Molti depressi non sviluppano mai impulsi suicidi. Molti suicidi sono commessi da individui che non sono depressi. Questi due problemi non fanno parte di un’unica, chiara equazione in cui l’uno determina l’altro, ma sono realtà distinte che spesso coesistono e si influenzano a vicenda. La «suicidalità» è uno dei nove sintomi degli episodi depressivi citati nel DSM-IV, anche se tra i depressi la propensione a togliersi la vita non è maggiore che tra i malati gravi di artrite: la capacità umana di sopportare il dolore è incredibilmente elevata. Solo se si stabilisce che la suicidalità è una condizione sufficiente per formulare una diagnosi di depressione, si può affermare che i suicidi siano sempre depressi.1
La suicidalità viene ritenuta un sintomo depressivo mentre in realtà costituisce spesso un problema concomitante con la depressione. Oggi l’alcolismo non viene più considerato un effetto collaterale della depressione, ma come un problema che insorge simultaneamente a essa. La suicidalità è indipendente dalle forme depressive a cui sovente si associa, esattamente come lo è l’abuso di sostanze. «Molti clinici ritengono che trattare con successo [la depressione] equivalga a trattare con successo il paziente suicida, come se la suicidalità fosse un effetto collaterale indesiderato del disturbo principale. Eppure, alcuni suicidi non presentano un disturbo principale diagnosticabile, e spesso si uccidono poco dopo aver superato un episodio depressivo o molto tempo dopo esserne guariti» afferma George Howe Colt in The Enigma of Suicide.2
Un clinico che segua un soggetto depresso con impulsi suicidi si concentra in genere sulla terapia della depressione, ma in tal modo non riesce sempre a impedire che il paziente si uccida. Negli Stati Uniti quasi la metà dei suicidi viene commessa da individui sottoposti a terapie psichiatriche, ciononostante gran parte di tali gesti suscita profonda sorpresa.3 Perciò ci deve essere qualcosa di sbagliato nel ragionamento: non dovremmo considerare la suicidalità un sintomo, come si fa con le turbe del sonno né, d’altronde, smettere di trattarla solo perché la depressione con cui viene associata sembra ormai superata. La suicidalità è un problema concomitante, che va gestito con apposite strategie. Per quale ragione, allora, non viene diagnosticata come una malattia correlata e in parte coincidente con la depressione, ma pur sempre distinta da essa?
I tentativi sinora compiuti per definire la depressione suicida non hanno dato risultati. Non esiste uno stretto legame tra la gravità della depressione e la probabilità di togliersi la vita: a quanto risulta, alcuni suicidi vengono commessi da individui affetti da forme lievi del disturbo, mentre i soggetti che si trovano in situazioni disperate spesso si aggrappano alla vita. Esistono persone che hanno perso i figli, che presentano handicap fisici, che muoiono di fame, che non hanno mai ricevuto un briciolo d’affetto e che tuttavia si attaccano alla vita con tutte le loro forze. Ed esistono persone che, pur con un brillante avvenire davanti a sé, si uccidono. Il suicidio non rappresenta il culmine di un’esistenza irta di difficoltà, ma ha origine in un’area remota, al di là della mente e della coscienza.
Oggi posso finalmente ripensare alla mia breve fase parasuicida: la logica che a quel tempo giudicavo più che fondata mi appare ora tanto estranea quanto i batteri che, anni prima, mi avevano trasmesso la polmonite. È come un microbo potente che ti entra nel corpo e se ne impadronisce. Sono stato letteralmente sequestrato da un’entità estranea.
C’è una sottile ma importante distinzione fra desiderare di essere morto, desiderare di morire e desiderare di uccidersi. Quasi tutti in certi momenti hanno desiderato di essere morti, di non esistere più, di diventare invulnerabili al dolore. Durante una depressione molti vorrebbero morire, attuare un cambiamento per modificare la propria situazione, essere liberati dal tormento della coscienza. Desiderare di togliersi la vita richiede, tuttavia, un ulteriore empito e una certa dose di violenza mirata. Il suicidio non è il prodotto di un atteggiamento passivo: è il risultato di un’azione concreta e implica una buona carica di energia, una forte volontà, la convinzione che il brutto momento che si vive non passerà mai, e almeno un pizzico di impulsività.
I suicidi possono essere distinti in quattro gruppi. Chi appartiene al primo si uccide inconsultamente, senza pensare a quello che fa: per questi soggetti togliersi la vita è un atto urgente e inevitabile come quello di respirare. Sono i più impulsivi e, con molta probabilità, vengono spinti al suicidio da un evento esterno. Il loro gesto è, in genere, improvviso. Come afferma Alfred Alvarez nel suo brillante saggio sul suicidio Il dio selvaggio, tali individui «tentano di esorcizzare» quel dolore che la vita può lenire solo gradualmente.
Il secondo gruppo, che fa quasi «l’amore con la facile morte» come dice Keats in Ode a un usignolo, vede il suicidio alla stregua di una vendetta, come se non si trattasse di un atto irreversibile. Di loro Alvarez scrive: «Qui sta la difficoltà del suicidio: è un atto di ambizione che si può commettere solo quando si sia superata ogni ambizione».4 Questi individui non fuggono dalla vita, bensì corrono verso la morte: non desiderano tanto la fine dell’esistenza, quanto la presenza dell’oblio.
I suicidi della terza categoria si tolgono la vita in base a una falsa logica in cui la morte appare quale unica via di uscita da problemi insormontabili: si tratta di soggetti che considerano le alternative disponibili, pianificano il gesto, lasciano uno scritto e affrontano tutte le fasi preparatorie come se stessero organizzando una missione nello spazio. Di solito credono che la morte non solo migliorerà la loro condizione, ma toglierà anche un grosso peso ai loro cari (di solito è vero il contrario).
L’ultimo gruppo si uccide in base a una logica plausibile: costoro, vittime di malattie fisiche, di squilibri mentali o di drastici cambiamenti esistenziali, non desiderano vivere nel dolore e ritengono che le gioie che ricevono non siano sufficienti a rendere tollerabile la sofferenza. Che abbiano o no una visione attendibile del loro futuro, non si lasciano ingannare: nessuna quantità di antidepressivi e nessun tipo di trattamento potranno indurli a cambiare idea.
Essere o non essere? Su nessun altro tema è stato scritto tanto, e detto tanto poco. Amleto suggerisce che la risposta si possa trovare in quel «paese dopo la morte, da cui mai nessuno ritorna». Eppure, anche quegli uomini che non temono l’ignoto e si avventurano volentieri nella landa delle esperienze insolite, non lasciano di buon grado questo mondo di «sassi e dardi» per uno stato di cui non si conosce nulla, che si teme molto e che alimenta molte speranze. In effetti, «la coscienza, così, fa tutti vili, così il colore della decisione al riflesso del dubbio si corrompe».5 Questo è il punto essenziale dell’essere o del non essere: la coscienza o consapevolezza, che resiste all’annientamento non solo per viltà, ma anche grazie a una nascosta volontà di esistere, di assumere il controllo, di agire secondo necessità.
Inoltre, la mente consapevole di sé non può disconoscersi: l’autodistruzione esula dall’introspezione. Il «riflesso del dubbio» è quell’elemento interiore che ci impedisce di suicidarci. Chi si uccide probabilmente non vive solo la disperazione ma anche una momentanea perdita di autocoscienza. Anche se la scelta è tra l’essere e il nulla (nel caso si creda che dopo la morte vi sia il nulla e che lo spirito umano non sia che un aggregato chimico di breve durata), l’essere non può concepire il non essere: può concepire l’assenza di esperienza, ma non l’assenza di sé. Se penso, sono.
Quando sto bene ritengo che, in mancanza di certezze su ciò che esiste dopo la morte – sia esso la gloria, la pace, l’orrore o il nulla – dovremmo cercare di trarre il meglio dal mondo in cui viviamo. «C’è un solo problema filosofico veramente serio, ed è il suicidio» osserva Albert Camus.6 Verso la metà del XX secolo numerosi scrittori francesi, in nome dell’esistenzialismo, hanno affrontato interrogativi per rispondere ai quali, in passato, bastava la religione.
Schopenhauer ha colto nel segno con la sua riflessione: «Il suicidio può essere considerato un esperimento, una domanda che l’uomo pone alla Natura nel tentativo di obbligarla a rispondere. La domanda è la seguente: quale cambiamento apporterà la morte nell’esistenza dell’uomo e nella sua percezione della natura delle cose? Si tratta però di un esperimento maldestro, perché implica la distruzione di quella stessa coscienza che formula la domanda e attende la risposta».7 È impossibile conoscere le conseguenze del suicidio finché non lo si compie.
Sarebbe davvero affascinante poter visitare l’aldilà con un biglietto di andata e ritorno in mano: io stesso ho più volte desiderato di uccidermi per un mese soltanto. Invece rifuggiamo dall’evidente definitività della morte, dall’irrimediabilità del suicidio. La coscienza ci rende umani e, a quanto pare, concordiamo quasi tutti sul fatto che è improbabile che essa esista, così come la conosciamo, dopo la morte, e che quella curiosità che vorremmo soddisfare non esisterà più nel momento in cui potrà essere soddisfatta. Quando ho provato il desiderio di non vivere più e mi sono chiesto come sarebbe stato essere morto, mi sono reso conto che essere morto significava anche smettere di porsi domande. E sono le domande a spingerci ad andare avanti: potevo rinunciare agli aspetti esteriori della mia vita, non a interrogarmi.
Malgrado prevalga l’istinto vitale, i presupposti logici del vivere sono, nelle società laiche, molto problematici. «Che la vita valga la pena di essere vissuta è il più necessario dei presupposti» scrive George Santayana. «Se non fosse un presupposto, sarebbe la più impossibile delle conclusioni.»8 Non sono pochi i tormenti che ci affliggono, ma forse il più angustiante è proprio la mortalità. La morte è tanto allarmante e la sua ineluttabilità tanto frustrante che ad alcuni sembra preferibile farla finita. L’idea del nulla finale sembra negare il valore di ciò che oggi siamo. La vita, in effetti, rifiuta il suicidio celando quasi sempre la realtà del nostro essere mortali. Come dice il poeta John Donne, se la morte non va fiera, è perché viene di solito tanto disprezzata.
Non credo che per ammazzarsi si debba essere pazzi, ma credo che numerosi pazzi si tolgano la vita e che molti altri si suicidino per ragioni insensate. Come è ovvio, l’analisi di una personalità suicida viene intrapresa retrospettivamente o dopo un tentativo fallito di suicidio. Freud stesso sostiene che «non abbiamo mezzi adeguati per affrontare» il problema.9 Non si può non notare il tono di deferenza implicito in tali parole: se la psicanalisi è la professione impossibile, il suicidio è l’argomento impossibile. È folle desiderare di morire? La questione è, in fondo, più religiosa che medica, dato che dipende non solo da ciò che pensiamo ci sia dopo la morte, ma anche dalla considerazione in cui teniamo la vita.
Secondo Camus, ciò che è davvero folle è affannarsi spasmodicamente, come fa la maggior parte degli uomini, nel tentativo di procrastinare di poco una morte inevitabile.10 Ma allora la vita si riduce all’assurdo sforzo di rinviare la morte? La maggior parte di noi ha, in media, più dolore che piacere nella vita e tuttavia insegue il piacere e le gioie che esso comporta. Ironicamente, quasi tutte le fedi che presuppongono la vita eterna proibiscono il suicidio onde evitare che i credenti, togliendosi la vita, vadano a infoltire le schiere degli angeli (benché alcune religioni esaltino il sacrificio di sé: basti pensare al martirio cristiano e alla guerra santa islamica).
La libertà di suicidarsi è stata lodata da molti uomini amanti della vita: da Plinio, secondo cui, in mezzo a tutte le miserie della nostra vita terrena, la capacità di darsi la morte è il miglior dono che Dio abbia fatto all’uomo,11 a John Donne, che nel 1621 scrisse in Biathanatos: «ogniqualvolta cado vittima di un’afflizione, mi sembra di avere le chiavi della mia prigione in mano, e nessun rimedio si presenta tanto prontamente al mio cuore quanto la spada»;12 da Camus a Schopenhauer, secondo il quale si scoprirà in genere che, non appena il terrore della vita diviene tale da superare quello della morte, l’uomo si uccide.13
Io stesso ho provato, durante la depressione, un terrore della vita del tutto ottenebrante. A quel tempo ero pericolosamente assuefatto alla paura di morire. Ritenevo, tuttavia, che il mio terrore fosse momentaneo e ciò lo mitigava al punto da renderlo sopportabile. Il suicidio razionale non può essere, a mio avviso, un atto del presente, ma è il risultato di un’attenta valutazione nel lungo periodo. Credo nel suicidio razionale, che risponde al senso di inutilità più che alla disperazione, benché sia spesso difficile capire quali suicidi siano razionali. Nel dubbio, è preferibile salvare qualcuno di troppo piuttosto che il contrario.
Come si sa, il suicidio è una soluzione permanente a un problema spesso temporaneo. Il diritto a compierlo dovrebbe essere una libertà civile fondamentale: nessuno dovrebbe essere obbligato a vivere contro la sua volontà. La suicidalità è, d’altronde, spesso momentanea, e molti sono lieti di essere stati dissuasi o distolti dal tentativo di uccidersi. Se mai dovessi tentare di uccidermi, vorrei essere salvato, a meno che non abbia raggiunto la convinzione che la gioia rimastami nella vita sia esigua rispetto al dolore e alla sofferenza.
«Il suicidio è un diritto umano fondamentale. Ciò non significa che sia auspicabile, ma solo che la società non ha il diritto morale di interferire con la forza nella decisione di un soggetto di commetterlo» ha osservato Thomas Szasz, autorevole critico dell’assistenza psichiatrica e convinto assertore della necessità di limitare il potere degli psichiatri.14 A suo avviso, qualsiasi intervento in tal senso delegittima il sé e le azioni del suicida. «Ne conseguono un’infantilizzazione e una disumanizzazione del suicida» afferma ancora Szasz.
In uno studio condotto a Harvard è stato chiesto a un gruppo di medici di valutare una casistica, già pubblicata, di suicidi e di formulare una diagnosi sui casi: quanti non sapevano che i pazienti si erano suicidati, hanno diagnosticato casi di malattie mentali solo nel 22 per cento del campione, mentre quanti ne erano al corrente hanno riscontrato disturbi psichiatrici nel 90 per cento dei soggetti.15 La suicidalità semplifica, dunque, la diagnosi, ed è probabile un certo grado di infantilizzazione o quanto meno di paternalismo. La tesi di Szasz, benché fondata, potrebbe risultare molto pericolosa in campo clinico.
Edwin Shneidman, iniziatore del movimento di prevenzione del suicidio, si colloca su una posizione diametralmente opposta: a suo giudizio, l’autoassassinio è un atto di follia. «In ogni suicida c’è almeno una vena di follia nel senso che, nel suicidio, si verifica una sorta di dissociazione tra pensieri e sentimenti» scrive. «Ciò implica un’incapacità di definire i sentimenti, di differenziarli in sfumature ancora più sottili di significato e di comunicarli agli altri. C’è uno iato abnorme tra ciò che pensiamo e ciò che sentiamo. Lì sta l’illusione del controllo; lì sta la pazzia.»16 Tale visione tautologica costituisce la premessa per privare l’uomo del diritto al suicidio. «Il suicidio non è un “diritto”» prosegue Shneidman opponendosi a Szasz «più di quanto non lo sia il “diritto a ruttare”. Se un individuo si sente costretto a farlo, lo fa.»17 Vale la pena di notare che in determinati momenti siamo in grado di controllare il rutto e che ci sforziamo di farlo, soprattutto in pubblico, per rispetto degli altri.
Il suicidio è incredibilmente comune ed è ben più dissimulato e sfuggente della depressione. Si tratta di un grave problema sanitario, capace di inquietarci al punto da indurci a ignorarlo. Negli Stati Uniti ogni diciassette minuti qualcuno si toglie la vita.18 Il suicidio è la terza causa di morte tra gli americani di età inferiore a ventun anni e la seconda tra gli studenti dei college. Nel 1995 sono morti più giovani per suicidio che per AIDS, cancro, ictus, polmonite, influenze, anomalie congenite e malattie cardiache presi nel loro insieme. Dal 1987 al 1996 gli uomini di età inferiore a trentacinque anni morti per suicidio hanno superato le vittime dell’AIDS. Ogni anno quasi mezzo milione di americani viene ricoverato in ospedale per tentato suicidio.19
Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, il suicidio è responsabile di almeno il 2 per cento dei decessi verificatisi in tutto il mondo nel 1998 e si colloca, nella classifica delle cause di morte, prima delle guerre e ben prima degli omicidi. Il suo tasso è in continua ascesa. Un’indagine condotta di recente in Svezia ha dimostrato che le probabilità che uno studente si uccida sono aumentate del 260 per cento dagli anni Cinquanta a oggi.20 Metà degli individui affetti da episodi maniaco-depressivi tenterà, prima o poi, di ammazzarsi, come del resto un soggetto su cinque tra quelli colpiti da un disturbo depressivo maggiore.21
È molto probabile che un paziente al primo episodio depressivo tenti il suicidio; chi invece ha alle spalle più cicli sa, in genere, come superarli.22 Precedenti tentativi di togliersi la vita sono di solito il fattore predittivo più affidabile del suicidio: circa un terzo dei soggetti che si uccidono ha già tentato di farlo in precedenza. L’1 per cento di quanti hanno cercato di uccidersi si suiciderà nell’arco di un anno; il 10 per cento lo farà nell’arco di dieci anni. Si registrano all’incirca sedici tentati suicidi per ogni atto riuscito.23
In uno stesso documento si afferma che i depressi hanno una probabilità cinquecento volte maggiore di uccidersi rispetto ai non depressi e, poco dopo, che i primi presentano un tasso di suicidio venticinque volte maggiore di quello della popolazione generale.24 Altrove ho letto che la depressione raddoppia la probabilità di commettere suicidio. Quale sarà mai la verità? Questi dati sono perlopiù influenzati dal modo con cui definiamo quel demone elusivo chiamato depressione.
A quanto pare, per ragioni di salute pubblica, il National Institute of Mental Health ha solennemente e ben poco scientificamente dichiarato che «quasi tutti gli individui che si uccidono presentano un disturbo mentale, o da abuso di sostanze, diagnosticabile» e ha di recente circoscritto il «quasi tutti» al «90 per cento».25 Questa visione aiuta chi ha tentato invano di uccidersi e chi soffre per la perdita di una persona cara, morta suicida, a liberarsi almeno in parte di quel senso di colpa che altrimenti lo annienterebbe. Per quanto ciò abbia un effetto confortante e sia utile a ricordarci il gran numero di suicidi legati a problemi mentali, si tratta di una stima palesemente esagerata, peraltro non suffragata da nessuno specialista di mia conoscenza che abbia trattato pazienti suicidi.
Le statistiche sui suicidi sono ancora più confuse di quelle sulla depressione. Pare che la maggior parte avvenga di lunedì,26 soprattutto nella fascia compresa tra la tarda mattinata e mezzogiorno,27 in particolare in primavera.28 Le donne presentano un tasso di suicidio maggiore durante la prima e l’ultima settimana del ciclo mestruale – fenomeno forse attribuibile a cause ormonali – e uno inferiore durante la gravidanza e il primo anno dopo il parto, il che appare rilevante sotto il profilo evoluzionistico, anche se non risulta chimicamente dimostrato.29 Alcuni studiosi che si occupano di suicidi amano le statistiche comparative, ma le usano equiparando il principio di correlazione con quello di causalità. Alcune correlazioni rasentano l’assurdità: è possibile calcolare il peso corporeo medio e la lunghezza media dei capelli di un suicida, ma questo che cosa prova e, soprattutto, a che serve?
Émile Durkheim, il grande sociologo del XIX secolo, ha strappato il suicidio al dominio della moralità per collocarlo in quello, più razionale, della scienza sociale.30 Secondo Durkheim, i suicidi sono categorizzabili e distinguibili in quattro gruppi. Il suicidio egoistico viene commesso da soggetti non adeguatamente integrati nella società. Apatia e indifferenza sono le due ragioni principali che motivano costoro a interrompere per sempre il legame col mondo. Il suicidio altruistico è causato, viceversa, da un’integrazione eccessiva nella società: in questo gruppo rientrerebbe, per esempio, la devozione all’idea di libertà di Patrick Henry, famoso patriota americano della seconda metà del Settecento. Il suicida altruista è energico, appassionato e determinato.
Il suicidio anomico è invece conseguenza di uno stato di irritazione e disgusto. Secondo Durkheim, nelle società moderne l’esistenza sociale non è più regolata da costumi e tradizioni, e gli individui si ritrovano sempre più in situazioni di competizione reciproca. Via via che esigono di più dalla vita – senza riferimento a qualcosa di preciso, ma più di quello che hanno in ogni caso – sono sempre più inclini a patire per il divario tra aspirazioni e soddisfazioni, e lo scontento che ne deriva genera la pulsione suicida. Come scrisse una volta Charles Bukowski, «alla vita chiediamo più di quanto non abbia da darci» e l’inevitabile delusione che ne consegue può essere un’occasione sufficiente per rinunciarvi.31 O, come sostiene Tocqueville a proposito dell’idealismo americano, le gioie imperfette di questo mondo non soddisferanno mai il cuore umano.32 Il suicidio fatalistico, infine, è commesso da chi vive una vita effettivamente infelice senza possibilità di miglioramento: nella tassonomia durkheimiana il suicidio di uno schiavo sarebbe, per esempio, fatalistico.
Le categorie di Durkheim non vengono più utilizzate a scopo clinico, ma costituiscono il fondamento delle principali teorie moderne sul suicidio. Contrariamente alle convinzioni del suo tempo, il sociologo suggerisce che, benché il suicidio sia un atto individuale, le sue radici sono nella società: ogni singolo atto suicida è causato da una psicopatologia, ma le caratteristiche relativamente coerenti della suicidalità psicopatologica sembrano correlate con i costrutti sociali. Il contesto del gesto varia da società a società, ma potrebbe essere che una data percentuale dei membri di tutte le società si uccida. I valori e le usanze di ognuna determinano le cause che condurranno un individuo all’atto, e il luogo in cui questo si verificherà. I soggetti convinti di agire a causa di un trauma specifico, in realtà spesso manifestano una tendenza della società che spinge la gente alla morte.33
Malgrado numerose statistiche insensate complichino lo studio del problema, risulta ugualmente possibile identificare alcune tendenze basilari: i membri delle famiglie in cui si è verificato un suicidio hanno una probabilità maggiore di togliersi la vita, in parte perché il suicidio di un familiare rende concepibile l’inconcepibile, in parte perché il dolore di vivere dopo che un proprio caro si è ucciso può essere insopportabile.34 Una madre il cui figlio si era impiccato mi ha detto: «Mi sento come se mi fossi presa le dita in una porta e il mio urlo fosse rimasto per sempre a metà».
Il fenomeno è anche dovuto alla trasmissione, probabilmente ereditaria, della pulsione suicida. Gli studi condotti sulle adozioni hanno dimostrato che, rispetto a quelli adottivi, i genitori biologici dei suicidi sono più spesso a loro volta suicidi.35 A differenza di quelli dizigoti, i gemelli monozigoti tendono a condividere la suicidalità anche se vengono separati alla nascita e non si conoscono. Possedere un «gene del suicidio» preposto a un’unica funzione non rappresenta di certo un vantaggio evolutivo, ma la combinazione dei geni responsabili della depressione, della violenza, dell’impulsività e dell’aggressività può costituire una mappa genetica in certo qual modo predittiva del comportamento suicida e, nel contempo, utile in determinate situazioni.
Nelle comunità sociali il suicidio genera suicidio: il contagio è innegabile.36 Se un individuo si uccide, spesso verrà imitato dagli amici o dai coetanei, il che è particolarmente comune tra gli adolescenti. I luoghi dei suicidi sono ricorrenti e recano in sé la maledizione di quanti vi sono morti: il ponte Golden Gate di San Francisco, il monte Mihara in Giappone, alcuni tratti delle linee ferroviarie, l’Empire State Building. Di recente si sono verificate vere e proprie epidemie di suicidi a Plano, in Texas, a Leominster, nel Massachusetts, nella contea di Bucks, in Pennsylvania, nella contea di Fairfax, in Virginia, e in numerose altre comunità «apparentemente» normali degli Stati Uniti.
Anche i resoconti pubblici dei suicidi inducono all’emulazione: quando, all’inizio del XIX secolo, apparve il romanzo di Goethe I dolori del giovane Werther, in Europa si scatenò un’ondata di suicidi a imitazione del gesto del protagonista dell’opera.37 Ogniqualvolta i mass media riferiscono la notizia di un suicidio clamoroso, il numero di persone che si tolgono la vita aumenta. Nel periodo immediatamente successivo alla morte di Marilyn Monroe, per esempio, il tasso di suicidi negli Stati Uniti aumentò del 12 per cento.38 Se abbiamo fame e vediamo un ristorante, vi entriamo; analogamente, se abbiamo tendenze suicide e leggiamo di qualcuno che si è ammazzato, abbiamo maggiori probabilità di compiere il passo finale. Sembra dunque chiaro che se diminuissero i resoconti dei casi di suicidi, la percentuale di questi ultimi si ridurrebbe. Oggi anche i migliori programmi di prevenzione finiscono per veicolare tale idea a una popolazione vulnerabile ed è addirittura possibile che aumentino la percentuale di morti.39 Ciò malgrado, conservano la loro utilità perché ci ricordano che l’atto di uccidersi è sovente dovuto a malattie mentali e che queste sono trattabili.
Diversamente da quanto si ritiene comunemente, chi parla di suicidio ha le maggiori probabilità di togliersi la vita. Chi compie un tentativo, lo ripete: non a caso il miglior fattore predittivo di un suicidio sono i tentativi fatti in precedenza.40 Eppure, nessuno considera questo dato con la debita attenzione. Lo studio condotto nel 1999 da Maria Oquendo sui diversi trattamenti disponibili osserva che, malgrado «un’anamnesi positiva per tentato suicidio possa essere utilizzata dai clinici quale indicatore della propensione a compiere ulteriori tentativi in futuro, i pazienti con tale anamnesi non vengono sottoposti a terapie più intensive rispetto agli altri. Non è chiaro se questi pazienti, che a causa di precedenti tentativi di uccidersi presentano un rischio sostanziale di commettere suicidio associato a un disturbo depressivo maggiore, non vengano identificati come tali o non ricevano un trattamento somatico adeguato nonostante il riconoscimento, da parte del clinico, della loro maggiore vulnerabilità».41
Le problematiche esistenziali sono affascinanti, ma la realtà del suicidio non è bella né pura né filosofica: è caotica, terrificante, fisica. Ho sentito paragonare la depressione grave al «morire ogni giorno un po’». Vivere morendo ogni giorno un po’ non è piacevole ma, a differenza della morte definitiva, offre la possibilità di migliorare. La definitività trasforma il suicidio in un problema che, per gravità, supera tutti quelli discussi nel presente libro; la capacità degli antidepressivi di evitarlo andrebbe valutata con estrema attenzione in modo da impiegare i medicinali più adeguati ai singoli casi. I ricercatori hanno difficoltà a monitorare la suicidalità, soprattutto perché tale pulsione non si manifesta in genere nelle dodici settimane di solito richieste per uno studio controllato «a lungo termine».
Di nessun SSRI, la classe di antidepressivi più diffusa al mondo, è mai stata valutata la capacità di prevenire il suicidio. Tra i vari farmaci il litio è quello studiato con maggior rigore:42 il tasso di suicidi tra i pazienti bipolari che cessano di assumerlo aumenta di sedici volte.43 Alcuni medicinali atti ad alleviare la depressione possono aumentare la motivazione a togliersi la vita, poiché aumentano il tono generale: possono, cioè, innescare meccanismi autodistruttivi mentre attenuano il torpore depressivo. È importante distinguere questa proprietà attivante dalla causalità effettiva.
Non credo che i suicidi siano provocati direttamente dai farmaci, a meno che per un determinato periodo il soggetto non abbia manifestato una suicidalità marcata. Ma prima di prescrivere eventuali antidepressivi dall’effetto attivante, sarebbe opportuno effettuare colloqui approfonditi con i pazienti. L’elettroshock è in grado di controllare subito le pulsioni suicide più impellenti o deliranti. Un’indagine ha dimostrato che il tasso di suicidi è nove volte maggiore nei pazienti gravi sottoposti a farmacoterapia che in quelli affetti da disturbi altrettanto gravi ma trattati con terapia elettroconvulsivante.44
Quasi contemporaneamente a Durkheim, Freud suggerì che il suicidio fosse in molti casi un impulso omicida nei confronti di un’altra persona, che il soggetto rivolgeva contro se stesso.45 In epoca più recente lo psicologo Edwin Shneidman ha affermato che esso sia un «omicidio a 180 gradi».46 Secondo Freud l’«istinto di morte» è sempre in equilibrio precario con quello di vita. La sua seduzione è indubbiamente reale ed è certo responsabile di molti suicidi. Freud riteneva che i due istinti fondamentali si combattessero o si combinassero: l’atto di mangiare è una distruzione dell’oggetto allo scopo finale di incorporarlo, e l’atto sessuale è un atto d’aggressione finalizzato all’unione più intima. Così l’azione concomitante e contrapposta dei due istinti fondamentali dà origine all’intera varietà dei fenomeni della vita.47 Il suicidio sarebbe, dunque, la controparte necessaria della volontà di vivere.
Karl Menninger, che ha scritto molto sul tema, sostiene che il suicidio richieda la coincidenza «della volontà di uccidere, del desiderio di essere uccisi e del desiderio di morire».48 Sulla sua scia Chesterton osserva:
L’uomo che uccide un uomo uccide un uomo
L’uomo che uccide se stesso uccide tutti gli uomini
Per quanto lo riguarda, distrugge il mondo.49
Quando affrontiamo gli stress cronici, compito per il quale siamo male attrezzati, facciamo affidamento sui neurotrasmettitori e li sfruttiamo all’eccesso. La scarica di tali sostanze che si verifica in presenza di uno stress improvviso non può essere mantenuta nel caso questo si prolunghi. Per tale ragione gli individui sottoposti a stress cronici esauriscono le riserve di neurotrasmettitori.50 La depressione suicida sembra presentare caratteristiche neurobiologiche peculiari, capaci di indurre comportamenti suicidi o semplicemente di rispecchiare le tendenze suicide.
I tentativi di togliersi la vita sono di solito causati da stress esterni, tra i quali si annoverano il consumo di alcol, la presenza di patologie acute ed eventi esistenziali negativi. La predisposizione individuale al suicidio viene determinata da fattori quali la personalità, la genetica, l’infanzia e l’educazione ricevuta, l’alcolismo o l’abuso di sostanze, le malattie croniche e la colesterolemia.51 Gran parte delle informazioni che possediamo sul cervello suicida proviene da studi autoptici. I suicidi presentano un basso livello di serotonina in alcune aree cerebrali di primaria importanza e un numero eccessivo dei suoi recettori, il che potrebbe indicare un tentativo da parte del cervello di compensarne la scarsità. Il livello di serotonina appare particolarmente basso nelle regioni correlate con le funzioni inibitorie, e tale deficit consentirebbe al soggetto di agire con incredibile impulsività, in base alla propria sfera emozionale.52
I soggetti dotati di un’aggressività incontrollata hanno spesso una carenza di serotonina nelle medesime zone. Gli assassini che uccidono in modo impulsivo e i responsabili degli incendi dolosi presentano un tasso di serotonina inferiore a quello della popolazione generale e, addirittura, a quello degli assassini non impulsivi e di altri criminali.53 Gli esperimenti condotti su animali hanno indicato che i primati con una scarsa percentuale di serotonina hanno maggiori probabilità di correre rischi e di dimostrarsi aggressivi.54
Lo stress può causare sia la distruzione dei neurotrasmettitori sia una produzione eccessiva di enzimi capaci di annientarli. All’esame autoptico i cervelli dei suicidi contengono una minore quantità di noradrenalina, anche se i dati raccolti a questo proposito non sono tanto concordi come quelli sulla serotonina.55 Gli enzimi che scompongono la noradrenalina sono presenti in quantità eccessiva, e le sostanze chimiche necessarie per la funzione adrenalinica sono scarse. Da un punto di vista funzionale ciò significa che i soggetti con livelli bassi di neurotrasmettitori essenziali nelle aree rilevanti presentano un rischio elevato di suicidio: questa è la conclusione a cui è giunto John Mann, uno dei più importanti studiosi del problema, attualmente alla Columbia University.56
Mann ha rilevato tre diversi tassi di serotonina nei pazienti suicidi e grazie a essi Marie Åsberg, del Karolinska Hospital, in Svezia, ha individuato le implicazioni cliniche del fenomeno.57 In uno studio innovativo ha posto sotto osservazione alcuni pazienti che avevano tentato di uccidersi e che possedevano un basso livello di serotonina: il 22 per cento di questi si è suicidato nell’arco di un anno. Indagini condotte in seguito hanno confermato che, se solo il 15 per cento dei depressi si toglie la vita, il 22 per cento dei depressi con carenza di serotonina si uccide.
Dato che lo stress distrugge la serotonina, che la scarsa percentuale di tale sostanza aumenta l’aggressività e che l’aggressività elevata porta al suicidio, non sorprende che la depressione correlata allo stress sia il disturbo che più facilmente induce un malato a uccidersi. Lo stress genera aggressività perché l’aggressività è spesso il miglior modo per affrontare i fattori stressogeni a breve termine. Essa è, tuttavia, aspecifica e, per quanto possa risultare utile per reagire a un assalitore, può essere rivolta contro noi stessi. A quanto si ritiene, l’aggressività è un istinto fondamentale, mentre la depressione e la suicidalità sono tratti cognitivi più sofisticati, sviluppatisi in una fase successiva. In termini evoluzionistici il carattere desiderabile di apprendere un comportamento autoprotettivo è inscindibile da quello indesiderabile di apprendere un comportamento autodistruttivo. La capacità di suicidarsi è un onere implicato dall’autoconsapevolezza, che ci distingue dagli altri animali.
La scarsa quantità di serotonina potrebbe essere determinata da fattori genetici, e il gene che regola il livello dell’enzima triptofano idrossilasi è oggi associato con un tasso elevato di suicidi.58 I geni non solo della malattia mentale, ma anche dell’impulsività, dell’aggressività e della violenza possono, quindi, esporre i soggetti che li possiedono a un alto rischio. Gli esperimenti condotti su scimmie allevate senza la madre hanno dimostrato che l’assenza di quest’ultima abbassa il livello di serotonina in determinate aree cerebrali.59 Pare inoltre probabile che gli abusi subiti in età precoce causino una diminuzione permanente di questa sostanza, aumentando quindi la probabilità che l’individuo si tolga la vita (a parte il problema, del tutto diverso, della depressione cognitiva secondaria a tali abusi).60
L’abuso di sostanze può ridurre ulteriormente la percentuale di serotonina, come pure – fatto questo molto interessante – l’ipocolesterolemia. I danni neurologici determinati a livello fetale dall’alcol o dalla cocaina potrebbero predisporre il bambino ai disturbi disforici capaci di indurlo al suicidio;61 la mancanza di attenzioni da parte materna potrebbe privarlo di un’adeguata stabilità durante lo sviluppo e una dieta scorretta potrebbe comprometterne il cervello.
Gli uomini presentano un tasso inferiore di serotonina rispetto alle donne;62 pertanto, un uomo sottoposto a stress con una predisposizione genetica alla carenza serotoninica, privato dell’affetto materno durante l’infanzia, che abusi di sostanze e che abbia un basso livello di colesterolo costituisce l’identikit perfetto del probabile suicida. I farmaci capaci di aumentare la quantità di serotonina in tali soggetti sarebbero dunque efficaci per prevenire eventuali suicidi. Gli esami scansiografici cerebrali atti a individuare i livelli di attività serotoninica nelle regioni principali del cervello – tecnologia che non esiste ancora ma che dovrebbe essere presto introdotta – potrebbero essere impiegati per valutare le probabilità che un individuo si tolga la vita. Il perfezionamento delle tecniche di imaging cerebrale potrebbe, infine, consentirci di identificare i cervelli dei depressi e di stabilire quali individui siano a maggior rischio di uccidersi.
La strada da percorrere è però ancora lunga. Minimizzare la complessità delle interazioni chimiche che si verificano nel cervello o a livello sinaptico «sarebbe, da parte degli scienziati, un errore rovinoso, l’equivalente, rapportato al XXI secolo, delle antiche idee primitive secondo le quali gli squilibri mentali erano causati dalla stregoneria o da un eccesso di fosforo e vapori» scrive Kay Jamison nel suo magistrale libro sul suicidio.63
Il tasso di suicidi può essere controllato intervenendo sui fattori esogeni: là dove è più difficile procurarsi armi e barbiturici, esso risulta considerevolmente minore.64 La tecnologia moderna ha reso il suicidio più facile e meno doloroso di un tempo, il che è molto pericoloso. Quando l’Inghilterra trasformò il servizio di fornitura del gas passando dal letale gas da coke al gas naturale, meno tossico, la percentuale di suicidi calò di un terzo: il numero annuale di suicidi con il gas scese da 2368 a 11.65 Nei casi di suicidio impulsivo la mancanza di strumenti utilizzabili per togliersi la vita consentirebbe ai soggetti di liberarsi della pulsione senza tragiche conseguenze.
Gli Stati Uniti sono l’unico paese al mondo in cui le armi rappresentano il mezzo principale per uccidersi: ogni anno muoiono più americani per mano propria che assassinati. I dieci Stati che esercitano il minor controllo sulle armi da fuoco presentano un tasso di suicidi doppio rispetto a quello dei dieci Stati con le leggi più rigorose in materia. «Una pistola carica stimola positivamente l’idea del suicidio nel possessore» dichiarò David Oppenheim alla conferenza della Società psicanalitica viennese del 1910.66 Nel 1997 circa diciottomila americani hanno risposto a tale stimolo, togliendosi la vita, per l’appunto, con armi da fuoco.67 Le tecniche possono, tuttavia, variare per luogo, età e situazione. In Cina una percentuale molto elevata di donne si uccide ingerendo pesticidi e fertilizzanti tossici, sostanze che risultano prontamente disponibili nel paese.68 Nel Punjab, in India, più della metà dei suicidi si getta sotto i treni.69
Il suicidio è spesso manifestazione di un’estremità dello spettro dei disturbi maniaco-depressivi, il che spiega l’alto tasso di suicidi tra le persone di grande successo. È anche vero che queste ultime si pongono standard molto ambiziosi e sono quindi più esposte alle delusioni, malgrado gli importanti risultati ottenuti. L’autoanalisi e l’abitudine a meditare possono portare a togliersi la vita, evento più frequente tra gli artisti, gli individui creativi e gli uomini d’affari: in tal caso le stesse qualità che conducono al successo sembrerebbero condurre al suicidio. Scienziati, compositori e top manager hanno una probabilità cinque volte maggiore di togliersi la vita rispetto alla popolazione generale. Gli scrittori, soprattutto i poeti, hanno un tasso di suicidio ancor più elevato.70
Circa un terzo di tutti i suicidi e un quarto dei tentati suicidi sono commessi da etilisti.71 Chi tenta di ammazzarsi sotto l’influenza dell’alcol o degli stupefacenti ha una maggiore probabilità di riuscire nel suo intento rispetto agli individui sobri. Il 15 per cento degli alcolisti gravi si toglie la vita. Karl Menninger ha definito l’etilismo «una forma di autodistruzione usata per prevenirne una ancora peggiore».72 In alcuni casi la capacità autodistruttiva genera autodistruzione.
Premunirsi non è semplice. Quando ero gravemente depresso, andai da uno psichiatra nella speranza di iniziare una terapia: questi mi disse che mi avrebbe accettato come paziente se gli avessi promesso di non suicidarmi durante il trattamento. Era come se uno specialista di malattie infettive accettasse di trattare un tubercolotico a condizione che non tossisse più. Non credo che quell’atteggiamento fosse frutto solo di ingenuità.
Un giorno, mentre rientravo in aereo da una conferenza sul brain imaging, fui coinvolto in una conversazione col mio vicino di posto che mi aveva visto sfogliare un testo sulla depressione e che mi confessò di essere interessato all’argomento delle mie letture giacché anch’egli era stato colpito dal disturbo. Chiusi il libro e ascoltai la sua storia. Era stato ricoverato due volte per depressione grave e sottoposto a farmacoterapia per un certo periodo; dal momento che si sentiva guarito, l’aveva interrotta, e aveva cessato anche la psicoterapia perché era riuscito a elaborare i problemi che in passato lo avevano afflitto. Era stato arrestato due volte per possesso di cocaina e aveva scontato una breve condanna in carcere. Non aveva un profondo legame con i genitori, e la sua fidanzata non sapeva nemmeno che avesse sofferto di depressione.
Erano circa le dieci e mezzo del mattino e aveva già ordinato un whisky con ghiaccio alla hostess. Con la massima delicatezza possibile gli chiesi se raccontasse spesso le sue vicende agli sconosciuti. Ammise di farlo ogni tanto, perché trovava più facile parlare con loro che con chi conosceva, poiché in tal modo non si sentiva giudicato. Ma non parlava con chiunque, mi disse: doveva provare una certa empatia, individuare la persona giusta. Aggiunse che nei miei confronti aveva percepito quell’intesa non appena si era seduto accanto a me.
Impulsività. Avventatezza. Gli domandai se avesse mai preso multe per eccesso di velocità. Lui restò sbalordito e mi chiese se fossi un sensitivo. Poi ammise che gli capitava spesso e mi spiegò che proprio per quella ragione gli avevano sospeso la patente per un anno.
Se fossi stato reduce da un congresso di cardiologia e mi fossi trovato seduto accanto a un obeso che fumasse come una ciminiera, mangiasse quintali di fette imburrate e si lamentasse di un dolore al petto e al braccio sinistro, lo avrei probabilmente avvisato del rischio che correva. Dire a qualcuno che corre il rischio di ammazzarsi è più difficile. Girai attorno al problema, consigliai al mio nuovo amico di riprendere i farmaci e di tenersi in contatto con lo psichiatra, in caso avesse avuto una recidiva. Eppure, le convenzioni sociali mi impedirono di avvertirlo che, malgrado si sentisse bene, era un candidato perfetto al suicidio e che doveva quindi prendere i provvedimenti del caso.
I modelli animali sono inadeguati per quanto concerne il suicidio, perché gli animali non sono consapevoli, si presume, della loro mortalità e non sono capaci di ricercare la morte. Non si può desiderare ciò che non si conosce: il suicidio è il prezzo che l’uomo paga per l’autocoscienza, sentimento che non esiste in una forma simile nelle altre specie.
Gli animali possono, tuttavia, ferirsi volutamente, cosa che fanno spesso se sottoposti a situazioni estreme. In condizioni di sovraffollamento i ratti si morsicano a vicenda la coda;73 le scimmie rhesus allevate senza la madre iniziano ad autoferirsi all’età di cinque mesi, comportamento che permane per tutta la vita, anche qualora vengano inserite in un gruppo. Come già ricordato, tali scimmie presentano un livello di serotonina inferiore alla norma nelle aree cerebrali rilevanti: ancora una volta biologia e sociologia appaiono, quindi, strettamente correlate.74 Mi colpì il suicidio di un polpo, addestrato in un circo a compiere vari esercizi per i quali riceveva un po’ di cibo come ricompensa. Quando il circo si sciolse, il polpo venne tenuto in una vasca e nessuno prestò più attenzione a ciò che faceva. L’animale perse a poco a poco il colore (così i polpi esprimono il loro stato d’animo); infine, un giorno, ripeté per l’ultima volta il suo numero e poi si ferì col becco fino a uccidersi.75
Studi recenti su modelli umani hanno rilevato una stretta associazione tra suicidio e morte dei genitori.76 Un’indagine, in particolare, ha suggerito che tre quarti dei suicidi vengono commessi da individui traumatizzati nell’infanzia dal decesso di una persona cara, quasi sempre un genitore. L’incapacità di elaborare tale perdita in una fase iniziale della vita conduce a un’incapacità di elaborare la perdita in generale. I giovani che restano orfani di un genitore interiorizzano spesso il senso di colpa, a danno dell’autostima. Possono, inoltre, perdere il senso della costanza della realtà: se il genitore da cui dipendono in misura tanto considerevole può scomparire da un giorno all’altro, com’è possibile confidare in qualsiasi altra cosa? Le statistiche potrebbero anche essere esagerate, ma è chiaro che, quanto maggiori sono le perdite subite da un soggetto, tanto più elevata è la probabilità che questi, a parità di condizioni, si autodistrugga.
Il suicidio è molto diffuso tra i giovani. Negli Stati Uniti circa cinquemila ragazzi tra i diciotto e i ventiquattro anni si tolgono la vita ogni anno e almeno ottantamila tentano di farlo. Un americano su seimila di età compresa tra i venti e i ventiquattro anni si uccide. Il suicidio diventa sempre più frequente tra i più giovani, e rappresenta la terza causa di morte per gli americani fra i quindici e i ventiquattro anni.77
Le opinioni sulle cause del fenomeno divergono. «Per spiegare quest’epidemia di suicidi tra i giovani, sono state avanzate molteplici spiegazioni: il crollo dei valori morali, la crisi della famiglia nucleare, le pressioni del sistema scolastico, dei coetanei e dei genitori, il lassismo di padri e madri, gli abusi infantili, la droga, l’alcol, l’ipoglicemia, la TV, MTV, la musica (rock, punk o heavy metal, a seconda del decennio), la promiscuità, la scarsa osservanza religiosa, l’aumento della violenza, il razzismo, la guerra del Vietnam, la minaccia nucleare, i media, la mancanza di radici, l’aumento del benessere, la disoccupazione, il capitalismo, l’eccessiva libertà, la noia, il narcisismo, il Watergate, il disinganno nei confronti delle istituzioni, l’assenza di eroi, i film sul suicidio, l’eccesso di dibattiti sul suicidio o la carenza di dibattiti sul suicidio» dice George Howe Colt.78
Gli adolescenti che nutrono grandi aspettative accademiche talora si uccidono se hanno una resa inferiore allo standard che si sono posti o che i genitori hanno loro imposto. Il suicidio è, in effetti, più comune tra agli adolescenti che mirano a conseguire importanti risultati che tra quelli meno ambiziosi.79 Le variazioni ormonali della pubertà e degli anni immediatamente successivi sono anch’essi fattori fortemente predisponenti al suicidio.
Gli adolescenti che si tolgono la vita sono stati, in molti casi, protetti dalla visione dello squallore della morte.80 Molti sembrano ritenere che l’evento non rappresenti la fine della coscienza. In una scuola in cui si è verificata un’epidemia di suicidi, un ragazzo, che poi si è tolto la vita, aveva dichiarato di trovare strano il fatto di essere vivo quando il suo amico era morto. In una cittadina groenlandese che visitai nel 1999 si verificò una strana serie di decessi a catena: il suicidio di uno studente ne innescò un’altra dozzina. Uno dei compagni affermò, prima di uccidersi, che sentiva la mancanza dell’amico morto: sembrava quasi che si suicidasse per raggiungerlo.
È facile che i soggetti più giovani credano che un tentativo di suicidio non porti alla morte e usino il gesto come uno strumento punitivo nei confronti degli altri. Come soleva cantilenarmi la mamma quando ero piccolo, parodiando i miei atteggiamenti: «Mangerò i vermi e morirò. Ti dispiacerà di essere stato cattivo con me e ti mancherò». Atti simili, per quanto dettati da un intento manipolativo, sono quanto meno una chiara richiesta d’aiuto. I giovani che sopravvivono a un tentato suicidio meritano la nostra affettuosa attenzione: i loro problemi sono indubbiamente seri e anche se possiamo non comprendere i loro perché dobbiamo accettarli come tali.
Malgrado l’allarmante picco di suicidi registrato tra gli adolescenti, il tasso più elevato di morti per mano propria si rileva tra gli uomini ultrasessantacinquenni: nel sottogruppo dei maschi di razza bianca di età superiore agli ottantacinque anni il tasso è di un suicida ogni duemila anziani.81 Sempre più spesso, purtroppo, il suicidio di un anziano viene ritenuto meno penoso di quello di un giovane. Eppure, una disperazione tale da condurre alla morte è in ogni caso devastante, indipendentemente da chi ne sia vittima.
Che ogni giorno della vita ci avvicini un po’ di più alla morte, è vero, ma che ogni giorno renda la nostra distruzione più accettabile è un cinica distorsione. Tendiamo a supporre che il suicidio di un anziano sia razionale, mentre in realtà è spesso conseguenza di un disturbo mentale non trattato. Chi è avanti con gli anni ha di solito una visione della morte molto complessa: se gli adolescenti si suicidano per sfuggire alla vita in nome di una nuova esperienza, gli anziani considerano in genere la morte la condizione finale. E sanno ciò che fanno: in questa fascia della popolazione i tentativi falliti sono molto più rari di quanto non lo siano tra i giovani. Gli anziani ricorrono a metodi più letali e non comunicano di solito in anticipo la loro intenzione.82 Gli uomini divorziati o vedovi presentano il tasso più elevato di tutti.83 Essi ricercano di rado l’aiuto di un professionista per controllare la depressione e, in molti casi, accettano i sentimenti negativi come conseguenza della loro emarginazione.
Al di là dei suicidi espliciti, molti anziani adottano strategie a lungo termine per uccidersi: scelgono, cioè, di non nutrirsi, di non curarsi, di lasciarsi andare prima ancora che il corpo ceda. Dopo la pensione diventano apatici, spesso abbandonano anche le attività ricreative per problemi finanziari o di status sociale e si isolano. Via via che sviluppano forme particolarmente gravi di depressione, con problemi motori, ipocondria e paranoia, vanno incontro a un rapido decadimento fisico.84 Almeno metà dei depressi in età senile presenta disturbi organici in parte immaginari che, nel periodo precedente il suicidio, avverte come molto più debilitanti di quanto in verità non siano.85
Il suicidio è cronicamente sottostimato, in parte perché alcuni «mascherano» il loro gesto, in parte perché chi resta spesso non ammette la realtà dei fatti. La Grecia ha uno dei tassi di suicidio più bassi del mondo, il che è dovuto non solo al clima soleggiato e allo stile di vita sereno del paese, ma anche al fatto che, in base ai dogmi della Chiesa greca, i suicidi non possono essere sepolti in terra consacrata, ragione che spinge molti parenti a non denunciare il gesto. Le società in cui è più forte il senso di vergogna per l’atto di uccidersi presentano una minor percentuale ufficiale di suicidi.
Vi sono inoltre i cosiddetti suicidi inconsci, ossia quelli di persone che vivono in modo sconsiderato e finiscono per morirne, forse per una lieve tendenza suicida, forse per semplice spavalderia. La linea tra autodistruttività e suicidio, così come viene inteso dalla Chiesa greca, può apparire incerta. Chi corre incontro alla sua rovina senza un’ovvia ricompensa è un protosuicida. Alcune religioni differenziano l’autodistruzione attiva da quella passiva: smettere di alimentarsi nelle ultime fasi di una malattia terminale può essere ammissibile, prendere un’overdose di pillole è peccato. In un modo o nell’altro, il suicido è molto più frequente di quanto non si pensi.86
I metodi per suicidarsi sono straordinariamente vari. Kay Jamison descrive alcune tecniche bizzarre, come bere acqua bollente, infilarsi un manico di scopa in gola, conficcarsi aghi da rammendo nell’addome, ingoiare cuoio e ferro, gettarsi in un vulcano, infilarsi la coda di un tacchino in gola, ingerire dinamite, carboni ardenti, biancheria intima o lenzuola, strangolarsi con i propri capelli, forarsi il cranio con un trapano elettrico, camminare nella neve senza coprirsi, mettere il collo in una morsa, organizzare un’autodecapitazione, iniettarsi burro d’arachidi o maionese in vena, schiantarsi con un aereo contro un monte, applicarsi una vedova nera alla pelle, annegarsi nei tini dell’aceto, soffocarsi in un frigorifero, bere acido, ingoiare petardi, applicarsi sanguisughe al corpo, strangolarsi col rosario.87 Negli Stati Uniti i mezzi più usati sono quelli più comuni: armi da fuoco, farmaci, impiccagione e lancio nel vuoto.
Non sono incline a fantasie suicide irrefrenabili, ma penso spesso al suicidio: la sua idea non mi abbandona mai nei momenti più cupi, ma tende a fluttuarmi nella mente ammantata d’irrealtà, come la visione che un bimbo ha della vecchiaia. So quando la situazione peggiora perché i tipi di suicidio che immagino si fanno più vari e anche più violenti. Nelle mie fantasie le pillole rimangono relegate nel cassetto e la pistola nella cassaforte. Divago invece sulla possibilità di tagliarmi i polsi con le lamette del rasoio di sicurezza o, meglio ancora, con un coltello. Sono anche arrivato al punto di saggiare una trave per vedere se avrebbe retto il mio cappio. Mi concentro sulla tempistica: quando potrò essere solo in casa, a che ora potrei mettere in atto il piano. Se questo stato d’animo mi coglie mentre sono al volante, mi focalizzo sui dirupi. Poi penso agli airbag e alla possibilità di coinvolgere qualcun altro: tutto troppo complicato per me.
Si tratta di fantasie, anche se realistiche e talora molto dolorose, che finora sono rimaste tali. Ho messo in atto comportamenti avventati, che potrebbero essere definiti parasuicidi, e ho desiderato spesso di morire; nelle fasi più disperate mi sono trastullato con tale pensiero, proprio come in quelle più felici accarezzavo l’idea di imparare a suonare il piano. Ma l’impulso non è mai diventato incontrollabile né si è mai trasformato in un progetto fattibile. Volevo distaccarmi dalla vita, non strappare il mio essere dall’esistenza.
Se le mie depressioni fossero state più gravi o più lunghe, la mia determinazione sarebbe forse stata maggiore. Tuttavia non credo che sarei arrivato a uccidermi se non quando avessi percepito la mia situazione come davvero irreversibile. Per quanto plachi le sofferenze contingenti, il suicidio viene in genere compiuto per evitare sofferenze future: io ho ereditato il profondo ottimismo dei miei avi paterni e, per ragioni che potrebbero essere puramente biochimiche, i sentimenti negativi, per quanto insopportabili, non mi sono mai apparsi immutabili.
Ciò che ricordo è la curiosa sensazione di non avere futuro, sopraggiunta nei momenti più gravi della depressione: quando, per esempio, decollavo con un piccolo aereo da turismo, mi sentivo del tutto rilassato a sproposito, poiché non m’importava se l’apparecchio sarebbe riuscito a decollare e portami a destinazione o se invece si sarebbe schiantato. Quando ne avevo l’occasione, correvo sciocchi rischi: ero pronto a ingerire veleni, nonostante non avessi la tendenza a procurameli e a preparali. Uno dei miei intervistati, con alle spalle numerosi tentativi di suicidio, mi ha detto che, se non mi sono mai tagliato i polsi, significa che non sono mai stato veramente depresso. Ho preferito non dar seguito alla competizione, ma devo sottolineare di aver conosciuto persone che, pur non avendo mai cercato di uccidersi, hanno sofferto profondamente.
Nella primavera del 1997 mi lanciai per la prima volta col paracadute, in Arizona. Il paracadutismo viene spesso ritenuto un’attività parasuicida e in effetti, se fossi morto durante un lancio, i miei familiari e amici avrebbero associato l’evento al mio stato. Eppure, come credo avvenga per molti atti parasuicidi, non lo vissi come tale, ma come un’affermazione di vitalismo. Lo facevo perché mi piaceva immensamente sapere di essere capace di farlo. Nello stesso tempo, giacché accarezzavo l’idea del suicidio, potevo abbattere alcune barriere che si frapponevano tra me e l’autoannientamento. Quando mi lanciavo non volevo morire, ma non provavo più il timore della morte che avvertivo prima di ammalarmi.
Da allora mi sono lanciato più volte e il piacere che mi ha procurato il mio coraggio, dopo tanto tempo trascorso nella morsa della paura irrazionale, è enorme. Ogni volta, davanti al portello dell’aereo, sento la scarica di adrenalina scatenata da un’ondata di paura vera, paura che, come il dolore vero, è preziosa per la sua autenticità. Mi ricorda di che cosa sono fatte realmente quelle sensazioni.
Poi arrivano la caduta libera, lo spettacolo di un territorio vergine, la sensazione del vuoto, la bellezza e la velocità mozzafiato. Infine la meravigliosa scoperta che, dopo tutto, il paracadute c’è. Quando si apre, le correnti ascensionali bloccano all’improvviso la caduta, e mi ritrovo a salire sempre più su, allontanandomi dalla terra, come se un angelo fosse arrivato all’improvviso in mio soccorso e mi portasse verso il sole. Poi inizio di nuovo a scendere, lentamente, in un mondo di silenzio, multidimensionale. È splendido scoprire che il destino a cui ci siamo affidati si è meritato la nostra fiducia. È stata una gioia scoprire che il mondo riesce a tollerare i miei incauti esperimenti, sentire che, anche quando cado, mi tiene stretto.
Presi dolorosamente coscienza del suicidio all’età di nove anni. Il padre di un compagno di scuola di mio fratello si era ucciso, e a casa discutemmo dell’accaduto. L’uomo si era alzato in piedi davanti ai suoi cari, aveva pronunciato poche parole e si era gettato dalla finestra. La moglie e i figli non avevano potuto far altro che guardare con orrore il suo corpo esanime, molti piani più sotto. Mia madre commentò che alcune persone hanno problemi irrisolvibili e che possono arrivare al punto di non sopportare più di vivere. Aggiunse che bisognava essere forti per sopravvivere. Mi sfuggì però l’orrore di ciò era successo: il fatto sembrava lontano, strano, perfino morboso.
Al secondo anno delle superiori uno dei miei insegnanti preferiti si ammazzò sparandosi alla testa. Lo trovarono in macchina con accanto una Bibbia aperta. La polizia la richiuse senza annotare il numero della pagina. Ricordo di averne parlato a cena. Non avevo ancora perso nessuno di veramente caro, perciò il fatto che quell’uomo fosse morto suicida non mi colpì tanto quanto avrebbe fatto in seguito. Per la prima volta mi trovavo di fronte alla morte. Ci dicemmo che nessuno avrebbe mai saputo a che pagina era stata aperta la Bibbia, e il mio spirito letterario soffrì più per quel particolare della morte che per la morte stessa.
Quando ero matricola al college, una ragazza amica di miei amici si gettò da un edificio. Non la conoscevo di persona, ma sapevo che aveva vissuto una serie di delusioni amorose di cui ero in parte responsabile, e mi sentii in colpa per la sua morte.
Alcuni anni dopo aver finito il college, seppi del suicidio di un conoscente: si era scolato una bottiglia di vodka, si era tagliato i polsi e poi, evidentemente insoddisfatto della lentezza con cui si dissanguava, era salito sul tetto del suo palazzo, a New York, e si era buttato giù.
Quella volta rimasi sconvolto. Era un uomo intelligente, gentile e di bell’aspetto, di cui a volte ero stato geloso. A quel tempo scrivevo per il giornale locale. Lui ne acquistava una copia appena usciva di casa, in un’edicola aperta tutta la notte, e se trovava un mio pezzo era il primo a chiamarmi e a congratularsi. Non eravamo amici intimi, ma ricorderò sempre le sue telefonate, e quel tono di stupore vagamente inopportuno che caratterizzava le sue lodi. Talora mi rivelava con una vena di tristezza di non sentirsi sicuro della sua carriera, mentre, a suo avviso, io sapevo ciò che volevo. Fu l’unica nota malinconica che captai in lui: per il resto lo ricordo come un uomo allegro. Amava le feste, sapeva organizzarle molto bene, e conosceva persone interessanti. Perché un tipo simile avrebbe dovuto tagliarsi i polsi e buttarsi dal tetto? Il suo psichiatra, che lo aveva incontrato solo il giorno prima, non seppe dare spiegazioni. Ma c’era davvero un perché?
All’epoca, credevo ancora che il suicidio avesse una logica, seppure deviata. Ma non è così. «Perché devono sempre trovare una “ragione”?» scrive Laura Anderson, che ha lottato con una forma depressiva acuta. La motivazione fornita è di rado sufficiente a spiegare l’evento; è compito degli analisti e dei buoni amici andare alla ricerca di indizi, cause e categorie. L’ho imparato dopo aver letto gli elenchi dei suicidi. Le liste sono lunghe e penose, come quelle sul monumento ai veterani del Vietnam (durante quella guerra si contarono più morti suicidi che in battaglia).
Molti avevano subito un trauma acuto poco prima di togliersi la vita: il tradimento del coniuge, l’abbandono dell’innamorato, la perdita del compagno ammalato, il fallimento finanziario, un grave incidente d’auto. Qualcuno, un giorno, si era semplicemente alzato e aveva deciso di non voler restare sveglio, qualcun altro detestava il venerdì sera. Tutti costoro si sono uccisi perché avevano tendenze suicide, non perché quel gesto fosse l’ovvia conclusione di un ragionamento. Se la medicina insiste nel sostenere che c’è sempre una correlazione fra malattia mentale e suicidio, i rotocalchi scandalistici sembrano suggerire il contrario.
Scovare le cause dei suicidi ci dà sicurezza. È la versione più estrema di quella stessa logica, secondo cui la depressione acuta è la conseguenza del fattore che la scatena. In quest’ambito i confini sono labili. Quanto forte deve essere il nostro impulso per spingerci a tentare il suicidio, e quanto per indurci a commetterlo? E a che punto l’intenzione si trasforma in azione? Il suicidio può senza dubbio (come sostiene l’OMS) essere un «atto suicida dall’esito fatale»,88 ma quali sono le motivazioni consce e inconsce che portano a tale esito?
I comportamenti ad alto rischio, come esporsi deliberatamente all’HIV, scatenare la furia omicida altrui o restare all’aperto durante una bufera di neve, sono spesso parasuicidi. I tentativi di togliersi la vita vanno dai gesti consci, mirati e deliberati fino alle azioni solo vagamente autodistruttive. Kay Jamison sostiene che l’ambivalenza satura l’atto suicida.89 «Le scuse portate da un suicida sono solo incidentali. Nel migliore dei casi servono a mitigare il senso di colpa di chi rimane, consolare i benpensanti e incoraggiare i sociologi nella loro ricerca continua di categorie e teorie convincenti. Sono come un banale incidente di frontiera che fa scoppiare una guerra di enormi proporzioni. I veri motivi che spingono un uomo a togliersi la vita sono altrove; appartengono al mondo interiore, tortuoso, contraddittorio, labirintico e perlopiù fuori dalla portata degli altri» osserva Alvarez.90
I giornali parlano spesso di «problemi personali» o di «malattia incurabile». Secondo Camus, tali spiegazioni sono plausibili. Ma bisognerebbe sapere se, quel giorno, un amico di quell’uomo disperato non l’abbia trattato con indifferenza. Lui è il colpevole. Perché il suo comportamento basterà a precipitare tutti i rancori e tutta la noia che erano rimasti in sospeso.91
Julia Kristeva descrive l’assoluta causalità della tempistica: «Un tradimento, una malattia letale, un incidente o un handicap che mi strappa all’improvviso da quella che mi sembrava la categoria delle persone normali o colpisce qualcuno che mi è caro con lo stesso effetto radicale o ancora… Che altro potrei citare? Ogni giorno veniamo schiacciati da un’infinità di sciagure».92
Nel 1952 Edwin Shneidman aprì il primo centro per la prevenzione del suicidio a Los Angeles, e tentò di elaborare strumenti pratici (piuttosto che teorici) per comprendere il fenomeno. In quest’ottica suggerì che il suicidio fosse causato dalla frustrazione affettiva, dalla perdita del controllo, dalla crisi dell’autostima, dal dolore e dalla rabbia. «È quasi come se il dramma del suicidio si scrivesse da solo, come se l’opera avesse una mente autonoma. Dovrebbe metterci in guardia il fatto che, finché l’uomo sarà capace di dissimulare, consciamente o inconsciamente, nessun programma di prevenzione del suicidio potrà essere efficace al cento per cento.»93 Proprio a tale dissimulazione si riferisce Kay Jamison quando osserva che la riservatezza della mente è una barriera impenetrabile.94
Alcuni anni fa un altro dei miei ex compagni di college si uccise. Era sempre stato un tipo strano e il suo suicidio fu, in un certo senso, più facile da spiegare. Poche settimane prima che si togliesse la vita ricevetti un suo messaggio: mi proposi di richiamarlo e di invitarlo a pranzo. Quando seppi della sua morte, ero con amici comuni. Avevo chiesto sue notizie perché un accenno me l’aveva ricordato: rimasero tutti stupiti dal fatto che non sapessi nulla e mi dissero che si era impiccato un mese prima. Per qualche strana ragione l’immagine dell’impiccagione è per me la peggiore: riesco a figurarmi il mio amico che si taglia i polsi o si butta nel vuoto, ma non mentre penzola da una trave come un pendolo. La mia mente la rifiuta. So che la mia telefonata e l’invito a pranzo non l’avrebbero salvato da se stesso, ma il suicidio genera un senso di colpa generale, e non riesco a non pensare che, se l’avessi incontrato, avrei colto un segno e che, grazie a quell’indizio, avrei potuto fare qualcosa.
Tempo dopo si uccise il figlio di un socio di mio padre, poi il figlio di un amico di papà, poi ancora due miei conoscenti. Numerosi amici di amici si tolsero la vita e, mentre scrivevo questo libro, venni a sapere di molte persone che avevano perso in tal modo fratelli, figli, innamorati e genitori. È possibile individuare le vie che hanno condotto un individuo al suicidio, ma i processi mentali che accompagnano quell’istante, quello scatto necessario a compiere l’atto finale, restano incomprensibili, spaventosi e tanto insoliti da generare la sensazione di non aver mai conosciuto veramente la persona che si è uccisa.
Durante la stesura del libro ebbi notizia di diversi suicidi, in parte per la realtà con cui ero entrato in contatto, in parte perché, a causa delle mie ricerche, varie persone si rivolgevano a me come se potessi dispensar loro pareri saggi e illuminati, cosa di cui ero del tutto incapace. Un’amica diciannovenne, Chrissie Schmidt, mi telefonò sconvolta quando uno dei suoi compagni di classe di Andover si impiccò nella tromba delle scale del dormitorio maschile. Il ragazzo era stato eletto responsabile della classe, ma dopo essere stato sorpreso a bere alcolici (a diciassette anni) era stato rimosso dall’incarico. Il discorso con cui si era dimesso aveva fatto molta impressione e suscitato simpatia. Subito dopo il ragazzo si era tolto la vita.
Chrissie lo conosceva solo di sfuggita, ma per la sua grande popolarità quel giovane sembrava appartenere a un mondo quasi magico, da cui lei stessa si sentiva a volte esclusa. «Dopo circa un quarto d’ora di sbigottimento» diceva Chrissie nella sua e-mail «sono scoppiata in lacrime. Credo di aver provato più sentimenti tutti insieme: tristezza indicibile per quella vita stroncata volontariamente così presto, rabbia nei confronti della scuola, un ambiente di una mediocrità soffocante, che aveva fatto di un po’ d’alcol una questione di Stato e un pretesto per far mostra di un’inutile severità, e forse, soprattutto paura che, a un certo punto, potessi anch’io essere capace di impiccarmi nella tromba delle scale del dormitorio.
«Perché non ho conosciuto prima quel ragazzo? Perché mi sentivo l’unica persona depressa e infelice quando il ragazzo più popolare della scuola provava molti dei miei stessi sentimenti? Perché mai nessuno ha notato che si portava addosso un simile peso? Tante volte me ne sono stata distesa in camera, al secondo anno, disperatamente triste e sconcertata dal mondo che mi circondava e dalla vita che vivevo… eppure sono qui. So che non avrei fatto quell’ultimo passo. Davvero. Ma sono arrivata molto vicino a includerlo nella gamma di possibilità. Che cos’è – coraggio? malattia? solitudine? – che spinge un uomo a superare quell’ultimo, fatale limite, quando la vita diviene qualcosa che si è disposti a perdere?»
Il giorno dopo Chrissie aggiunse: «La sua morte solleva e mette in luce tutti gli interrogativi irrisolti. Il fatto che debba pormeli e che non troverò mai risposta mi appare ora immensamente triste». Questa è, in sostanza, la catastrofe del suicidio per chi resta: non solo la perdita di qualcuno, ma anche la perdita della possibilità di convincere quella persona ad agire in modo diverso, la perdita della possibilità di stabilire un contatto. Con nessuno più che con un suicida si desidererebbe creare un contatto. «Se solo avessimo saputo» è la frase più ricorrente tra i genitori di un ragazzo suicida, padri e madri che si tormentano alla ricerca del gesto affettuoso non fatto, della frase non detta cui imputare quella inaspettata tragedia.
Ma non c’è nulla da dire, nulla che possa mitigare la solitudine dell’autoannientamento, come emerge dalla dolorosa testimonianza di Kay Jamison, che ha tentato di uccidersi in un momento di totale sconvolgimento non solo umorale, ma anche mentale. «Nessun amore degli altri per me – e ne avevo davvero moltissimo – avrebbe potuto aiutarmi. Nessun vantaggio, fra tutti quelli derivanti dall’avere una famiglia affettuosa e uno splendido lavoro, bastava a superare il dolore e la disperazione da cui ero invasa; nessun amore romantico e appassionato, per quanto intenso, avrebbe potuto fare la differenza. Nulla che fosse vivo o caldo poteva penetrare il mio carapace. Sapevo che la mia vita era un caos ed ero convinta – incontestabilmente – che la mia famiglia, i miei amici e i miei pazienti sarebbero stati di gran lunga meglio senza di me. Di me, comunque, non restava più molto, e pensavo che la mia morte avrebbe liberato tutte le energie sprecate e gli sforzi bene intenzionati che venivano gettati al vento per me.»95 Non è raro ritenersi un peso per gli altri. Un uomo che si è tolto la vita ha scritto nel suo biglietto di commiato: «Ci ho riflettuto, e ho deciso che avrei ferito amici e parenti più da vivo che da morto».96
Quando sono profondamente infelice non penso al suicidio, ma durante le crisi depressive mi può capitare di essere travolto dalla banalità del quotidiano e di provare sentimenti ridicoli. Così, in cucina, guardo senza forze il mucchio di piatti sporchi e mi chiedo se non farei meglio a uccidermi. Oppure, mentre sta per arrivare il treno, mi domando se non dovrei buttarmici sotto. Dovrei farlo o no? Prima che io mi decida, il treno è già arrivato in stazione. Pensieri simili sono come sogni a occhi aperti: ne percepisco l’assurdità, ma so che ci sono. In quei momenti non desidero la morte né la violenza, eppure, in modo alquanto grottesco, il suicidio sembra semplificare le cose. Se mi uccidessi, non dovrei riparare il tetto, tagliare l’erba o farmi un’altra doccia. E per giunta, nemmeno pettinarmi i capelli. Parlando con persone affette da tendenza suicida acuta mi sono convinto che proprio questa sensazione – piuttosto che il senso di profonda disperazione sperimentato nei momenti peggiori – sia molto simile alla molla che spinge al suicidio. È la percezione improvvisa di una via d’uscita. Non è un sentimento di melanconia, per quanto possa manifestarsi in un contesto triste.
Conosco bene anche il desiderio di uccidere la depressione, e la consapevolezza di non poterlo fare se non uccidendo il sé che ne è colpito. La poetessa Edna St. Vincent Millay scrive:
E devo, allora, Dolore, vivere con te
Per tutta la vita? Condividere il mio focolare, il mio letto,
Condividere – oh, la peggior cosa di tutte! – la stessa testa?
E, quando mi nutro, nutrire anche te?97
Alimentare la propria infelicità può diventare troppo faticoso, e il tedio dell’impotenza, il fallimento del distacco possono condurci al punto in cui uccidere il dolore ha più importanza che salvare noi stessi.
Per il mio libro ho intervistato numerosi sopravvissuti a un tentato suicidio, ma sono rimasto colpito in particolare da una persona. La incontrai in ospedale il giorno dopo il fallito tentativo. Era un uomo di successo, simpatico e felicemente sposato, chef in un noto ristorante. Aveva sofferto di depressione a fasi alterne e circa due mesi prima aveva interrotto la farmacoterapia nella convinzione di star bene. Non aveva informato nessuno del suo proposito, ma per qualche settimana aveva ridotto a poco a poco le dosi prima di cessare del tutto il trattamento. Per alcuni giorni si era sentito bene, poi aveva cominciato a nutrire, in modo chiaro e ripetitivo, pensieri suicidi, del tutto slegati dagli altri sintomi depressivi. Aveva continuato a lavorare, ma la sua mente tornava sempre all’idea di togliersi la vita. Alla fine aveva deciso, in base a quello che riteneva un valido motivo, che il mondo sarebbe stato migliore senza di lui. Chiuse alcune questioni rimaste in sospeso e diede disposizioni affinché dopo la sua morte tutto potesse continuare come prima.
Poi, un pomeriggio, quando gli sembrò giunto il momento opportuno, trangugiò due flaconi di paracetamolo. A metà impresa telefonò alla moglie, in ufficio, per dirle addio, certo che avrebbe compreso il suo ragionamento e concordato con lui. All’inizio la donna non capì se si trattasse di uno scherzo, ma non impiegò molto a rendersi conto che il marito faceva sul serio. Anche mentre parlavano al telefono l’uomo continuò, all’insaputa di lei, a ingoiare pillole. Alla fine, infastidito dalle sue obiezioni, la salutò e riagganciò il telefono, quindi prese le ultime compresse.
Nell’arco di mezz’ora arrivò la polizia. Capendo che il suo piano rischiava di fallire, l’uomo si mise a discutere con gli agenti: spiegò che la moglie era un po’ matta, che si comportava in quel modo per dargli fastidio e che la loro presenza lì non aveva ragion d’essere. Sapeva che, se avesse potuto intrattenerli per circa un’ora, il farmaco gli avrebbe compromesso la funzione epatica (si era documentato al riguardo) e sperava, se non di indurli ad andarsene, quanto meno di tirare per le lunghe. Li invitò a bere una tazza di tè e mise l’acqua sul fuoco. Era tanto calmo e convincente che i poliziotti gli credettero. L’uomo riuscì però solo a ritardarne l’intervento: gli agenti gli dissero infatti che dovevano in ogni caso seguire la procedura per i tentati suicidi e che avrebbero dovuto portarlo al pronto soccorso. Lì fu sottoposto a lavanda gastrica appena in tempo.
Quando gli parlai, mi illustrò l’intera sequenza di eventi come io descrivo i sogni nei quali ho avuto un ruolo molto attivo, ma di cui non colgo il senso. Si stava riprendendo dalla lavanda gastrica ed era molto scosso ma coerente. «Non so perché volessi morire» disse «ma le posso dire che ieri mi sembrava del tutto logico.» Discutemmo dei dettagli. «Avevo deciso che il mondo sarebbe stato migliore senza di me. Valutai ogni aspetto e capii che avrei liberato mia moglie, che avrei aiutato il ristorante e che ne avrei tratto grande sollievo. Proprio questo è tanto strano: che mi sembrasse un’idea così buona, così brillante.»
Era immensamente sollevato per essere stato salvato dalla sua «brillante idea». Tuttavia non l’avrei definito felice quel giorno in ospedale: era terrorizzato, come può esserlo un sopravvissuto a una sciagura aerea. La moglie gli era rimasta accanto quasi tutto il tempo. L’uomo disse di amarla, di sapere che anche lei nutriva lo stesso sentimento, di adorare il suo lavoro. Forse, nel momento in cui era pronto a uccidersi, qualcosa nell’inconscio lo aveva spinto a telefonare alla moglie invece di scriverle un biglietto. Quella decisione era forse confortante, ma non certo rassicurante, giacché non era stata il frutto della sua mente conscia. Chiesi al medico quanto sarebbe rimasto in ospedale. Mi rispose che lo avrebbero trattenuto cercando di analizzare la sua logica deviata e finché i suoi parametri ematici non si fossero normalizzati. «Sembra stia abbastanza bene da poter tornare a casa anche oggi» aggiunse il medico «ma due giorni fa sembrava stare altrettanto bene; e nessuno avrebbe immaginato che sarebbe finito in ospedale.» Chiesi al paziente se pensasse di riprovarci: fu come chiedergli di prevedere il futuro di un altro. Scosse il capo e mi guardò, pallido e sconcertato: «Come faccio a saperlo?».
Il suo smarrimento e la sua sconfitta emozionale sono due caratteristiche comuni della mente suicida. Joel P. Smith, nativo del Wisconsin e sopravvissuto a diversi tentativi di togliersi la vita, mi ha scritto queste parole: «Sono solo. Gran parte dei depressi che conosco sono più o meno soli, visto che hanno perso il lavoro e sfibrato familiari e amici. Ho sviluppato tendenze suicide. Il mio ultimo custode, me stesso, non solo ha finito il turno, ma, fatto ancora più pericoloso, è diventato il fautore, l’agente della distruzione».
Il giorno in cui accadde – a quel tempo avevo ventisette anni – capii le ragioni del suicidio di mia madre e vi credetti.98 Era nella fase terminale della sua malattia, il cancro. Di fatto, con mio padre e mio fratello l’aiutai a uccidersi e nel farlo mi sentii profondamente vicino a lei. Credevamo tutti nel suo gesto. Purtroppo, molti di coloro che credono nella razionalità della decisione, compresi Derek Humphrey, autore di Final Exit, e Jack Kevorkian, sembrano convinti che razionale significhi «semplice». Invece, non è stato facile pervenire a questa decisione razionale: è stato un processo lento, complesso, particolare, dalle tortuosità squisitamente personali, come le esperienze d’amore che sfociano nel matrimonio.
Il suicidio di mia madre ha sconvolto la mia vita, anche se l’ammiro per quello che ha fatto e credo nel suo gesto. Mi fa soffrire a tal punto che mi ritraggo al solo pensarci. In realtà ciò che è accaduto fa ora parte della mia esistenza, e sono disposto a condividerlo con chiunque desideri sapere, benché quel ricordo sia come un oggetto tagliente sepolto nel mio io, che mi ferisce appena mi muovo.
I sostenitori del diritto al suicidio distinguono con precisione quasi maniacale i suicidi «razionali» da tutti gli altri. Un suicidio resta tuttavia un suicidio: dettato da più fattori, triste, in certo qual modo tossico per tutti coloro che ne sono coinvolti. Il meglio e il peggio si trovano ai due estremi di un continuum, e differiscono più per il diverso grado di intensità che per la natura. Il suicidio razionale è sempre stato un’idea spaventosa e molto diffusa. La voce narrante dei Demoni di Dostoevskij chiede se gli uomini «si uccidano a mente lucida». «Moltissimi» risponde Kirilov «Se non ci fossero i pregiudizi, sarebbero di più; moltissimi; tutti.»99
Quando parliamo di suicidio razionale e lo distinguiamo da quello irrazionale, non facciamo che esporre i nostri pregiudizi o quelli della società in cui viviamo. Chi si uccide perché detesta la propria artrite viene ritenuto suicida, chi si uccide perché non sopporta la prospettiva di una morte dolorosa e indegna causata dal cancro può apparire razionale. Un tribunale britannico ha di recente consentito a un ospedale di alimentare forzatamente una paziente anoressica e diabetica e di iniettarle l’insulina contro la sua volontà. La paziente era però molto scaltra e trovò il modo di sostituire l’ormone con una miscela di acqua e latte. Quando entrò in coma, il terapeuta che la seguiva cercò di stabilire se si trattasse di anoressia, di un comportamento suicida o di un atto parasuicida, e concluse che si doveva parlare di un gesto dovuto a un grave stato depressivo e a un forte sentimento di rabbia.100
Che dire dei pazienti affetti da malattie terribili ma non immediatamente letali? È ragionevole uccidersi quando si ha l’Alzheimer o la sclerosi laterale amiotrofica? Esiste uno stato mentale «terminale», in cui un soggetto che abbia sperimentato un’infinità di terapie e che sia rimasto depresso, possa uccidersi in modo razionale anche se non è malato? Ciò che è razionale per un individuo è irrazionale per un altro, e tutti i suicidi restano una calamità.
In un ospedale della Pennsylvania incontrai un giovane quasi ventenne, il cui desiderio di morire mi sembrò del tutto comprensibile. Nato in Corea, era stato abbandonato da piccolo; quando lo trovarono, quasi morto di fame, lo misero in un orfanotrofio di Seoul. A sei anni fu adottato da una coppia di americani alcolisti che abusò di lui. A dodici anni fu posto sotto tutela statale e inviato nell’ospedale psichiatrico dove lo conobbi. È affetto da una paresi cerebrale che gli ha compromesso la funzione della metà inferiore del corpo; parlare gli è doloroso e faticoso. Nei cinque anni in cui è rimasto in ospedale è stato sottoposto a tutti i trattamenti immaginabili, compresa un’intera gamma di antidepressivi e l’elettroshock, ma nulla è servito a lenire la sua angoscia e la sua amarezza. Fin da quando era bambino ha tentato più volte di uccidersi ma, dato che si trova in un centro di assistenza, è sempre stato salvato. E, visto che è condannato su una sedia a rotelle in un reparto di sicurezza, riesce di rado ad avere la privacy necessaria ad attuare i suoi propositi. In preda alla disperazione, ha cercato di lasciarsi morire di fame; quando ha perso conoscenza, l’hanno alimentato per via endovenosa.
Pur parlando con grave difficoltà a causa dell’handicap, è del tutto in grado di sostenere una conversazione logica. «Non voglio essere vivo» mi ha confessato. «Non volevo esistere in questo modo. Non voglio vivere qui, sulla terra. Non ho avuto una vita. Non ci sono cose che amo o che mi diano gioia. Questa è la mia esistenza: un viavai dai piani alti dell’edificio numero nove di questo ospedale a qui, al numero uno, che non è migliore del nove. Le gambe mi fanno male. Il corpo mi fa male. Cerco di non parlare con nessuno qui dentro. Anche se tutti qui parlano da soli. Ho preso molte medicine per la depressione, ma non credo funzionino nel mio caso. Alleno le braccia con i pesi e uso il computer: questo mi tiene occupata la mente e mi distrae da quello che ho. Ma non basta. La mia situazione non cambierà mai. Non succederà mai che non abbia il desiderio di uccidermi. Mi piace tagliarmi i polsi, mi piace vedere il mio sangue. Poi mi addormento. Quando mi sveglio, esclamo tra me: “Dannazione, sono ancora vivo”.»
Molte persone colpite da paralisi cerebrale conducono una vita ricca, appagante. Questo giovane ha subito tali violenze psicologiche ed è tanto ostile che probabilmente non troverà affetto e se anche lo trovasse, forse non sarebbe in grado di apprezzarlo. Ha commosso me e parte del personale che lo assiste, ma per ora non c’è nessuno di animo tanto eroico da rinunciare alla propria vita per aiutarlo. Sulla terra non vi sono abbastanza persone altruiste da dedicarsi a malati come lui, che minuto dopo minuto combattono contro la loro stessa vita. La sua esistenza è fatta di sofferenza del corpo e della mente, di handicap fisici e di spettri mentali. La sua depressione e il suo desiderio di morire sono, secondo me, incurabili, e sono lieto di non avere la responsabilità di garantire che si risvegli ogni volta che si taglia le vene, o di inserirgli la flebo in vena ogni volta che smette di mangiare.
In un altro ospedale ho incontrato un ottantacinquenne in buona salute che, insieme alla moglie, aveva assunto una dose letale di barbiturici quando alla donna era stato diagnosticato un cancro al fegato. Erano sposati da sessantuno anni e avevano deciso di suicidarsi insieme. Lei morì, mentre il marito si riprese. Come mi ha spiegato il suo giovane psichiatra: «Mi dissero di curargli la depressione: dagli qualche pillola e sottoponilo a una terapia antidepressiva perché è vecchio e malato, soffre costantemente, ha perso la moglie e ha alle spalle un tentato suicidio. Sono ormai passati sei mesi, le sue condizioni sono invariate, potrebbe vivere ancora dieci anni. Io tratto le forme depressive, e quello da cui lui è affetto non è quel genere di depressione».
Nella sua poesia Titone Tennyson descrive un caso simile di disperazione senile. Titone era l’amante di Eos, l’alba. La fanciulla chiese a Giove di donare al suo innamorato la vita eterna, e Giove acconsentì, ma Eos si era scordata di chiedere per lui anche la giovinezza eterna. Incapace di uccidersi, Titone vive per sempre, diventando sempre più vecchio. Desidera morire e dice alla sua amata di un tempo:
Fredde le tue ombre rosate mi bagnano, fredde
Sono tutte le tue luci, e freddi i miei piedi raggrinziti
Sulle tue soglie scintillanti, quando il vapore
Si leva da quei cupi campi nei pressi delle case
Di uomini felici che hanno il potere di morire,
E dagli erbosi tumuli dei più felici morti.101
La storia della Sibilla cumana che, come narra Petronio, aveva la vita, ma non l’eterna giovinezza, è ricordata nella citazione iniziale della Terra desolata di Thomas Eliot: «Sibilla, che cosa desideri? E lei rispondeva, “Desidero morire”».102 Perfino Emily Dickinson, che viveva nel tranquillo New England, giunse a tale conclusione a proposito del graduale senso di perdita:
Il cuore prima chiede gioia,
poi assenza di dolore,
poi quegli scialbi anodini
che attenuano il soffrire,
poi chiede il sonno, e infine,
se a tanto consentisse
il suo tremendo giudice,
libertà di morire.103
In famiglia avevamo discusso dell’eutanasia molto prima che la mamma si ammalasse di cancro ovarico. All’inizio degli anni Ottanta facemmo tutti testamento e all’epoca, in via puramente teorica, giudicammo incivile il fatto che il nostro paese, a differenza dell’Olanda, non offrisse la possibilità di una morte indolore. «Detesto il dolore» disse con noncuranza mia madre in quell’occasione. «Se dovessi arrivare al punto di non provare altro che sofferenza, spero che uno di voi mi spari.» Ridendo, ci dichiarammo tutti d’accordo. Tutti detestavamo soffrire e ritenevamo che una morte serena fosse la migliore: nel sonno, a casa propria, in età molto avanzata. Giovane e ottimista, ero convinto che saremmo tutti morti in quel modo, in un futuro molto lontano.
Nell’agosto del 1989 alla mamma fu diagnosticato il tumore. Durante la prima settimana di ricovero dichiarò che si sarebbe uccisa. Noi tentammo di cancellare quell’affermazione dalla mente, e lei non insistette oltre. A quel tempo non intendeva tanto porre fine ai suoi sintomi – non ne aveva pressoché alcuno – quanto esprimere risentimento di fronte al futuro indegno che l’attendeva, e la profonda paura di perdere il controllo della sua vita. Parlò di suicidio come avrebbe fatto una persona affranta per una delusione d’amore, considerandolo un’alternativa semplice e rapida al processo lento e doloroso di recupero. Era come se cercasse vendetta per il torto fattole dalla natura: se la sua vita non poteva essere piacevole come era stata in passato, meglio rinunciarvi.
L’argomento non fu più toccato mentre la mamma si sottoponeva a un ciclo estenuante, umiliante, di chemioterapia. Dieci mesi dopo i medici effettuarono un intervento chirurgico esplorativo per valutare l’efficacia del trattamento: quando scoprirono che non aveva prodotto i risultati sperati, le prescrissero un secondo ciclo. Dopo l’operazione la mamma rimase a lungo in uno stato di rifiuto cosciente, alimentato dalla rabbia. Quando infine riprese a parlare, questa scaturì, violenta. Annunciò che si sarebbe uccisa, e stavolta la minaccia era reale. Ci risbatté in faccia tutte le nostre proteste. «Sono già morta» esclamò dal letto d’ospedale. «Che cosa vi resta di me da amare?» Certe volte ci spronava: «Se mi voleste bene, mi aiutereste a porre termine a tutta questa sofferenza». La scarsa fede che nutriva nella chemioterapia era ormai svanita e, quale condizione per sottoporsi a un altro ciclo di trattamenti, ci impose di procurarle «quelle pillole», per farla finita non appena si fosse sentita pronta.
Si tende ad accontentare le persone molto malate. Dopo l’intervento chirurgico non c’era altra risposta alla rabbia e alla disperazione della mamma, se non quella di acconsentire alle sue richieste. A quel tempo vivevo a Londra e tornavo a casa ogni quindici giorni per vederla. Mio fratello era iscritto a giurisprudenza nel New Haven e passava intere giornate in treno per raggiungerla, mio padre trascurava il lavoro per restare a casa. Ci eravamo stretti attorno a lei, che era sempre stata il centro della nostra famiglia, ora con gli atteggiamenti in apparenza spensierati ma significativi che ci erano caratteristici, ora con profonda gravità. Malgrado tutto, quando la mamma si rilassò e recuperò una parvenza di se stessa, l’idea del suo suicidio, pure accettata, venne ancora una volta accantonata.
Il secondo ciclo chemioterapico sembrava aver avuto effetto e mio padre, nel frattempo, aveva individuato altre cinque o sei possibili alternative terapeutiche. Di tanto in tanto la mamma faceva cupe osservazioni sul suo suicidio, e noi replicavamo puntualmente che sarebbe passato molto tempo prima di dover ricorrere a una misura tanto grave.
Alle quattro di un tempestoso pomeriggio di settembre del 1990 telefonai per sapere gli esiti di alcuni esami, previsti per quel giorno. Quando mio padre rispose, capii subito la situazione. Per il momento avremmo continuato, mi disse, con quella terapia, valutando nel contempo le alternative. Io non ebbi dubbi su quella che la mamma avrebbe preso in considerazione. Perciò non mi sarei dovuto sorprendere quando a ottobre, seduti a tavola, a pranzo, lei mi comunicò che il problema tecnico era stato risolto e che ora aveva le pillole.
Nelle prime fasi della malattia, a causa delle cure, aveva perduto la sua bellezza, e nessun accorgimento estetico avrebbe potuto aiutarla: la devastazione del suo corpo era tale che solo mio padre riusciva a non vederla. Era stata una bella donna, e trovò molto doloroso accettare i danni fisici della chemioterapia: era rimasta calva, la pelle era diventata allergica a qualsiasi trucco, il corpo era emaciato, gli occhi segnati, con le palpebre cascanti. All’epoca di quel pranzo, tuttavia, aveva già iniziato ad assumere una bellezza nuova, pallida, illuminata, eterea, del tutto diversa da quella tipicamente americana «stile anni Cinquanta» che ricordavo dalla mia infanzia. Il momento in cui mia madre si procurò le pillole fu anche il momento in cui accettò (forse in modo prematuro o forse no) il fatto che stesse morendo, e tale accettazione le conferì una radiosità, sia fisica sia interiore, che alla fine mi sembrò più potente del suo decadimento. Quando ricordo quel pranzo, ricordo, tra le altre cose, quanto fosse di nuovo bella mia madre.
Protestai, mentre mangiavamo, sostenendo che avrebbe potuto avere ancora molto da vivere, ma lei replicò che aveva sempre creduto nell’opportunità di pianificare tutto con attenzione: ora che aveva le pillole, poteva rilassarsi e godersi il tempo che le rimaneva senza preoccuparsi della fine. Le chiesi come avrebbe deciso il momento del distacco. «Finché esisterà anche solo una possibilità remota di recupero» rispose «continuerò le terapie. Quando saprò che mi terranno in vita ma che non avrò più alcuna possibilità di riprendermi, sarà la fine. Quando arriverà il momento, lo capiremo tutti. Non ti preoccupare: non le prenderò prima. Nel frattempo, ho intenzione di godermi tutto quello che mi resta.»
Ciò che prima le era apparso intollerabile era ora diventato sopportabile grazie al possesso delle pillole e alla consapevolezza che, quando la situazione fosse diventata davvero insostenibile, vi avrebbe posto fine. Devo ammettere che gli otto mesi che seguirono, malgrado l’abbiano avvicinata inesorabilmente alla morte, furono i più felici della sua malattia e, per qualche oscura ragione, nonostante la sofferenza implicita o forse proprio per questo, tra i più felici della nostra vita. Pianificato il futuro, potevamo vivere con intensità il presente, cosa che nessuno di noi aveva fatto prima.
Ciononostante, il vomito, il malessere, la perdita dei capelli, le aderenze di mia madre progredirono incessanti, e la sua bocca si ridusse a una grande piaga insanabile; per uscire un pomeriggio doveva raccogliere le forze per giorni; era tormentata dalle allergie e tremava a tal punto che a volte non riusciva a usare forchetta e coltello. Eppure, la straziante esperienza della chemioterapia continua sembrò all’improvviso irrilevante perché tali sintomi erano permanenti solo finché non avesse deciso di non poterne più e di sfuggire dalle grinfie della malattia. La mamma era una donna adorabile, e in quei mesi si votò all’amore come non avevo visto mai fare a nessuno. In A Short History of Decay Émile Cioran osserva: «La consolazione che ci offre l’eventualità del suicidio trasforma questo regno di sofferenza in uno spazio infinito… Quale risorsa più grande serbiamo in noi se non il suicidio?».104
Da allora mi commuovo profondamente quando leggo il biglietto che Virginia Woolf scrisse al marito prima di suicidarsi, tanto simile allo spirito di mia madre:
Mio caro,
voglio dirti che mi hai reso assolutamente felice. Nessuno avrebbe potuto fare più di quanto tu abbia fatto. Credimi, ti prego.
Ma so che non ne uscirò mai: e sto sprecando la tua vita. È questa follia. Niente di ciò che potrebbero dirmi mi convince. Tu puoi lavorare, e starai molto meglio senza di me. Vedi, non riesco nemmeno a scrivere questo, il che dimostra che ho ragione. Tutto ciò che intendo dire è che, prima dell’arrivo di questa malattia, eravamo completamente felici. Per merito tuo. Nessuno sarebbe potuto essere più buono di te, dal primo giorno fino ad oggi. Lo sanno tutti.
V.
Distruggerai tutte le mie carte, vero?105
È uno scritto di straordinaria sensibilità proprio per l’obiettività e la chiarezza con cui descrive la malattia. Alcuni si uccidono perché non hanno ancora trovato, o non hanno ancora cercato, una cura. Altri invece perché il loro disturbo è davvero refrattario a ogni terapia. Se avessi davvero creduto, durante le mie crisi depressive, di non poter migliorare, mi sarei tolto la vita. Anche se, come Virginia Woolf, avessi saputo che la mia forma depressiva era ciclica, mi sarei ucciso se i cicli mi avessero portato alla disperazione. La Woolf sapeva che qualsiasi dolore avesse provato sarebbe infine passato, ma non desiderava viverlo e attendere che passasse. Era stanca di aspettare. Per lei era giunto il momento di andarsene:
Oh, sta per arrivare – l’orrore – fisicamente, come un’ondata dolorosa che sale attorno al cuore – che mi solleva. Sono infelice, infelice! Giù – Dio, vorrei essere morta. Pausa. Ma perché provo questo? Lascia che osservi l’onda che sale. Osservo. Fallimento. Sì, lo vedo. Fallimento, fallimento. (L’onda sale.) L’onda si frange. Vorrei essere morta! Ho solo alcuni anni da vivere, spero. Non posso più sopportare quest’orrore – (è l’onda che si allarga e mi sommerge).
Tutto ciò va avanti, più volte, con tanti tipi d’orrore. Poi, durante la crisi, invece di restare intenso, il dolore diviene vago. Sonnecchio. Mi risveglio di soprassalto. Ancora l’onda! Il dolore irrazionale: il senso di fallimento; in genere, un episodio specifico.
Alla fine dico, mentre osservo col maggior distacco possibile, Ora smettila. Basta con tutto questo. Ragiono. Faccio un censimento delle persone felici & infelici. Faccio appello a tutte le mie forze per spingere, per buttar giù, per abbattere. Inizio ad avanzare alla cieca. Sento gli ostacoli cedere. Dico che non importa. Nulla importa. Cammino diritta & decisa, & dormo di nuovo, & sono quasi sveglia & sento l’onda che inizia a salire & osservo la luce sbiancare & mi chiedo come, stavolta, la colazione & il giorno la vinceranno. Tutti attraversano questo stato? Perché ho così poco controllo? Non è lodevole, né piacevole. È la causa di tanto spreco & dolore nella mia vita.106
Durante la terza crisi depressiva, prima di sapere che sarebbe passata presto, scrissi queste parole a mio fratello: «Non posso vivere un anno sì e uno no in questo modo. Nel frattempo, faccio del mio meglio per tenere duro. Avevo comprato una pistola che tenevo in casa: l’ho affidata a un amico, per evitare di usarla in un momento d’impulsività. Non è ridicolo? Aver paura di finire per adoperare la propria pistola contro se stessi? Custodirla altrove e chiedere a qualcuno che non te la restituisca?». Il suicidio è più una risposta all’ansia che una soluzione alla depressione: non è l’azione di una mente annichilita, ma di una mente tormentata. I sintomi fisici dell’ansia sono tanto acuti che paiono sollecitare una risposta fisica: non solo il suicidio mentale del silenzio e del sonno, ma anche quello fisico della morte.
Mia madre si occupò dei dettagli e mio padre, amante della pianificazione, elaborò l’intera procedura, come se una prova tecnica lo aiutasse a lenire in anticipo una parte del dolore. Decidemmo che io e mio fratello saremmo tornati a casa e che la mamma avrebbe preso gli antiemetici. Discutemmo di ogni particolare: quale sarebbe stata l’ora migliore per farlo e persino quale impresa di pompe funebri chiamare. Il funerale si sarebbe tenuto due giorni dopo: lo studiammo insieme, come avevamo fatto per gli inviti a cena, le vacanze di famiglia e le feste natalizie. Scoprimmo che, anche in quel frangente, c’era un’etichetta complessa da rispettare.
La mamma decise in completa serenità di svelarci i suoi sentimenti e di appianare, nell’arco di pochi mesi, qualsiasi disaccordo. Ci parlò del suo amore, definendone la natura e le sfumature; risolse le vecchie ambivalenze e diede prova di una lucidità nuova, nata dall’accettazione. Riservò intere giornate per ognuno dei suoi amici – ne aveva davvero molti –, per salutarli un’ultima volta. Pochi erano a conoscenza delle sue vere intenzioni, eppure lei fece in modo che tutti sapessero di occupare un posto importante nel suo cuore.
In quel periodo rideva spesso; il suo senso dell’umorismo, cordiale e coinvolgente, sembrava abbracciare anche i medici che l’avvelenavano mese dopo mese, e le infermiere, testimoni del suo graduale declino. Un pomeriggio mi reclutò perché l’aiutassi ad acquistare una borsetta per una mia prozia novantenne: l’impresa la lasciò prostrata per tre giorni, ma fu fonte di rinnovamento interiore per entrambi. La mamma leggeva tutto quello che scrivevo e commentava con un tono generoso e sagace che non ho mai trovato in nessun altro: era un atteggiamento nuovo per lei, più dolce rispetto a quello di un tempo. Regalò piccoli oggetti a varie persone e riordinò quelli più voluminosi, che non andavano ancora eliminati. Fece restaurare tutti i mobili, in modo da lasciare la casa a posto, e scelse il modello della lapide.
A poco a poco sembravamo recepire che il suo suicidio stava per trasformarsi in realtà. La mamma ci confessò in un’occasione di aver valutato l’idea di fare tutto da sola, ma di aver concluso che lo shock di un evento simile sarebbe stato peggiore del ricordo di una fase preparatoria vissuta insieme. Quanto a noi, volevamo essere presenti. Mia madre aveva sempre vissuto per gli altri e non volevamo morisse sola. Negli ultimi mesi che avrebbe trascorso sulla terra era importante che ci sentissimo molto vicini, che nessuno avesse la sensazione che gli altri nascondessero qualche segreto. La nostra cospirazione ci unì più di quanto non lo fossimo mai stati.
Se non si è mai provato o non si è mai aiutato nessuno a togliersi la vita, non si riesce a immaginare quanto sia difficile uccidersi. Se la morte fosse un evento passivo che accadesse a quanti non si preoccupano di resisterle, e la vita un evento attivo che continuasse solo in virtù della nostra quotidiana volontà, il problema del mondo sarebbe lo spopolamento, non la sovrappopolazione. Un gran numero di individui conduce un’esistenza di tacita disperazione e non si uccide solo perché non riesce a trovare il modo per farlo.
Mia madre decise di uccidersi il 19 giugno 1991, all’età di cinquantotto anni, perché, se avesse aspettato più a lungo, si sarebbe indebolita troppo. Il suicidio richiede forza e un’intimità che l’ospedale non può garantire. Quel pomeriggio la mamma andò dal gastroenterologo, il quale la informò che alcuni grossi tumori le ostruivano l’intestino. Senza un intervento chirurgico urgente non sarebbe più stata in grado di digerire il cibo. Lei rispose che lo avrebbe richiamato per fissare la data dell’operazione, poi tornò da mio padre, in sala d’aspetto. Quando rincasarono, telefonò a me e a mio fratello. «Cattive notizie» ci disse con tono pacato. Sapevo che cosa intendesse, ma non potevo tradurlo in parole. «Credo sia il momento» aggiunse. «È meglio che tu venga.» Tutto procedeva come avevamo stabilito.
Mi diressi verso casa, fermandomi a prendere mio fratello in ufficio. Diluviava e il traffico era lento. La voce assolutamente calma della mamma – aveva usato il tono razionale che adottava sempre per gli eventi programmati, come se dovessimo raggiungerla per cena – aveva conferito linearità all’intera faccenda. Quando arrivammo, la trovammo lucida e rilassata. Indossava una camicia da notte a fiori rosa e un lungo accappatoio.
«Dovremmo fare uno spuntino» spiegò papà. «Serve a non vomitare le pillole.» Andammo in cucina, dove mia madre servì il tè con i muffin. Alcune sere prima, a cena, lei e mio fratello avevano scherzato tirando le due estremità dello sterno a V del pollo e, dato che a lei era rimasta la parte più lunga, aveva espresso come di consueto un desiderio. «Che cosa avevi chiesto?» le domandò ora mio fratello. «Che tutto questo finisse nel modo più rapido e indolore possibile» rispose lei «e il mio desiderio si è realizzato.» Poi, fissando il suo muffin, aggiunse: «I miei desideri si realizzano spesso».
Proprio in quel momento mio fratello si servì dalla scatola dei biscotti e la mamma, con quel suo tono di sottile ironia, gli disse: «David, per l’ultima volta: vuoi mettere i biscotti su un piatto?». Poi mi ricordò di prendere i fiori secchi che aveva preparato per adornare l’atrio della casa di campagna. Queste piccole faccende erano diventate fonte di grande intimità. Credo vi sia una drammaticità intrinseca nella morte naturale, caratterizzata da sintomi e convulsioni improvvisi o, viceversa, dallo shock generato dalla sorpresa. L’aspetto singolare di quella nostra esperienza fu l’assenza di eventi improvvisi o inattesi. La drammaticità risiedeva proprio nell’assenza di drammaticità, nell’atmosfera opprimente dovuta al fatto che nessuno esternava reazioni sopra le righe.
Tornata in camera, la mamma si scusò di nuovo per averci coinvolti. «Ma almeno voi tre dovreste restare uniti dopo» commentò. Mia madre, che faceva sempre in modo di avere scorte di tutto, disponeva di una dose doppia di secobarbitale rispetto a quella necessaria. Si mise a sedere sul letto e rovesciò una quarantina di pillole sulla coperta di fronte a lei. «Sono così stanca di prendere medicine» commentò con amarezza. «Questa è l’unica cosa di cui non sentirò la mancanza.» Poi iniziò a inghiottirle con atteggiamento esperto, come se le migliaia di pillole che aveva dovuto prendere nei due anni di malattia fossero state un allenamento per quell’istante, e come io stesso avrei imparato a fare con gli antidepressivi. «Penso che basti» esclamò quando il mucchio di compresse fu scomparso. Tentò di bere un bicchierino di vodka, ma il liquore la nauseò. «Di certo, per voi è meglio che vedermi urlare in un letto d’ospedale.» Sì, era meglio, tranne per il fatto che quell’immagine restava una fantasia, mentre questa stava diventando realtà. E la realtà, in queste circostanze, è peggio di tutto.
Ci restarono ancora quarantacinque minuti circa, in cui ci dicemmo tutto ciò che ancora dovevamo dirci. A poco a poco la voce della mamma si fece impastata, ma capii che ogni sua parola era stata scelta con cura. A quel punto percepimmo il dramma della sua morte perché, via via che il torpore aumentava, aumentava anche la sua lucidità: sembrava dicesse ben più di quanto non avesse intenzione. «Siete stati i migliori figli che avrei potuto avere» affermò guardandoci. «Prima che nasceste non credevo di poter provare quello che ho sentito in quel momento. All’improvviso eravate lì. Avevo letto in molti libri di mamme che dichiaravano coraggiosamente che sarebbero morte per i loro figli. Be’, io sentivo proprio questo: sarei morta per voi. Detestavo l’idea che foste infelici. Stavo tanto male per voi quando eravate tristi. Volevo avvolgervi nel mio amore, proteggervi da tutte le cose terribili del mondo. Volevo che il mio amore lo trasformasse in un luogo gioioso e sicuro per voi.» David e io sedevamo sul letto dei miei; la mamma era distesa al suo solito posto. Mi tenne la mano per un secondo, poi prese quella di David. «Voglio che sentiate il mio amore sempre vivo, che ve ne sentiate avvolti anche quando me ne sarò andata. La mia più grande speranza è che l’amore che vi ho dato resti con voi per tutta la vita.»
Parlava con tono sicuro, come se avesse ancora tutto il tempo del mondo. Infine, si rivolse a papà. «Avrei rinunciato volentieri a molti anni di vita per essere la prima ad andarmene. Non riesco a immaginare come avrei fatto se tu fossi morto prima di me, Howard. Tu sei la mia vita. Lo sei stato per trent’anni.» Guardando me e mio fratello, proseguì. «Poi sei nato tu, Andrew, e tu, David. Siete arrivati anche voi, perciò c’erano tre persone che mi amavano veramente. E io vi ho amati, tutti e tre. Ero travolta, schiacciata dal mio sentimento.» La mamma mi fissò: i suoi occhi erano asciutti, ma io stavo piangendo. Allora assunse un tono di lieve rimprovero: «Non pensare di farmi un grande omaggio trasformando la mia morte nel più importante evento della tua vita» disse. «Il migliore omaggio che mi puoi rendere come madre è andare avanti e avere una vita ricca e appagante. Goditi quello che hai.»
Poi la sua voce si fece incerta, come in un sogno. «Oggi sono triste. Sono triste all’idea di andarmene. Ma anche di fronte alla morte non vorrei cambiare la mia vita con nessun’altra al mondo. Ho amato molto, e sono stata molto amata. E mi sono divertita tanto.» Chiuse gli occhi per quella che credemmo fosse l’ultima volta, poi li riaprì e ci guardò uno a uno, per poi soffermarsi su mio padre: «In questa vita ho inseguito molte cose» continuò con voce lenta. «Davvero molte. Ma il paradiso è sempre stato in questa stanza, con voi tre.» Mio fratello le stava massaggiando la spalla. «Grazie per il massaggio, David» esclamò, poi chiuse gli occhi per sempre. «Carolyn!» mio padre la chiamò, ma lei non si mosse più. Ho assistito a un altro decesso – di un ferito da un’arma da fuoco – e ricordo di aver avuto la sensazione che l’evento non si incentrasse su quel morto, ma sulla pistola e sulla circostanza. Questa morte, invece, apparteneva davvero a mia madre.
«La morte ha potere perché non è solo l’inizio del nulla ma la fine di tutto, e il modo con cui ragioniamo e ne parliamo, l’enfasi che poniamo sul fatto di morire con “dignità”, dimostra quanto sia importante che la vita termini in modo adeguato, che la morte tenga fede allo stile di vita che abbiamo seguito» scrive il filosofo americano contemporaneo Ronald Dworkin.107 Se non posso aggiungere altro sulla morte di mia madre, posso però affermare che è stata degna della sua vita.
Quello che non avevo previsto è che mi avrebbe reso allettante l’idea del suicidio. In Per un’amica Rilke osserva: «Amando dobbiamo fare solo questo: non legare l’altro, perché il legame è facile e non bisogna certo conquistarlo».108 Se fossi stato capace di cogliere quell’insegnamento, forse non sarei caduto in depressione, perché fu proprio quella singolare morte a scatenare il mio primo episodio. Non so quale fosse il mio grado di vulnerabilità o se, in assenza di un’esperienza tanto desolante, avrei avuto ugualmente una crisi. Il legame con mia madre era molto forte e il nostro senso della famiglia tanto intenso che ero forse destinato a essere incapace di sopportarne la perdita.
Il suicidio assistito è un modo legittimo di morire ma, per quanto dignitoso, resta pur sempre un suicidio, ovvero uno degli eventi più tristi al mondo. Se vi si prende parte, è anche una forma di omicidio, e l’omicidio non è una realtà con cui è facile convivere: torna sempre a galla, e non sempre in modo piacevole. Tra le opere di chi ne ha avuto esperienza diretta, non ho mai letto nulla sull’eutanasia che non fosse, a livello profondo, un’autodifesa: scrivere o parlare del proprio coinvolgimento in un caso di eutanasia è, inevitabilmente, una richiesta di assoluzione.
Dopo la morte della mamma mi assunsi il compito di riordinare l’appartamento, di fare la cernita dei suoi vestiti, delle sue carte, delle sue cose in genere. Il bagno era sommerso dai detriti di una malattia terminale: aggeggi per la cura delle parrucche, pomate e lozioni per le reazioni allergiche, flaconi e flaconi di pillole. In fondo, in un angolo dell’armadietto dei medicinali, dietro a vitamine, antidolorifici, antispastici gastrici, riequilibratori ormonali, sonniferi di ogni genere che aveva preso quando la malattia e la paura avevano cospirato per tenerla sveglia, dietro a tutto ciò trovai, quale ultimo dono del vaso di Pandora, il resto del medicinale che l’aveva uccisa. Stavo gettando via tutto, confezione dopo confezione, ma quando mi imbattei in quelle pillole, mi fermai. Conscio di temere sia la malattia sia la paura, le infilai in tasca e le nascosi nell’angolo più remoto del mio armadietto del bagno. Ricordavo quel giorno di ottobre in cui la mamma mi aveva detto: «Ho le pillole. Quando verrà il momento, potrò farlo».
Dieci giorni dopo aver terminato la pulizia del bagno, papà mi chiamò, infuriato, e mi chiese dove fosse finito il resto del farmaco. Risposi di aver buttato via tutte le medicine della mamma e aggiunsi che lo avevo visto depresso e che mi turbava l’idea che avesse quel farmaco a portata di mano. Lui replicò che non avevo alcun diritto di farlo e, dopo un attimo di silenzio, disse che avrebbe voluto tenerlo per sé, nel caso un giorno si fosse ammalato, per evitare di ripetere tutta la trafila per procurarselo. Credo fossimo tutti convinti che mia madre continuasse a vivere in quelle pillole rosse, che chiunque avesse posseduto il veleno che l’aveva uccisa avrebbe avuto un qualche accesso alla sua vita. Era come se, meditando di prendere le pillole rimaste, ci ricollegassimo con lei, come se, morendo nello stesso modo, potessimo ricongiungerci. Compresi, allora, qual era il senso delle epidemie di suicidi: il nostro solo conforto di fronte alla sua morte era pensare di imitarla.
Solo alcuni anni dopo riuscimmo ad annullare quella sensazione, grazie all’esito più positivo di un’altra vicenda: la mia ripresa dalla depressione segnò per mio padre il trionfo del suo affetto, della sua intelligenza e della sua volontà. Aveva tentato di salvare un membro della famiglia e aveva fallito, ma era riuscito ad aiutarne un altro. Avevamo preso parte a un suicidio, ma ne avevamo evitato un secondo. Non nutro forti tendenze suicide finché la mia condizione psicofisica appare, a me e a chi mi circonda, migliorabile. Ma se dovesse mutare in modo irreversibile, i termini del mio suicidio mi sarebbero del tutto chiari. Sono sollevato e orgoglioso di non essermi arreso nei momenti più cupi e ho intenzione di affrontare le eventuali difficoltà che si presenteranno in futuro.
Dal punto di vista psicologico non dovrei faticare molto se decidessi di togliermi la vita, perché nella mia mente e nel mio cuore sono più preparato per tale atto che per le tribolazioni inattese della vita quotidiana. Nel frattempo, ho recuperato la pistola e ho appurato come procurami altro secobarbitale. Dopo aver visto il conforto che mia madre ha tratto dalla sua ultima dimostrazione di forza, riesco a capire come, se l’infelicità è grande e il recupero impossibile, la logica dell’eutanasia divenga inconfutabile.
Non è sensato equiparare il suicidio dovuto a una malattia psichiatrica a quello indotto da una patologia organica, anche se tra i due ritengo vi siano incredibili affinità. Sarebbe stato atroce se, il giorno successivo alla scomparsa di mia madre, i giornali avessero pubblicato la notizia di una nuova terapia in grado di guarire il cancro alle ovaie. Così come, se l’unico problema è la tendenza suicida o la depressione, sarebbe tragico uccidersi prima di aver tentato ogni rimedio disponibile. Ma quando si raggiunge il punto psicologico di rottura e si sa, peraltro con la conferma altrui, di vivere un’esistenza inaccettabile, il suicidio diviene un diritto. A quel punto (ed è un momento molto difficile e delicato) è un obbligo per quanti vivono accettare la volontà di chi invece non vuole e non desidera vivere.
Il problema del suicidio inteso come capacità di gestire la propria vita non è stato finora valutato con attenzione. Il desiderio di controllare la sua esistenza ha motivato la morte di mia madre, e tale motivazione vale per molti individui che si uccidono in circostanze diverse. «Il suicidio è, dopo tutto, il risultato di una scelta. Per quanto impulsiva possa essere l’azione e confuse le motivazioni, nel momento in cui un individuo decide finalmente di togliersi la vita, attinge una certa lucidità temporanea. Il suicidio può essere una dichiarazione di fallimento che prende atto di una lunga storia di insuccessi. Ma è una storia che, perlomeno, comprende anche quest’unico atto deciso, il quale, per il suo stesso carattere definitivo, non la rende un insuccesso completo. Esiste, io credo, tutta una categoria di suicidi i quali si tolgono la vita non per morire, ma per sfuggire alla confusione, per schiarirsi le idee. Ricorrono deliberatamente al suicidio per crearsi una realtà libera o per trovare una via di scampo al ricorrere dell’ossessione che senza volere hanno imposto alla loro esistenza» osserva Alvarez.109
«In guerra, nei campi e durante i periodi di terrore la gente pensa molto di meno alla morte (per non parlare del suicidio) di quanto non faccia in condizioni normali. Ogniqualvolta la terra è devastata, in forma particolarmente intensa, da una forma di terrore letale e dalla pressione di problemi irrisolvibili, le questioni generali della natura dell’essere passano in ultimo piano. Come potremmo restare intimoriti e stupefatti di fronte alla forze della natura e alle leggi eterne se nella vita quotidiana provassimo un terrore di origine terrena tanto profondo? Sarebbe forse meglio parlare in termini più concreti della pienezza o dell’intensità dell’esistenza, e in questo senso, nel nostro aggrapparci alla vita potrebbe esserci qualcosa di più appagante rispetto a quello cui di solito la gente aspira» scrive Nadezhda, moglie del grande poeta russo Osip Mandelstam.110
Quando affrontai l’argomento con un amico sopravvissuto al sistema repressivo del regime sovietico, mi confermò le parole di Nadezhda: «Ci opponemmo a coloro che volevano renderci la vita più amara. Suicidarci avrebbe avuto il valore di una sconfitta, e quasi tutti eravamo determinati a non dare quella soddisfazione agli oppressori. Solo i più forti sopravvivevano, e le nostre vite erano fatte di resistenza: questo era ciò che le alimentava. Chi desiderava toglierci la vita era il nemico. Il nostro odio e la nostra resistenza ci tennero in vita. Di fronte alla sofferenza il nostro desiderio si rafforzava. Non fu mentre eravamo là dentro che desiderammo di morire, anche se alcuni di noi nel passato avevano avuto momenti di crisi. Ma quando ne uscimmo, la situazione cambiò: non era raro che i sopravvissuti dei campi di lavoro si uccidessero dopo essere tornati nella società che si erano lasciati alle spalle: nel momento in cui non c’era più nulla a cui opporsi, bisognava trovare dentro di noi le ragioni per vivere la nostra esistenza, e in molti casi il nostro sé era stato distrutto».
A proposito dei campi di sterminio nazisti, Primo Levi osserva: «Nella maggior parte dei casi l’ora della liberazione non è stata lieta né spensierata: scoccava per lo più su uno sfondo tragico di distruzione, strage e sofferenza. In quel momento, in cui ci si sentiva ridiventare uomini, cioè responsabili, ritornavano le pene degli uomini: la pena della famiglia dispersa o perduta, del dolore universale attorno a sé, della propria estenuazione, che appariva non più medicabile, definitiva; della vita da ricominciare in mezzo alle macerie, spesso da soli».111
Come le scimmie e i ratti che si automutilano quando vengono sottoposti a separazioni indebite, sovraffollamento e ad altre spaventose condizioni, gli uomini possiedono nel loro animo una forma organica di disperazione e una modalità per esprimerla. Si possono compiere atti capaci di generare in una persona la spinta suicida, atti che furono perpetrati sui prigionieri dei campi di concentramento. E una volta che la spinta sia diventata manifesta, è difficile recuperare l’equilibrio. I sopravvissuti ai campi di sterminio presentano un tasso elevato di suicidi: alcuni si meravigliano di fronte a chi, uscito da un’esperienza simile, decide di uccidersi. Io no. Sono state elaborate varie ipotesi per spiegare la morte di Primo Levi: molti sostengono che la responsabilità sia dei farmaci, dato che nella seconda fase della sua vita lo scrittore si era dimostrato sin troppo lucido e sereno.112 A mio avviso Levi covava da sempre l’idea del suicidio; non c’era mai stata l’estasi della salvezza né alcunché di paragonabile all’orrore che aveva conosciuto. Forse, le medicine, il tempo o qualche altro fattore scatenarono in lui lo stesso impulso che spinge i ratti a staccarsi la coda a morsi, ma credo che quella fantasia non lo avesse mai lasciato dopo l’orrore del campo. Le esperienze sono facilmente in grado di attivare i geni e di determinare reazioni simili.
L’omicidio è molto più comune del suicidio tra gli emarginati, mentre quest’ultimo è più diffuso tra i potenti. Contrariamente a quanto si crede, il suicidio non rappresenta l’ultima spiaggia per una mente depressa, non è l’ultimo stadio del declino mentale. La probabilità di uccidersi è, in realtà, più elevata per i pazienti da poco dimessi dall’ospedale che per i ricoverati, e non solo perché viene meno il controllo della struttura. Il suicidio è la ribellione della mente contro se stessa, la duplice disillusione di una complessità che una mente davvero depressa non riesce a cogliere. Liberarsi di se stessi è un atto volontario. È difficile che la remissività dello stato depressivo possa partorire il suicidio: ci vuole la vitalità dell’autoconsapevolezza per distruggere l’oggetto di quella consapevolezza. Per quanto deviato sia l’impulso, è quanto meno un impulso. Se non esiste altro conforto in un suicidio realizzato, c’è quanto meno l’idea persistente che sia stato un atto di coraggio mal riposto e di forza male impiegata più che una manifestazione di debolezza o di vigliaccheria.
Mia madre prese la fluoxetina non appena fu introdotta sul mercato: la assunse per un mese durante la sua lotta contro il cancro, poi la interruppe perché la stordiva e le causava tremori, sintomi che, uniti agli effetti collaterali della chemioterapia, le rendevano la vita intollerabile. «Oggi stavo camminando per strada» mi rivelò un giorno «e credetti di essere sul punto di morire. Poi pensai quale frutta comprare per pranzo, le ciliegie o le pere, e le due cose parvero la stessa.» La mamma, forte della sua fede nell’autenticità, aveva ragioni esterne sufficienti per essere depressa. Come ho già detto, penso abbia sofferto di una lieve depressione per anni; se possiedo i geni di questa malattia, suppongo di averli ereditati da lei.
Mia madre credeva nell’ordine e nel rigore. Non ricordo una sola volta – e durante la psicanalisi ci ho pensato molto – in cui abbia infranto una promessa o sia arrivata tardi a un appuntamento. Oggi ritengo che si imponesse questa specie di legge marziale non solo per rispetto altrui, ma anche per arginare l’ansia che non l’abbandonava mai. La mia più grande gioia da piccolo era renderla felice: ci riuscivo bene, anche se non era facile. Penso, col senno di poi, che bisognava sempre distrarla dalla tristezza. Detestava restare sola: una volta mi spiegò che era dovuto al fatto di essere figlia unica. Credo che in lei ci fosse un abisso di solitudine, un abisso generato da ben altre cause. In nome del suo straordinario amore per la famiglia lo teneva sotto controllo, ed era fortunata ad avere la capacità di farlo. Ciononostante, era vittima della depressione, e per questo preparata ad affrontare un’esperienza tanto ardua come il suicidio.
Non direi che il suicidio sia sempre una tragedia per chi muore, ma sopraggiunge sempre troppo presto e troppo improvvisamente per chi resta. Chi condanna il diritto di morire commette una grave ingiustizia. Vorremmo tutti avere un maggior controllo sulla vita, e il fatto di dettare le condizioni dell’esistere altrui ci fa sentire al sicuro. Ciò non costituisce, tuttavia, una valida ragione per negare agli altri la libertà più essenziale.
Sono d’altronde convinto che chi, nel sostenere il diritto di morire, faccia distinzioni tra i suicidi, menta a fini politici. Spetta a ogni uomo stabilire i limiti dei propri tormenti; per fortuna, quelli che la maggior parte di noi si pone sono molto ampi. Nietzsche ha affermato che il pensiero del suicidio tiene molti uomini in vita nella fase più buia della notte;113 io direi che quanto più verremo a patti con l’idea del suicidio razionale, tanto più saremo tutelati dal suicidio irrazionale.
Sapere che, superato questo istante, posso sempre uccidermi l’istante successivo, mi consente di non venirne travolto. L’impulso suicida può essere un sintomo della depressione, ma è anche un elemento mitigatore. Il pensiero del suicidio permette di superare la crisi depressiva. Voglio continuare a vivere finché sarò in grado di dare e ricevere qualsiasi cosa migliore della sofferenza, ma non prometto di non uccidermi. Niente mi spaventa più dell’idea di perdere, un giorno, la libertà di suicidarmi.