VIII

La storia

La storia della depressione in Occidente è strettamente legata alla storia del pensiero e può essere distinta in cinque periodi principali. Nel mondo antico il concetto di depressione era molto simile al nostro. Ippocrate sosteneva che questa era in sostanza una malattia del cervello e che dovesse essere trattata con rimedi orali; il problema fondamentale per i medici che seguivano il suo insegnamento era definire la natura umorale del cervello e la formulazione corretta di tali preparati.

Per tutto il Medioevo i disturbi depressivi furono ritenuti una manifestazione della riprovazione divina, un segno, per chi ne fosse colpito, di preclusione a conoscere la beatitudine della salvezza. Proprio in questo periodo si iniziò a stigmatizzare la malattia e, in casi estremi, a considerare miscredente chi ne era affetto. Il Rinascimento trasfigurò la depressione celebrando il genio melanconico, nato sotto il segno di Saturno, la cui afflizione era fonte d’intuito e la cui fragilità costituiva il prezzo da pagare per l’ispirazione artistica e la complessità dell’anima.

Dal XVII al XIX secolo ci fu l’era della scienza: la sperimentazione cercò di determinare la composizione e la funzione del cervello, e di elaborare strategie biologiche e sociali per controllare la mente sfuggita al controllo. Nell’età moderna, iniziata nel XX secolo, Sigmund Freud e Karl Abraham inventarono, con la formulazione delle teorie psicanalitiche, gran parte della terminologia di cui ancora oggi ci serviamo per descrivere la depressione e le sue cause. Emil Kraepelin propose inoltre una biologia moderna del disturbo mentale, inteso quale patologia distinguibile dalla mente normale o «aggiuntosi» a essa.1

Gli squilibri a lungo definiti melanconia vengono ora indicati col termine depressione: utilizzato per la prima volta nel 1660 nella lingua inglese per descrivere l’abbattimento morale, venne impiegato in modo abituale a partire dalla metà del XIX secolo. Uso qui il termine depressione nell’accezione con cui lo impieghiamo oggi.2

È consuetudine ritenere la depressione un disturbo moderno, ma è un errore grossolano. Come disse Samuel Beckett: «Le lacrime del mondo sono imperiture».3 Le caratteristiche e i particolari delle varie forme depressive sono mutevoli e la loro terapia ha rasentato talora il ridicolo, talaltra il sublime; ciononostante, il sonno eccessivo, una dieta inadeguata, le tendenze suicide, il ritiro sociale, la disperazione implacabile sono problemi antichi, se non addirittura antichissimi. Nel corso degli anni, da quando l’uomo ha acquisito la consapevolezza di sé, il pudore è comparso e scomparso, i trattamenti dei mali del corpo si sono alternati e incrociati con quelli dello spirito, gli appelli alle divinità esterne si sono avvicendati alle suppliche ai demoni interiori. Comprendere la storia della depressione significa comprendere l’invenzione dell’essere umano così come oggi lo conosciamo e lo intendiamo. La nostra postmodernità semialienata, focalizzata sulla conoscenza, dipendente da qualche pillola, è solo una fase nell’iter di comprensione e controllo dell’umore e del carattere.

Gli antichi greci, che formularono il famoso principio «mente sana in un corpo sano», condividevano la convinzione moderna secondo la quale una mente malata riflette un corpo non sano e tutte le malattie mentali sono in qualche modo connesse con una disfunzione fisica. La medicina greca si basava sulla teoria umorale, che considerava il carattere determinato dalla combinazione dei quattro umori organici: flegma, bile gialla, sangue e bile nera. Empedocle descriveva la melanconia come un effetto dell’eccesso di bile nera.4

Ippocrate, ispirato da una visione incredibilmente moderna, propose una terapia fisica già alla fine del V secolo a.C., in un’epoca in cui stavano appena affermandosi le nozioni di malattia e di medico. Egli individuò nel cervello la sede dei sentimenti, del pensiero e dell’infermità mentale: «È sempre per opera del cervello se noi diventiamo folli … abbiamo incubi e terrori, talvolta di notte, talvolta durante il giorno, soffriamo di smarrimenti ingiustificati, di preoccupazioni infondate e siamo incapaci di riconoscere le cose solite che ci appaiono come nuove e ci sentiamo sprovveduti». Tutto perché «il cervello non è sano, diventa più caldo o più freddo, più secco o più umido del normale».5

Secondo Ippocrate, i fattori interni ed esterni si combinavano sino a scatenare, dopo «un lungo affaticamento dell’anima», la melanconia; di essa distingueva una forma provocata dagli eventi terribili della malattia e una priva di cause evidenti. Entrambe erano varianti di un’unica patologia che insorgeva quando l’eccesso di bile nera – fredda e secca – alterava l’equilibrio ideale con gli altri tre umori. Lo squilibrio poteva avere un’origine uterina, ossia si poteva nascere predisposti a svilupparlo, o essere prodotto da un trauma. In greco la bile nera o atrabile viene detta mélaina cholé e tra i sintomi del suo influsso maligno, che Ippocrate associava all’autunno, si annoveravano «tristezza, ansia, abbattimento morale, tendenza al suicidio» e «avversione per il cibo, scoraggiamento, insonnia, irritabilità e inquietudine» accompagnati da «paura incessante».

Per riequilibrare gli umori, Ippocrate propose di modificare la dieta e di assumere per via orale mandragola ed elleboro, due erbe purgative ed emetiche, al fine di eliminare l’eccesso di bile nera e gialla. Egli credeva anche negli effetti benefici del consiglio e dell’azione: curò la melanconia del re Perdicca II analizzandone la personalità e convincendolo a sposare la donna che amava.

Le teorie riguardanti la temperatura, la sede e le altre caratteristiche della bile nera divennero sempre più complesse nei successivi millecinquecento anni sebbene, in realtà, un secreto simile non esista. La bile gialla, prodotta dalla cistifellea, può acquisire una colorazione brunastra ma mai nera, e sembra improbabile che sia la mélaina cholé descritta dai greci. La bile nera, reale o no, rappresentava comunque qualcosa di pericoloso: infatti, si pensava che causasse non solo depressione ma anche epilessia, emorroidi, mal di stomaco, dissenteria ed eruzioni cutanee.

Alcuni studiosi hanno suggerito che la parola cholé, ossia bile, venisse spesso usata in associazione a chólos, ovvero collera, e che la nozione di bile nera derivasse dalla convinzione che la collera fosse scura.6 Altri hanno spiegato che la percezione del buio come negatività o dolore è comune nell’uomo, che la depressione è stata sempre rappresentata nelle varie culture con il colore nero e che l’immagine dell’umore nero è stata ben delineata da Omero quando parla di «nere nubi dell’angoscia»7 e quando, a proposito di Bellerofonte, afferma: «Ma quando anch’egli fu in odio a tutti i numi / allora errava, solo, per la piana Alea / consumandosi il cuore, fuggendo orme d’uomini».8

Nell’antica Atene esisteva una netta distinzione tra la concezione medica della depressione e quella filosofica e religiosa. Ippocrate criticava i cosiddetti esperti di «medicina sacra», che invocavano gli dei prima di effettuare le terapie, ritenendoli «ciarlatani» e «imbroglioni» e sosteneva che tutta la letteratura filosofica sulla conoscenza della natura non aveva per l’arte medica più valore di quanto ne avesse per la pittura.9

Socrate e Platone rifiutarono le teorie organiche di Ippocrate e dichiararono che, mentre le indisposizioni lievi potevano essere trattate dai medici, i disturbi più profondi dovevano essere di competenza dei filosofi.10 Essi enuclearono le nozioni del sé che ebbero in seguito grande influenza sulla psichiatria moderna. Platone formulò un modello dello sviluppo e affermò che l’infanzia può condizionare la personalità dell’uomo adulto, laddove il sostrato familiare ne può determinare, nel bene o nel male, gli atteggiamenti politico-sociali durante l’intera vita. Il suo modello della psiche dell’adulto – composta da ragione, eros e spirito – ricorda in modo sorprendente quello freudiano. Se Ippocrate è ritenuto l’anticipatore dell’uso della fluoxetina, Platone potrebbe essere considerato il progenitore della terapia psicodinamica. Nell’arco di duemilacinquecento anni le loro teorie hanno subito numerose variazioni, e genio e follia si sono costantemente alternati.

I medici iniziarono ben presto a proporre rimedi orali contro la melanconia. Dopo Ippocrate, Filotimo, notando che molti depressi lamentavano una sensazione come di «testa leggera» o mancante, metteva un casco di piombo ai propri pazienti perché si rendessero conto di avere il capo.11 Crisippo di Cnido credeva che la soluzione ai problemi depressivi fosse consumare più cavolfiore e metteva in guardia dal basilico, a suo avviso dotato di proprietà capaci di scatenare la pazzia. Filistione e Plistonico suggerivano, invece, l’uso di tale pianta quale terapia rivitalizzante ideale; secondo Filagrio, molti sintomi della depressione erano attribuibili alla perdita eccessiva di sperma durante i sogni erotici e, per controllarla, prescriveva una miscela di zenzero, pepe, epitema e miele. I suoi oppositori pensavano invece che la depressione fosse una conseguenza organica dell’astinenza sessuale e raccomandavano ai pazienti di fare sesso.12

A settant’anni dalla morte di Ippocrate la scuola aristotelica iniziò a esercitare una profonda influenza sullo studio del pensiero. Aristotele non accettò il riduttivo concetto ippocratico di anima né il declassamento della figura del medico a quella di semplice artigiano fatta da Platone. Egli propose invece la teoria di un sé unico in cui «tutte le affezioni dell’anima sono date dal corpo e ogni volta che si ha una determinazione dell’anima si ha anche una modificazione del corpo».13 La sua conoscenza della natura umana è superiore alle sue nozioni di anatomia: sosteneva infatti che il cervello fosse un organo privo di qualsiasi facoltà sensitiva e il cuore un meccanismo di regolazione in grado di armonizzare i quattro umori, il cui equilibrio poteva però essere alterato sia dal caldo sia dal freddo.

Diversamente da Ippocrate, non giudicava la depressione del tutto negativa. Aristotele attinse da Platone il concetto di pazzia divina e lo collocò in ambito medico associandolo alla melanconia. Malgrado cercasse di studiare e di alleviare il disturbo, intuì che una certa quantità di atrabile fredda era necessaria all’ingegno: «Tutti coloro che hanno raggiunto l’eccellenza nella filosofia, nella poesia, nell’arte e nella politica, persino Socrate e Platone, avevano un’inclinazione alla melanconia, alcuni erano, addirittura, affetti dalla malattia melanconica». E aggiunse: «Ci troviamo spesso nella condizione di provare dolore senza essere capaci di individuarne la causa; tali sentimenti si manifestano in forma lieve in ognuno di noi, ma chi ne sia totalmente sopraffatto li acquisisce come tratto permanente della sua natura. Chi possiede un carattere lievemente melanconico è normale, ma chi ne possiede uno molto accentuato si distingue dalla maggioranza delle persone. Perché, se la sua condizione è totale, è molto depresso, ma se ha un carattere misto, è un uomo geniale».14

Eracle era il più famoso dei grandi eroi classici afflitti dai disturbi causati dalla bile nera, che colpirono però anche Aiace («gli occhi scintillanti di Aiace furibondi e la sua mente appesantita»).15 Tale nozione di melanconia ispirata venne ripresa da Seneca, che affermò: «Non è mai esistito un grande talento senza un tocco di follia»;16 in seguito riapparve nel Rinascimento e si è riproposta a intervalli regolari fino ai giorni nostri.

Dal IV al I secolo a.C. la scienza medica e la filosofia si svilupparono in parallelo, descrivendo i fenomeni psichici in modo sempre più simile. All’epoca la melanconia sembrava essere, pur nelle sue diverse forme, il destino universale dell’umanità. Il poeta Menandro, vissuto nel IV secolo, scriveva: «Sono un uomo ed è una ragione sufficiente per essere infelice».17 Gli scettici, dediti allo studio del mondo visibile, considerarono i sintomi senza riflettere sulle loro origini o il loro significato profondo. Privi di interesse per le grandi e complesse questioni riguardanti la natura dell’ente fisico e psichico, di cui si erano occupati Ippocrate e Aristotele, cercarono di classificare i sintomi per poter differenziare le varie malattie.18

Nel III secolo a.C. Erasistrato distinse il cervello dal cervelletto, affermando che l’intelligenza risiedeva nel primo mentre le capacità motorie avevano invece sede nel secondo.19 Erofilo di Calcedonia asserì che i nervi avevano origine dal cervello e che «in essi “cammina” un’energia motrice», introducendo così l’idea di un organo di controllo che regolava il sistema nervoso. Menodoto di Nicomedia, vissuto nel I secolo d.C., combinò tutte le conoscenze precedenti incorporando i pensieri degli empirici, interessati ai sintomi, con quelli dei grandi filosofi e dei medici antichi. Per la depressione raccomandò l’elleboro, suggerito da Ippocrate, l’autoesame proposto da Aristotele e introdusse anche l’uso terapeutico della ginnastica, del viaggio, del massaggio e delle acque minerali.20 Un simile programma onnicomprensivo è esattamente la strategia antidepressiva che si cerca di adottare oggi.

Rufo di Efeso, contemporaneo di Menodoto, distinse il delirio melanconico e descrisse la melanconia come un’aberrazione a sé stante che colpiva menti altrimenti sane. Egli catalogò i deliri di alcuni pazienti depressi e curò in più fasi un uomo che si credeva un vaso di terracotta, un altro che pensava che la sua pelle stesse seccandosi e staccandosi dal corpo e uno che riteneva di non avere la testa. Individuò i sintomi fisici oggi attribuiti all’ipotiroidismo, uno squilibrio ormonale con manifestazioni affini a quelle depressive. A suo parere le cause primarie della melanconia erano rappresentate dal consumo di carni troppo grasse, dalla mancanza di movimento fisico, dall’assunzione eccessiva di vino rosso e da uno sforzo intellettuale esagerato.

Rufo osservò inoltre che i geni erano particolarmente soggetti alla malattia. Alcuni melanconici «sono tali per natura, in virtù del loro temperamento congenito» mentre altri «lo diventano». Descrisse gradi e tipi della melanconia, in particolare una forma in cui la bile nera infetta il sangue, un’altra in cui colpisce solo la testa e un’altra ancora che provoca «ipocondria». Sostenne infine che i suoi pazienti melanconici soffrivano a causa dell’accumulo dei fluidi sessuali, la cui putrefazione infettava il cervello.

Egli suggeriva di debellare il disturbo depressivo prima che si radicasse: a tal fine proponeva il salasso e una «purga di cuscuta epitimo e di aloe, perché queste due sostanze, assunte quotidianamente in piccole dosi, provocano un’evacuazione moderata e benefica degli intestini». Al rimedio poteva essere aggiunto un po’ di elleboro nero.

Rufo raccomandava di passeggiare con regolarità, di viaggiare e di lavarsi con cura prima dei pasti. Ideò anche la formula di un «sacro rimedio», una sorta di antidepressivo dell’epoca, che rimase famosa almeno fino al Rinascimento e, in caso di bisogno, fu impiegata anche più tardi: si trattava di un liquido composto da coloquintide, bugola gialla, teucrio, cassia, agarico, assafetida, prezzemolo selvatico, aristolochia, pepe bianco, cannella, nardo indiano, zafferano, mirra e miele, somministrato in dosi di circa 7 grammi insieme a idromele e acqua salata.21

Altri medici del tempo proposero di tutto: dalle catene alle punizioni, dal posizionamento di un tubo gocciolante accanto al melanconico per indurlo a dormire all’uso di un’amaca e alla somministrazione di cibi umidi dai colori tenui quali il pesce, il pollame, il vino diluito e il latte umano.22

Il periodo tardo romano segnò l’acquisizione di ampie conoscenze sull’argomento. Nel II secolo d.C. Areteo di Cappadocia studiò la mania e la depressione, sia quali disturbi associati sia quali entità distinte: egli credeva in un’anima materiale che aleggiava nel corpo e si rivelava con manifestazioni di calore negli accessi di collera, arrossando il volto, mentre nello stato d’ansia si ritirava producendo pallore. A suo giudizio nei melanconici il livello della bile nera «poteva essere aumentato dallo sgomento e dall’ira eccessiva» e, dato che umori e sentimenti si influenzavano a vicenda, un raffreddamento dell’energia vitale dell’anima poteva portare a gravi disturbi dell’umore. Questi, a loro volta, potevano determinare un raffreddamento della bile.

Areteo fu il primo a fornire un quadro convincente di ciò che oggi chiamiamo depressione agitata, disturbo frequente in tutte le epoche come la tristezza, ma che l’odierna opinione comune tende erroneamente ad attribuire alla società postindustriale. Egli scrisse che il melanconico «è costantemente abbattuto e triste … si immagina di essere imprigionato, fugge … nella solitudine, si tormenta per delle idee superstiziose», è colto da «terrore, prende i suoi sogni per verità, si isola e si lamenta di mali immaginari, maledice la propria vita e desidera la morte … I melanconici si svegliano di soprassalto già pieni di stanchezza». In alcuni casi la depressione sembra essere una specie di «semimania»: i pazienti «rimangono fissi sempre sulla stessa idea» e «il pensiero può essere tanto triste quanto gaio».23

Areteo sottolineò che la depressione grave colpiva sovente chi era già incline alla tristezza, specialmente gli anziani, gli obesi, i deboli e le persone sole e suggerì che l’amore fosse il miglior medico per il disturbo. Il rimedio orale da lui raccomandato consisteva nel consumo regolare di more e porri; sosteneva anche la pratica psicoterapeutica della descrizione dei sintomi ed era convinto di poter aiutare i pazienti a liberarsi dalle loro paure descrivendole.

Claudio Galeno, nato nel II secolo d.C., medico personale dell’imperatore Marco Aurelio e forse uno dei più famosi dopo Ippocrate, cercò di sintetizzare l’opera dei suoi predecessori in chiave neuropsicologica. Egli descrisse i deliri melanconici – un suo paziente temeva che Atlante si sarebbe stancato di reggere il mondo e lo avrebbe fatto cadere, un altro pensava d’essere una chiocciola dal guscio fragile – e ne identificò le cause in un misto di paura e di avvilimento. Vide «giovani sani» con «tremoribus cordis» e adolescenti «deboli e fiacchi, ottusi e inetti» per la depressione. I pazienti melanconici di Galeno avevano «sonno esiguo, interrotto e turbolento, palpitazioni, nel corpo … vertigini». Altri «ansiosi, paurosi, stimano di avere nemici, di essere indemoniati … invisi agli dei».24

Galeno condivideva inoltre la convinzione di Rufo quanto alle disastrose conseguenze di un mancato sfogo sessuale: egli trattò una paziente, il cui cervello, così riteneva, era tormentato dai fumi nocivi dei fluidi sessuali imprigionati e in via di putrefazione, «con stimolazione manuale di vagina e clitoride, il che le procurò visibilmente piacere; in tal modo, ottenuta un’abbondante secrezione, la donna guarì». Anche Galeno aveva i suoi rimedi, molti dei quali contenevano gli ingredienti usati da Rufo, e raccomandava un antidoto a base di piantaggine, mandragola, fiori di tiglio, oppio e rucola per la terapia dell’ansia associata alla depressione. È interessante ricordare che mentre Galeno inventava il suo tonico, in un altro continente gli aztechi introducevano l’uso di droghe fortemente allucinogene per prevenire, tra i prigionieri, la depressione, che ritenevano di cattivo auspicio: a quelli che dovevano essere sacrificati veniva somministrata una bevanda speciale per scongiurare gli attacchi di disperazione, in modo che non offendessero gli dei.25

Galeno credeva in un’anima fisica, ciò che oggi chiameremmo psiche, ubicata nel cervello: quest’anima era dominata da un sé tanto potente sul corpo quanto Dio lo è sul mondo. Combinando la teoria dei quattro umori con le nozioni di temperatura e di umidità, formulò la tesi dei nove temperamenti, ciascuno corrispondente a un tipo di anima. Uno di essi presentava i segni della melanconia, concepita non come malattia ma come tratto della personalità: «Taluni uomini sono per natura ansiosi, depressi, preoccupati e sempre meditabondi; il medico non può far molto per loro».

Egli notò che la melanconia poteva essere causata da una lesione cerebrale o essere conseguenza di fattori esterni che avevano modificato il funzionamento di un cervello sano. In presenza di uno squilibrio umorale la bile nera poteva salire fino al cervello ed essiccarlo, il che causava danni alla personalità. L’umore, come una tenebra, invadeva la sede dell’anima, in cui si trova la ragione. «Come i bambini che hanno paura delle tenebre, così diventano gli adulti che cadono in preda alla bile nera, che crea la paura»: nel loro cervello scende la notte continua, ed essi vivono nella paura incessante. Per tale ragione «i melanconici desiderano e nello stesso tempo temono la morte»; evitano la luce e amano l’ombra. L’anima può, in effetti, essere offuscata. «Il cristallino se è limpido permette una chiara visione … ma se si ammala diventa oscuro e non permette la visione», così «quando la bile nera … simile alle tenebre … invade la sede dell’anima, dove sta la ragione … che è come una luce … compare allora la melanconia.»

Galeno, più incline all’approccio psicobiologico che filosofico, fu molto critico con coloro che attribuivano la melanconia a fattori emozionali astratti, pur ritenendo che questi ultimi potessero aggravare la sintomatologia di una mente già alterata da uno squilibrio umorale.

La fase successiva della storia della medicina affonda le sue radici nella filosofia degli stoici: nell’alto Medioevo, dopo la caduta di Roma, predominava la loro convinzione che la malattia mentale fosse causata da fattori esterni.26 L’ascesa del cristianesimo tornò a sfavore di chi era affetto da depressione. Sebbene Galeno rappresentasse l’autorità medica nel Medioevo, le sue terapie psicofarmaceutiche contrastavano con le regole della Chiesa e, bandite sul piano filosofico, vennero sempre meno utilizzate.

Sant’Agostino aveva dichiarato che ciò che distingueva gli uomini dalle bestie era il dono della ragione. La perdita della ragione faceva quindi dell’uomo una bestia.27 Partendo da tale presupposto era facile concludere che la perdita dell’intelletto fosse un segno della riprovazione divina, una punizione inflitta a un’anima peccatrice. La melanconia era un disturbo particolarmente grave, poiché la disperazione dell’individuo che ne era colpito rivelava come il suo animo non conoscesse la gioia scaturita dalla consapevolezza dell’amore e della grazia divini. La melanconia era, in quest’ottica, un allontanamento da tutto ciò che era santo. Inoltre, la depressione profonda era spesso prova di possessione: un povero pazzo aveva in sé il demonio: se quel demonio non poteva essere allontanato con l’esorcismo, allora egli stesso veniva ostracizzato.

Il clero trovò pronta giustificazione di una simile teoria nella Bibbia: Giuda si era suicidato, si pensava, perciò doveva essere melanconico e di conseguenza tutti i melanconici erano simili a lui per natura. La descrizione di Nabucodonosor nel libro di Daniele veniva utilizzata per dimostrare che Dio puniva il peccatore rendendolo insano di mente.28

Nel V secolo Cassiano scrisse della «sesta battaglia» contro «la stanchezza e la disperazione del cuore» sostenendo che «questo è “il demone di mezzogiorno” menzionato nel novantesimo Salmo», il quale «provoca avversione per il luogo in cui ci si trova, disgusto, sdegno e disprezzo per gli altri uomini e pigrizia». Il brano in questione si trova nei Salmi e, tradotto letteralmente dalla Vulgata, suona così: «La sua verità ti sarà scudo e corazza; non temerai i terrori della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio dal demone del mezzogiorno» (daemonio meridiano). Cassiano presumeva che i «terrori della notte» si riferissero al male, «la freccia che vola di giorno» all’assalto furioso dei nemici dell’uomo, «la peste che vaga nelle tenebre» ai demoni che giungevano nel sonno; «lo sterminio» alla possessione e il «demone di mezzogiorno» alla melanconia, il male chiaramente visibile nell’ora più luminosa del giorno, che tuttavia strappa l’anima da Dio.29

Altri peccati possono minare la serenità della notte, ma questo è tanto grave da devastare sia il giorno sia la notte. Che cosa si potrebbe dire in favore di un uomo non protetto dallo scudo della verità di Dio? La punizione può essere il rimedio per redimere un caso così disperato: Cassiano riteneva quindi opportuno obbligare il melanconico a svolgere lavori manuali; i suoi simili, dal canto loro, dovevano abbandonarlo.

Avvalendosi dello stesso concetto, Evagrio sostenne che l’abbattimento melanconico era un «demone di mezzogiorno» che colpiva e allettava gli asceti, e lo incluse tra le otto tentazioni principali a cui l’uomo doveva resistere sulla terra.30 Ho scelto l’espressione come titolo del libro perché coglie esattamente ciò che si prova durante la depressione: essa evoca, infatti, quel terribile senso di possessione che accompagna la condizione del depresso. Ma in questo male c’è un tratto d’impudenza. La maggior parte dei demoni, ovvero le diverse forme di angoscia, confidano nella protezione della notte: vederli chiaramente equivale a sconfiggerli. La depressione invece resiste al pieno bagliore del sole e, pur identificata come tale, resta inalterata. È possibile conoscerne tutte le cause e tutti motivi, e soffrire ugualmente come se si brancolasse nel buio. Non esiste quasi nessun’altra condizione mentale di cui si possa affermare la stessa cosa.

Durante l’Inquisizione, nel XIII secolo, alcuni depressi vennero multati o imprigionati per la loro colpa.31 Nello stesso periodo Tommaso d’Aquino, che collocava gerarchicamente l’anima al di sopra del corpo, sostenne che la prima non fosse soggetta alle malattie corporali ma che, posta pur sempre su un piano inferiore a quello divino, fosse aperta all’intervento di Dio o di Satana. In questo contesto, in cui un’infermità poteva colpire il corpo o l’anima, la melanconia fu ritenuta un disturbo dell’anima.32 La Chiesa medievale definì nove peccati mortali (in seguito ridotti a sette), tra i quali c’era l’acedia, l’accidia (tradotta con il termine «pigrizia» nel XIII secolo). La parola veniva usata in senso tanto ampio quanto quello di depressione oggi, e descriveva sintomi familiari a chiunque abbia conosciuto, in modo diretto o indiretto, la depressione, sintomi che in precedenza non venivano considerati un vizio.

Il parroco di Chaucer ne parla come di qualcosa da cui «proviene che l’uomo si sottragga a tutte le buone azioni… L’acedia è nemica di tutte queste cose, giacché essa non ama attività alcuna. Questo sozzo peccato è anche nemico della stessa vita perché in esso non si provvede alle necessità temporali e si spreca, si guasta e distrugge per ignavia qualsiasi bene temporale… L’accidioso somiglia a coloro che soffrono le pene dell’inferno, a causa dell’ignavia e dell’indolenza… Rende l’uomo pesante e torpido».

Il passo continua a lungo, con toni sempre più aspri e censori. L’accidia è un peccato complesso, i cui elementi sono illustrati dallo stesso parroco: «Viene di qui l’indolenza che non accetta scomodità o penitenza, e in vero, come dice Salomone, l’indolente è così molle e delicato da non sopportare alcuna difficoltà o sofferenza, e perciò svilisce ogni cosa che fa… Di qui viene la titubanza a iniziare qualsiasi opera buona… Viene quindi la disperazione che è sfiducia nella misericordia di Dio e deriva talvolta da un grande dolore o da eccessiva paura. Si pensa di avere molto peccato e senza più rimedio, e che perciò a nulla valga pentirsi e abbandonare il peccato… Questa dannata disperazione, se viene portata all’estremo, è peccato contro lo Spirito Santo… La sonnolenza, il pigro sonnecchiare, rende l’uomo pesante e torpido in anima e corpo, e questo peccato deriva da indolenza… Viene, in ultimo, il peccato del dolore mondano, chiamato tristicia che, secondo san Paolo, uccide l’uomo provocando la morte dell’anima e del corpo, perché colpisce l’uomo che è stanco della propria vita, e molto spesso ne recide il corso alquanto prima del tempo destinato da natura».33

I monaci, in particolare, erano inclini all’accidia, che in loro si manifestava sotto forma di spossatezza, svogliatezza, tristezza o abbattimento, irrequietezza, avversione alla cella e alla vita ascetica, nonché brama di una vita normale e di una famiglia. L’accidia si distingueva dalla tristezza (tristia) che riconduceva l’uomo a Dio e al pentimento.34 I testi medievali non sono chiari in ordine al ruolo della volontà a questo proposito: era peccato lasciare che nel proprio animo si sviluppasse l’accidia? O questa era una punizione assegnata a chi aveva commesso qualche altro peccato? Quanti la combattevano in modo accanito la ponevano sullo stesso piano del peccato originale. Così scrisse Ildegarda di Bingen, nota per l’incisività del suo stile: «Nel momento in cui Adamo disobbedì alla legge divina, in quell’esatto istante la melanconia si coagulò nel suo sangue».35

Nel Medioevo l’ordine era precario e il disordine della mente suscitava quindi grande paura. Quando la ragione veniva compromessa, la compagine dell’esistenza umana andava in pezzi e l’ordine sociale, di conseguenza, si disintegrava. Se la stravaganza era un peccato, la malattia mentale era un evento ancora più grave. La ragione era ritenuta indispensabile per poter scegliere la virtù: senza di essa l’uomo era privo dell’autocontrollo necessario a operare tale scelta. La psiche, secondo l’interpretazione dei pensatori classici, non poteva essere distinta dal corpo; l’anima, secondo i cristiani medievali, non aveva legami con il corpo.

Proprio da questa tradizione ha avuto origine la stigmatizzazione dei disturbi depressivi che ancora oggi sperimentiamo. L’anima, in quanto dono divino, dovrebbe essere perfetta: spetta a noi lottare per mantenerla tale. Le sue eventuali imperfezioni rappresentano quindi la principale fonte di vergogna nella nostra cultura: la disonestà, la crudeltà, l’avidità, l’egoismo e gli errori di giudizio sono tutti difetti dell’anima che cerchiamo automaticamente di eliminare. Associata a queste «afflizioni dell’anima», la depressione ci appare dunque detestabile.

Molte sono le testimonianze che indicano come tale visione abbia posto in cattiva luce la malattia. Il pittore Hugo Van der Goes, per esempio, entrò in monastero verso il 1480, ma in virtù del suo grande talento continuò ad avere rapporti regolari col mondo esterno. Una notte, di ritorno da un viaggio, si narra che fu «colpito da uno strano turbamento d’animo. Gridava senza sosta di essere destinato e condannato alla dannazione eterna. Si sarebbe perfino ferito, poiché apparizioni illusorie gli annebbiavano la mente malata». Secondo quanto riferito dai confratelli, che tentarono di alleviarne i disturbi con la musica, «la sua condizione non migliorò, continuava a parlare in modo incoerente e a considerarsi un figlio della perdizione». I monaci si chiesero se Hugo fosse in preda al furore artistico o posseduto da uno spirito maligno e convennero che si trattava di entrambe le cose, forse a causa del suo consumo eccessivo di vino rosso. L’uomo era terrorizzato dalla quantità di lavoro che gli era stato commissionato ed era convinto che non sarebbe riuscito a portare a termine le opere. Col passare del tempo, grazie alle pratiche penitenziali, recuperò per un certo periodo la serenità interiore, ma ebbe una ricaduta e morì miseramente.36

Se il Medioevo considerò la depressione sotto il profilo morale, il Rinascimento la celebrò. Sulla scorta dei filosofi (più che dei medici) classici, i pensatori rinascimentali intesero la depressione come un segno di profondità interiore. La filosofia umanista rappresentò una sfida alla dottrina cristiana (sebbene in altri casi avesse rafforzato le convinzioni e i dogmi religiosi). Il dolore irrazionale che nel Medioevo era recepito come un peccato e una maledizione, ora diventava una malattia (chiamata sempre più spesso melanconia), caratteristica di una determinata personalità (definita sempre più spesso melanconica). Tra i vari scrittori del tempo che s’interessarono della depressione (e furono davvero molti) emerge Marsilio Ficino, convinto che la melanconia, presente in ogni uomo, fosse la manifestazione del suo desiderio di grandezza e di eternità.37

A proposito di quanti la ritenevano un difetto egli scrisse: «Sorprende che, ogniqualvolta siamo liberi da impegni, cadiamo in preda al dolore come esiliati, come se non conoscessimo la causa del nostro dolore, o di certo non vi riflettessimo… nel bel mezzo dei giochi di piacere talora sospiriamo, e quando questi terminano, ce ne andiamo ancor più afflitti». La melanconia qui descritta si svela dietro l’attività della vita quotidiana, quale caratteristica costante dell’anima. Ficino riprende l’idea aristotelica della divina follia della tristezza e continua a ribadire che il filosofo, il pensatore o l’artista saranno necessariamente più a stretto contatto con la melanconia rispetto all’uomo comune e che solo grazie all’intensità di tale esperienza si eleveranno sulle banalità della vita quotidiana.

Per Ficino la mente tormentata è la più degna perché si rende conto della rattristante inadeguatezza della sua conoscenza di Dio. Questo diviene per lui un credo quando spiega la natura della melanconia divina: «Finché saremo i rappresentanti di Dio sulla terra, saremo continuamente tormentati dalla nostalgia per la patria celeste». La conoscenza produce insoddisfazione e la sua conseguenza è la melanconia, la quale separa l’anima dal mondo e la spinge alla purezza. La mente «aumenta in perfezione quanto più si distacca dal corpo: essa sarà perfetta nel momento in cui lo lascerà del tutto». Nell’ottica di Ficino la la melanconia divina è dunque molto simile alla morte.

In seguito l’umanista spiegò che la creazione artistica si doveva a una musa che ispirava gli artisti durante uno stato di temporanea follia e che la melanconia costituiva un requisito essenziale di tale condizione. Riconobbe tuttavia che la depressione era un disturbo terribile e raccomandò alcuni rimedi, tra i quali l’esercizio fisico, una dieta adeguata e la musica. Ficino stesso ne era vittima: nei momenti di crisi non riusciva però a trarre beneficio dalle sue affascinanti argomentazioni e i suoi amici, quando gli facevano visita, dovevano spesso ricordargliele. Come la maggior parte del pensiero postrinascimentale sulla melanconia, queste erano perlopiù di natura autobiografica: Ficino esortava a adottare un atteggiamento a metà tra la flemma non melanconica e la malattia melanconica disperata e, non a caso, intitolò il sesto capitolo del suo primo libro Come la bile nera renda l’uomo intelligente.

Il Rinascimento tentò di conciliare il retaggio del pensiero classico con la «conoscenza» accettata nel Medioevo. Poiché contemperava la dottrina del temperamento con l’infatuazione medievale per gli oroscopi, Ficino descrisse Saturno come pianeta influente, isolato e ambivalente, che regnava sulla melanconia. Saturno è «il signore della contemplazione segreta» secondo l’alchimista e cabalista Agrippa,38 «non affidato al pubblico utilizzo, il più alto dei pianeti che dapprima richiama l’anima dai doveri esterni al suo intimo, poi la solleva dalle faccende minori conducendola sempre più in alto e concedendole ogni sapere». Tali idee sono esposte negli scritti di Giorgio Vasari sui maggiori artisti del suo tempo.39

Il Rinascimento inglese si avvicinò maggiormente alla concezione medievale di melanconia rispetto a quello italiano, anche se verso la fine del XV secolo il pensiero delle regioni meridionali dell’Europa prese a diffondersi al nord. Gli inglesi continuarono perciò a credere che la melanconia fosse provocata «dall’intervento o dall’ingerenza di angeli malvagi»40 e che le sue vittime non fossero quindi responsabili di tale sventura. Per i pensatori rinascimentali inglesi il senso di colpa che provava il melanconico era un male pericoloso, non un segno dell’assenza dell’amore di Dio, e non doveva essere confuso con il vero senso di colpa avvertito dal peccatore. Di certo non era sempre facile distinguere. Uno studente dalla «disposizione d’animo melanconica, crucciato dall’angoscia» dichiarò di aver percepito all’improvviso «uno Spirito malvagio entrare dal basso come un vento e arrampicarsi lungo il corpo fino a impossessarsi della testa».41 Egli fu infine liberato dalla presenza del diavolo, ma altri non furono tanto fortunati. George Gifford si chiese «quali specie d’uomini si prestano meglio a diventare strumenti diabolici di stregonerie e magie». La risposta fu che il diavolo cerca «persone empie, cieche, inaffidabili, oppresse e immerse nell’ignoranza nera. Se oltre tutto c’è una costituzione di tipo melanconico del corpo, le sue impronte si imprimono sempre più profondamente nella mente».42

Se nei paesi nordici si associa la melanconia alla stregoneria, al sud la si associa alla genialità. Il medico olandese Jan Wier,43 il cui De praestigiis daemonum viene citato da Freud come uno dei dieci libri più importanti di tutti i tempi,44 fu un grande difensore delle streghe, che considerava affette da melanconia: dichiarandole malate di mente, riuscì a salvarne alcune dall’esecuzione. Wier sostenne la propria tesi dimostrando che spesso le vittime delle streghe soffrivano di deliri e concentrandosi, in particolare, sui molti uomini che le accusavano di aver rubato loro il pene. Egli insistette che gli organi rubati sarebbero stati facilmente individuati nel posto in cui da sempre si trovavano, suggerendo che del resto codeste «bacchette magiche» andassero di rado perdute. Se le cosiddette «vittime» delle streghe erano in preda a deliri, chi le accusava era ancora più pazzo.

La sua tesi venne ripresa dall’inglese Reginald Scot, che nel suo libro sulla stregoneria, del 1584, suggerì che le streghe non erano altro che vecchie depresse e sofferenti, ossessionate dal male, che scioccamente si assumevano la colpa dei problemi che le circondavano. Nella loro «mente intorpidita il diavolo ha trovato una buona sede, cosicché qualsiasi malvagità, cattiveria, calamità o strage avvenga si persuadono facilmente d’averla provocata loro». L’idea che ciò che si riteneva una verità religiosa non fosse che follia connessa con il disturbo della melanconia trovò forti oppositori, i quali continuarono a difendere la posizione medievale. Sebbene il libro di Scot fosse molto letto nell’Inghilterra elisabettiana, re Giacomo ordinò di bruciarne tutte le copie, come si faceva con le streghe.45

L’idea della malattia mentale prese, a poco a poco, il sopravvento su quella della possessione. In Francia, in un caso di stregoneria, i medici percepirono nell’accusata «alcuni brontolii sotto le coste più corte, sul lato sinistro, tipici di chi soffre di malumore».46 Si arrivò quindi alla disposizione del sinodo del 1583, che ordinava ai sacerdoti di «indagare diligentemente nella vita del posseduto» prima di ricorrere a un esorcismo, «poiché spesso chi è melanconico, lunatico, stregato dalle arti magiche … ha più bisogno di una terapia medica che di un esorcismo».47 Il razionalismo rinascimentale trionfò alla fine sulla superstizione medievale.

I francesi furono i primi a trattare con efficacia i sintomi che potevano suggerire sia una malattia primaria sia un disturbo dell’immaginazione. Montaigne, anch’egli piuttosto incline alla melanconia, tenne in grande considerazione i benefici effetti della filosofia e della fisica, ma nello stesso tempo usò in modo spettacolare alcune tecniche liberatorie e diversive. Racconta per esempio il caso di una donna angosciata perché credeva di aver ingoiato un ago: per aiutarla, la fece rigurgitare e mise un ago nel vomito.48

Nel Discourse of Melancholike Diseases, pubblicato in inglese nel 1599, Andreas du Laurens rappresentò la melanconia come «un disturbo freddo e asciutto del cervello» che poteva essere provocato «non dalla disposizione del corpo» ma dal modo di vivere e da certi studi a cui «i pazienti si dedicano maggiormente».49 Du Laurens distinse la mente in tre componenti: ragione, immaginazione e memoria. Poiché la melanconia era una malattia dell’immaginazione, egli ritenne che il melanconico avesse una ragione integra: non era quindi privato della sua umanità (la sua «anima razionale immortale») e agli occhi della Chiesa non era maledetto da Dio.

Du Laurens si convinse che la melanconia potesse insorgere gradualmente e differenziò i «caratteri melanconici che si mantengono entro i confini e i limiti della salute» da quelli che ne escono. Come la maggior parte delle opere sull’argomento, il suo libro è pieno di descrizioni aneddotiche, tra cui spicca quella di «un signore senese che aveva deciso di morire pur di non orinare perché pensava che avrebbe potuto sommergere l’intera città». L’uomo era apparentemente in preda a un’ansia depressiva, a un senso di autodistruzione e si stava provocando un trauma alla vescica; il suo medico finì per appiccare un incendio accanto alla sua abitazione, per fargli credere che la città stesse andando a fuoco e che solo lui, con la sua urina, avrebbe potuto salvarla. E con questo stratagemma lo guarì.

Du Laurens è forse meglio conosciuto per la sua complicata teoria secondo la quale le persone vedrebbero all’indietro: gli occhi si rovescerebbero all’interno e guarderebbero il cervello. Non è chiaro quale sorprendente spettacolo si riveli in tal modo all’individuo contento, ma il melanconico, avendo il cervello permeato di bile nera, vede scuro dappertutto. «Gli spiriti e i vapori neri passano continuamente attraverso i nervi, le vene e le arterie, dal cervello agli occhi, che fanno vedere molte ombre e apparizioni irreali nell’aria, le forme dagli occhi vengono trasmesse all’immaginazione.» La situazione diviene in seguito molto sgradevole, in quanto tali ombre continuano a irritare l’occhio anche quando è rivolto al mondo esterno: per questo il melanconico vede «molti corpi volare, come formiche, mosche e lunghi capelli, per cui vorrebbe sempre vomitare».

In quell’epoca cominciò a diffondersi la distinzione tra dolore e melanconia; si stabilirono inoltre i limiti del rapporto ragionevole tra perdita e dolore, e si studiarono i casi che li travalicavano in base a un principio che sarebbe stato sviluppato da Freud tre secoli dopo e che viene tuttora impiegato nella diagnosi della depressione. Un medico degli inizi del XVII secolo scrisse che un paziente era arrivato al punto di «non riuscire a gioire per niente» in seguito a un lutto, e che un’altra donna era «angosciata dalla melanconia, al punto da non poter sopravvivere alla morte della madre, scomparsa tre mesi prima. Piangeva, si lamentava, delirava e non reagiva». Un altro medico affermò che l’infelicità e il dolore comuni «aprono la strada al peggior nemico della natura, ossia la melanconia».50 Talora questa veniva vissuta come un fatto normale, sia pure eccessivo, talaltra, come una vera e propria anomalia, e tale distinzione venne ben presto assunta a criterio valutativo standard.

Per tutto il XVII secolo la melanconia «comune» fu un disturbo frequente, con implicazioni sia gradevoli sia sgradevoli. Le argomentazioni di Ficino e dei suoi colleghi inglesi vennero riprese in tutta Europa, in particolare, da Levinus Lemnius in Olanda, da Huarte e Luis Mercado in Spagna, da Giovanni Battista Silvatico in Italia e da Andreas du Laurens in Francia.51 Tutti questi autori considerarono la melanconia una qualità capace di rendere l’uomo migliore e più ispirato rispetto ai suoi simili.

La concezione aristotelica della melanconia si diffuse nell’intera Europa e tale stato d’animo divenne di gran moda. In Italia, dove Ficino aveva inequivocabilmente identificato la melanconia con il genio, chi si credeva geniale si aspettava anche di essere melanconico, e se chi era davvero brillante soffriva a volte di tristezza, chi voleva essere scambiato per un uomo intelligente fingeva di essere melanconico. A Firenze un gruppo di intellettuali saturnisti cosmopoliti si riunì attorno a Ficino. Gli inglesi che visitavano l’Italia e che entravano in contatto con il loro ambiente tornavano in patria ostentando un atteggiamento melanconico considerato molto raffinato; e poiché solo i benestanti avevano la possibilità di viaggiare, la melanconia divenne, per gli inglesi, una malattia aristocratica. Lo scontento delle classi alte – il temperamento cupo, triste, taciturno, confuso, irritabile, burbero, austero – diventa, alla fine del XVI secolo, un prototipo sociale, descritto e ridicolizzato dalla letteratura dell’epoca, soprattutto dalla figura shakespeariana del «melanconico Giacomo» in Come vi pare.

La magistrale rappresentazione che Shakespeare dà della melanconia, in particolare attraverso il personaggio di Amleto, era destinata a cambiare per sempre il modo d’intendere la questione. Nessun altro autore riuscì a descrivere il problema con tanta immedesimazione e compenetrazione, intrecciato com’è alla gioia e alla tristezza, elemento essenziale della saggezza ma anche seme della follia, stimolo prezioso per l’astuzia ma anche per l’autodistruzione. Prima di Shakespeare la melanconia era un’entità distinta, dopo, non fu più facilmente separabile dal resto della persona, così come non lo è l’indaco dallo spettro della luce: ciò che un prisma rivela per un istante non può cambiare la realtà quotidiana del sole.

Al tempo della prima rappresentazione di Amleto la melanconia costituiva più un privilegio che una malattia. Uno scontroso barbiere in una commedia della metà del XVII secolo dichiara di sentirsi melanconico e riceve duri rimproveri: «Melanconia? Accidenti, che fesseria! Può un barbiere pronunciare la parola melanconia? Si dovrebbe dire oppresso, triste e sciocco: la melanconia orna piuttosto l’elmo di un cortigiano!».52

Dalle annotazioni di un medico dell’epoca, che curava perlopiù i contadini e le loro mogli, emerge che il 40 per cento dei suoi pazienti melanconici era nobile. I due terzi degli aristocratici che si recavano da lui per un consulto presentavano tale disturbo: questi uomini e donne ben informati non parlavano semplicemente delle ondate di tristezza, ma si esprimevano con precisione basandosi sulla conoscenza scientifica e sulla moda dell’epoca. Un paziente era «desideroso d’avere qualcosa per evitare i vapori che provenivano dalla bile». I preparati di elleboro erano ancora i preferiti e il medico prescriveva hiera logadii, lapislazzuli, elleboro, chiodi di garofano, polvere di liquirizia, diambra e pulvis sancti, ingredienti che dovevano essere disciolti in vino bianco e borragine.53 Venivano inoltre consultate le carte astrologiche (che costituivano un’altra fonte di informazioni e servivano a determinare la durata della terapia) e presi in considerazione i salassi; anche la consulenza religiosa era ritenuta una buona strategia.

Proprio come quando comparve la fluoxetina sembrò che tutti, indiscriminatamente, si sentissero depressi e pensassero di dover combattere il male o di doverne parlare in continuazione, così all’inizio del XVII secolo anche l’uomo sano fu coinvolto in questa spirale. Nel 1630, come nel 1990, il significato della parola melanconia o depressione, associata alla malattia, divenne confuso.

Quando l’accidia era considerata un peccato, ammetteva il proprio disturbo solo chi era tanto ammalato da risultare debilitato o chi soffriva d’ansia maniacale. Ora che la parola melanconia aveva assunto un significato di grande profondità, di sentimento, di complessità e perfino di genio, le persone iniziarono a comportarsi da depresse pur in assenza di cause mediche. Ben presto si scoprì che, per quanto il vero disturbo potesse essere doloroso, il comportamento depresso era talvolta piacevole. Molti restavano stesi per ore su morbidi giacigli a fissare la luna e a porsi domande esistenziali, dichiarando di temere le difficoltà e rifiutandosi di parlare con gli altri: assunsero, in sostanza, proprio il comportamento che i provvedimenti contro l’accidia intendevano prevenire. La struttura del disturbo era fondamentalmente la stessa di quello che oggi chiamiamo depressione. Questa forma di melanconia era un’afflizione encomiabile, oggetto di continua analisi.54 Quelli che erano realmente afflitti da melanconia ricevettero simpatia e affetto in dosi massicce e, grazie ai progressi medici, vissero meglio che in passato. Quello stato mentale, che ispirò molte elegie, potrebbe essere definito melanconia bianca, poiché è più struggente che oscuro. Il pensieroso di Milton incarna mirabilmente l’idea che ne ebbe il XVII secolo:

… salve a te, saggia e santa Dea,

salve, divina Melanconia,

il tuo volto è troppo luminoso

da sopportare all’umana vista.

Si giunge poi a celebrare con tono solenne l’isolamento monastico, la tristezza e la vecchiaia:

Trova l’eremo sereno,

L’ispida veste e la cella muschiosa,

Finché l’esperienza di un’intera vita

non mi darà sensibilità profetica.

Tali piaceri, Melanconia, donami,

E io con te sceglierò di vivere.55

Il XVII secolo vide la nascita del più grande sostenitore della melanconia di tutti i tempi: in Anatomia della melanconia, l’opera cui dedicò tutta la sua esistenza, Robert Burton integrò il pensiero di un millennio con le sue intuizioni personali.56 Il libro, il più citato sull’argomento prima del freudiano Lutto e melanconia, è un testo sottile, contraddittorio, male articolato e molto dotto che sintetizza e cerca di conciliare le filosofie di Aristotele e di Ficino, lo studio caratteriale di Shakespeare, le teorie mediche di Ippocrate e di Galeno, gli afflati religiosi della Chiesa medievale e rinascimentale e le esperienze personali di malattia e di introspezione. La facoltà propria dell’autore di individuare i veri legami tra la filosofia e la medicina, tra la scienza e la metafisica, ci avvia verso una teoria unificatrice della mente e della materia.

Il suo merito, tuttavia, non è stato tanto il dirimere idee contrastanti quanto quello di tollerarne le contraddizioni: Burton è in grado di fornire sei spiegazioni discrepanti di un determinato fenomeno pur senza mai definirlo multifattoriale. Al lettore moderno ciò potrebbe apparire bizzarro, ma esaminando i testi recentemente pubblicati dal National Institute of Mental Health ci si accorge che la complessità dei disturbi depressivi risiede proprio nel fatto d’essere spesso multifattoriali: la depressione è la meta comune a cui conducono molte strade, e in ogni individuo una determinata sintomatologia può essere il risultato di uno o più percorsi.

Burton propone una spiegazione fisica della melanconia: «il nostro corpo è come un orologio, se manca una rotella, tutto il resto è alterato, l’intera struttura ne soffre». Egli riconosce che «come i filosofi hanno otto gradi di caldo e freddo, noi ne abbiamo 88 di melanconia, dato che le parti interessate ne sono colpite in misura diversa, o sono state gettate più o meno in profondità in questo abisso infernale». In seguito dichiara: «Proteo stesso non è tanto diverso; come si può dare un nuovo volto alla Luna, così si può individuare un carattere precipuo dell’uomo melanconico; come nell’aria è possibile cogliere il moto di una pala, altrettanto si avverte quello del cuore di un uomo melanconico». Burton opera una distinzione generale tra la «melanconia della testa» basata sul cervello, la «melanconia dell’intero corpo» e quella che proviene da «intestini, fegato, milza o mesenterio» che definisce «melanconia della ventosità». Poi le suddivide ulteriormente, creando una vera e propria mappa del dolore.

Egli differenzia la melanconia dall’essere semplicemente «insensibile, triste, amaro, stordito, maldisposto, solitario, in qualche modo turbato o scontento». Questi tratti, afferma, fanno parte della vita normale e non dovrebbero essere intesi come segni del disturbo. «L’uomo nato da donna» sostiene citando il Book of Common Prayer «è di breve durata e pieno di irrequietezza.» Ciò non significa che siamo tutti melanconici. Certamente secondo Burton «tali infelicità ammantano l’intera nostra esistenza. Ed è infinitamente assurdo e ridicolo per qualsiasi uomo mortale perseguire uno stato di felicità in questa vita. Non c’è nulla di tanto insensato, e chi non lo sa, e non è pronto a resistere, non è adatto a vivere in questo mondo. Allora comprendi, se non puoi tolleralo; non c’è modo di evitarlo, se non armarti di grandezza d’animo, resistervi, patire l’afflizione, sopportare continuamente».

Non è possibile vivere nel mondo a meno che si riesca a sopportare la sventura, e questa capita a tutti; spesso però non riusciamo a controllarla. Se è possibile tollerare una semplice tosse, «una tosse continua e di vecchia data causa consunzione dei polmoni; lo stesso fanno gli impulsi melanconici».

Burton inoltre individua il principio estremamente moderno secondo il quale ognuno ha una diversa soglia di dolore e che il rapporto tra l’entità del trauma e il livello di tolleranza determina la malattia. «Perché quella che per uno è una puntura di pulce, a un altro causa tormento insopportabile, e ciò che uno, grazie a una straordinaria moderazione e a una condotta molto composta, può superare con serenità, un altro non è per nulla in grado di tollerare, ma a ogni più piccola occasione di abuso, offesa, dolore, disgrazia, perdita, collera, diceria mal interpretati e quant’altro, si abbandona alla passione a tal punto che la carnagione si altera, la digestione è ostacolata, il sonno scompare, il buon umore viene oscurato e il cuore si fa greve… ed egli stesso viene sopraffatto dalla Melanconia. È come un uomo imprigionato per debiti: una volta in carcere, ogni creditore gli farà causa, perciò è probabile che vi resti. Se una forma di scontento assale un paziente, in un attimo ogni sorta di turbamenti lo assillerà, ed egli, come un cane zoppo o un’anatra dalle ali spezzate, s’abbatte e si strugge, e viene infine portato a quella stessa malattia melanconica.»

Burton illustra anche l’ansia, includendola a ragione nel quadro della depressione: «Di giorno sono intimoriti da qualche terribile oggetto, lacerati dal sospetto, dalla paura, dal dolore, dal malcontento, dalle preoccupazioni, dalla vergogna, dall’angoscia e da quant’altro, come tanti cavalli selvaggi, che non sanno stare quieti né un’ora né un minuto».

Descrive il melanconico in vari modi: diffidente, invidioso, malizioso, avido, lamentoso, scontento e vendicativo. Scrive che «gli uomini melanconici sono, tra tutti, i più brillanti e [la loro indole melanconica] causa più volte estasi divina, e una sorta di enthusiasmus… che li rende ottimi filosofi, poeti, profeti». Con i censori del tempo è deferente, trattando con tatto le questioni religiose connesse alla malattia, ma sostenendo che l’eccessivo fervore religioso può essere indice di melanconia o provocare disperazione folle. Afferma che le persone tristi, che ricevono da Dio imposizioni crudeli e a loro avviso inattuabili, soffrono probabilmente di deliri melanconici, e che la melanconia è in realtà una malattia sia del corpo sia dell’anima. Ma, sulla scia di Andreas du Laurens, non parla di perdita della ragione (che disumanizza e rende simili a bestie), precisando che la malattia è un’«anomalia dell’immaginazione» piuttosto che della ragione.

Burton classifica i trattamenti della depressione a quel tempo in uso. C’erano quelli illegali «del diavolo, dei maghi, delle streghe e simili, mediante malie, sortilegi, incantesimi, visioni e quant’altro» e quelli legali, «direttamente da Dio, un a Jove principium fondato sulla natura, riguardante e operante attraverso: 1) il medico; 2) il paziente; 3) la psiche». Sebbene illustri decine di categorie di rimedi, alla fine conclude che «il principale» consiste nel cercare di trattare direttamente «le passioni e le turbe della mente», e raccomanda di «aprirsi» agli amici e di ricercare «la gioia, la musica e la compagnia allegra». Elenca inoltre una lista di trattamenti: tagete, tarassaco, frassino, salice, tamerice, rose, viole, mele dolci, vino, tabacco, sciroppo di papavero, partenio, erba di San Giovanni, se «raccolte di venerdì all’ora di Giove». Raccomanda inoltre di portare un anello ricavato dalla zampa anteriore destra di un asino.

Burton affronta anche il difficile problema del suicidio. Nel tardo Cinquecento, mentre la melanconia era molto di moda, il suicidio era proibito dalla legge e dalla Chiesa, e tale divieto era ribadito con sanzioni economiche. Nell’Inghilterra del periodo, se un uomo si suicidava, la sua famiglia doveva rinunciare a tutti gli averi, compresi gli aratri, i rastrelli, la mercanzia e qualsiasi strumento necessario al sostentamento. Così si lamentava un mugnaio di una cittadina inglese sul letto di morte, dopo essersi inferto una ferita mortale: «Mi sono privato del mio podere per il re e ho ridotto in miseria mia moglie e i miei figli».

Sempre attento ai censori dell’epoca, Burton discute le implicazioni religiose del suicidio, ma constatando quanto l’ansia acuta sia insopportabile, si chiede «se sia lecito a un uomo, affetto da tale forma di melanconia, fare violenza a se stesso». Poi aggiunge: «In questi giorni squallidi, brutti e così fastidiosi, non trovando conforto e rimedio in questa vita infelice, cercano alla fine di liberarsi da tutto con la morte … di essere i macellai di se stessi, e si giustiziano da soli». Si tratta di un approccio singolare poiché, prima di Burton, la depressione era sempre stata considerata una questione ben distinta dal peccato dell’autoannientamento. Sembra d’altronde che la parola suicidio sia stata coniata poco dopo la pubblicazione della sua opera. Egli cita casi di persone che si sono tolte la vita per motivi politici o morali, o pervenute a tale decisione per un sentimento d’offesa più che per una malattia, ed esamina infine i suicidi di persone non razionali. Riunisce così le due motivazioni, precedentemente considerate anatemi, facendo del suicidio un unico tema di discussione.

Burton descrive una serie impressionante di deliri melanconici: un uomo che pensava di essere un crostaceo, alcune persone che credevano «d’essere di vetro e per questo non facevano avvicinare nessuno; altre ritenevano d’essere di sughero, leggere come una piuma, altre ancora pesanti come il piombo, alcuni temevano che la propria testa potesse staccarsi dalle spalle o d’avere delle rane nella pancia, ecc. Altri non osavano attraversare un ponte, avvicinarsi a uno stagno, alle rocce o a ripide colline, o riposarsi in una camera con travi per il timore d’essere tentati d’impiccarsi, di affogarsi o di gettarsi nel vuoto».

A quell’epoca simili deliri erano tipici della melanconia, e casi analoghi abbondano sia nella letteratura medica sia in quella comune. Lo scrittore olandese Caspar Barlaeus credette, in diversi momenti della sua vita, d’essere fatto di vetro e di paglia, e di poter prender fuoco in qualsiasi istante. Cervantes scrisse un romanzo breve dal titolo su un uomo che pensava di essere di vetro. Tale disturbo era tanto diffuso a quel tempo che alcuni medici lo definirono «delirio del vetro»; la letteratura popolare di ogni paese occidentale ne reca, del testo, numerose testimonianze. Molti olandesi erano convinti di avere le natiche di vetro e, con gran sofferenza, cercavano di evitare di sedersi per non rompersi; un uomo pretendeva invece di viaggiare solo se imballato nella paglia. Si riferiva anche il caso di un fornaio che, credendo di essere di burro, aveva il terrore di sciogliersi e insisteva nello stare completamente nudo, coperto da foglie, per mantenersi fresco.57

I deliri scatenavano comportamenti melanconici, che inducevano il soggetto a temere le normali circostanze dell’esistenza, a vivere nella paura costante e a opporre resistenza a qualsiasi contatto umano. Chi ne era colpito sembrava soffrire degli stessi sintomi (tristezza ingiustificabile, stanchezza continua, mancanza d’appetito e così via) che oggi associamo alla depressione. Questa tendenza delirante, già alquanto diffusa in precedenza (papa Pio II racconta che già nel XIV secolo Carlo VI di Francia, detto «il Folle», pensava d’essere fatto di vetro e aveva fatto cucire delle protezioni di ferro nei vestiti in modo da non rompersi in caso di caduta; e Rufo documentò casi analoghi nel mondo antico), raggiunse il suo apice nel XVII secolo ed è ancor oggi presente. Esistono resoconti recenti di una donna olandese depressa che credeva d’avere le braccia fatte di vetro e non si voleva vestire per paura di romperle, e di alcuni pazienti affetti da disturbi schizoaffettivi, che di frequente sentono voci e hanno visioni.

Gli individui ossessivo-compulsivi tendono ad avere le stesse paure irrazionali, per esempio hanno il terrore della sporcizia. Con l’avvento della modernità la natura maniacale della depressione è diventata, tuttavia, sempre meno specifica. In realtà, i casi del XVII secolo erano manifestazioni di paranoie, paure di complotti, preoccupazione di non essere all’altezza di far fronte alle normali esigenze della vita.

Ricordo, per quanto concerne la mia esperienza depressiva, di non essere stato più in grado di svolgere azioni banali: «Non riesco a sedermi in un cinema» dissi a un certo punto quando qualcuno tentò di tirarmi su il morale invitandomi a vedere un film. «Non posso uscire» spiegai in seguito ad altri. Non esisteva alcun fondamento logico per queste sensazioni, sicuramente sapevo che al cinema non mi sarei sciolto e che, uscendo, non mi sarei trasformato in un sasso. Ero consapevole che non esisteva alcuna ragione perché non potessi uscire: mi rendevo conto di essere in grado di farlo così come ora so di non poter saltare sulla luna. Potevo (e lo feci) dare la colpa alla serotonina. Non so se sia stato stabilito in modo convincente perché, nel XVII secolo, i deliri depressivi abbiano assunto una veste tanto concreta ma a quanto pare, finché non furono addotte motivazioni scientifiche e non furono elaborate apposite terapie, la gente usò tale strategia per difendersi dalle proprie paure. Solo in una società più evoluta è possibile avere paura di essere toccati, di stare in piedi o di sedersi senza dover affermare di avere uno scheletro di vetro; solo in un contesto più sofisticato è possibile sperimentare una paura irrazionale per il calore senza dover esprimere il timore di sciogliersi. Questi deliri, che appaiono forse assai strani al medico moderno, possono essere compresi con maggiore facilità se sono contestualizzati.

La maggiore rivoluzione nella medicina del XVII secolo fu opera di Cartesio.58 Malgrado non fosse molto diversa da quella agostiniana, basata sulla distinzione tra anima e corpo, la sua interpretazione meccanica della coscienza ebbe grandi ripercussioni sulla medicina e, in particolare, sulla terapia delle malattie mentali. Cartesio diede molta importanza all’influsso che la mente esercitava sul corpo, e viceversa: nelle Passioni dell’anima illustra come lo stato mentale possa influenzare direttamente il corpo. I suoi seguaci, tuttavia, si ispirarono più al presupposto di una totale separazione tra mente e corpo.

Una certa biologia cartesiana, benché in gran parte errata, incominciò a dominare il pensiero del tempo e peggiorò in modo drastico il destino dei depressi. Le infinite disquisizioni sulla natura del corpo e dell’anima, sulla depressione intesa quale «squilibrio chimico» o «debolezza umana» sono l’eredità che Cartesio ci ha lasciato. Solo negli ultimi anni si è iniziato a far luce sul problema e a chiedersi come la biologia cartesiana sia riuscita a esercitare tanta influenza. Uno psicologo dell’Università di Londra si è così espresso a questo proposito: «In base alla mia esperienza niente corpo, niente mente, niente problemi».

Nel tentativo di dimostrare la sensibilità del corpo nei confronti della mente, Thomas Willis pubblicò a metà del secolo Two Discourses Concerning the Soul of Brutes, la prima teoria chimica coerente della melanconia, indipendente dagli antichi principi umorali della bile nera, della milza e del fegato. Egli credeva che la «fiamma accesa» nel sangue fosse provocata dai «cibi solforosi» e dall’«aria nitrica» e che spettasse a nervi e cervello indirizzare gli spiriti che ne derivavano al fine di controllare sensazioni e movimenti. A suo parere l’anima è un fenomeno fisico, «l’oscura strega» del corpo visibile che «dipende dal temperamento della massa sanguigna».

Willis riteneva che numerose circostanze potessero far diventare salato il sangue tanto da affievolire la fiamma, togliendo la luce dalla mente e generando il buio della melanconia; questa salinità poteva essere causata da qualsiasi tipo di fattori esterni, tra cui il tempo, l’abitudine a pensare troppo, la mancanza di attività fisica. Il cervello del melanconico fissa le visioni del buio e le incorpora nel carattere. «Per questo, quando la fiamma vitale è così piccola e sta per estinguersi, muovendosi e tremando a ogni movimento, non sorprende che la persona melanconica sia sempre triste e paurosa, come se la sua mente fosse ottenebrata e sul punto di cedere.» L’effetto prolungato di questo problema sarebbe l’alterazione organica del cervello. Il sangue melanconico può «creare dei nuovi pori nelle strutture vicine»; la «predisposizione acida degli spiriti» e «la putrefazione melanconica» alterano «la conformazione stessa del cervello». Allora gli spiriti «non seguono più le loro strade e vie d’espansione ma si creano rapidi spazi nuovi e insoliti».59 Sebbene la deduzione di questo principio sia confusa, la realtà indicata è confermata dalla scienza moderna; la depressione persistente altera sicuramente il cervello, ricavandosi «spazi insoliti».

La fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII videro il notevole progresso della scienza. Lo studio della melanconia subì profondi cambiamenti in seguito alla nascita delle nuove teorie sul corpo, che portarono a loro volta a nuove tesi sulla biologia della mente e sulle sue disfunzioni. Nicholas Robinson propose un modello del corpo come massa fibrosa e, nel 1729, affermò che la depressione era causata da una mancanza di elasticità delle fibre. Era però diffidente nei confronti di ciò che oggi chiameremmo psicoterapie. «Tentare di consigliare un uomo per guarirlo dalla febbre più violenta» scrisse «è come cercare di variare le facoltà mentali mediante l’effetto del suono, sebbene questo non sia mai stato applicato con tanta cura.»60 In tali principi affonda le sue radici l’abbandono totale della concezione del melanconico come individuo la cui capacità di esprimersi potrebbe fungere da strumento terapeutico.

Nel 1742 Hermann Boerhaave sviluppò, sulla scorta di queste nozioni, il cosiddetto modello iatromeccanico, in base a cui tutte le funzioni del corpo possono essere spiegate mediante una teoria idraulica.61 Egli considerava il corpo come una «macchina vivente e animata», il cervello una ghiandola i cui secreti nervosi circolavano per mezzo del sangue. Secondo Boerhaave, il sangue era costituito da una miscela di diverse sostanze e, quando il suo equilibrio veniva alterato, insorgeva un disturbo; la depressione, in particolare, si manifestava nei casi in cui i componenti oleosi e grassi del sangue si accumulavano e i secreti nervosi scarseggiavano. In queste condizioni il sangue smetteva di circolare nelle zone appropriate. Per lo studioso la causa del problema era il consumo eccessivo dei secreti nervosi usati per pensare (compito affaticante); la soluzione consisteva, quindi, nel pensare di meno e nell’agire di più, onde riequilibrare i vari componenti.62

Come Willis, Boerhaave aveva scoperto un dato importante: la riduzione dell’apporto ematico a determinate zone del cervello può indurre depressione o delirio. L’inizio della depressione nell’anziano è, in effetti, attribuibile alla cattiva circolazione del sangue in alcune aree cerebrali che, ispessite, non ne assimilano più i nutrienti.

Questa teoria contribuì a «disumanizzare» l’essere umano.63 Julien Offroy de La Mettrie, uno dei più grandi sostenitori di Boerhaave, fece scalpore quando nel 1747 pubblicò L’Homme Machine: espulso dalla corte francese, si rifugiò a Leida; cacciato anche da lì, morì all’età di quarantadue anni nella lontana Berlino. Egli sosteneva, secondo quella visione puramente scientifica perdurata fino ai nostri giorni, che l’uomo altro non era se non un insieme di sostanze chimiche impegnate a svolgere azioni meccaniche. La Mettrie riteneva che la materia vivente fosse per natura irritabile e che da questa irritazione derivassero tutte le attività. «L’irritabilità è la fonte di ogni nostro sentimento, di ogni nostra gioia, di ogni nostra passione e di ogni nostro pensiero.»64 Questa tesi si fondava su un concetto di natura umana ispirato all’ordine; i disturbi come la depressione venivano perciò interpretati come le disfunzioni della meravigliosa macchina, una deviazione dalle sue mansioni piuttosto che un elemento costitutivo.

Di qui il passo per arrivare a intendere la melanconia come un aspetto del problema generale della malattia mentale fu breve. Friedrich Hoffman fu il primo a delineare in modo coerente ed efficace quella che in seguito sarebbe diventata la teoria genetica. «La pazzia è un disturbo ereditario» scrisse. «Spesso dura tutta la vita; a volte ci sono lunghi intervalli in cui il paziente sembra rinsavire perfettamente, ma poi essa ritorna a intervalli regolari.» Hoffman propose terapie alquanto convenzionali contro la melanconia, ma affermò che «il rimedio più efficace contro la pazzia d’amore nelle giovani donne è il matrimonio».65

Le spiegazioni scientifiche del rapporto tra corpo e mente si susseguirono numerose nel corso del XVIII secolo. Ma nell’età dei Lumi, coloro che non possedevano quello della ragione erano gravemente svantaggiati dal punto di vista sociale e, mentre la scienza compiva enormi progressi, la posizione dei depressi peggiorava in modo considerevole.

Alla fine del XVII secolo Spinoza, prefigurando il trionfo della ragione, aveva affermato che «un sentimento è posto maggiormente sotto il nostro controllo, e la mente è meno passiva nei suoi confronti, via via che esso ci diviene più noto» e che «ognuno ha il potere di capire con chiarezza e precisione se stesso e i suoi sentimenti, e di fare in modo di esserne meno soggetto».66 In questo modo il melanconico non è più un essere demoniaco ma una persona debole, incapace di ricorrere all’autocontrollo dell’uomo sano di mente.

Al di là del periodo dell’Inquisizione, il XVIII secolo fu con molta probabilità l’epoca più malsana per chi soffriva di disturbi mentali. Mentre Boerhaave e La Mettrie teorizzavano, chi era gravemente malato di mente, una volta riconosciuto tale dai propri parenti, veniva trattato in parte come una cavia di laboratorio in parte come un animale selvatico appena uscito dalla giungla, che bisognava domare. Il Settecento, ossessionato da regole e formalità, ostile verso chi non le rispettava e pungolato dal problema di genti diverse arrivate dalle colonie, impose punizioni severe a chi, con un comportamento sbagliato, sembrava minacciare le convenzioni sociali, indipendentemente dalla classe d’appartenenza e dalla nazionalità.

Segregati dalla società, tali soggetti venivano confinati nella realtà fuorviata di Bedlam (in Inghilterra) o nell’ospedale dell’orrore di Bicêtre (in Francia), luoghi che farebbero impazzire perfino la persona più equilibrata. Benché queste istituzioni esistessero da molto tempo – Bedlam era stato fondato nel 1247 e nel 1547 era già un ricovero per i pazzi dei ceti più poveri – acquistarono importanza nel XVIII secolo.67 Il concetto di «ragione» sottintende un accordo naturale tra esseri viventi ed è, in sostanza, una nozione conformista: la «ragione» viene definita dal consenso. Per questo motivo l’idea di includere gli estremi nell’ordine sociale è antitetica. Secondo i canoni dell’Illuminismo, le condizioni mentali estreme non costituiscono i poli di un continuum logico, ma stanno al di là di una logica prestabilita. Nel Settecento i malati di mente erano emarginati senza diritti né posizione sociale. tanto da suscitare l’indignazione di William Blake.68

Tra i malati mentali i depressi avevano il vantaggio d’essere relativamente docili, perciò, rispetto ai pazienti maniacali e agli schizofrenici, subivano un trattamento un po’ meno atroce. Sporcizia, squallore, torture e infelicità erano il destino del melanconico durante l’Illuminismo e il periodo della Reggenza.69 Secondo l’ideologia del tempo, chi soffriva di gravi disturbi psicologici era incurabile; se ci si dimostrava svaniti, si veniva rinchiusi in manicomio e vi si rimaneva per sempre, giacché non si era più in grado di recuperare la ragione. Secondo il primario di Bedlam, il dottor John Monroe, la melanconia non poteva essere guarita; a suo parere «la terapia del disturbo dipende sia dalla strategia sia dalla medicina».70 Chi soffriva di gravi forme di melanconia veniva spesso sottoposto a trattamenti terribili. Perfino Boerhaave propose di provocare intensi dolori fisici ai pazienti, onde distrarli dalla sofferenza che risiedeva nelle loro menti: essi venivano quasi affogati oppure, mediante appositi dispositivi meccanici, se ne induceva lo svenimento e il vomito alternativamente.71

I pazienti con depressioni meno gravi (ma pur sempre severe) erano spesso costretti a vivere quasi clandestinamente. James Boswell descrisse in dettaglio agli amici la forma depressiva che lo affliggeva72 e lo stesso fece, dopo di lui, il poeta William Cowper. Le loro testimonianze aiutarono molti a capire le penose sofferenze legate alla depressione in quell’epoca. Nel 1763 Boswell scrisse: «In questa lettera non aspettarti altro se non di sentir parlare dell’infelicità del tuo povero amico. Sono stato melanconico a un livello incredibilmente spaventoso e fastidioso. Ho toccato il fondo. La mia mente era piena delle idee più cupe, e tutta la forza della ragione mi aveva abbandonato. Mi crederesti? Correvo freneticamente per strada, gridando, scoppiando in lacrime e gemendo dal profondo del cuore. Oh buon Dio! Cosa ho sopportato! Oh amici miei, quanto dovevo far compassione! Che potevo fare? Non provavo alcun interesse. Tutto mi sembrava inutile, triste».

Più tardi, in quell’anno, scrisse a un altro amico: «Sono stato colto da una grande melanconia. Mi sono visto vecchio, disgraziato e abbandonato. Mi sono venute in mente le idee più orrende che tu possa immaginare. Vedevo le cose in modo speculativo: tutto mi sembrava immerso nel buio e nel dolore». Boswell incominciò a scrivere una diecina di righe al giorno su se stesso e scoprì che, descrivendo ciò che gli accadeva, si sentiva meglio, che riusciva a conservare la sua razionalità. Questa specie di diario è però pieno di omissioni: «Eri terribilmente melanconico e hai avuto gli ultimi, orrendi pensieri. Sei tornato a casa e hai pregato» e pochi giorni dopo «ieri, dopo cena, stavi molto male e rabbrividivi per le spaventose fantasie. Eri insicuro e confuso, volevi andare presto a letto e riuscivi a leggere a malapena il greco».

Samuel Johnson, la cui vita fu narrata da Boswell, era anch’egli affetto da una depressione grave, e di certo quest’esperienza comune legò i due uomini. Johnson affermava che il libro di Burton Anatomia della melanconia era l’unico in grado di farlo alzare «due ore prima del consueto». Sempre cosciente della sua mortalità, era terrorizzato dall’idea di perdere tempo (anche se nella fase depressiva più profonda restava a lungo sdraiato). «Spero sempre» scrisse «di resistere al Cane nero e di poterlo cacciare in tempo, sebbene ora non abbia chi mi aiutava abitualmente. Quando mi sveglio la mia colazione è solitaria, il Cane nero aspetta per dividerla con me, e dalla mattina fino a sera continua a latrare.»73 Come disse una volta Boswell, alludendo a una frase di Dryden: «La melanconia, come la “grande intelligenza”, può essere molto vicina alla pazzia, ma, a mio parere, tra di esse c’è una netta distinzione».

William Cowper rese poetica la propria sofferenza, anche se forse era più disperata di quella di Boswell. Nel 1772 così scrisse a un cugino: «Cercherò di sforzarmi di non ripagarti con toni di sofferenza e di sconforto, benché mi manchi del tutto il buon umore». L’anno seguente ebbe un grave esaurimento che lo lasciò a lungo debilitato. In quel periodo scrisse una serie di poesie sconvolgenti, tra cui una che conclude: «Io, in una tomba di carne, stanco del giudizio, / sono sepolto vivo». Cowper non trovò gran conforto nello scrivere: nel suo caso le dieci righe giornaliere non sarebbero servite a placare la disperazione. Sicuramente, pur sapendo di essere un gran poeta, di fronte alla realtà della depressione riteneva irrilevante la propria forza espressiva.

Nel 1780 scrisse a John Newman: «Custodisco un terribile segreto ma non ho la capacità di comunicarlo, per nessuno motivo. Sopporto un peso che nessuno potrebbe sostenere sulle proprie spalle, a meno che non siano sorrette da sotto, come le mie, da un cuore indurito in modo incredibile e innaturale».74 In quello stesso periodo Edward Young sottolineava l’«estraneo che è in te» e la desolazione del mondo: «Così appare la mappa della terra secondo la melanconia! Ma la cosa è ben più triste! Questa terra è la vera mappa dell’uomo!»75 Tobias Smollett osservò: «In questi quattordici anni ho ospitato dentro di me un ospedale e ho studiato il mio caso particolare con l’attenzione più rigorosa».76

Il destino delle donne era particolarmente duro. La marchesa Du Deffand scrisse a un amico in Inghilterra: «Probabilmente non puoi capire che cosa significhi pensare e non avere alcuna occupazione. Aggiungi a questo una pretesa di godimento che non viene facilmente soddisfatta e un grande amore per la verità: io sostengo che sarebbe stato meglio non essere mai nati». In un’altra lettera scrisse, piena di disprezzo nei propri confronti: «Spiegami perché, pur odiando la vita, continuo ad avere paura della morte».77

I pensatori protestanti della fine del XVIII secolo attribuirono la depressione alla decadenza della società, facendo notare gli alti tassi del disturbo che si registravano tra un’aristocrazia nostalgica del passato. Ciò che un tempo era segno di nobile raffinatezza, ora era indice di decadenza morale e di debolezza: la soluzione era l’eliminazione dell’autocompiacimento. Samuel Johnson riteneva che la sofferenza prevenisse il malumore e osservò che «in Scozia, dove generalmente gli abitanti non sono né ricchi né abituati al lusso, la malattia mentale, secondo le informazioni ricevute, è molto rara».78 John Brown sosteneva che «la nostra vita effeminata e poco virile, unitamente al clima della nostra isola, ha notoriamente prodotto un aumento dello sconforto morale e dei disturbi nervosi».

Secondo Edmund Burke, «la melanconia, l’avvilimento, la disperazione e spesso il suicidio derivano dalla visione pessimistica con cui consideriamo le cose, in preda a una condizione di abbandono del corpo. Il rimedio migliore contro tali mali è l’esercizio fisico o la fatica».79 Il Candido di Voltaire continua a lottare anche dopo la fine dei suoi problemi; in conclusione la vecchia, compagna delle sue avventure, gli chiede: «Vorrei sapere se è peggio esser violata cento volte dai pirati negri, rimetterci una natica, passare per le verghe bulgare, essere frustato e impiccato in un autodafé, essere sezionato, remare in galea, insomma provar le miserie che tutti noi abbiamo passato, oppure star qui senza far niente?». Il quesito viene risolto quando Candido decide di dedicarsi alla cura dell’orto: lavorare la terra produce effetti molto benefici sull’umore.80 All’epoca era però diffusa l’idea che un alto tenore di vita, piuttosto che il lavoro, potesse sollevare l’umore. Horace Walpole prescrisse a un amico «365 giorni di Londra» per alleviare una malattia contro la quale la vita agreste non aveva potuto nulla.81

Alla fine del XVIII secolo lo spirito del romanticismo iniziò a diffondersi, a testimonianza di una certa delusione nei confronti della Ragione. Le menti incominciarono a rivolgersi al sublime, grandioso e insieme struggente. La depressione venne nuovamente ammessa, e fu ancora più apprezzata che ai tempi di Ficino. Thomas Gray si fece portavoce di un’epoca che considerava, ancora una volta, la depressione fonte di sapere anziché di follia. La sua Elegia scritta su cimitero campestre diventò un testo esemplare della saggezza acquisita grazie a una tristezza affine alla verità, per mezzo della quale si impara che «i sentieri della gloria non conducono che alla tomba». Osservando i campi da gioco di Eaton, Gray scrisse:

A ciascuno le proprie sofferenze:

condannati tutti, in egual modo a gemere,

sensibili al dolore altrui,

sordi al proprio.

Non più; là dove l’ignoranza è beatitudine,

la saggezza è follia.82

Coleridge scrisse nel 1749 che la sua volontà era paralizzata per «la gioia del dolore! Un piacere misterioso incombe con un’ala scura sulla mente tumultuosa».83 Immanuel Kant sosteneva che «il distacco melanconico dal trambusto del mondo dovuto a un tedio legittimo è nobile» e che «la virtù genuina fondata su principi ha in sé un elemento che sembra armonizzarsi soprattutto con l’indole melanconica».84 Questo era, dunque, lo spirito con cui il XIX secolo avrebbe salutato la depressione.

Prima di lasciare il XVIII secolo vale tuttavia la pena considerare quanto accadeva nelle colonie nordamericane, dove la forza morale del protestantesimo era più avvertibile che in Europa. Il problema della melanconia aveva tormentato non poco i colonizzatori tanto che, poco dopo il loro arrivo nel Massachusetts, sull’argomento si sviluppò una scuola di pensiero americana. I colonizzatori avevano la tendenza a essere conservatori rispetto agli europei e, dato che sostenevano idee religiose perlopiù radicali, favorirono le spiegazioni del disturbo improntate a tale spirito. Essi si ritrovarono, in ogni caso, a combattere con numerosi casi di depressione. La loro vita era molto dura, la società si atteneva strettamente alle regole formali, i tassi di mortalità erano alti e il senso di isolamento, forte: non potevano contare sui consigli di Horace Walpole né su altri svaghi per alleviare gli animi melanconici. Il concentrarsi degli animi sulla salvezza e sui suoi misteri contribuì ad aumentare l’angoscia, dato che il fine della vita rimaneva avvolto nell’incertezza.85

In società simili i melanconici erano quasi sempre considerati posseduti, vittime del diavolo a causa della loro debolezza o del disinteresse verso Dio redentore.86 Cotton Mather fu il primo ad affrontare questi problemi. Pur inizialmente orientato al severo giudizio morale, ammorbidì poi le sue posizioni e in parte, addirittura, le modificò quando la moglie, Lydia, cadde in una depressione «poco dissimile da una vera possessione satanica». Negli anni successivi Mather dedicò molto tempo e attenzione al problema e gettò le basi della teoria secondo la quale il divino e il biologico, il naturale e il soprannaturale concorrono a generarlo con una sincronia complessa.87

Nel 1724 Mather pubblicò The Angel of Bethesda, il primo libro sulla depressione scritto in America, in cui si concentrava più sulle terapie che sulle origini diaboliche del disturbo. «Fate in modo che gli amici di questi melanconici non si stanchino troppo presto delle noie che ora con rassegnazione devono sopportare; la loro insensatezza e la loro follia devono essere tollerate con pazienza, noi che siamo forti dobbiamo sostenere le infermità dei deboli e compatirli con sopportazione, prudenza e soprattutto generosità, consolarli come bambini rivolgendo loro solo sguardi amichevoli e buone parole. E se ci lanciano insulti pungenti (come pugnali), non dobbiamo risentircene, non sono loro che parlano, è il loro male! Sono ancora gli stessi di prima88 I trattamenti proposti da Mather sono uno strano miscuglio di esorcismi, rimedi vegetali («decotto di anagallide, o di cime d’erba di San Giovanni, quale terapia specifica contro la pazzia») e di altre misure piuttosto discutibili (l’applicazione di «rondini vive tagliate in due, e poste calde e fumanti sulla testa rasata» e «sciroppo di ferro, quattro once, un cucchiaio da prendere due volte al dì in un mezzo adatto»).

Nel suo testo edito nel 1794 a Filadelfia, Henry Rose sostenne che le passioni fossero in grado di «aumentare o diminuire la forza delle funzioni vitali e naturali». A suo parere, «quando le passioni superano l’ordine e i limiti diventano dissolute e devono essere evitate, non solo perché turbano la tranquillità della mente ma anche perché colpiscono la natura del corpo». Secondo la migliore tradizione puritana, egli raccomandava l’equanimità – il dominio degli impulsi violenti e di quelli erotici – quale strumento migliore per evitare gli eccessi. Questa nozione restò a lungo radicata nell’immaginario americano quando ormai altrove era scomparsa.89 In America si ebbe ancora, a metà del XIX secolo, un ritorno alle convinzioni religiose in ordine alla malattia e prese piede la cosiddetta «anoressia nervosa evangelica». Le persone che credevano di non meritare Dio si privavano del cibo (e spesso del sonno) digiunando fino ad ammalarsi o perfino morire; chi si sottoponeva a tale sacrificio veniva chiamato «perfezionista del digiuno».90

Se l’Illuminismo fu particolarmente negativo per i depressi, il periodo romantico, dalla fine del XVIII secolo fino all’avvento dell’era vittoriana, si rivelò invece favorevole. La melanconia non veniva più vista come presupposto per l’introspezione ma come l’introspezione stessa. Le verità del mondo non rendevano felici; Dio si manifestava nella natura, ma la sua essenza era ignota. L’industrializzazione provocò i primi segni dell’alienazione moderna, estraniando l’uomo dal proprio lavoro. Kant sosteneva, in effetti, che il sublime fosse sempre accompagnato da una certa paura o melanconia.91 L’atteggiamento positivo fu ritenuto ingenuo.

In un passato molto remoto l’uomo era stato più vicino alla natura e la successiva perdita di quel rapporto immediato aveva in parte comportato un’irrecuperabile perdita della felicità. Nel Romanticismo l’uomo si affliggeva per il passare del tempo: non solo per il fatto di invecchiare o di perdere l’energia giovanile, ma anche per l’impossibilità di controllare il tempo stesso, come dichiara il Faust di Goethe, il quale, rivolgendosi all’istante, esclama: «Ma rimani! Tu sei così bello!».92 Proprio per tale motivo egli sacrifica l’anima alla dannazione eterna. L’infanzia è sinonimo d’innocenza e di gioia, ma conduce a una vita adulta, fatta d’angoscia e di dolore, affine a quella dell’uomo dopo la cacciata dal paradiso. Come affermò Wordsworth: «Noi poeti iniziamo in letizia / Ma di qui provengono infine sconforto e follia».93

John Keats scrive: «Ho quasi fatto l’amore con la facile morte», poiché la fatica di vivere era troppo penosa da sopportare. Nell’esemplificativa Ode alla melanconia e nell’Ode su un’urna greca, esprime un’indicibile tristezza a proposito di una caducità che rende tristi le cose più amate, tanto da cancellare la distinzione tra gioia e dolore. Della melanconia dice:

Sì, abita con la bellezza, lei – con la bellezza che deve morire,

E con la Gioia, che sempre una mano tiene sulle labbra

Per augurare addio; e vicino al Piacere, che fa soffrire,

E si tramuta in veleno mentre come un’ape succhia la bocca.

Sì, nel tempio stesso del Diletto

Ha il suo santuario sovrano la velata Melanconia.94

Analogamente, Shelley ricorda la mutabilità dell’esperienza, il trascorrere veloce del tempo, la sensazione che una tregua dalla sofferenza provochi solo un dolore più grande:

Noi siamo come le nuvole che a mezzanotte velano

la luna; irrequiete muovonsi, dàn bagliori,

strisciano luminosamente sovra le tenebre,

fin che la Notte chiudesi ed elle

restan fuori;

Non riposiamo: i sogni il sonno ci avvelenano.

Ci destiamo: un errante pensiero il dì ci rattrista.95

In Italia Giacomo Leopardi diede risalto al sentimento osservando: «Al gener nostro il fato / non donò che il morire».96 Si tratta di un sentimento del tutto diverso dalla melanconia di Thomas Gray, che riflette sulla bellezza in un cimitero di campagna: è una sorta di nichilismo primordiale, una visione di totale futilità, che ricorda più il passo dell’Ecclesiaste («Vanità delle vanità: tutto è vanità»)97 che il Paradiso perduto.

In Germania il sentimento acquista un altro nome oltre a quello di melanconia: Weltschmerz, ovvero tristezza del mondo, che diventerà una specie di lente attraverso cui filtrare tutte le altre sensazioni. Goethe, il principale esponente del Weltschmerz, delineò la natura tragica e tormentata dell’esistenza forse meglio di qualsiasi altro autore. Nei Dolori del giovane Werther esprime l’impossibilità di conoscere veramente il sublime: «Che allora, in beata ignoranza, io sognavo di spaziare un giorno nel mondo a me sconosciuto e di trovarvi, pel mio cuore, copioso alimento, e gran piacere, e di empirne e saziarne il mio anelante bramoso petto. E ora io torno da quel vasto mondo… o amico mio, con quante speranze fallite, con quante volontà spezzate!».98 La depressione coincide qui con la verità.

Charles Baudelaire introdusse nella letteratura francese la parola spleen, insieme alla sua valenza emozionale. Il suo malsano mondo del male non poteva trascendere la melanconia, proprio come non poteva farlo l’anelito di Goethe verso il sublime:

Quando il ciel basso e grave pesa come un coperchio

sull’anima che geme, da lunghi tedi oppressa,

e colma l’orizzonte, abbracciandone il cerchio,

d’un lume bigio, triste più della notte stessa;

E lunghi lenti feretri m’attraversano l’anima

senza un rullo, una musica, singhiozza prigioniera

la Speranza; l’Angoscia sul mio riverso cranio

pianta, esosa e feroce, la sua nera bandiera.99

Accanto al filone poetico scorre quello filosofico che, al di là del razionalismo kantiano, dell’ottimismo voltairiano e della relativa equanimità cartesiana, affonda le sue radici in un’impotenza e un’inettitudine spaventose, caratteristiche del personaggio di Amleto o perfino nel De contemptu mundi.100 All’inizio del XIX secolo Hegel dichiarò: «La storia non è il terreno in cui cresce la felicità. In essa i periodi felici sono le pagine bianche. Ci sono alcuni momenti di contentezza nella storia del mondo, ma tale contentezza non va equiparata con la felicità». Proprio da una simile negazione della felicità, intesa quale stato naturale a cui le civiltà ragionevolmente aspirano, ha origine il cinismo moderno. Se a noi ciò sembra quasi ovvio, a quel tempo costituiva una visione eretica: la verità è che nasciamo infelici e continuiamo a vivere infelici, e che coloro che capiscono l’infelicità e vivono in intimità con essa comprendono meglio la storia passata e futura. Eppure, lo stesso Hegel afferma altrove che abbandonarsi alla disperazione significa essere perduti.101

Tra i filosofi Søren Kierkegaard è l’immagine vivente della depressione. Insensibile all’appello hegeliano a resistere alla disperazione, egli perseguì ogni verità fino al suo estremo, non tollerando alcun compromesso. Kierkegaard traeva curiosamente conforto dal proprio dolore poiché credeva nella sua onestà e realtà. «La mia sofferenza è il mio castello» scrisse. «Nella grande melanconia ho amato la vita, poiché amavo la mia melanconia.» Era come se fosse convinto che la felicità lo avrebbe indebolito. Incapace di amare quanti lo circondavano, si rivolse alla fede come a qualcosa di tanto lontano da superare la disperazione. «Qui sto come un arciere con l’arco teso al massimo, a cui viene chiesto di colpire un bersaglio cinque passi dinanzi a lui. Questo non posso farlo, risponde l’arciere, ma ponete il bersaglio a due o trecento passi e vedrete!» scrisse ancora. Se i filosofi e i poeti precedenti avevano parlato dell’uomo melanconico, Kierkegaard considerava melanconica l’umanità intera: «Ciò che è raro non è che qualcuno sia disperato; no, ciò che è raro, la grande rarità, è che qualcuno non sia davvero in preda alla disperazione».102

Arthur Schopenhauer fu anche più pessimista di Kierkegaard poiché non credeva che il dolore potesse in qualche modo nobilitare l’uomo. Ebbe tuttavia anche uno spirito ironico ed epigrammatico, e la continuità della vita e della storia gli parve più assurda che tragica. «La vita è un affare i cui guadagni sono lontani dal coprire i costi» osservò. «Proviamo semplicemente a osservarla: questo mondo di creature sempre bisognose che, per un certo periodo, continuano a divorarsi a vicenda, a trascorrere l’esistenza nell’ansia e nella miseria, spesso in preda a sofferenze terribili, finché non cadono infine tra le braccia della morte.» Il depresso, secondo Schopenhauer, vive solo perché glielo permette un istinto «che è primario e incondizionato, la premessa di tutte le premesse». Egli rispose all’antico quesito aristotelico in ordine alla melanconia degli uomini d’ingegno affermando che l’uomo davvero intelligente riconosce «l’infelicità della propria condizione». Come Swift e Voltaire, Schopenhauer credeva nel lavoro, non tanto perché procurasse gioia ma perché distraeva gli uomini dalla loro depressione. «Se il mondo fosse un paradiso di lusso e comodità» dichiarò «gli uomini morirebbero di noia o si suiciderebbero.» Perfino il piacere sensuale che dovrebbe distogliere dalla disperazione è solo una distrazione necessaria, introdotta dalla natura per conservare la razza. «Se i bambini nascessero solo per un atto di pura ragione, la razza umana sopravviverebbe? Avrebbe l’uomo così tanta comprensione nei confronti della generazione futura da dividere il peso dell’esistenza?»103

Fu Friedrich Nietzsche a tentare di ricondurre queste idee al problema specifico della malattia e dell’introspezione. «Mi sono chiesto se non si possano confrontare tutti questi supremi valori finora ammessi dalla filosofia, dalla moralità e dalla religione coi valori delle persone debilitate, dei malati di mente e dei nevrastenici: essi presentano, in forma attenuata, i medesimi mali … Sanità e malattia non sono cose sostanzialmente diverse, come credevano i medici antichi e ancor oggi certi empirici … In realtà fra queste due forme di esistenza ci sono soltanto differenze di grado: l’esagerazione, la sproporzione, la disarmonia dei fenomeni normali costituiscono lo stato di malattia.»104

Nel XIX secolo chi era mentalmente disturbato o malato ritornò a essere considerato una persona: dopo essere stati trattati come animali per un secolo, i malati psichici avrebbero dovuto, d’ora in poi, volenti o nolenti, accettare le regole di condotta della classe media. Con la pubblicazione del suo Trattato, nel 1806, Philippe Pinel fu tra i primi riformatori delle terapie psichiatriche. Egli introdusse la nozione di «trattamento morale della pazzia», che gli sembrò l’unica alternativa fattibile in tal senso, dato che l’anatomia e la patologia cerebrali erano ancora sconosciute. Pinel fondò il suo ospedale in base a standard di alta qualità: convinse il capo del personale a «rivolgersi come un genitore gentile e affettuoso a chi era posto sotto la sua tutela».105 Non perse mai di vista i principi della filantropia più genuina. Prestava grande attenzione alla dieta e faceva in modo che non ci fossero lagnanze o scontentezze da parte dei più esigenti. Applicava una rigorosa disciplina nei confronti degli inservienti e puniva severamente ogni maltrattamento e ogni atto di violenza dei quali si fossero resi colpevoli nei confronti di chi dovevano soltanto servire.

Il principale conseguimento del XIX secolo fu l’istituzione dei centri di ricovero per il trattamento dei malati di mente. Samuel Tuke, che dirigeva uno di questi istituti, dichiarò: «A proposito dei melanconici, si è scoperto che il parlare del loro abbattimento risulta molto imprudente. Si segue perciò il metodo esattamente opposto. Ogni mezzo viene utilizzato per distogliere la mente dalle sue meditazioni preferite ma infelici, mediante l’attività fisica, le passeggiate, la conversazione, la lettura e altri passatempi distensivi».106 L’effetto di tale programma (in contrasto con i ceppi e le violente tecniche di rieducazione del secolo precedente) fu, secondo il dirigente di un altro ricovero, che «la melanconia, non aggravata dal bisogno delle normali consolazioni, perde il carattere esagerato che aveva in precedenza».107

Il numero degli ospedali psichiatrici aumentò enormemente. Nel 1807, in Inghilterra, 2,26 soggetti su diecimila erano ritenuti malati di mente (categoria che comprendeva i depressi gravi); nel 1844 tale cifra salì a 12,66 e nel 1890 a 29,63.108 Il fatto che nel tardo periodo vittoriano il numero di pazzi fosse tredici volte maggiore rispetto a quello rilevato alla fine del secolo può essere spiegato solo parzialmente dall’incremento delle malattie mentali. Infatti, nei sedici anni che intercorrono tra le due leggi parlamentari sui pazzi (del 1845 e del 1862), il numero ufficiale dei medesimi raddoppiò. Ciò si spiega in parte con la maggiore disponibilità della gente a identificare come tali i propri parenti, in parte con l’introduzione di criteri più rigorosi per valutare la sanità mentale, in parte con il danno dell’industrializzazione vittoriana.

Il depresso, che non fosse tanto grave da essere rinchiuso a Bedlam e che un tempo avrebbe vissuto in silenzio, relegato nella cucina di casa, veniva ora tolto dal felice cerchio familiare dell’Inghilterra dickensiana e confinato lontano, in un luogo dove l’interazione sociale continuava. Il ricovero gli garantiva sì una comunità in cui operare, ma lo escludeva dalla compagnia di chi lo amava per ragioni naturali. La crescita degli ospedali psichiatrici era anche strettamente correlata con l’aumento dei livelli «terapeutici»: se le malattie mentali di alcuni potevano migliorare nel tempo grazie ai ricoveri, diventava quasi un dovere sistemare chiunque si trovasse sull’orlo della disperazione in un luogo in cui poteva essere salvato.

Il sistema dei manicomi fu sempre più perfezionato e, nel 1807, era già diventato argomento di dibattito nelle commissioni parlamentari. La prima legge sui malati di mente (Lunatics Act) approvata dal parlamento stabiliva che ogni contea doveva provvedere all’assistenza ospedaliera dei pazzi delle classi povere, compresi i depressi gravi; l’emendamento della legge, nel 1862, permise il ricovero volontario, in modo che, previa autorizzazione medica, chi mostrasse i sintomi della pazzia potesse essere assistito. Tale disposizione denota chiaramente come fossero progrediti gli ospedali psichiatrici: nel XVIII secolo bisognava essere molto più che pazzi per farsi ricoverare volontariamente in un manicomio. I centri di contea per la terapia dei malati di mente erano gestiti con fondi pubblici, mentre quelli privati avevano scopo di lucro. I manicomi regolari destinati ai casi più gravi (come Bedlam, che nel 1850 ospitava circa quattrocento pazienti) erano finanziati sia da fondi pubblici sia da donazioni private.109

L’Ottocento fu il secolo delle classificazioni. Tutti discutevano sulla natura della malattia e sui suoi parametri, cercando di distinguere in classi e sottoclassi ciò che in precedenza era stato identificato solo come melanconia. Grandi terapeuti ed esperti di nomenclatura fornivano a turno il loro parere, suggerendo che con lievi modifiche della teoria del predecessore si potesse migliorare notevolmente il trattamento. Già all’inizio del secolo Thomas Beddoes si chiedeva se bisognasse considerare l’infermità mentale un’unica malattia o se fosse opportuno distinguerne le varie forme.110

L’americano Benjamin Rush credeva che la follia fosse una febbre cronicizzata. Questa condizione, tuttavia, veniva influenzata da fattori esterni. «Determinate occupazioni predispongono alla pazzia più di altre. I poeti, i pittori, gli scultori e i musicisti sono i più soggetti poiché le loro attività stimolano l’immaginazione e la passione.» La depressione delirante era diffusa tra i pazienti di Rush: un capitano della marina, per esempio, credeva nella maniera più assoluta d’avere un lupo nel fegato. Un altro si sentiva una pianta: un amico un po’ burlone lo convinse a farsi annaffiare e iniziò a urinargli sulla testa. L’uomo andò tanto in collera che decise infine di farsi curare.

A differenza di altri, Rush non raggiunse il livello di sensibilità di Pinel nei confronti dei pazienti, ma credeva nell’opportunità di ascoltarne i problemi.111 «Per quanto sia sbagliata l’opinione di un paziente sul proprio caso, la sua malattia è vera. Il medico dovrà quindi ascoltare con attenzione i fastidiosi e noiosi dettagli dei sintomi e delle cause.»112

Il tedesco Griesinger dichiarò invece, rifacendosi a Ippocrate, che «le malattie mentali sono malattie cerebrali». Sebbene non fosse in grado di identificarne l’origine, era convinto che esistesse; riteneva, inoltre, che il disturbo del cervello dovesse essere individuato e affrontato con misure sia preventive sia terapeutiche. In base al principio di Einheitspsychose, o psicosi unitaria, secondo cui tutti i disturbi psichiatrici sarebbero riconducibili a un’unica malattia mentale, egli accettò che un problema potesse evolvere in un altro, anticipando in sostanza il processo oggi denominato doppia diagnosi. Tale principio favorì la comprensione della patologia maniaco-depressiva: i pazienti che passavano da uno stato estremo all’altro vennero ritenuti affetti da un unico disturbo anziché da due diversi. Sulla scorta delle sue ricerche, le autopsie cerebrali divennero frequenti, soprattutto nei casi di suicidio.

Griesinger fu il primo a introdurre l’idea secondo cui alcune malattie mentali sarebbero trattabili e altre curabili. Basandosi sul suo approccio molti manicomi presero a dividere i pazienti, separando i casi più disperati da quanti avevano la possibilità di riprendere una vita funzionale. Se la condizione dei veri pazzi rimase spaventosa, quella degli altri pazienti iniziò in tal modo ad assumere una parvenza di normalità. Il fatto che i depressi fossero, ancora una volta, considerati persone impedì loro di cadere nella dipendenza totale. Nel frattempo la ricerca, seguendo le orme di Griesinger, cominciò a prendere il posto della religione. Il cambiamento delle regole sociali, avviato alla fine del periodo vittoriano, potrebbe essere in qualche modo collegato all’introduzione del «modello cerebrale» in medicina.113

Con Griesinger la depressione diventò un fenomeno interamente di competenza medica. Nella più influente storia della malattia mentale nel XX secolo, Michel Foucault attribuì tale fatto a un vasto sistema di controllo sociale collegato al colonialismo e al trinceramento della ricca élite dominante di fronte alle masse prive di diritti. Bollando come «malati» coloro che trovavano la vita troppo difficile ed emarginandoli dalla società, la classe dirigente poté imporre condizioni di vita durissime e disumane, contro le quali una categoria meno controllata di miserabili si sarebbe potuta ribellare. Per tenere a freno il proletariato della rivoluzione industriale si dovevano eliminare quelli che già dimostravano tendenze autodistruttive, affinché non servissero da esempio per i loro simili e non fomentassero la rivolta.

Foucault è interessante da leggere, ma il suo pensiero ha avuto un’influenza ancor più bizzarra dei soggetti che descrive.114 I depressi non possono scatenare una rivoluzione poiché riescono a malapena a compiere i più semplici gesti quotidiani come alzarsi dal letto e infilarsi calze e scarpe: so con certezza che durante le mie crisi depressive non sarei mai stato in grado di partecipare a un movimento di ribellione.

Chi era realmente depresso non veniva reso invisibile dalla «segregazione» negli ospedali psichiatrici, ma era sempre vissuto perlopiù segregato proprio per via del disturbo, che minava i contatti e i legami umani. La reazione generale degli altri membri del proletariato (e di qualsiasi altra classe) verso i depressi gravi è di avversione e disagio. Coloro che non sono affetti dal disturbo rifiutano di confrontarsi con esso perché ciò genera ansia e insicurezza. Affermare che i malati mentali gravi venissero «sradicati» dal loro contesto naturale significa negare la realtà, ossia che il contesto stesso li respingeva appena possibile. Nessun parlamentare conservatore andò in piazza per esortare i pazienti ad andare nei manicomi: gli ospedali psichiatrici erano sovraffollati di persone ricoverate dai propri familiari. Il tentativo foucaultiano di individuare i cospiratori sociali va avanti come un interminabile romanzo di Agatha Christie, in cui tutte le morti avvengono in realtà per cause naturali.

Il sovraffollamento dei manicomi fu in parte la conseguenza dell’alienazione generale del tardo vittorianesimo, percepita in un modo o nell’altro da tutti, a partire dai pilastri dell’ordine sociale (Alfred Tennyson, per esempio, o Thomas Carlyle) fino ai riformisti entusiasti (Charles Dickens115 o Victor Hugo116) o agli esponenti della frangia decadente della società (Oscar Wilde117 o Joris-Karl Huysmans118). Il Sartor Resartus di Carlyle descrive, per l’appunto, l’alienazione in un mondo sovrappopolato, una sorta di depressione universale, anticipando Brecht e Camus: «Per me l’universo era voce di vita, scopo, volontà, perfino di ostilità: era una macchina a vapore enorme, orrenda, incommensurabile, che avanzava, con la sua letale indifferenza, per frantumarmi membro a membro». E inoltre: «Vivevo in una paura continua, indefinita e tormentosa; ero timoroso, pusillanime e apprensivo per non so quale motivo. Sembrava che tutte le cose dei cieli soprastanti e della terra sottostante potessero ferirmi, che i cieli e la terra fossero le fauci immense di un mostro divoratore, dove io, palpitando, aspettavo d’essere mangiato».119

Com’è possibile sopportare la vita, tanto opprimente in questo periodo d’infelicità? Il filosofo americano William James affrontò il problema in modo più diretto e identificò la causa evidente della prima alienazione moderna nella perdita della fede incondizionata in un Dio supremo, benevolo nei confronti del creato. Pur essendo molto devoto, James fu un attento osservatore del processo di secolarizzazione: «Noi del XIX secolo, con le nostre teorie sull’evoluzione e le nostre filosofie meccanicistiche, conosciamo la natura troppo disinvoltamente e troppo bene per credere senza riserva a qualsiasi Dio della cui essenza la natura possa essere espressione conforme. A questa prostituta non dobbiamo alcuna fedeltà». Rivolgendosi a un gruppo di studenti di Harvard disse: «Siete per lo più studenti di filosofia e avrete già sperimentato personalmente lo scetticismo e l’irrealtà che suscita l’indagare troppo nelle radici astratte delle cose». A proposito del trionfo della scienza osservò: «L’ordine fisico della natura, considerato semplicemente in senso scientifico, non può valere quale rivelazione di un qualsivoglia intento spirituale unico, ma ricorda piuttosto il tempo meteorologico».120

Questa è, dunque, l’essenza della melanconia vittoriana. Nel corso della storia umana si sono alternati periodi di maggiore o minor fede, ma questo abbandono del concetto e del significato di Dio ha aperto la strada a sofferenze tuttora esistenti e molto più acute del dolore di chi riteneva che un Dio onnipotente lo avesse abbandonato. Credere d’essere l’oggetto di un odio intenso è doloroso, ma scoprire di essere oggetto d’indifferenza equivale a provare un senso di solitudine inimmaginabile per le epoche precedenti. Così Matthew Arnold diede voce alla propria disperazione:

Il mondo che appare

dinanzi a noi come una terra di sogno,

Tanto vario, tanto bello, tanto nuovo,

Non conosce invero gioia, né amore, né luce,

Né certezza, né pace, né conforto al dolore;

e noi vaghiamo come in un’oscura piana,

Spinti da impulsi confusi di lotta e di fuga,

Dove eserciti ciechi si scontrano la notte.121

Questa è la forma che assume la depressione moderna: la crisi scatenata dal timore d’aver perso Dio è molto più frequente rispetto alla paura d’essere maledetti da Lui.

Se William James delineò la spaccatura tra la verità presunta e la verità filosofica, Henry Maudsley ne analizzò le conseguenze in campo medico. Egli fu il primo a descrivere una melanconia conclamata ma incapace di risoluzione spontanea. «Non è innaturale piangere» commentò Maudsley «ma non è normale scoppiare in lacrime perché una mosca vi si posa sulla fronte, come faceva un melanconico di mia conoscenza. [È] come se calasse un velo tra lui e [gli oggetti]. E in realtà nessun velo più spesso della paralisi di ogni interesse potrebbe porsi tra lui e le cose. La sua condizione gli appare sconcertante e inesplicabile. Le promesse della religione e le consolazioni della filosofia, così stimolanti quando non servono e così incapaci d’aiuto quando se ne ha maggiormente bisogno, sono per lui parole insignificanti. Non c’è un vero turbamento della mente, ma solo un profondo dolore mentale che ne paralizza le funzioni. Eppure, [i depressi] patiscono maggiori sofferenze rispetto ai veri pazzi, perché la mente è abbastanza integra da sentire e percepire la propria condizione miserevole, ed è più probabile che essi finiscano per suicidarsi.»122

George H. Savage, che trattò il tema della pazzia e della nevrosi, sottolineò la necessità di colmare il divario tra filosofia e medicina. «Sarebbe comodo» scrisse «ma non filosofico trattare il corpo separatamente dalla mente, e i sintomi fisici separatamente da quelli mentali. La melanconia è uno stato di depressione mentale, in cui l’infelicità è assurda sia in relazione alla sua causa evidente sia nella forma particolare che assume, poiché il dolore mentale dipende dai cambiamenti fisici e corporali, non direttamente dall’ambiente. Una soluzione satura di sofferenza provoca la cristallizzazione del delirio, che diviene definitivo.»123

Il XX secolo ha visto nascere due approcci principali riguardanti il trattamento e lo studio della depressione: il primo, psicanalitico, ha dato di recente origine a un’ampia gamma di teorie della mente ispirate alla scienza sociale. Il secondo, psicobiologico, ha comportato invece una più rigida categorizzazione dei problemi. Ciascuno è apparso, nelle diverse circostanze, convincente o ridicolo, ma ha in ogni caso contribuito ad ampliare la conoscenza sull’argomento e a evidenziare le assurdità delle tesi passate. Entrambi, tuttavia, hanno peccato di una certa mistificazione di natura parareligiosa, fenomeno questo che, se si fosse verificato in ambito antropologico, cardiologico, paleontologico, sarebbe stato aspramente condannato. Nella realtà sono presenti elementi propri di ambedue le visioni, per quanto esse, combinate insieme, non diano quale somma totale la verità; ma è proprio la rivalità che le contraddistingue ad aver portato a prese di posizione esagerate, spesso molto meno accurate della secentesca Anatomia di Burton.

La teoria moderna della depressione iniziò in realtà con la pubblicazione del manoscritto freudiano sulla melanconia, che l’autore inviò a Fliess nel 1895. L’inconscio, come concepito da Freud, sostituisce l’idea tradizionale di anima e individua una nuova sede e origine della melanconia. Nello stesso periodo Emil Kraepelin pubblicò le sue classificazioni della malattia mentale, che definivano la categoria della depressione così come oggi la conosciamo. Proprio a questi due studiosi si deve la dicotomia tra l’approccio psicologico e quello biochimico alla malattia, che la scienza non è ancora riuscita a sanare. Se la distinzione di tali aspetti della depressione ha ostacolato l’evoluzione del pensiero moderno sulla questione, le due visioni indipendenti hanno un’importanza considerevole poiché, se non si fossero sviluppate in parallelo, non avremmo iniziato a perseguirne la sintesi.

Il modello psicanalitico era latente da anni, seppure in forma irriconoscibile. La psicoanalisi ha molto in comune con il salasso, impiegato sino a poco tempo fa. In entrambi è presente la convinzione che un fattore interno impedisca il normale funzionamento della mente: se il salasso serviva a eliminare gli umori maligni facendoli uscire dal corpo, le terapie psicodinamiche servono a neutralizzare i traumi dimenticati o repressi eliminandoli dall’inconscio. Secondo Freud, la melanconia è una forma di lutto che nasce dal senso di perdita della libido, del desiderio di cibo o del sesso. «Mentre gli individui sessualmente potenti sviluppano con facilità nevrosi ansiose» scrive «quelli impotenti tendono alla melanconia.» La depressione è per lui l’effetto della suzione dell’eccitazione correlata che determina «un’emorragia interna, una ferita».124

La prima descrizione coerente della melanconia non fu però opera di Freud ma di Karl Abraham, che affrontò l’argomento nel suo autorevole saggio del 1911.125 Egli asserì che l’ansia e la depressione erano in relazione reciproca come la paura e il dolore: «Temiamo un male imminente, ci rattristiamo per quello sopraggiunto». Dunque, mentre l’ansia è l’angoscia per ciò che deve accadere, la melanconia è l’angoscia per ciò che è accaduto. Secondo Abraham, una condizione implica l’altra: collocare l’angoscia nevrotica solo nel passato o nel futuro è impossibile. Egli ritiene che l’ansia insorga quando desideriamo qualcosa che sappiamo non dovremmo avere e quindi non tentiamo di ottenerla; la depressione, quando desideriamo qualcosa, tentiamo di ottenerla e non vi riusciamo. Essa si genera, a suo parere, quando l’odio interferisce con la capacità individuale di amare. Il soggetto, vedendo rifiutato il proprio amore, percepisce paranoicamente che il mondo gli si è rivolto contro, perciò lo odia. E, dato che non vuole riconoscere l’ostilità che nutre per se stesso, sviluppa un «sadismo non del tutto represso».

A un simile sentimento, sostiene Abraham, corrisponde un grave sentimento depressivo. Come conseguenza dell’atteggiamento sadico, il soggetto, spesso senza rendersene conto, prova un certo piacere per la propria depressione. Abraham sottopose a psicanalisi numerosi pazienti riferendone i sostanziali miglioramenti; ma non è chiaro se questi si siano liberati dal disturbo grazie a una vera presa di coscienza o se abbiano tratto beneficio dall’idea di conoscerlo. Abraham ammise infine che il tipo di trauma che scatena la depressione può anche provocare altri sintomi. E non abbiamo la minima idea perché un gruppo di individui segua una strada, e l’altro gruppo un’altra. Questo, per citare le sue stesse parole, è «l’impasse del nichilismo terapeutico».

Sei anni più tardi Freud pubblicò il suo breve ma fondamentale saggio Lutto e melanconia, che probabilmente più di qualsiasi altra opera influenzò lo studio della depressione. Freud si pose il quesito della coerenza del fenomeno melanconia; la definizione di depressione «varia perfino nella psicologia descrittiva». Inoltre, si chiedeva Freud, come ci si deve comportare di fronte al fatto che molti sintomi della melanconia, che desideriamo assolutamente alleviare, caratterizzino anche il dolore? «Non ci sovviene mai di considerarlo come una condizione patologica e di avviare il sofferente alle terapie mediche… consideriamo qualsiasi ingerenza sconsigliabile o persino dannosa… è davvero solo perché sappiamo bene come spiegarlo che tale comportamento non ci appare patologico.»126 (Oggi non è più necessariamente così. The New England Journal of Medicine ha di recente pubblicato un articolo in cui si suggeriva quanto segue: «Poiché il normale lutto può causare una depressione maggiore, i pazienti sofferenti che presentano sintomi depressivi da più di due mesi dovrebbero essere sottoposti a terapia antidepressiva».)127 I depressi compromettono la loro autostima. Secondo Freud, nel dolore il mondo diviene misero e vuoto; nella melanconia è l’ego stesso che diviene misero e vuoto. Chi è in lutto è afflitto a causa di una morte reale; il melanconico, dall’esperienza ambivalente dell’amore imperfetto.

Nessun uomo rinuncia volontariamente all’oggetto del proprio desiderio. La perdita di autostima è conseguenza di una perdita non voluta che, secondo Freud, è anche inconscia, visto che il dolore della perdita cosciente di solito migliora col tempo, e le accuse che il melanconico rivolge a se stesso sono in realtà le sue lamentele nei confronti del mondo. L’io si divide in due: un accusatore che minaccia e un accusato che cerca di farsi piccolo per la paura. Il conflitto è presente nei sintomi della melanconia: l’ego accusato, per esempio, desidera dormire ma l’ego minaccioso lo punisce con l’insonnia. La depressione è, in questo caso, il crollo dell’essere umano coerente o dell’io. Infuriato per l’ambivalenza del suo oggetto d’amore, il melanconico cerca la vendetta, ma rivolge la sua collera all’interno per evitare di punire chi ama. Solo questo sadismo, scrive Freud, «può risolvere l’enigma». Anche la suicidalità è un impulso sadico contro un altro, che è stato invece rivolto contro se stessi. La divisione dell’ego è un modo per interiorizzare l’oggetto amato: se si rimprovera se stessi, l’oggetto del proprio sentimento è sempre presente; se si rimproverasse qualcun altro, che potrebbe morire o andarsene, si resterebbe senza l’oggetto del sentimento. Freud osservò che con questa fuga nell’ego «l’amore evita l’annichilimento». Il narcisismo autoaccusatorio è frutto di una perdita e di un tradimento intollerabili, e causa i sintomi della depressione.

Rispondendo alle tesi di Lutto e melanconia, Abraham individuò due fasi nella depressione: la perdita dell’oggetto d’amore e il suo recupero mediante l’introiezione. Egli attribuisce il disturbo a fattori ereditari, a una fissazione della libido sul seno materno perduto, a una ferita precoce dell’amore per se stessi provocata da un rifiuto, reale o supposto, da parte della madre, alla ripetizione di tale delusione primaria. Secondo Abraham, «un attacco di depressione melanconica è stimolato da una delusione d’amore» e il melanconico non è mai sazio d’attenzioni.128

Le teorie di Freud e di Abraham sono facilmente applicabili, anche se in termini alquanto riduttivi, alla nostra vita. Quando ebbi la prima crisi, ero sconvolto dalla morte di mia madre, che di certo avevo interiorizzato nei sogni, nelle visioni e nella scrittura. Il dolore della sua perdita mi aveva reso furioso. Mi rammaricavo, inoltre, per tutte le pene che le avevo procurato e per i sentimenti confusi che ancora persistevano in me: la risoluzione degli aspetti irrisolti del nostro rapporto fu impedita dalla sua scomparsa.

Credo che i meccanismi interiori del conflitto e della colpa abbiano avuto un ruolo primario nella mia crisi e che si siano incentrati sulla pubblicazione del mio romanzo. Mi rammaricavo anche per l’insidiosa riservatezza che avevo sviluppato a causa del senso di discrezione, cui la mamma dava priorità assoluta. Decisi di pubblicare ugualmente il libro ed ebbi l’impressione di essermi liberato dei miei demoni. Ma nel farlo, mi parve di tradire mia madre, il che mi fece sentire in colpa. Quando dovetti leggere ad alta voce alcuni passi del romanzo, spiegare in pubblico ciò che facevo, il senso di colpa cominciò a perseguitarmi, e quanto più cercavo di non pensare alla mamma, tanto più lei, «oggetto d’amore interiorizzato», s’imponeva.

Causa secondaria della prima crisi depressiva fu una delusione nei confronti dell’amore romantico. Il terzo episodio fu invece scatenato dal fallimento di un rapporto nel quale avevo riposto tutta la mia fiducia e la mia speranza: questa volta non c’erano troppi elementi di complicazione. Mentre gli amici mi dicevano che mi sarei dovuto sentire furioso, io provavo disperazione e insicurezza e accusavo me stesso volendo accusare l’altro. Ero focalizzato sulla persona di cui desideravo l’attenzione che, pur fisicamente assente, era viva e presente in me. La mia ansia sembrava ricordare in modo inquietante quella legata alla mia infanzia e alla perdita della mamma. Davvero non si può dire che nel mio caso ci fosse carenza di sadismo interiorizzato!

Ciascuno dei grandi esponenti della psicanalisi ha ulteriormente affinato le varie tesi. Secondo Melanie Klein, ogni bambino subisce la triste esperienza della perdita del seno che lo nutre. La serena certezza che accompagna il desiderio di latte del bambino e la soddisfazione totale quando l’ottiene sono edeniche.

Chiunque abbia sentito un bambino urlare per fame sa che l’assenza di quel latte, nel momento in cui viene desiderato, può sfociare in una rabbia di proporzioni catastrofiche. Osservando il mio nipotino (nato mentre scrivevo questo libro) durante il suo primo mese di vita, ho visto (o proiettato su di lui) lotte e soddisfazioni molto simili alle mie e ho notato un accenno di depressione nei pochi secondi che la mamma impiegava per accostarlo al seno. Perfino ora che mi appresto a concludere il libro, il piccolo, già svezzato, non pare contento di rinunciare al seno materno.

Secondo la Klein, la condizione depressiva infantile occupa un ruolo centrale nello sviluppo del bambino. La sua normale crescita e la sua capacità d’amare sembrano dipendere soprattutto dalla modalità con cui l’ego affronta tale punto nodale.129

Gli analisti francesi si sono spinti oltre. Per Jacques Hassoun, che ha integrato la nozione di depressione nella decostruzione criptica dell’essere umano di Lacan, essa è la terza passione, potente e assoluta come l’amore o l’odio che la provocano. A suo avviso non esiste autonomia senza ansia: egli afferma che, nella depressione, non siamo del tutto separati dall’altro e ci percepiamo contigui al mondo. Desiderare l’altro è conforme alla natura della libido e poiché nella depressione non riusciamo a percepire l’altro come distinto, vengono a mancare le basi del desiderio. Siamo depressi non perché siamo distaccati da ciò che desideriamo, ma perché siamo uniti a esso.130

Se Sigmund Freud è il padre della psicanalisi, Emil Kraepelin è il padre della psicobiologia.131 Egli distinse le malattie mentali acquisite da quelle ereditarie e affermò che tutte erano dovute a fattori biochimici endogeni. Convinto che alcune patologie fossero permanenti e altre degenerative, Kraepelin introdusse l’ordine nel mondo caotico dei disturbi mentali sostenendo l’esistenza di condizioni specifiche, distinte, facilmente definibili, con caratteristiche diverse e, soprattutto, con un esito prevedibile e analizzabile in funzione del tempo. La sua supposizione fondamentale era probabilmente infondata, ma assolse l’utile scopo di offrire agli psichiatri uno strumento per affrontare le varie patologie via via che si presentavano.

Kraepelin classificò la depressione in tre forme correlate. Di quella più lieve afferma: «Si manifesta gradualmente una specie di indolenza mentale, diventa difficile pensare, i pazienti trovano faticoso decidere ed esprimersi. Per loro è arduo seguire il pensiero nella lettura o nella normale conversazione. Non riescono a provare il solito interesse in ciò che li circonda. Il processo dell’associazione delle idee è molto ritardato, non hanno niente da dire, manifestano scarsità di idee e povertà di pensiero. Appaiono cupi e svogliati, e dicono di sentirsi stanchi ed esausti. Il paziente vede solo il lato oscuro della vita». E Kraepelin concludeva: «Questa forma di depressione segue un decorso piuttosto uniforme con poche varianti. Il miglioramento è graduale. La durata va da pochi mesi a oltre un anno». Il secondo tipo di depressione si manifesta con cattiva digestione, colorito spento, torpore, sogni ansiosi. «Il decorso di questa forma è variabile, caratterizzato da remissioni parziali e un miglioramento molto graduale. La durata va da sei a diciotto mesi.» La terza forma si associa a «deliri e allucinazioni incoerenti e fantastici» ed è spesso permanente.

In complesso, secondo Kraepelin, «la prognosi non è favorevole, considerando che solo un terzo dei casi guarisce e che i rimanenti due terzi vanno incontro a un deterioramento mentale». Egli prescrisse la «terapia del riposo», «l’utilizzo di oppio o morfina in dosi crescenti», nonché varie restrizioni dietetiche. Classificò inoltre le cause della depressione: «Un difetto ereditario è quella principale e riguarda il 70, 80 per cento dei casi» scrisse, concludendo che «tra le cause esterne, oltre alla gestazione, l’eccesso di alcol è forse la più importante; le altre sono lo shock mentale, la deprivazione e le patologie acute».

Nella sua concezione c’è ben poco spazio per principi complessi come la divisione dell’ego o la fissazione del seno. Kraepelin perseguì la chiarezza diagnostica che, come osservò un suo contemporaneo, era «una necessità logica ed estetica». Malgrado fosse di conforto, spesso tale chiarezza era però fuorviante e nel 1920 lo stesso Kraepelin, sempre più convinto della complessità del disturbo depressivo, ammise che le sue ipotesi valevano solo in un ambito ben delimitato. Il nuovo e ben diverso modo di porsi di fronte al malato è sintetizzato dalla frase del medico canadese sir William Osler, che scrisse: «Non dirmi di che tipo di malattia soffra il paziente; dimmi invece che tipo è il paziente!».132

Sotto l’influenza dei filosofi americani William James e John Dewey, Adolf Meyer, uno svizzero immigrato negli Stati Uniti, adottò un approccio pragmatico al problema e, insoddisfatto delle teorie kraepeliniane e freudiane, tentò di riconciliare quelle che erano ormai divenute due concezioni opposte della mente e del cervello.133 I suoi principi erano tanto razionali che parvero luoghi comuni. Di Kraepelin Meyer sosteneva che «cercare di spiegare un attacco isterico o un meccanismo delirante tramite presunte alterazioni cellulari, che non possiamo vedere o provare, è, allo stato attuale dell’istofisiologia, una dimostrazione gratuita». Egli denunciò la falsa precisione di questa scienza definendola «tautologia neurologizzante». Tuttavia ritenne stolto e insopportabile il culto della psicanalisi: «Qualsiasi tentativo di inventare troppi nomi nuovi scatena una pronta vendetta. Il mio buon senso non mi permette di sottoscrivere acriticamente l’intero sistema teoretico riguardante come deve o dovrebbe funzionare l’essere umano». Meyer osservò che «evitando inutili rompicapi, si libera una gran quantità di nuova energia» e aggiunse: «Perché dovremmo insistere tanto sul “disturbo fisico” se si tratta solo di una formula generante vaghi ostacoli, quando i problemi funzionali ci presentano una serie semplice e controllabile di fatti su cui lavorare?».

Di qui ebbe origine la psichiatria intesa come terapia dinamica. Meyer credeva che l’uomo avesse infinite capacità di adattamento in ragione della plasticità del suo pensiero: non pensava che ogni nuova esperienza di un paziente conducesse a definizioni assolute e a scoperte grandiose, ma che la terapia dovesse operare in base alla comprensione di quel paziente specifico; diceva ai propri allievi che ogni malato rappresentava un «esperimento in natura». I pazienti, a suo parere, potevano anche avere una predisposizione ereditaria al disturbo, ma il fatto che qualcosa fosse ereditario non significava che fosse immutabile. Meyer diresse il dipartimento di psichiatria al Johns Hopkins, l’istituto medico più famoso nell’America di quel tempo, e formò un’intera generazione di psichiatri. La moglie, Mary Brooks Meyer, fu la prima assistente sociale psichiatrica al mondo.134

Meyer elaborò l’idea freudiana secondo cui l’esperienza infantile condizionerebbe il destino di un soggetto e quella kraepeliniana in base a cui il fattore rilevante in tal senso sarebbe invece la genetica, giungendo alla teoria, prettamente americana, del controllo comportamentale. Il suo maggior contributo fu quello di credere nella capacità di cambiare dell’uomo, intesa non solo come la facoltà di liberare i malati da false concezioni e dalla predeterminazione biologica, ma anche come la capacità di imparare a vivere la propria esistenza in modo da risultare meno vulnerabili ai disturbi mentali.

Meyer si interessò, in particolare, all’ambiente sociale. Quello strano, nuovo paese, l’America, dove la gente arrivava e si reinventava completamente, lo affascinava molto: per tale motivo propugnò con grande vigore un modello di autorealizzazione in parte ispirato agli ideali di libertà simboleggiati dalla statua omonima, in parte alla realtà della Nuova Frontiera. Chiamò il chirurgo «artigiano», il medico «utente della fisica» e lo psichiatra «utilizzatore della biografia». Poco prima di morire affermò che «lo scopo della medicina è precisamente quello di rendersi inutile: influenzare la vita al punto che ciò che oggi è medicina domani diventi semplicemente buonsenso». Leggendo i suoi numerosi saggi, si scopre una descrizione dell’esperienza umana che è la realizzazione medica di un ideale sostenuto in politica da Thomas Jefferson e Abraham Lincoln e, nell’arte, da Nathaniel Hawthorne e Walt Whitman. Si tratta di un’idea di uguaglianza e semplicità, in cui l’esteriorità viene abolita per rivelare l’umanità essenziale dell’individuo.135

Le tesi psicanalitica e biochimica sulla depressione, combinate con la teoria dell’evoluzione, lasciarono ancora una volta l’uomo isolato e alienato. Meyer aveva avuto grande seguito in America, ma in Europa le sue idee non furono accolte con altrettanto favore. Verso la metà del secolo, nel vecchio continente si erano infatti diffuse concezioni filosofiche angoscianti, tra cui, in particolare, l’esistenzialismo di Camus, Sartre e Beckett.

Se Camus descrive un’assurdità che non offre ragione per continuare a vivere né per uccidersi, Sartre si immerge in un mondo ancora più disperato. Nel suo primo libro sull’apparire della crisi esistenziale egli descrive molti sintomi tipici della depressione moderna: «M’è accaduto qualcosa, non posso più dubitare. È sorta in me come una malattia, non come una certezza ordinaria, non come un’evidenza. S’è insinuata subdolamente, a poco a poco; mi sono sentito un po’ strano, un po’ impacciato, ecco tutto. Una volta installata non s’è più mossa, è rimasta cheta, e io ho potuto persuadermi che non avevo nulla, ch’era un falso allarme. Ma ecco che ora si espande» afferma il protagonista della Nausea. In seguito aggiunge: «Adesso lo sapevo: le cose sono soltanto ciò che paiono – e dietro di esse… non c’è nulla». E ancora: «Io esisto – il mondo esiste – e io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. È una cosa che mi spaventa». Infine osserva: «Una pallida, piccola rimembranza di me vacilla nella mia coscienza… e d’un tratto l’io impallidisce, impallidisce e, ecco, si spegne». Qui termina ogni senso e significato. Come meglio si potrebbe spiegare la perdita del sé se non affermando che l’io «si spegne»?136

La nausea dipinge un quadro ancora sereno rispetto alle opere di Samuel Beckett, in cui né il lavoro né altro possono offrire una liberazione anche temporanea. Secondo Beckett il sentimento è una sorta di anatema, come afferma in più di un romanzo: «Ma che cosa conta se sia nato o no, se abbia vissuto o no, se sia morto o stia semplicemente morendo. Andrò avanti a fare come ho sempre fatto, senza sapere che cosa faccia, né chi sia, né dove sia, né se io sia». E ancora: «Le lacrime mi scendono sulle guance dagli occhi immobili. Che cosa mi fa piangere così? Di tanto in tanto. Qui non c’è nulla di rattristante. Forse è cervello liquido. La felicità passata è in ogni caso svanita dai miei ricordi, se mai è esistita. Se svolgo altre funzioni naturali, lo faccio inconsapevole».137 Si potrebbe essere più desolati di così?

Verso la metà del XX secolo la neuroscienza della depressione si occupò di due questioni fondamentali: la prima riguardava la modalità di trasmissione (elettrica o chimica) degli stati d’animo al cervello; all’inizio si suppose, peraltro senza prove, che le reazioni chimiche fossero subordinate agli impulsi elettrici. La seconda concerneva l’eventuale differenza tra la depressione nevrotica endogena, che nasceva dall’interno, e quella reattiva esogena, che nasceva dall’esterno. Le depressioni endogene avevano sempre fattori scatenanti esterni; le depressioni reattive erano di solito conseguenza di una lunga serie di reazioni ansiose alle situazioni esistenziali, tale da indicare una predisposizione interna del soggetto a sviluppare il disturbo. Diversi esperimenti «dimostrarono» che ogni forma depressiva risponde a una terapia specifica. L’idea che tutte le depressioni implichino un’interazione genetico-ambientale non fu neppure considerata fino agli ultimi decenni del XX secolo.

Ciò in parte per la dicotomia del pensiero moderno sull’argomento, in parte per un problema ancora più antico: i pazienti che soffrono di depressione non accettano il fatto di cedere di fronte a difficoltà che altri invece superano. Esiste, dunque, un interesse sociale nell’affermare che tale patologia sia causata da processi chimici interni incontrollabili. Come accadeva nel Medioevo, chi vive nella seconda metà del Novecento tende a nascondere il disturbo dietro un muro di vergogna, a meno che non sia in grado di dimostrare la natura endogena della malattia, non dovuta a motivi esterni ma frutto di un piano genetico non modificabile dalla volontà.

Proprio in questo contesto gli antidepressivi divengono molto popolari. Essi agiscono all’interno dell’organismo in maniera abbastanza incomprensibile, intervenendo quindi su meccanismi che non potrebbero mai essere regolati dalla mente conscia. Sono, in poche parole, qualcosa di estremamente raffinato ed elegante, come avere a disposizione un autista: basta sedersi rilassati sul sedile posteriore e lasciare che quest’ultimo affronti i pericoli della strada.

Gli antidepressivi furono scoperti all’inizio degli anni Cinquanta.138 Secondo la versione più pittoresca, un gruppo di pazienti, isolati perché affetti da tubercolosi e trattati con iproniazide, un nuovo composto dotato di presunte proprietà terapeutiche per i polmoni, divenne stranamente allegro. Dopo poco tempo la sostanza cominciò a essere somministrata ai malati non tubercolotici (aveva scarsi effetti sulla TBC), e ciò prima ancora di comprenderne la modalità d’azione. Non sappiamo chi l’abbia individuata per primo, se Nathan Kline (che, negli Stati Uniti, scoprì l’iproniazide, un inibitore MAO), Lurie e Salzer (che, sempre negli Stati Uniti, ottennero i primi buoni risultati con l’isoniazide senza conoscerne il meccanismo d’azione) o Roland Kuhn (che, in Germania, scoprì l’imipramina, un triciclico): la priorità della scoperta è ancora controversa.

L’iproniazide provocava ittero, perciò la ditta produttrice dovette ben presto ritirarlo dal commercio. L’isoniazide non ebbe mai una notevole distribuzione, mentre l’imipramina è oggi l’antidepressivo ufficiale dell’Organizzazione mondiale della Sanità e, fino alla scoperta della fluoxetina, è rimasta il principale farmaco di tale categoria a livello mondiale. L’interesse di Kuhn per questi preparati si basava su esigenze di classificazione: egli credeva potessero essere impiegati per differenziare quelle forme patologiche oggetto di ossessive discussioni tra gli psichiatri tedeschi fin dai tempi di Kraepelin. Kline invece, partito da presupposti psicanalitici, aveva scoperto il suo farmaco mentre tentava di dimostrare una teoria sulla sede dell’energia dell’ego. Lurie e Salzer erano più pragmatici.

L’imipramina risultò essere il preparato di maggior successo, ma Kuhn fallì nel suo intento primario: non c’era alcuna logica evidente nella responsività al farmaco e quindi era impossibile procedere a una nomenclatura dei disturbi depressivi. Dal canto suo Kline, che desiderava aiutare i pazienti ad affrontare i traumi passati, rimase sorpreso nel constatare che molti di loro perdevano ogni interesse al riguardo. Lurie e Salzer, che miravano solo ad alleviare la condizione dei depressi, centrarono quasi il loro obiettivo.139

La scoperta degli antidepressivi si rivelò entusiasmante; individuare come e perché agissero era però tutt’altra questione. La teoria dei neurotrasmettitori era stata introdotta nel 1905, l’acetilcolina venne isolata nel 1914 e nel 1921 ne venne dimostrata la funzione. Nel 1933 fu identificata la serotonina e nel 1954 i ricercatori avanzarono l’ipotesi che tale sostanza potesse essere collegata alle funzioni emozionali.140 Un articolo pubblicato su Science nel 1955 affermava che il comportamento era talora determinato da fattori biologici.141 I farmaci che abbassavano il livello di serotonina cerebrale provocavano sedazione o spasmi negli animali.142

Più tardi, in quell’anno, un altro ricercatore scoprì che gli stessi medicinali determinavano anche la diminuzione di un altro neurotrasmettitore, la noradrenalina. I tentativi di aumentarla sembrarono normalizzare il comportamento degli animali, ma non avevano alcun effetto sulla noradrenalina, che rimaneva bassa. Si scoprì che il farmaco agiva sulla dopamina, un altro trasmettitore. Noradrenalina, adrenalina, dopamina e serotonina sono tutte «monoamine» chimiche (così chiamate perché nella struttura chimica hanno un solo anello di amina), mentre i nuovi farmaci erano inibitori delle monoamino-ossidasi (inibitori MAO), capaci di aumentare i livelli ematici delle monoamine (l’ossidazione scompone le monoamine; i MAOI prevengono l’ossidazione).143

Si riteneva che i triciclici (la cui efficacia era stata già dimostrata) svolgessero la stessa funzione, ma alcuni test indicarono che essi riducevano il tasso ematico di noradrenalina; altri studi ancora provarono che quest’ultima, pur non circolando liberamente, rimaneva presente nel corpo. Sulla scorta di tali dati Julius Axelrod, un ricercatore statunitense che lavorava per il neofondato National Institute of Mental Health, propose la teoria della ricaptazione: la noradrenalina veniva rilasciata, esercitava il suo effetto in una sorta di area neutrale chiamata «fessura sinaptica» (quella parte che fuoriusciva veniva metabolizzata) e in seguito veniva riassorbita dallo stesso nervo attraverso il quale era stata liberata.144 Axelrod, che vinse il premio Nobel nel 1970, avrebbe in seguito dichiarato che se a quel tempo avesse avuto maggiori conoscenze in materia, non sarebbe mai giunto a un’ipotesi tanto inverosimile. Eppure, funzionava. Fu ben presto dimostrato che i triciclici bloccavano il meccanismo di ricaptazione, aumentando la noradrenalina nella fessura sinaptica senza incrementarne il livello nell’intero organismo e nel sangue.

Nei successivi vent’anni gli scienziati cercarono di identificare i neurotrasmettitori principali. L’idea originaria, che attribuiva alla serotonina la maggiore importanza, fu sostituita dalla tesi secondo cui l’umore era fortemente influenzato dalla noradrenalina. L’articolo di Joseph Schildkraut, apparso nel 1965 su The American Journal of Psychiatry, sintetizzò tutte le informazioni disponibili e propose una teoria coerente: la sfera emozionale era regolata dalla noradrenalina, dall’adrenalina e dalla dopamina (le cosiddette catecolamine); i MAOI prevenivano la scomposizione di queste sostanze, perciò ne aumentavano la quantità nel cervello e, di conseguenza, nella fessura sinaptica; anche i triciclici, inibendo la ricaptazione, aumentavano le catecolamine nella fessura sinaptica.145

La pubblicazione di questa teoria segnò la spaccatura definitiva tra psicanalisi e neurobiologia. Sebbene il concetto di fessura sinaptica non fosse del tutto incompatibile con quello della sublimazione dell’ego, erano tanto diversi da non poter essere entrambi veri agli occhi dei rispettivi fautori. Di recente i ricercatori hanno messo in discussione molte idee correnti sulla modalità d’azione degli antidepressivi e preso in considerazione le lacune della teoria di Schildkraut.146 Le nuove problematiche che stanno emergendo sono in genere tecniche e complesse, ma in sostanza riconducibili a un’unica questione: se è certo che alcuni composti influenzano i livelli di catecolamine e sono efficaci quali antidepressivi, non è chiaro come i due fenomeni siano correlati. Indagini più approfondite hanno anche dimostrato che varie sostanze capaci di influenzare il tasso catecolaminico cerebrale non hanno effetti antidepressivi.

Corollario della tesi di Schildkraut è la teoria della serotonina, perlopiù identica, ma riguardante un neurotrasmettitore diverso. I dati sulla quantità di trasmettitori presenti nella fessura sinaptica hanno portato alla formulazione di numerose ipotesi sui recettori, concernenti la loro destinazione più che la loro natura. In base a quanto suggerito, se il recettore non funziona correttamente, il cervello potrebbe comportarsi come se avesse esaurito i neurotrasmettitori, pur avendone una grande riserva.

In seguito si è scoperto che livelli elevati di neurotrasmettitori possono causare una desensibilizzazione dei recettori. Elaborate per la prima volta nel 1972 da un gruppo di scienziati scozzesi, le teorie sui recettori presentano lo stesso numero di lacune delle teorie della ricaptazione.147 Alcune sostanze che si legano ai recettori non hanno proprietà antidepressive, e alcuni farmaci antidepressivi molto efficaci (la mianserina e l’iprindolo, per esempio) non si legano ai recettori né influenzano i livelli dei trasmettitori. Inoltre, i recettori non sono elementi fissi, cambiano in continuazione e la loro quantità a livello cerebrale varia facilmente. Dopo mezz’ora dall’assunzione del preparato si alterano sia il livello dei neurotrasmettitori nelle fessure sinaptiche sia il numero e la sede dei recettori.

Una teoria formulata nel 1976 sosteneva che il ritardo nella risposta ai primi antidepressivi fosse causato da un gruppo di recettori, i beta-adrenergici, che erano desensibilizzati dalla maggior parte degli antidepressivi dopo qualche settimana dall’assunzione. Si tratta dell’ennesima teoria non ancora provata né confutata: infatti, è stata in genere ignorata fino all’introduzione degli SSRI e al tentativo di ridefinire la depressione quale squilibrio del sistema della serotonina.

Già nel 1969 Arvid Carlsson suggerì che l’efficacia degli antidepressivi esistenti potesse essere dovuta al loro effetto periferico sulla serotonina, anziché alla loro azione primaria su noradrenalina, adrenalina e dopamina. Egli espose la sua idea a una delle maggiori aziende produttrici di antidepressivi, ma si sentì rispondere che non c’era interesse per un antidepressivo mirato al sistema della serotonina. Nel frattempo, in Svezia, un gruppo di scienziati avviò una sperimentazione alterando la struttura degli antidepressivi in uso e, nel 1971, sviluppò il primo farmaco attivo sulla serotonina. Dopo nove anni di sperimentazione il medicinale fu commercializzato in Europa ma, nonostante la sua efficacia, venne ritirato dal mercato a causa delle gravi reazioni avverse. Carlsson si era nel frattempo unito a un’équipe di ricercatori danesi con cui elaborò il citalopram, il primo farmaco in grado di agire sulla serotonina senza provocare gravi effetti collaterali, e dal 1986 il preparato più diffuso in Europa.

Mentre fiorivano le teorie sulla modalità d’azione di tali medicinali, lo scienziato americano David Wong sintetizzò nel 1972 un nuovo farmaco mirato al sistema della serotonina, la fluoxetina. L’industria farmaceutica presso cui lavorava intendeva utilizzarlo quale antipertensivo, ma il preparato non si rivelò particolarmente efficace; all’inizio degli anni Ottanta, si cominciò quindi a considerarne le proprietà antidepressive.148 Nel 1987 fu messa in commercio la fluoxetina, seguita di lì a poco da altri SSRI. La fluvoxamina, già impiegata in Europa, fu ben presto introdotta negli Stati Uniti. La sertralina, la paroxetina e la venlafaxina vennero prodotte nel giro di dieci anni: strutturalmente diversi e multifunzionali, sono tutti composti atti a inibire la ricaptazione della serotonina.149

Nelle recenti ricerche sulla depressione pare riemergere l’antica congettura ippocratica, secondo la quale la depressione sarebbe una malattia del cervello trattabile con la somministrazione di rimedi orali. Gli scienziati del XXI secolo sono senza dubbio più abili nell’elaborare tali preparati rispetto ai loro predecessori del V secolo a.C., ma il concetto di base è rimasto pressoché immutato. Le teorie sociali, nel frattempo, si sono adeguate al modello di pensiero aristotelico, benché le varie forme di psicoterapia siano oggi molto più sofisticate rispetto al passato. Ciò che è preoccupante tuttavia è il fatto che questi due approcci siano ancora in contrapposizione, come se la verità non si collocasse a mezza strada tra l’uno e l’altro.