IX

La povertà

La depressione colpisce qualsiasi classe sociale, ma le terapie non sono alla portata di tutti. Ciò significa che la maggior parte dei depressi delle classi più disagiate rimangono tali, anzi, diventano con il tempo sempre più poveri e più depressi.1 La povertà deprime e la depressione impoverisce giacché porta a non essere funzionali e a isolarsi. Umilia soprattutto il fatto di essere disarmati di fronte al destino, un problema che anche in soggetti manifestamente più forti andrebbe affrontato con la massima prontezza. Gli indigenti depressi si sentono del tutto inetti, al punto da non cercare né accettare alcun sostegno. Se il mondo li evita, loro evitano il mondo perdendo così una prerogativa umana fondamentale, il libero arbitrio.

Quando la depressione colpisce un appartenente alla classe media è facile accorgersene. Raggiunto un buon livello di vita, il soggetto inizia all’improvviso a stare sempre male, diventa meno efficiente, perde la voglia di lavorare e il senso di controllo sulla sua esistenza. Ha l’impressione di non essere in grado di fare nulla e gli sembra che l’esperienza stessa sia priva di significato. Quanto più aumenta il processo di ritiro sociale ed egli si avvicina alla catatonia, tanto più attira l’attenzione di amici, colleghi e familiari, che non comprendono perché rinunci a tutto ciò che prima amava. La sua depressione appare assurda in privato e inspiegabile in pubblico.

Se invece appartiene all’ultimo gradino della scala sociale, i segni potrebbero essere meno evidenti. Per queste categorie di persone la vita è sempre stata difficile e priva di soddisfazioni, dato che non sono mai state in grado di ottenere o mantenere un lavoro decoroso, non hanno mai creduto di poter realizzare molto e di certo non hanno mai pensato di poter tenere sotto controllo gli eventi esterni. La condizione normale di questi soggetti presenta di per sé molte affinità con la depressione, il che complica l’individuazione dei sintomi. Che cos’è sintomatico? E che cosa è invece normale e comprensibile?

C’è una differenza enorme tra avere una vita difficile e avere un disturbo dell’umore e benché sia logico presumere che la depressione sia il risultato naturale di una vita problematica, la realtà è sovente molto diversa. Quando si è afflitti da una forma depressiva invalidante, non si è in grado di realizzarsi: si resta bloccati al livello esistenziale più basso, sopraffatti dallo stesso pensiero di risollevarsi. La terapia antidepressiva spesso permette ai malati indigenti di scoprire dentro di sé l’ambizione, la capacità e il piacere.

La depressione può essere distinta in numerosi sottogruppi, molti dei quali sono stati studiati in modo approfondito: tra questi vi sono le forme che colpiscono le donne,2 gli artisti,3 gli atleti,4 gli alcolisti5 e via dicendo, quasi all’infinito. Ben poco tuttavia si è fatto per la depressione dei meno abbienti, il che è indicativo oltre che curioso, poiché il disturbo interessa più spesso chi vive al di sotto della soglia di povertà che non i ceti medi: i fruitori dell’assistenza pubblica presentano un tasso pressoché triplo della malattia rispetto alla popolazione in generale.6 Si parla tanto di depressione senza però considerarla in rapporto ai fatti esistenziali. La maggior parte dei soggetti poveri e depressi presenta molte caratteristiche che rivelano i sintomi iniziali della patologia. Le difficoltà economiche rappresentano solo il primo dei loro problemi: spesso hanno un cattivo rapporto con i genitori, i figli, il fidanzato, la fidanzata o il coniuge, e sono poco istruiti. Non dispongono di facili distrazioni dal dolore o dalla sofferenza come, per esempio, un lavoro soddisfacente o la possibilità di viaggiare. Soprattutto, non si aspettano una vita serena.

Convinti come siamo che la depressione appartenga all’ambito medico, tendiamo a pensare che il «vero» disturbo non sia correlato con la realtà materiale, il che è sbagliato. Molti appartenenti alle classi disagiate soffrono di depressione: non hanno solo una sensazione di avvilimento e di sconforto per la loro miserevole condizione, ma la malattia clinica conclamata, i cui sintomi comprendono ritiro sociale, incapacità di alzarsi dal letto, alterazione dell’appetito, paura o ansia eccessive, irritabilità marcata, aggressività occasionale, incapacità di prendersi cura di sé e degli altri.

Tutti i poveri sono, per ovvie ragioni, scontenti della loro situazione, ma molti ne restano addirittura paralizzati, incapaci di concepire e attuare provvedimenti per migliorare il loro destino. In quest’epoca di riforme assistenziali chiediamo loro di risollevarsi da soli. Ma coloro che sono affetti da un disturbo depressivo maggiore non hanno la forza di reagire. Quando divengono sintomatici, né i programmi di rieducazione né l’integrazione sociale possono aiutarli: ciò di cui hanno bisogno è l’intervento psichiatrico, basato su farmaci e terapie idonee.7 Diversi studi condotti in tutto il paese hanno dimostrato che un simile intervento ha un costo relativamente basso ed è molto efficace. E gran parte dei pazienti così trattati tendono, una volta liberi dal disturbo, a migliorare se stessi e la loro vita.

Se la miseria è un grave fattore scatenante della depressione, la liberazione dall’indigenza costituisce un valido stimolo alla guarigione. Le politiche liberali si sono proposte di ridurre gli effetti esterni della povertà, nella convinzione di rendere la gente meno infelice. Si tratta, senza dubbio, di un obiettivo primario, anche se talora risulta più facile alleviare il bisogno psicologico che non quello finanziario.

È opinione comune che si debba prima di tutto porre rimedio alla disoccupazione e solo in seguito affrontare le stravaganze psichiche di chi non ha un lavoro, ma questo è un grossolano errore: risolvere il problema mentale potrebbe essere il modo più affidabile per restituire un malato al mondo del lavoro. Secondo l’appassionata denuncia di alcuni di quelli che si battono per le categorie socialmente svantaggiate, la distribuzione generalizzata della fluoxetina avrebbe lo scopo di rendere sopportabile l’insopportabile: purtroppo, il farmaco non è in grado né di rendere felici i diseredati né di mantenerli tali, e un simile quadro allarmistico appare del tutto infondato. Sanare le conseguenze dei problemi sociali non servirà a risolverli, ma gli indigenti sottoposti a un trattamento adeguato potrebbero contribuire a elaborare le politiche atte a modificare la loro esistenza e, di conseguenza, a cambiare in meglio la società.

Le tesi umanitarie a favore del trattamento delle fasce povere e depresse sono più che legittime, come del resto le argomentazioni di natura economica. I depressi rappresentano un peso enorme per la società: dall’85 al 95 per cento degli statunitensi affetto da malattie mentali gravi è disoccupato.8 Se è vero che gran parte di questi soggetti lotta per cercare di condurre una vita socialmente accettabile, altri si abbandonano all’abuso di sostanze o a comportamenti autodistruttivi. A volte divengono violenti e trasmettono tali problemi ai figli, spesso destinati a sviluppare le stesse turbe psichiche ed emotive. Quando una madre indigente depressa non viene sottoposta a trattamento, i figli tendono a infoltire le schiere degli assistiti e dei carcerati: i maschi hanno maggiori probabilità di diventare delinquenti minorili, le femmine vanno incontro a una pubertà precoce,9 fatto spesso associato a promiscuità, gravidanze indesiderate e instabilità emotiva.10 Il costo del trattamento di queste categorie è modesto se paragonato a quello che si dovrà affrontare nel caso i soggetti non vengano trattati.

Tra le classi svantaggiate è difficile che i trattamenti antidepressivi siano costanti e adeguati, perché negli Stati Uniti non esistono piani sistematici per individuare o controllare la malattia in queste fasce di popolazione. I fruitori del sistema Medicaid – il programma federale di assistenza sanitaria rivolto a circa 37 milioni di indigenti – hanno diritto di ricevere terapie complete ma devono richiederle, e un depresso sa di rado esercitare o far valere i suoi diritti, anche qualora sia culturalmente in grado di riconoscere la propria condizione.11 I programmi di igiene mentale più aggressivi, indirizzati all’attiva ricerca, identificazione e assistenza dei soggetti che necessitano di trattamento ma non lo chiedono, sono moralmente giustificati, poiché chi viene convinto a iniziare una terapia è poi quasi sempre contento di aver ottenuto aiuto: più che in qualsiasi altro contesto la resistenza è qui sintomo evidente della malattia.12

Molti Stati offrono programmi terapeutici più o meno adeguati per i depressi delle classi povere, purché costoro si rivolgano agli appositi uffici, compilino i moduli necessari, attendano nella fila giusta, forniscano le foto per l’identificazione, si iscrivano nelle liste… Pochi soggetti sono in grado di farlo: la condizione sociale e i gravi problemi da cui sono afflitti li rendono disfunzionali al punto da non riuscire nemmeno ad affrontare queste incombenze. Questa categoria di pazienti può essere curata solo se si affronta prima la malattia e in seguito la passività con cui la vivono.

A proposito dei programmi di igiene mentale, Steven Hyman, direttore del National Institute of Mental Health, osserva: «Non che si debba trasformarsi nel KGB e rapire le persone, ma bisogna in ogni caso seguirle. Potrebbe essere fatto nell’ambito dei programmi di incentivazione al lavoro: sarebbe un buon punto di partenza per passare efficacemente dal sistema assistenziale al mondo produttivo. Il fatto di avere qualcuno che si interessi davvero a loro è un’esperienza del tutto insolita per tali soggetti». La maggior parte, tuttavia, teme le esperienze nuove: chi è disperato e rifiuta la mano che gli viene tesa non riesce a credere che essa possa renderlo libero, perciò può essere salvato solo con un energico zelo missionario.

Non è facile calcolare con esattezza i costi dell’assistenza a questa categoria di persone, ma il 13,7 per cento degli americani vive al di sotto della soglia di povertà13 e, secondo uno studio recente, circa il 42 per cento dei capifamiglia che ricevono il sussidio AFDC (aiuto alle famiglie con figli a carico) presenta i segni della depressione clinica,14 una percentuale più che doppia rispetto alla media nazionale. Altissima è anche la percentuale tra le donne gravide inserite nei programmi di assistenza: il 53 per cento.15 Chi è affetto da disturbi psichici ha il 38 per cento di probabilità in più di diventare un fruitore dei programmi di assistenza rispetto a chi non ne soffre.16

La nostra incapacità di identificare e trattare i depressi delle classi povere non è solo indice di scarsa solidarietà sociale, ma è anche costosa. La Mathematica Policy Research, Inc., una società di studi statistici, ha confermato che «una percentuale consistente della popolazione assistita … presenta disturbi mentali non diagnosticati e/o non trattati» e che, prestando aiuto a questi individui, «si aumenterebbe la loro idoneità lavorativa». I governi statali e federali spendono circa venti miliardi di dollari l’anno in sussidi per gli indigenti non anziani e i loro figli, e pressappoco la stessa cifra in buoni viveri.17 Se si calcola, in base a una stima prudente, che il 25 per cento degli assistiti è depresso, che la metà di costoro potrebbe essere curata e che due terzi di questi ultimi potrebbero tornare a svolgere un’attività produttiva, almeno parziale, reintegrando così parte dei costi sostenuti per le terapie, il bilancio potrebbe ridursi di almeno l’8 per cento, con un risparmio annuale di circa 3,5 miliardi di dollari.

Inoltre, dato che il governo statunitense provvede anche all’assistenza sanitaria e ad altri servizi in favore di queste famiglie, i risparmi reali potrebbero essere ancora maggiori. Oggi gli assistenti sociali non ricorrono a screening diagnostici per la depressione, e i programmi sono essenzialmente gestiti da amministratori poco coinvolti in prima persona nel sociale.18 Ciò che nelle relazioni viene presentato come inadempienza volontaria dei fruitori è spesso l’effetto di un disturbo mentale. Se i politici liberali sottolineano che una massa povera e miserabile è la conseguenza inevitabile di un’economia liberistica (e quindi non sanabile mediante appositi interventi psichiatrici), i conservatori ritengono che il problema sia dovuto a un atteggiamento di pigrizia dei diseredati (e per questo non sanabile mediante appositi interventi psichiatrici). Per gran parte degli appartenenti alle classi più povere il punto non è né la mancanza di opportunità d’impiego né l’assenza di motivazioni a lavorare, ma il grave disturbo mentale che rende impossibile l’inserimento nel processo produttivo.

Sono in corso vari studi sperimentali sulla depressione nelle classi meno abbienti. Molti medici del sistema sanitario pubblico, abituati a confrontarsi con tale realtà, sostengono la possibilità di gestire il problema. Jeanne Miranda, psicologa all’Università di Georgetown, si occupa da vent’anni dell’assistenza ai soggetti socialmente più deboli e ha di recente ultimato un’indagine sulle donne della contea di Prince George, nel Maryland, un distretto povero non lontano da Washington. Dato che nel Maryland i consultori sono gli unici centri sanitari disponibili per le fasce indigenti, la Miranda ne ha selezionato uno a caso per effettuare degli screening sulla depressione. Una volta individuati, i soggetti depressi sono stati inseriti in un programma terapeutico atto a migliorarne la condizione.19

Emily Hauenstein, dell’Università della Virginia, ha condotto una ricerca sul trattamento della depressione tra le donne delle zone rurali: esaminando i bambini disfunzionali, è giunta a identificare e trattare le madri. La ricerca è stata effettuata nella contea di Buckingham, un’area rurale della Virginia dove la popolazione lavora perlopiù negli istituti di pena e nelle poche fabbriche locali, è in buona parte analfabeta, vive in case fatiscenti prive di riscaldamento, telefono e servizi igienici interni, spesso anche senza acqua corrente.

Entrambe le ricercatrici hanno individuato i soggetti che abusavano di sostanze al di fuori del protocollo terapeutico e li hanno affidati a specifici programmi di riabilitazione. Glenn Treisman, del Johns Hopkins University Hospital, studia e tratta da decenni la depressione tra i sieropositivi e i malati di AIDS delle classi povere di Baltimora, molti dei quali tossicodipendenti. Treisman non è solo il medico curante, ma anche il portavoce di questa categoria di malati. Tutti questi esperti hanno adottato un approccio meticoloso, che ha visto ridursi il costo annuale per paziente ben al di sotto dei mille dollari.20 Le sperimentazioni hanno prodotto risultati ampiamente concordi.

Ho potuto parlare con molti dei pazienti inclusi in questi programmi e, con mio stupore, tutti si sono detti convinti che la loro vita fosse migliorata almeno un po’ nel corso del trattamento. Quelli che erano guariti dalla depressione grave avevano iniziato, al di là della drammaticità delle loro situazioni esistenziali, a recuperare la funzionalità: erano più soddisfatti della loro vita e vivevano meglio. Avevano acquisito la capacità di agire e la mettevano in pratica: perfino quando dovevano affrontare ostacoli quasi insormontabili, facevano progressi, talora veloci, talaltra lenti. Le tragedie che avevano vissuto superavano ogni mia aspettativa al punto che, sbigottito, ne chiesi più volte conferma ai medici. Il loro iter di guarigione ricorda in molti casi la storia di Cenerentola, caratterizzato com’è da eventi quasi incredibili. Loro stessi ne erano stupiti. Com’era riuscita questa mano tesa a cambiare totalmente la vita di persone colpite da tante avversità? «Ho chiesto al Signore di mandarmi un angelo» mi disse una donna «e Lui ha risposto alle mie preghiere.»

Lolly Washington, una delle pazienti di Jeanne Miranda, aveva sei anni quando iniziò a subire abusi sessuali da parte di un amico minorato della nonna alcolista. Alle secondarie «non avevo più ragioni per continuare a vivere. Facevo i compiti e tutto il resto, ma non riuscivo a essere felice» spiega. Lolly iniziò a chiudersi in sé. «Volevo rimanere sola. Tutti pensavano che non fossi più in grado di parlare, perché per qualche anno non aprii bocca.»

Come molte vittime di violenza, Lolly si sentiva brutta e indegna. Il suo primo ragazzo era un tipo brutale e, a diciassette anni, dopo la nascita del suo primo bambino, Lolly riuscì a «scappare, non so come». Pochi mesi dopo fu di nuovo violentata e rimase incinta. Era con la sorella, sua cugina, il figlio di quest’ultima e un vecchio amico di famiglia «che era sempre stato un amico, un vero buon amico. Ci trovavamo a casa sua, tutti quanti, e sapevo che sua madre teneva delle belle composizioni floreali sul cassettone: amavo i fiori e andai a vederle. All’improvviso se ne andarono tutti, senza che me ne accorgessi. Lui mi violentò barbaramente, io mi divincolavo e urlavo, ma nessuno mi rispondeva. Poi scendemmo dabbasso ed entrammo in auto con mia sorella. Non riuscivo a parlare, ero troppo spaventata, e perdevo sangue».

Lolly partorì il bambino dello stupro. Poco dopo incontrò un altro uomo e, spinta dalla famiglia, lo sposò, malgrado anche questi fosse un violento. «Tutto, nel giorno delle mie nozze, è stato brutto» mi raccontò. «È stato come andare a un funerale. Ma era l’alternativa migliore che avessi.» Nei successivi due anni e mezzo ebbe altri tre bambini. «Lui era violento anche con i bambini, malgrado fosse stato lui a volerli, bestemmiava e urlava sempre… e le botte, non potevo sopportarle, ci picchiava tutti per qualsiasi cosa, non riuscivo a fermarlo.»

Lolly sviluppò una depressione maggiore. «Avevo un lavoro ma dovetti lasciarlo perché non ce la facevo. Non riuscivo ad alzarmi dal letto e mi sembrava che niente avesse senso. Sono minuta, e iniziai a dimagrire sempre più. Non mi alzavo per mangiare né per fare altro. Non mi interessava e basta. A volte mi sedevo e piangevo, piangevo, piangevo: senza motivo. Piangevo e basta. Volevo soltanto restare sola. Mia madre mi aiutava con i bambini, anche quando perse una gamba per un colpo partito accidentalmente dall’arma di un amico. Non avevo niente da dire ai miei figli. Quando uscivano di casa, tornavo a letto e chiudevo la porta a chiave. Temevo il momento del loro rientro, alle tre del pomeriggio, che arrivava sempre troppo in fretta. Mio marito diceva che ero stupida, scema e brutta. Mia sorella prende il crack: ha sei bambini e dovetti aiutarla con i due più piccoli, uno di loro è nato già tossicodipendente. Ero stanca. Ero tanto stanca.» Lolly cominciò a prendere pillole, perlopiù analgesici. «Poteva essere paracetamolo o qualsiasi altro antidolorifico, qualunque cosa riuscisse a farmi dormire.»

Finalmente un giorno, con un insolito slancio d’energia, Lolly si rivolse a un consultorio per sottoporsi a legatura tubarica. All’età di ventotto anni aveva già undici figli e il pensiero di averne un altro la terrorizzava. Ci andò proprio quando Jeanne Miranda stava effettuando lo screening per la sua ricerca. «Era davvero un caso molto grave e chiaro di depressione» ricorda la Miranda, che la inserì subito in una terapia di gruppo. «Mi dissero che ero “depressa”: fu un sollievo sapere che c’era qualcosa di preciso che non andava» afferma Lolly. «Mi chiesero di partecipare a un incontro, e fu molto dura per me. Alla riunione non parlai, piansi per tutto il tempo.»

La psichiatria sostiene che si possa aiutare solo chi lo desidera e chi rispetta, di propria volontà, le scadenze di visite e sedute, ma ciò non vale per questo tipo di pazienti. «Continuarono a telefonarmi, invitandomi ad andare alle riunioni, importunandomi e insistendo, senza mai desistere. Una volta vennero persino a prendermi a casa. I primi incontri non mi piacquero. Ma ascoltai le altre donne e mi resi conto che avevano il mio stesso problema. Così iniziai a raccontare cose che non avevo mai detto a nessuno. Il terapeuta ci faceva tutte queste domande per modificare il nostro modo di pensare. Mi sentivo cambiare, e diventai più forte. Tutti notavano che avevo un atteggiamento diverso.»

Due mesi dopo Lolly comunicò al marito che se ne sarebbe andata. Cercò di indurre la sorella a prender parte a un programma di riabilitazione, ma quando lei si rifiutò, troncò ogni rapporto. «Dovevo sbarazzarmi di tutti e due, perché mi trascinavano a fondo. Non ci furono discussioni, perché non replicai. Mio marito cercava di farmi uscire dal gruppo perché non approvava il mio cambiamento. Gli dissi solo: “Me ne vado”. Ero forte, felice. Uscii per fare una passeggiata, la prima dopo tanto tempo, per assaporare la mia felicità.»

Passarono ancora due mesi prima che Lolly trovasse un impiego come baby-sitter per il personale della Marina statunitense. Grazie allo stipendio, poté stabilirsi in un appartamento nuovo insieme ai figli affidati a lei, di età compresa fra due e quindici anni. «I bambini sono molto più felici. Adesso hanno sempre voglia di fare qualcosa. Tutti i giorni parliamo per ore, sono i miei migliori amici. Appena rientro a casa e appendo borsa e cappotto, prendiamo i libri e leggiamo, facciamo insieme i compiti o qualsiasi altra cosa. Scherziamo, parliamo di quello che vorrebbero diventare da grandi, mentre prima non pensavano nemmeno alle loro prospettive future. Il maggiore vuole entrare nell’Aeronautica. Un altro vuole fare il vigile del fuoco, un altro ancora il predicatore, e una delle bambine vuole diventare avvocato! Parlo loro della droga: hanno visto mia sorella e ne stanno lontani. Non piangono né litigano come un tempo. Sanno che possono dirmi tutto, non importa cosa. Ho preso in affidamento i figli di mia sorella, e quello che aveva problemi per via della tossicodipendenza li sta superando. Il dottore ha detto che non si sarebbe mai aspettato che riuscisse a parlare tanto presto, a usare il vasino: ha fatto più progressi di quelli che speravamo.

«Nella nuova abitazione, c’è una camera per i maschi, una per le femmine e una per me, ma a loro piace venire nel mio letto e la sera stiamo lì seduti, vicini. Tutto quello di cui ora ho bisogno sono i miei bambini. Non avrei mai pensato di poter avere tutto questo. Fa bene sentirsi felici. Non so per quanto tempo durerà, ma spero per sempre. Le cose continuano a cambiare: il mio modo di vestire, di presentarmi, il mio atteggiamento, il mio umore. Non ho più paura. Posso uscire senza timori. Non penso che quelle brutte sensazioni possano tornare.» Lolly sorrise e poi scosse la testa in segno di meraviglia: «Se non fosse stato per la dottoressa Miranda e per tutto il resto, sarei ancora a casa, a letto, se non addirittura già morta».

Le cure che Lolly ricevette non contemplavano l’uso degli psicofarmaci e non erano strettamente basate sui modelli cognitivi. Che cosa indusse la sua metamorfosi? In parte il calore costante, l’attenzione affettuosa dei medici con cui lavorava. Come aveva osservato Phaly Nuon in Cambogia, l’amore e la fiducia possono essere molto benefici, e il fatto di sapere che qualcun altro si preoccupa di ciò che ti succede basta a influenzare profondamente le tue azioni.

Ero rimato colpito quando Lolly mi aveva detto che la semplice definizione del suo male, depressione, le aveva dato sollievo. Miranda ha descritto Lolly come palesemente molto depressa, eppure Lolly non ne era consapevole, nemmeno quando manifestava sintomi estremi. La classificazione del disturbo ha rappresentato per lei un passo essenziale verso la guarigione. Ciò che può essere individuato e descritto può anche essere controllato: la parola depressione ha tracciato una linea netta tra la malattia e la personalità di Lolly. Se tutti i lati che non amava di se stessa potevano essere considerati aspetti di una malattia, le buone qualità appartenevano alla «vera» Lolly, una Lolly che era più facile amare, che aveva la forza di lottare contro i problemi che l’affliggevano. Recepire l’idea di depressione significa acquisire uno strumento linguistico socialmente potente, che rafforza il sé migliore a cui aspira il depresso. Il problema di dare un nome al proprio dolore è universale, ma è particolarmente grave in queste fasce di popolazione, cui manca un simile vocabolario: per questo alcune strategie di base come la terapia di gruppo sono in grado di trasformare queste persone in modo tanto radicale.

Poiché gli emarginati sociali non conoscono il linguaggio della malattia mentale, spesso la loro depressione non emerge a livello cognitivo. È poco probabile che essi avvertano un forte senso di colpa, che rivelino a se stessi quella sensazione di fallimento personale tanto determinate nell’insorgenza del disturbo tra i ceti medi.21 Nel loro caso la patologia si manifesta sovente con sintomi fisici: insonnia, esaurimento, malessere, terrore e incapacità di stringere rapporti umani. Questi problemi li rendono vulnerabili alle malattie organiche, e il fatto di essere ammalati è spesso la goccia che fa traboccare il vaso e scatena le crisi gravi in chi ha solo una forma depressiva lieve.

Quando i depressi appartenenti a queste fasce sociali vanno in ospedale, lo fanno perché lamentano disturbi fisici, molti dei quali sono sintomi della loro angoscia mentale. «Se una povera donna di origine ispanica sembra depressa» afferma Juan López dell’Università del Michigan, che si occupa di assistenza psicologica alla popolazione indigente di lingua spagnola, «provo a somministrarle antidepressivi, ma ne parlo come se fossero ricostituenti per disturbi generici. Quando hanno effetto, lei è felice. Queste pazienti non recepiscono il loro problema come psicologico.» Anche Lolly percepiva i suoi sintomi come diversi da quelli che avrebbe interpretato come pazzia, poiché il suo unico modello di malattia mentale era la pazzia intesa come psicosi allucinatoria acuta. L’idea di un disturbo psichico debilitante che non la rendesse incoerente era estranea alla sua cultura.

Ruth Ann Janesson nacque in una roulotte nella campagna della Virginia. Corpulenta e occhialuta, a diciassette anni restò incinta di un uomo semianalfabeta e lasciò la scuola per sposarlo. Il matrimonio fu un disastro: Ruth Ann lavorava e per un po’ cercò di tirare avanti, ma dopo la nascita del secondo bambino, lasciò il marito. Pochi anni dopo sposò un manovale che lavorava in un cantiere edile. Era riuscita a ottenere la patente di guida per camion, ma dopo pochi mesi il marito le disse che il suo posto era a casa, a prendersi cura della famiglia. Ebbero due figli. Ruth Ann cercava di far quadrare il bilancio, «cosa difficile, perfino con i buoni viveri, per una famiglia di sei persone con un’entrata di duecento dollari a settimana».

Ben presto iniziò a precipitare nell’abisso ed entro il terzo anno di matrimonio perse tutta la sua vitalità. «Avevo deciso: bene, sono qui, esisto ed è tutto. Ero sposata, avevo dei figli, ma non avevo una vita e mi sentivo sempre male.» Quando suo padre morì, perse il controllo. «Avevo toccato il fondo. Mio padre non ci aveva mai picchiato, non ci faceva violenza fisica, ma mentale. Anche se eri bravo, non ricevevi complimenti ed eri sempre criticato. Sapevo di non riuscire a renderlo contento, ma non potevo fare altro. Sentivo di non essere mai stata in grado di dargli abbastanza soddisfazioni, e ora non ne avrei più avuto l’occasione.» Mentre mi raccontava questo periodo della sua vita, Ruth Ann iniziò a piangere e, prima ancora che finisse di parlare, aveva già consumato un’intera scatola di fazzolettini di carta.

Si mise a letto e prese a trascorrevi la maggior parte del tempo. «Sapevo che c’era qualcosa che non andava, ma non lo attribuivo a un problema medico. Non avevo energie, e cominciai a ingrassare. Facevo quello che dovevo nella roulotte, ma non uscivo mai e smisi del tutto di comunicare. Poi mi resi conto che stavo trascurando i bambini. Dovevo fare qualcosa.» Ruth Ann era affetta dal morbo di Crohn e anche se non faceva quasi nulla iniziò a sviluppare quelli che sembravano sintomi da stress. Il suo medico la inviò a Emily Hauenstein. Ruth Ann iniziò a prendere la paroxetina e a recarsi da Marian Kyner, una terapeuta che aveva lavorato a tempo pieno con le pazienti della Hauenstein. «Se non fosse stato per Marian, probabilmente sarei ancora chiusa nello stesso buco in cui mi trovavo quando cessai di vivere, di esistere. Se non ci fosse stata lei, oggi non sarei qui» esclamò, scoppiando ancora una volta in lacrime. «Marian mi indusse a guardarmi dentro, giù, giù, fin nel profondo. Scoprii chi ero e la cosa non mi piacque. Io non mi piacevo.»

«Poi iniziai a cambiare» proseguì Ruth Ann dopo essersi calmata. «Dicono che ho un cuore d’oro. Non pensavo neppure d’avere un cuore, ma ora so che sta da qualche parte e che alla fine lo troverò.» Ricominciò a lavorare a mezza giornata per un’agenzia di lavoro interinale. Ben presto divenne capo ufficio e, a quel punto, eliminò gradualmente gli antidepressivi. Nel gennaio del 1998, insieme a un’amica, rilevò l’agenzia, operante in franchising per una società nazionale, e seguì un corso serale di ragioneria, in modo da potersi occupare della contabilità. Poco dopo registrarono un annuncio per la TV via cavo. «Lavoriamo con l’ufficio di collocamento,» spiegò «troviamo lavoro ai disoccupati nell’industria privata. Li formiamo nei nostri uffici: ci aiutano e acquistano così buone competenze. Oggi siamo attive in diciassette contee.» Ruth Ann aveva raggiunto i cento chili di peso. Adesso fa regolarmente ginnastica e con una dieta ferrea è scesa a sessantacinque

Ha lasciato il marito perché, depressa o no, pretendeva che stesse in cucina ad aspettarlo. In ogni caso gli ha concesso un’opportunità e gli sta dando tempo perché si abitui al suo nuovo modo d’essere: quando l’ho incontrata l’ultima volta, sperava ancora in una riconciliazione. «A volte provo un sentimento nuovo, che mi spaventa. Impiego qualche giorno a inquadrarlo, ma almeno adesso so che i miei sentimenti sono lì, che esistono» mi ha confessato radiosa. Ruth Ann è riuscita a instaurare un rapporto assolutamente nuovo con i figli. «Alla sera li aiuto a fare i compiti. Mio figlio maggiore, che lo odiava, si è appassionato al computer e ora mi insegna a usarlo. Questo lo ha reso più sicuro di sé. Ha lavorato qui da noi quest’estate ed è bravissimo. Non molto tempo fa si lamentava d’essere stanco, e perdeva molti giorni di scuola. Allora il suo unico interesse era guardare la televisione, sdraiato sul divano.» A volte Ruth Ann lascia i bambini più piccoli a sua madre che, pur essendo disabile, è in grado di muoversi abbastanza bene e di prendersene cura. Ha di recente ottenuto un mutuo per comprare una casa nuova. «Possiedo un’azienda e una proprietà» afferma sorridente. Quasi al termine dell’intervista ha estratto un oggetto dalla tasca. «Mio Dio!» ha esclamato schiacciando i tasti del cercapersone. «Sedici chiamate da quando sono qui!» Le ho augurato buona fortuna mentre correva verso l’auto. «Ce l’abbiamo fatta, sai» mi ha gridato prima di salirvi. «Giù, giù, fino in fondo e ritorno!» Poi ha acceso il motore e se n’è andata.

La depressione è di per sé un grave fardello, ma diventa ancor più traumatica se colpisce chi ha già vari problemi psicofisici. La maggior parte dei depressi delle classi indigenti sviluppa sintomi organici e, spesso, un indebolimento delle difese immunitarie. Se è difficile aiutare un depresso a capire che la sua vita sfortunata e la depressione sono due cose distinte, lo è ancora di più convincere chi sia colpito da una malattia letale che il suo avvilimento è curabile. L’angoscia scatenata dal dolore, quella per le sue tristi condizioni di vita e quella immotivata possono essere scisse, e il miglioramento dell’una può determinare l’alleviamento dell’altra.

Quando Sheila Hernandez giunse al Johns Hopkins era, secondo il suo medico, «praticamente morta». Era affetta da HIV, endocardite e polmonite. Il consumo costante di eroina e cocaina le aveva compromesso a tal punto la circolazione che non riusciva a usare le gambe. I medici le inserirono un catetere di Hickman, sperando che con l’alimentazione per via endovena potesse recuperare le forze necessarie a sopportare le terapie antinfettive. «Dissi ai dottori di togliermelo, non volevo restare là dentro» mi raccontò quando ci incontrammo. «Dissi: “Me ne vado con quest’affare in vena e lo userò per farmi di droga”.» Fu allora che Glenn Treisman andò a visitarla. Lei dichiarò che non voleva parlargli perché stava per morire e avrebbe lasciato l’ospedale al più presto. «Oh, no» replicò Treisman. «Tu non uscirai da qui per andare incontro a una stupida e inutile morte per strada. Che idea idiota. È la cosa più insensata che abbia mai sentito. Tu starai qui, ti disintossicherai e guarirai dalle infezioni. E se l’unico modo per tenerti qui è quello di dichiarare che sei una pazza pericolosa, lo farò.»

Sheila restò. «Entrai in ospedale il 15 aprile 1994» mi raccontò con ironia. «Allora non mi vedevo neppure come un essere umano. Ricordo che anche da bambina mi sentivo molto sola. La droga entrò in gioco perché mi volevo liberare del male che avevo dentro. Mia madre mi affidò a una coppia di estranei quando avevo tre anni e a circa quattordici l’uomo mi molestò. Mi accaddero un mucchio di disgrazie, e volevo solo dimenticare. Mi svegliavo al mattino piena di rabbia solo per il fatto di essermi svegliata. Sentivo che per me non c’era alcuna possibilità d’aiuto perché su questa terra ero inutile. Vivevo per drogarmi e mi drogavo per vivere. Ma la droga mi rendeva ancora più depressa e volevo solo morire.»

Sheila Hernandez rimase in ospedale per trentadue giorni, fu sottoposta a riabilitazione fisica e disintossicata; le somministrarono anche degli antidepressivi. «Il risultato fu che alla fine capii che ciò che pensavo di me prima dell’ospedale era sbagliato. I dottori mi dissero che avevo molto da offrire, valevo qualcosa dopotutto. Fu come rinascere.» Sheila abbassò la voce. «Non sono una persona religiosa, non lo sono mai stata, ma la mia fu una vera resurrezione, come quella di Gesù Cristo. Diventai viva per la prima volta. Il giorno che uscii udii gli uccelli cantare: sa che prima non li avevo mai sentiti? Fino a quel giorno non mi ero mai accorta che gli uccelli cantassero. Per la prima volta annusai il profumo dell’erba e dei fiori, perfino il cielo era nuovo. Non avevo mai fatto attenzione alle nuvole.»

La figlia minore di Sheila, a quel tempo sedicenne, aveva già un bambino e aveva abbandonato la scuola qualche anno prima. «La vedevo incamminarsi sulla sciagurata strada che ben conoscevo» mi spiegò Sheila. «Almeno l’ho salvata da questo. Ha preso il diploma, adesso è al secondo anno di college ed è anche assistente infermiera diplomata al Churchill Hospital. Con la maggiore non è stato altrettanto facile, aveva già vent’anni, ma ora anche lei frequenta il college.»

Sheila Hernandez non ha più toccato la droga. Pochi mesi più tardi tornò al Johns Hopkins ma in qualità di dipendente, per occuparsi di uno studio clinico sulla tubercolosi: aveva il compito di reperire un alloggio fisso ai partecipanti. «La mia vita è così diversa. Faccio questo per aiutare gli altri, e sai, mi piace davvero.» La salute fisica di Sheila era eccellente. Per quanto fosse sempre sieropositiva, i suoi linfociti T erano raddoppiati e la carica virale non era apprezzabile. Aveva un enfisema residuo, ma dopo un anno di ossigenoterapia, riuscì a fare a meno dell’ossigeno. «Non mi sembra ci sia nulla che non vada in me» esclamò contenta. «Ho quarantasei anni e ho intenzione di vivere ancora un bel po’. La vita è la vita, ma devo dire che sono quasi sempre felice e ogni giorno ringrazio Dio, e il dottor Treisman, di essere viva.»

Dopo il colloquio con Sheila, incontrai Glenn Treisman che mi mostrò gli appunti relativi al suo primo ricovero: «Disturbi multipli, traumatizzata, autodistruttiva, suicida, depressione o malattia bipolare, fisicamente un rottame. Scarse probabilità di vivere a lungo: problemi molto radicati potrebbero compromettere la risposta alle strategie terapeutiche esistenti». Quelle considerazioni mi parvero esagerate, applicate alla donna che avevo appena conosciuto. «Allora sembrava un caso disperato» osservò Treisman «ma pensai che bisognasse tentare.»

Al di là dei recenti dibattiti sulle cause dei disturbi depressivi, appare evidente che questi siano di solito conseguenza di una vulnerabilità genetica attivata da fattori esterni. Individuare la depressione tra le classi più povere è come studiare l’enfisema tra i minatori. «I traumi in questa categoria di persone sono terribili e frequenti» spiega Jeanne Miranda «e basta la minima predisposizione a scatenare la malattia. Questi soggetti subiscono spesso violenze brutali, inaspettate, improvvise, e possiedono ben poche risorse per reagire. Ciò che sorprende, quando si esaminano vite tanto piene di fattori di rischio psicosociali, è che almeno un quarto della popolazione non sia depressa.»

«The New England Journal of Medicine» ha rilevato una correlazione tra «le ristrettezze economiche prolungate» e la depressione.22 Negli Stati Uniti il tasso del disturbo è più elevato tra gli indigenti che in qualsiasi altro gruppo sociale. Inoltre, le persone prive di risorse economiche sono meno capaci di reagire alle avversità della vita. «La depressione è strettamente legata alla posizione sociale» afferma George Brown, che ha esaminato i fattori sociali che influenzano i vari stati mentali. «La privazione e la povertà distruggono un uomo.»

La depressione è tanto comune nelle classi meno abbienti che molti non la notano nemmeno né se ne chiedono il perché. «Se tutti i tuoi amici sono così,» spiega la Miranda «ti sembrerà una condizione abbastanza normale. Inoltre, attribuisci il tuo dolore a elementi esterni e credendo che questi non possano mutare, presumi che neanche quelli interni possano variare.» Come tutti gli altri individui, i poveri sviluppano, dopo più episodi, una disfunzione organica che ha regole e decorso propri. Un trattamento che non consideri la vita effettiva dei pazienti avrà difficilmente successo: strappare qualcuno al caos biologico dovuto a traumi ripetuti non serve, se costui verrà nuovamente traumatizzato nel corso dell’esistenza. Mentre chi non è depresso riesce, a volte, a far uso di tutte le sue scarse risorse per cambiare la situazione e risolvere parte dei problemi che lo assillano, chi lo è stenta anche solo a mantenere il proprio posto nell’ordine sociale e non può certo migliorare. Con i poveri sono dunque necessari nuovi approcci.

Tra gli indigenti americani non si rileva in genere una correlazione diretta tra traumi e mancanza di denaro. Gli individui denutriti sono relativamente pochi, ma molti soffrono di una passività acquisita,23 uno stato che precede l’insorgenza della depressione e che, nel mondo animale, si manifesta quando un esemplare è sottoposto a uno stimolo doloroso in una situazione in cui non può né combattere né fuggire. L’animale entra allora in uno stato di remissività molto simile alla depressione umana. Lo stesso accade ai soggetti dalla volontà debole: l’aspetto più inquietante della povertà americana è la passività.

In qualità di direttrice dei servizi di assistenza ai degenti al Georgetown University Hospital, Joyce Chung ha lavorato a stretto contatto con Jeanne Miranda. La Chung si occupava da tempo di soggetti problematici. «Le persone che in genere seguo riescono almeno a fissare un appuntamento e a rispettarlo. Capiscono che hanno bisogno d’aiuto e lo chiedono. Le donne del nostro programma, invece, non metterebbero mai piede nel mio ambulatorio di loro iniziativa.» Stavamo discutendo dell’argomento nell’ascensore della clinica della contea Prince George, dove vengono effettuati i trattamenti. Scendemmo al pianterreno e trovammo una sua paziente in piedi, dietro le porte a vetri dell’edificio, in attesa del taxi che le avevano chiamato tre ore prima: non le era venuto in mente che ci potesse essere stato un contrattempo e che sarebbe stato opportuno ritelefonare, né aveva coscienza del suo stato. Le demmo un passaggio fino a casa. «Vive col padre che l’ha ripetutamente violentata,» mi spiegò poi la Chung «è costretta a restare perché non ha soldi. Perdi la voglia di lottare per tentare di cambiare, quando vivi in realtà simili. Non possiamo aiutarla a trovare un altro alloggio, non possiamo far niente per la sua vita. Il problema è davvero complesso.»

Un indigente incontra grandi difficoltà a organizzare la propria vita quotidiana. «Una donna mi ha spiegato che, quando deve venire in clinica il lunedì, si rivolge a sua cugina Sadie, che a sua volta chiede al fratello se possa accompagnarla, mentre la sorella di sua cognata si occupa dei bambini. Questo a meno che non sia di turno al lavoro quella settimana: in tal caso la sostituisce la zia, quand’è in città. A quel punto la paziente deve cercare qualcuno che venga a prenderla, perché il fratello di Sadie va al lavoro subito dopo averla lasciata. Se ci incontriamo il giovedì, c’è tutta un’altra schiera di persone coinvolte. In entrambi i casi si perde una grande quantità di tempo, e lei è quasi sempre costretta a ripieghi dell’ultimo minuto» mi ha raccontato Emily Hauenstein.

Questo è vero anche in città. Lolly Washington perse un appuntamento in un giorno di pioggia perché, dopo aver provveduto alla custodia degli undici bambini, organizzato la propria giornata e calcolato qualsiasi altro possibile imprevisto, scoprì di non avere l’ombrello. Camminò per cinque isolati sotto la pioggia battente, aspettò l’autobus per dieci minuti e, quando fu del tutto fradicia e tremante, tornò a casa. La Miranda e i suoi terapeuti vanno talora a prendere i pazienti e li conducono agli incontri di gruppo. Marian Kyner ha organizzato una terapia domiciliare per agevolare le pazienti. «A volte non capisci se si tratti di resistenza al trattamento, come accade per certi depressi della classe media» spiega «o se il motivo della scarsa partecipazione alle sedute sia l’eccessiva difficoltà a organizzarsi.»

Joyce Chung mi riferì di una sua paziente che «era tanto sollevata quando la chiamavo per dialogare un po’. Un giorno le chiesi se mi avrebbe telefonato lei, e mi rispose di no. Seguirla, indurla a richiamare… era tutto così difficile che più di una volta fui sul punto di rinunciare. Quando finisce i farmaci, non se li procura. Devo andare da lei e rifornirla di ricette. Ho impiegato molto a capire che il suo comportamento non significava che non volesse collaborare. La sua passività è realmente di natura caratteriale e per nulla insolita in una persona che ha subito abusi ripetuti da bambina».

La paziente in questione, Carlita Lewis, ha subito ferite terribili nel profondo. A quanto pare, a trent’anni non riesce ancora a cambiare la propria vita: il trattamento l’ha aiutata solo a trasformare il sentimento nei confronti della sua esistenza, anche se in modo radicale, come possono testimoniare quanti la circondano. Dall’infanzia fino all’adolescenza, finché non fu abbastanza grande da reagire, passò un periodo terribile con il padre. Quando rimase incinta, abbandonò la scuola. Sua figlia Jasmine, nacque affetta da anemia drepanocitica.

Carlita soffre probabilmente di disturbi dell’umore fin da bambina. «La minima cosa mi irritava e perdevo il controllo» mi raccontò. «Andavo in cerca della lite. A volte piangevo in continuazione finché non mi veniva mal di testa, un mal di testa così forte che volevo solo uccidermi.» Spesso diventava violenta: una sera, a cena, conficcò una forchetta nella testa di uno dei suoi fratelli e per poco non lo uccise. In molte occasioni assumeva dosi eccessive di pillole. Un giorno la sua migliore amica la trovò reduce da un tentato suicidio, e le disse: «Sai quanto sei importante per tua figlia. Jasmine non ha un padre, e adesso non avrà neppure una madre. Come pensi che starà? Diventerà come te se ti uccidi».

Jeanne Miranda giudicò che i problemi di Carlita non riguardassero solo la sua situazione concreta e le prescrisse la paroxetina. Sin dall’inizio della terapia Carlita cominciò a parlare con la sorella di quanto avevano subito dal padre: nessuna delle due era a conoscenza di ciò che aveva passato l’altra. «Mia sorella non vuole avere più niente da spartire con lui» spiegò Carlita, che non lascia mai la figlia sola in casa con il nonno. «Prima non potevo vedere mia figlia, a volte anche per giorni, per paura di sfogarmi su di lei» proseguì. «Non volevo che nessuno la picchiasse, io per prima: ma ero sempre sul punto di farlo.»

Oggi quando la tristezza la sommerge, Carlita riesce a controllarsi. «Jasmine mi chiede che cos’abbia e io le rispondo che sono solo stanca. Lei cerca di farmi parlare, poi mi rassicura dicendomi che tutto andrà bene, mi dà un bacio e mi accarezza la schiena. Adesso c’è tanto affetto tra noi, in ogni momento.» Dato che Jasmine sembra avere un’indole simile a quella di Carlita, questa capacità di sostenersi senza manifestazioni d’ira costituisce già un grande progresso. «Jasmine dice che vuole essere proprio come me, e io ribatto che spero proprio di no. Penso che verrà su bene.»

I meccanismi con cui si riescono a indurre cambiamenti positivi nella vita sono incredibilmente elementari: la maggior parte di noi li apprende durante l’infanzia nell’interazione con la madre, da cui evince il rapporto tra causa ed effetto. Ho osservato i miei cinque figliocci, di età compresa fra un mese e nove anni. Il più piccolo piange per avere attenzioni e cibo, quello di due anni infrange le regole per capire che cosa si possa fare e che cosa no. Alla bambina di cinque anni è stato detto che potrà dipingere la camera di verde se riuscirà a tenerla in ordine per sei mesi. Quello di sette anni ha collezionato riviste di automobili e ha imparato tutto il possibile sulle macchine, in modo enciclopedico. Il bambino di nove ha dichiarato di non voler studiare lontano da casa, come aveva fatto il padre e, appellandosi al sentimento e alla ragionevolezza dei genitori, ha ottenuto di iscriversi a una scuola locale. Ognuno di loro è dotato di una ferma volontà e crescerà consapevole della propria forza. Queste precoci e positive affermazioni sono molto più efficaci del benessere materiale e delle facoltà intellettive. L’assenza di una persona di riferimento che possa rispondere a tali rivendicazioni, anche solo col rifiuto, è catastrofica.

«Ad alcuni pazienti abbiamo dovuto sottoporre un elenco dei vari sentimenti per aiutarli a capire che cosa provassero, in modo che potessero conoscere anziché reprimere la loro sfera emozionale. Poi li abbiamo dovuti convincere che potevano cambiarla. In seguito abbiamo continuato a porli di fronte a precisi obiettivi. Per certi soggetti solo l’idea di individuare ciò che desiderano e constatarlo da soli è rivoluzionaria» spiega Marian Kyner. A quel punto mi è venuta in mente Phaly Nuon, che ha aiutato la gente cambogiana a riscoprire i propri sentimenti dopo la paralisi emotiva del regime khmer, tutta la problematicità dei sentimenti non individuati e la missione di chi aiuta gli altri a riconnettersi con la propria mente.

«Nonostante il nuovo millennio, qualche volta ho la sensazione di essere tornata ai vecchi gruppi di autocoscienza» afferma Jeanne Miranda, cresciuta tra i manovali poveri dell’Idaho rurale senza sperimentare la «demoralizzazione a lungo termine» che oggi incontra quotidianamente tra le persone «senza lavoro e senza orgoglio».

Danquille Stetson appartiene all’ambiente duro e violento del Sud rurale. È un’afroamericana che vive in un contesto di pregiudizi e di violenze razziali e che si sente minacciata da ogni parte, tanto da portare con sé una pistola. È analfabeta ma funzionale. La sua casa, dove ci incontrammo, è una vecchia e malandata roulotte, con le finestre bloccate e un arredo dall’aria decadente. Mentre parlavamo, l’unica luce proveniva dal televisore, che trasmetteva il Pianeta delle scimmie. Il posto era però ordinato e per nulla sgradevole.

«È come una ferita» esclamò quando entrai, trascurando i convenevoli. «È come se ti strappassero il cuore dal corpo, in continuazione, come se qualcuno ti pugnalasse all’infinito.» Danquille aveva subito abusi sessuali dal nonno paterno quand’era bambina e lo aveva detto ai genitori. «A loro non interessava, fecero finta di niente» mi spiegò, e le violenze proseguirono per anni.

Spesso era difficile distinguere, nella mente di Danquille, quale fosse il risultato dell’intervento di Marian Kyner, quale quello della paroxetina e quale quello di Dio. «Il Signore» mi disse «mi ha fatto entrare in depressione e poi mi ha fatto uscire. L’ho pregato perché mi aiutasse, e Lui mi ha mandato la dottoressa Marian, che mi ha insegnato a pensare in modo positivo, a prendere queste pastiglie, a capire che potevo salvarmi.» Il controllo dei pensieri negativi, quale strategia per determinare un cambiamento comportamentale, è l’essenza della terapia cognitiva. «Non so perché mio marito, lui, mi picchiava sempre» disse Danquille, dandosi pugni sul braccio mentre raccontava, «ma dopo di lui non ho fatto che passare da un uomo all’altro, cercando amore in tutti i posti sbagliati.»

I figli di Danquille hanno ora ventiquattro, diciannove e tredici anni. La rivelazione che questa paziente ha avuto durante la terapia è stata fondamentale: «Ho capito che quello che fanno i genitori influenza i figli. Lei lo sa? Io non lo sapevo. E ho fatto un sacco di cose sbagliate. Ho fatto passare una vita d’inferno a mio figlio, al mio bambino. Se solo avessi capito… ma allora non lo sapevo. Un giorno ho fatto sedere i miei figli e gli ho detto: “Se qualcuno viene e dice che la mamma ha fatto questo, ha fatto quello, be’ è vero; ma voi non fate quello che io ho fatto”. E ho anche detto: “Ma non sono tanto cattiva che non potete parlarmi”. Perché se avessi avuto qualcuno disposto ad ascoltarmi e a rassicurarmi, tutto sarebbe andato bene, sarebbe stato molto diverso, ora lo so. I genitori non capiscono di essere la causa di molti dei tuoi problemi: loro sono responsabili quando cominci a cercare l’amore nei posti sbagliati. Ho un buon amico, gli ho pagato la cauzione quando ha sparato al nipote… aveva visto la madre con diversi uomini, facevano l’amore in macchina proprio davanti a lui e questo ha condizionato la sua vita. Sua madre ancora oggi non lo sa. Qualunque cosa tu faccia, col tempo salta fuori».

Danquille è diventata una specie di risorsa per la comunità: insegna ad amici ed estranei le proprie tecniche di controllo della depressione. «Un sacco di gente continua a chiedermi come ho fatto a cambiare. Sono ottimista, perciò rido sempre, sorrido sempre. Adesso mi è successo questo: il Signore ha iniziato a mandarmi persone da aiutare. Io gli ho detto: “Signore, fammi dire quello che a loro serve, aiutami ad ascoltarli”.»

Danquille sa, in effetti, ascoltare i suoi figli e le persone che conosce in chiesa. A un uomo che voleva uccidersi spiegò: «Non sei solo. Io ero come te. Ma ce l’ho fatta. Non c’è niente di così brutto che non si possa superare». E ancora: «Inizia a pensare in modo positivo e ti prometto che la ragazza che ti sta lasciando ti chiamerà». Il giorno prima del nostro incontro l’uomo le aveva confessato che, se non fosse stato per lei, sarebbe morto. Danquille occupa un posto nuovo nella sua famiglia. «Più che altro sto infrangendo uno schema. Le mie nipoti vengono da me invece di andare dai loro genitori, e lo schema del non ascolto si è spezzato. Mi dicono che grazie alle mie parole trovano la voglia di vivere. Io ripeto a tutti che, se hanno un problema, allora avranno anche aiuto. Ecco perché il Signore ha mandato i dottori, per aiutarli. Lo dico a voce alta a queste persone: cane mangia cane. Ma tutti possono essere salvati. È venuta una donna che beveva e fumava, era stata con mio marito, proprio con lui, e neppure mi ha chiesto scusa, poi è stata anche con il mio nuovo amico; ma quando è arrivata l’ho aiutata, perché per stare meglio aveva bisogno di una mano.»

I depressi dei ceti meno abbienti non sono considerati dalle statistiche sulla depressione, perché le ricerche si basano principalmente su soggetti che beneficiano dei programmi sanitari esistenti e che appartengono alla classe media o che, quanto meno, lavorano. Generare aspettative in una categoria svantaggiata è problematico, come lo è creare falsi obiettivi nella mente della gente. «Non smetterò mai di vedere la dottoressa Chung» mi confessò sicura una donna, benché i criteri della ricerca le fossero stati spiegati più volte. È doloroso pensare che, se questa paziente dovesse avere un’altra crisi in futuro, forse non riuscirebbe a ricevere il tipo di sostegno che oggi l’ha aiutata a star meglio. E questo benché tutti i terapeuti coinvolti in tali indagini si sentano moralmente obbligati a continuare a fornire, pagati o no, un’assistenza di base ai propri pazienti.

«Negare il trattamento a chi soffre gravemente perché questo aumenta le sue aspettative» sostiene la Hauenstein «significa ignorare una grande questione etica per una minore. Facciamo del nostro meglio per istruire i pazienti in modo che sappiano reagire da soli in altre situazioni, dobbiamo fare tutto quello che possiamo per aiutarli a rimanere a galla.» Il costo delle attuali terapie farmacologiche rappresenta un grossissimo problema, risolto solo in parte dai programmi di distribuzione gratuita degli antidepressivi gestiti dalle industrie farmaceutiche, che riescono a malapena a coprire le richieste. Un’abile dottoressa della Pennsylvania mi rivelò di ricevere «camionate di campioni» dagli informatori farmaceutici. «Io dico loro che userò i loro prodotti come terapia di prima linea con i pazienti in grado di pagarli, i quali, con molta probabilità, li assumeranno a vita» mi spiegò. «In cambio, ne chiedo una scorta più o meno illimitata per poter assistere gratuitamente i pazienti a basso reddito. Scrivo mucchi su mucchi di ricette. I rappresentanti intelligenti accettano sempre.»

La schizofrenia ha un’incidenza doppia nelle fasce a basso reddito rispetto a quanto si registra nella classe media.24 All’inizio i ricercatori supponevano che fossero le difficoltà economiche a scatenare la patologia, ma studi più recenti hanno dimostrato il contrario: la malattia mentale è costosa e disorientante, e una malattia cronica che mini la produttività e colpisca in giovane età tende a far scendere l’intera famiglia del paziente di un gradino o due nella scala sociale. L’«ipotesi della spirale discendente» sembra valere anche per la depressione. Così si è espresso Glenn Treisman a proposito dei sieropositivi indigenti: «Molti non hanno mai avuto un solo successo nella vita. Non riescono a mantenere un rapporto o un impiego a lungo termine».

Si ritiene che la depressione sia conseguenza dell’infezione, ma spesso è vero il contrario. «Se hai un disturbo disforico, prendi minori precauzioni col sesso e con le siringhe» dice Treisman. «Sono pochi quelli che contraggono l’HIV a causa di un preservativo rotto. Molti si infettano invece quando non hanno più la forza necessaria per preoccuparsene. Si tratta di persone del tutto demoralizzate dalla vita, che in essa non trovano più alcun senso. Se avessimo avuto a disposizione più terapie per la depressione, credo, per esperienza clinica, che il tasso d’infezione da HIV in questo paese sarebbe stato inferiore almeno della metà, con enormi risparmi per la sanità pubblica.» I costi per il servizio pubblico di una patologia che favorisce l’infezione da HIV, la quale, a sua volta, rende il soggetto incapace di prendersi cura di sé (e degli altri), sono spaventosi. «L’HIV ti porta via i soldi, i beni, spesso gli amici e la famiglia. La società ti emargina. E l’individuo precipita in basso.»

I ricercatori che ho incontrato hanno tutti sottolineato la necessità di terapie, ma hanno anche ricordato che queste devono essere efficaci. «Sono davvero molto poche le persone a cui affiderei questi pazienti» afferma la Hauenstein. Gli standard terapeutici delle cure destinate agli indigenti affetti da malattie mentali tanto gravi da richiedere un trattamento sono terribilmente bassi (ma non nell’ambito di questi programmi di igiene mentale).

Gli unici uomini poveri e depressi che ho intervistato sono sieropositivi. Sono tra i pochi ad aver cozzato contro la realtà della loro depressione, perché tale patologia tra i maschi delle fasce deboli si manifesta con modalità che conducono in carcere o all’obitorio più che a un programma terapeutico. Gli uomini dimostrano sicuramente maggior resistenza all’idea di intraprendere un trattamento antidepressivo. Ho chiesto alle donne che ho intervistato se i loro mariti o fidanzati fossero depressi; molte hanno risposto di sì e mi hanno raccontato che anche i figli lo erano. Una paziente della Miranda mi disse che il fidanzato, che la picchiava, le aveva confidato di voler trovare un gruppo per poter essere assistito, ma in seguito aveva trovato la questione «troppo imbarazzante».

Rimasi stupito quando Fred Wilson venne a parlarmi un pomeriggio al Johns Hopkins. Era un gigante di due metri, portava anelli d’oro, un grande medaglione d’oro al collo e un paio di occhiali da sole. Aveva la testa quasi completamente rasata, muscoli impressionanti e sembrava occupare uno spazio cinque volte maggiore del mio. Era proprio il tipo di persona che per strada cerco di evitare cambiando marciapiede, e mentre parlavamo pensai che la mia prudenza era più che giustificata. Aveva fatto uso di droghe pesanti e per permettersele aveva compiuto rapine, rubato nei negozi e nelle case, scippato vecchiette. Per un certo periodo era stato un senzatetto. Un vero duro. Eppure, malgrado suscitasse una giusta indignazione, quell’uomo temibile aveva un’aria sola, disperata.

Per lui il giro di boa fu scoprire di avere un disturbo dell’umore che probabilmente lo aveva spinto a drogarsi, e di non essere «del tutto rovinato dall’eroina». Quando lo conobbi era alla ricerca di un antidepressivo che lo potesse aiutare. Fred aveva carisma e un sorriso risoluto: sapeva che cosa significasse sentirsi padroni del mondo. «Sono sempre riuscito ad avere quello che volevo. Quando hai questa capacità, non devi faticare o lavorare per ottenere qualcosa, lo prendi e basta. Non sapevo cos’era la pazienza.» dichiarò. «Non c’erano limiti né precauzioni, sai cosa intendo, no? Mi procuravo quello che volevo e andavo su di giri. Al massimo, capisci? E venivo accettato. Mi aiutava a superare il senso di colpa e di vergogna.»

Fred si sottopose al test dell’HIV quando fu «pizzicato e messo dentro»; poco dopo scoprì che anche la madre era sieropositiva. Dopo la morte della donna per AIDS «non mi importava più di niente, perché tanto il risultato finale della vita è sempre la morte. Gente! Raggiungevo un obiettivo, poi via, pensavo ad altro. Ma cominciavo a piacermi sempre di meno. Poi, una delle volte in cui fui arrestato, nel periodo in cui non avevo casa, mi sono reso conto che vivevo come vivevo per via delle scelte che facevo. Così sono cambiato, capisci? Perché ero sempre solo. E nessuno ti dà la droga quando ne hai bisogno, se non hai i soldi per pagarla».

Fred è stato sottoposto a terapia farmacologica per l’HIV, ma ha smesso di assumere i farmaci qualche tempo fa perché gli creavano problemi: gli effetti collaterali erano lievi, e anche causati dagli stupefacenti ma, come lui stesso mi disse, «prima d’andarmene, mi voglio divertire un po’». I medici che lo hanno curato per l’HIV lo hanno persuaso almeno a non abbandonare gli antidepressivi, nella speranza che risveglino in lui la voglia di vivere e di prendere gli inibitori della proteasi.

La forza di volontà è spesso il miglior baluardo contro la depressione, e proprio i più bisognosi dimostrano una tenacia e una capacità di sopportare i traumi a dir poco straordinarie. Tra gli indigenti molti hanno personalità tanto passive da essere privi di aspirazioni e da complicare il compito di chi vuole aiutarli, altri invece mantengono un interesse per la vita anche durante la fase depressiva.

Theresa Morgan, una paziente di Emily Hauenstein e Marian Kyner, è una donna naturalmente dolce la cui vita è stata contrassegnata dall’orrore in modo quasi assurdo. Vive in una casa grande quanto una grossa roulotte, proprio nel centro della contea di Buckingham, in Virginia, otto chilometri a sud della Highway of Faith Congregation e otto a nord della Gold Mine Baptist Church. Quando ci incontrammo, mi raccontò la sua storia nei minimi dettagli, come se avesse sempre preso appunti sulla sua vita.

La madre restò incinta a quindici anni, partorì Theresa a sedici e aveva diciassette anni quando il marito la picchiò tanto brutalmente che lei uscì di casa carponi. Il nonno di Theresa disse alla donna di andarsene e di nascondersi, e che se si fosse fatta ancora vedere nella contea e si fosse avvicinata a Theresa l’avrebbero spedita in prigione. «Mio padre allora aveva ventidue anni, ed era lui il bastardo… loro però mi dicevano che la mamma era una sgualdrina e che lo sarei diventata anch’io. Mio padre mi diceva che gli avevo rovinato la vita per il solo fatto di essere nata» mi raccontò Theresa.

Ben presto le venne diagnosticato un tumore benigno inoperabile, un emangioma localizzato tra il retto e la vagina; tutte le notti, dai cinque ai nove anni – epoca in cui uno dei suoi aguzzini si sposò e se ne andò di casa – subì violenza da alcuni parenti stretti. La nonna le disse che gli uomini erano a capo della famiglia e che doveva tenere la bocca chiusa. Theresa frequentava la chiesa e la scuola, e quella era tutta la sua vita. La nonna credeva in una disciplina severa, il che significava pestaggi quotidiani con qualsiasi arnese domestico le capitasse in mano, frustate con prolunghe elettriche, botte con manici di scopa e padelle. Il nonno lavorava come disinfestatore e dall’età di sette anni Theresa passò molto tempo sotto le case a caccia di serpenti. In ottava classe ingerì un’overdose di farmaci per il cuore della nonna: i medici dell’ospedale la sottoposero a lavanda gastrica e le consigliarono di intraprendere una terapia, ma il nonno disse che nessuno in famiglia aveva bisogno d’aiuto.

Alle secondarie Theresa uscì per il suo primo appuntamento con un ragazzo di nome Lester, che «in un certo senso mi aveva toccato l’anima, perché potevamo parlare liberamente». Quando Lester la accompagnò a casa, suo padre arrivò e andò su tutte le furie. Era alto meno di un metro e sessanta, ma pesava più di centotrentacinque chili: si sedette sopra Theresa (alta un metro e mezzo e che, a quel tempo, pesava quarantasette chili) e le sbatté per ore la testa sul pavimento, fino ad avere tutte le mani sporche del suo sangue. La fronte e il cuoio capelluto di Theresa sono ancora segnati da cicatrici tanto grandi che sembrano provocate da ustioni. Quella notte le ruppe anche due costole, la mascella, il braccio destro e quattro dita dei piedi.

Mentre mi raccontava questo episodio, sua figlia Leslie, di nove anni, giocava con il bassotto di casa. Sembrava conoscere ogni dettaglio della storia, proprio come un credente conosce ogni attimo della Passione di Gesù. Ma le facevano impressione: diventava aggressiva col cane quando si menzionavano i particolari più crudeli. Tuttavia, non pianse mai e non interruppe la conversazione.

Dopo quel pestaggio Lester le propose di andare a vivere con lui e la sua famiglia, «e per tre anni fu meraviglioso. Ma poi volle che diventassi proprio come sua madre: non dovevo lavorare né guidare, dovevo solo restare a casa a lavargli la biancheria. Non era questo che volevo». Theresa rimase incinta e si sposarono. Lester diede subito prova della propria indipendenza «andandosene in giro» mentre Theresa si prendeva cura della bambina. «L’avevo colpito perché ero intelligente» mi spiegò. «Gli piaceva quando gli raccontavo le cose. Gli ho fatto ascoltare del buon jazz, non quella robaccia di Lynyrd Skynyrd. Gli ho parlato d’arte e di poesia, e adesso mi voleva lì con lui, ma anche con sua madre, perché quella era la casa della donna.»

Un anno dopo la nascita di Leslie, Lester ebbe un ictus massivo che gli danneggiò la maggior parte dell’emisfero cerebrale sinistro. Aveva ventidue anni, era operaio addetto alle macchine per i lavori stradali, e adesso era semiparalizzato e incapace di parlare. Nei mesi successivi, prima che i medici scoprissero la causa della malattia – una forma di lupus che provoca la formazione di trombi ematici – un altro ictus gli lesionò la gamba, che venne in seguito amputata, e altri ancora gli compromisero i polmoni. «Me ne sarei potuta andare» commentò Theresa.

Leslie smise di giocare e la fissò con uno sguardo assente, strano.

«Ma Lester era l’amore della mia vita, e anche se abbiamo avuto dei brutti momenti, non lascio perdere le cose così facilmente. Andavo a trovarlo in ospedale, aveva un occhio chiuso e uno aperto. Il suo viso aveva cominciato a gonfiarsi e per metà era inespressivo. Gli avevano levato l’osso dal lato sinistro della testa perché la tumefazione era spaventosa. Gli avevano segato via un pezzo di cranio. Ma era felice di vedermi.» Theresa rimase con lui in ospedale, gli insegnò a usare la padella, lo aiutò ad andare in bagno, e iniziarono così a imparare i gesti con cui ora comunicano.

Theresa a questo punto tacque. Leslie si avvicinò e mi porse una foto. «È il tuo secondo compleanno, vero amore?» le domandò affettuosa la mamma. Nella foto c’era un uomo alto e di bell’aspetto, bendato come una mummia, collegato ad alcuni monitor, che abbracciava una piccola bambina. «Era quattro mesi dopo l’ictus» disse Theresa e Leslie si allontanò, solenne, con la foto.

Lester tornò a casa dopo sei mesi. Theresa trovò un impiego a tempo pieno in una fabbrica dove tagliava vestiti per bambini. Doveva lavorare vicino a casa in modo da poter andare avanti e indietro ogni poche ore per controllarlo. Il giorno che ricevette la patente di guida la mostrò al marito, e lui pianse. «Adesso mi puoi lasciare» le disse a gesti. Theresa rise nel raccontarlo. «Ma poi si rese conto che non volevo affatto andarmene.»

La personalità di Lester cominciò a disgregarsi. Stava sveglio tutta la notte e chiamava Theresa ogni ora perché lo aiutasse ad andare in bagno. «Tornavo a casa e preparavo la cena, lavavo i piatti, poi una montagna di panni, pulivo la casa e infine andavo a dormire; a volte crollavo lì in cucina. Lester telefonava a sua madre e quando lei sentiva il suo respiro al telefono lo richiamava, così lo squillo mi svegliava. Spesso si rifiutava di cenare e di notte voleva che gli preparassi un panino. Cercavo d’essere sempre allegra e vivace, per non peggiorare il suo stato d’animo.» Lester e Leslie si contendevano l’attenzione di Theresa, si graffiavano e si tiravano i capelli. «Iniziai a perdere il controllo» proseguì Theresa. Lester non si impegnava nemmeno a fare i suoi esercizi, perse sempre più la mobilità e divenne spaventosamente grasso. Penso di avere attraversato un periodo di egoismo, perché non riuscivo a dimostrargli affetto e solidarietà come avrei dovuto.»

Lo stress provocò l’aumento dell’emangioma di Theresa: se per un certo periodo era riuscita a ignorarlo, ora il tumore prese a sanguinare abbondantemente dal retto. Era diventata capo operaia, ma il suo lavoro implicava stare in piedi dalle otto alle dieci ore al giorno. «Questo fatto, l’emorragia, prendermi cura di Lester e di Leslie… be’, so di avere una certa resistenza, ma tutto ciò mi fece uscire di testa. Possiedo una Remington calibro ventidue con una canna da nove pollici. Mi sedetti sul pavimento della camera da letto, girai la canna verso di me, me la misi in bocca e schiacciai il grilletto. Poi lo rifeci. Mi sentivo così bene con l’arma in bocca. Poi Leslie bussò alla porta e disse: “Mamma, per piacere non mi lasciare. Per piacere”. Abbassai la pistola e le promisi che non sarei andata da nessuna parte senza di lei.»

«Avevo quattro anni» annunciò fiera Leslie. «Dopo quella volta ho dormito con te tutte le notti.»

Theresa contattò un telefono amico e parlò per quattro ore. «Mi sfogai e basta. Lester aveva un’infezione da stafilococco. Poi io ebbi i calcoli renali, tanto dolorosi che dissi al dottore che gli avrei cavato gli occhi se non mi avesse aiutata. Quando il tuo corpo va a pezzi, anche la mente perde colpi. Non mangiavo, non dormivo da circa un mese, ero tesa, sofferente e sanguinante e, come se non bastasse, anche anemica. E piena di odio.» Il suo medico le fece conoscere Marian Kyner. «Marian mi ha salvato la vita, su questo non ci sono dubbi. Mi ha insegnato di nuovo a pensare.» Theresa iniziò ad assumere paroxetina e alprazolam.

La Kyner le spiegò che non c’era nulla che la obbligasse a fare tutto quello che faceva. Poco dopo, una sera, quando il rapporto con Lester era ormai compromesso, Theresa appoggiò con calma la pentola che aveva in mano. «Vieni, Leslie» esclamò. «Prendi un paio di vestiti, ce ne andiamo.» Lester si ricordò all’improvviso che Theresa aveva il potere di abbandonarlo e cadde sul pavimento, piangendo e supplicandola. Theresa e Leslie uscirono e girarono per tre ore, «solo per dare una lezione a papà». Quando tornarono, Lester si era pentito e insieme incominciarono una nuova vita. Theresa gli fece prescrivere la fluoxetina e gli spiegò l’enorme sacrificio che la loro condizione le imponeva. I medici, per prevenire ulteriori emorragie dell’emangioma, le raccomandarono di non camminare, di non sforzarsi né muoversi inutilmente. «Sollevo ancora Lester per farlo uscire dall’automobile e anche la sua sedia a rotelle. Pulisco ancora la casa. Ma Lester ha dovuto imparare a essere indipendente.» Per motivi di salute, Theresa lasciò il lavoro.

Lester ora lavora in una lavanderia, piega grembiuli. Ogni giorno prende un autobus speciale per disabili e va al lavoro. A casa lava le stoviglie e a volte riesce a passare anche l’aspirapolvere. Ha uno stipendio di 250 dollari a settimana, anche per via dell’invalidità, e vivono di quello.

«Non l’ho mai abbandonato» affermò Theresa e, all’improvviso, le tornò l’orgoglio. «Mi dicevano che mi sarei distrutta, ma adesso le cose vanno bene. Possiamo parlare di tutto. Lester era un reazionario e un razzista accanito, adesso è diventato liberale. Gli ho tolto un po’ dei pregiudizi e dell’odio con cui era cresciuto.» Il marito ha imparato a urinare e a vestirsi da solo con una mano. «Parliamo ogni giorno e ogni notte» proseguì Theresa. «Sa cosa? È l’unico, vero amore della mia vita e, anche se mi dispiace per molte cose che sono accadute, non rinuncerei a niente di noi né a questa famiglia. Ma se non fosse stato per Marian, sarei di sicuro morta dissanguata.»

Dopo queste parole Leslie le salì in grembo e lei la cullò. «Quest’anno» esclamò Theresa, euforica, «ho rintracciato mia mamma. Ho cercato il suo ultimo nome sulla guida telefonica e dopo una cinquantina di chiamate ho trovato un cugino; ho fatto qualche indagine e, quando ha risposto al telefono, mi ha detto che mi aveva aspettato per tutti questi anni, sperando in una mia chiamata. Adesso è come se fosse la mia migliore amica. Andiamo sempre a trovarla.»

«Vogliamo bene alla nonna» annunciò Leslie.

«Sì, è vero» confermò Theresa. «Abbiamo entrambe ricevuto lo stesso trattamento violento da parte di mio padre e della sua famiglia, perciò abbiamo molto in comune.» Theresa osservò che era improbabile che potesse riprendere il lavoro in fabbrica. «Un giorno, quando Leslie si potrà prendere cura di Lester la sera e se mi permetteranno di muovermi un po’ di più, se si riuscirà a contenere l’emangioma, ho intenzione di finire la scuola secondaria frequentando i corsi serali. Ho imparato l’arte, le poesie, la musica da un’insegnante di colore della mia scuola, miss Wilson. Vorrei conoscere più a fondo gli scrittori che amo: Keats, Byron, Edgar Allan Poe. Ho letto a Leslie Il corvo e Annabel Lee la scorsa settimana… ti ricordi, amore, quando abbiamo preso il libro in biblioteca?» Guardai le stampe appese alle pareti. «Adoro Renoir» mi spiegò. «Non pensi che mi stia vantando, ma mi piace davvero quello, e anche l’altro col cavallo, di un artista inglese. Mi piace anche la musica, amo ascoltare Pavarotti quando lo trasmettono.

«Sa che cosa volevo da piccola in quella casa orribile? Volevo diventare archeologa e andare in Egitto e in Grecia. Parlare con Marian mi ha aiutato a non impazzire e mi ha indotto di nuovo a pensare. Mi è mancato molto il fatto di non usare la testa! Marian è così brava, e dopo anni e anni passati con Leslie e un marito che non ha mai finito gli studi e che non può parlare…» Si allontanò per un minuto. «Ragazzi! Ci sono tante cose meravigliose che ci aspettano qui fuori. Le andiamo a scoprire, vero, Leslie? Come abbiamo fatto con quelle poesie.» Iniziai a recitare Annabel Lee e Theresa si unì a me. Leslie ci guardò attenta mentre io e sua madre scandivamo i primi versi. «“Ma ci amammo con un amore che era più che amore”» concluse Theresa, come se stesse descrivendo un suo viaggio.

Parte della difficoltà nell’erogare un’assistenza migliore a queste persone sta nel combattere l’incredulità. La prima versione di questo capitolo è nata come un servizio speciale che avevo preparato per una rivista molto diffusa, ma mi sono sentito dire che dovevo riscriverlo per due motivi: prima di tutto i casi umani che avevo descritto erano implausibili e raccapriccianti. «Diventano perfino comici» commentò un redattore. «Voglio dire che a nessuno possono capitare tutte queste cose; e se davvero gli capitassero, per forza uno diventerebbe depresso.» Il secondo problema era la guarigione: troppo rapida e improvvisa. «Queste donne senzatetto e aspiranti suicide che alla fine diventano imprenditrici» osservò in tono sarcastico il redattore. «Non è credibile.» Cercai di spiegare che proprio quello costituiva il punto di forza della storia: le vicende di persone che, in situazioni disperate, hanno cambiato radicalmente vita, fino quasi a risultare irriconoscibili. Ma non servì a nulla. La realtà che avevo scoperto andava oltre la fantasia.

Quando gli scienziati osservarono per la prima volta il buco dell’ozono sopra l’Antartide, credettero che gli apparecchi di rilevamento fossero guasti perché il buco era tanto enorme da sembrare incredibile. Si scoprì invece che era reale. Il buco della depressione tra le fasce più deboli della popolazione negli Stati Uniti è anch’esso reale e gigantesco ma, diversamente da quello dell’ozono, può essere colmato.

Io non riesco neppure a immaginare come potessero sentirsi Lolly Washington, Ruth Ann Janesson, Sheila Hernandez, Carlita Lewis, Danquille Stetson, Fred Wilson, Theresa Morgan e le decine di altri diseredati con cui ho parlato a lungo. Ma so una cosa: dai tempi dei tempi cerchiamo di risolvere il problema della povertà con interventi materiali, ma solo in questi ultimi dieci anni abbiamo capito che i soldi non sono un antidoto sufficiente. Oggi poi siamo giunti alla brillante conclusione che sia meglio non aiutare i poveri, perché così si daranno maggiormente da fare. Non varrebbe invece la pena di sostenerli con approcci sia medici sia psicoterapeutici che li rendessero funzionali, liberi dai loro disturbi e capaci di riprendere in mano le redini della loro vita? Non è facile trovare assistenti sociali che riescano a trasformare l’esistenza di questa categoria di persone. Ma se mancano i programmi adatti e non si stanziano i fondi necessari, chi ha la capacità e la dedizione indispensabili per dedicarsi a questa gente non avrà i mezzi per farlo e la terribile, inutile, solitaria sofferenza di questi diseredati andrà avanti all’infinito.25