente, e mi ha permesso di vivere una profonda esperienza di comunione, uno stretto contatto fisico con gli altri. È un memento della morte e insieme la testimonianza che si è vivi, caldi, pulsanti. Costringe il sofferente a un gran movimento e gli fa conoscere il conforto di una procedura specifica da seguire in caso di un’eventuale recidiva. Ed è corroborante con la sua energia: un incredibile tour de force di suono e movimento.
Infine, è un rito e l’effetto di qualsiasi rito non va sottovalutato, che si tratti di venire ricoperti di sangue di montone e di galletto o di raccontare a un professionista che cosa faceva nostra madre quand’eravamo piccoli. L’insieme di aura misteriosa e di specificità è sempre incredibilmente potente.
Come scegliere tra le migliaia di terapie antidepressive? Qual è l’approccio ideale per trattare la depressione? Com’è possibile combinare i metodi ben poco ortodossi con gli altri più tradizionali? «Potrei riferirvi quella che era la risposta giusta nel 1985» afferma Dorothy Arnsten, terapeuta interpersonale, che si è occupata anche di numerosi altri sistemi di trattamento. «Potrei citarvi anche quelle giuste nel 1992, nel 1997 e al giorno d’oggi. Ma avrebbe senso? Non posso dirvi quale sarà quella giusta nel 2004, ma vi assicuro che sarà senza dubbio diversa da quella attuale.» La psichiatria è influenzata dalle mode quanto ogni altra scienza, e quella che oggi sembra una rivelazione, l’anno prossimo sembrerà una sciocchezza.
È difficile prevedere con certezza che cosa ci riserverà il futuro. Rispetto alle grandi scoperte fatte nel campo della sua terapia, la conoscenza della depressione ha fatto solo piccoli passi in avanti. Non possiamo sapere se le cose continueranno così, dato che spesso il progresso in questo campo è una questione di fortuna. Ma ci vorrà molto tempo perché la teoria riguadagni il tempo perduto rispetto alla prassi.
Tra i farmaci che hanno quasi completato l’iter di test sperimentali prima dell’immissione sul mercato c’è la reboxetina, un inibitore selettivo della ricaptazione della noradrenalina.30 Quest’ultima, che è stimolata dagli antidepressivi triciclici, è implicata nei disturbi depressivi insieme con la serotonina e la dopamina; sembra quindi probabile che uno stimolatore della noradrenalina possa funzionare bene con gli SSRI e forse con l’amfebutamone, una combinazione che aggredirebbe tutti i neurotrasmettitori. Gli studi preliminari hanno dimostrato che la reboxetina aumenta l’energia dei pazienti e ne migliora la funzionalità sociale, malgrado causi secchezza del cavo orale, stipsi, insonnia, aumento della sudorazione e tachicardia. Il farmaco è prodotto da due importanti case farmaceutiche.
Un’altra industria si è invece concentrata sulla cosiddetta sostanza P, coinvolta nella risposta dolorifica e, a quanto pare, nei quadri depressivi.31 Il primo prodotto elaborato non sembra tuttavia particolarmente efficace nel trattamento della depressione, ma se ne stanno studiando altri.
I ricercatori del Brain Molecule Anatomy Project (BMAP) cercano di individuare quali geni siano implicati nello sviluppo e nella funzione cerebrali e di capire quando si attivino. Il progetto punta sulla manipolazione genetica. «Io scommetto sui geni» dice Steven Hyman. «Non appena scopriremo quelli coinvolti nel controllo dell’umore o nella malattia, potremo chiederci di quali meccanismi si avvalgono e se possono chiarirci quanto accade nel cervello. Potremo anche valutare gli obiettivi terapeutici, scoprire quando si attivano e dove sono situati; chiederci quale sia la differenza, dal punto di vista della funzione cerebrale, tra la versione che determina la vulnerabilità al disturbo e quella che invece non lo fa; e quali siano i geni che formano questa parte del cervello e quando.
«Supponiamo di scoprire che un sottonucleo dell’amigdala sia interessato in modo determinante nel controllo di un sentimento negativo, come è molto probabile: che succederebbe se avessimo davanti a noi tutti i geni attivi nella struttura durante lo sviluppo? Disporremmo di una valida gamma di strumenti d’indagine. Non esiste un gene dell’umore: è solo un’immagine esemplificativa. Ogni gene implicato in una patologia svolge, con molta probabilità, molte altre funzioni nel corpo o nel cervello.»
Se il genoma umano è costituito da circa trentamila geni,32 numero che sembra peraltro aumentare via via che la ricerca prosegue, e se ogni gene ha circa dieci varianti comuni importanti, abbiamo 10-30.000 candidati per quanto concerne la vulnerabilità genetica a una malattia. Ma c’è differenza tra identificare alcuni geni e cercare di capire che cosa accada loro in combinazioni diverse, in fasi diverse e con stimoli ambientali diversi? Per poter vagliare tutte le possibilità combinatorie dovremo avvalerci della forza bruta dei numeri. Poi si dovrà valutare come essi si comportino nelle varie circostanze: per quanto veloci siano i nostri computer, siamo lontani anni luce da un simile obiettivo.
Tra tutte le patologie la depressione occupa uno dei primi posti in classifica sotto il profilo della multifattorialità: non sono un genetista, ma scommetterei che esistono almeno alcune centinaia di geni potenzialmente in grado di causare un disturbo depressivo. La modalità con cui essi scatenano la malattia dipende dalla loro interazione reciproca, nonché con gli stimoli esterni. Immagino inoltre che gran parte di tali geni svolga anche funzioni utili e che eliminarli comporterebbe effetti deleteri per l’organismo.
Le informazioni genetiche potranno aiutarci a controllare determinati tipi di depressione, ma le possibilità di eliminare entro breve tempo questa patologia mediante la manipolazione genetica sono davvero molto esigue.