Si è parlato molto di depressione, di chi ne è affetto, delle modalità e dei tempi con cui la malattia insorge e si manifesta. Delle sue cause si sono occupati, in particolare, gli evoluzionisti: la biologia evoluzionistica spiega il perché ogni cosa si sia trasformata sino ad acquisire lo stato attuale. Perché una condizione tanto spiacevole e improduttiva colpisce una fascia tanto grande della popolazione? Quali vantaggi avrebbe potuto apportare? Potrebbe trattarsi solamente di un difetto umano? Perché si rilevano in genere cluster di sintomi specifici? Qual è la correlazione tra l’evoluzione sociale e quella biologica del disturbo? È impossibile rispondere a tali interrogativi senza considerare le questioni che precedono il problema stesso della depressione: perché, in termini evolutivi, possediamo gli stati d’animo? Perché proviamo sentimenti e sensazioni? Per quale motivo la natura ha selezionato la disperazione, la frustrazione, l’irritabilità e, relativamente parlando, poca gioia? Considerare la depressione sotto il profilo evoluzionistico significa, in sostanza, interrogarsi sulla natura umana.
È evidente che i disturbi dell’umore non sono condizioni semplici, insolite e distinte. Nel loro libro intitolato Darwinian Psychiatry Michael McGuire e Alfonso Troisi affermano che la depressione «può insorgere con o senza fattori scatenanti, essere trasmessa per via ereditaria oppure no, presentare tassi di concordanza differenti nei gemelli monozigotici, durare per tutta la vita o regredire in modo spontaneo».1
La depressione è, ovviamente, l’effetto di più cause: «Alcuni depressi crescono e vivono in ambienti sociali avversi mentre altri no, alcuni provengono da famiglie in cui la depressione è frequente e altri no; inoltre, sono state riscontrate differenze individuali significative nei sistemi fisiologici responsabili della malattia (tra cui quelli di noradrenalina e serotonina). Alcuni individui rispondono a un determinato antidepressivo mentre altri no, in certi casi nessun medicinale ha effetto mentre risulta efficace la terapia elettroconvulsivante, infine, altri pazienti non traggono alcun beneficio da qualsiasi tipo di trattamento».
Tutto ciò suggerisce che quella che definiamo depressione sia piuttosto una varietà di condizioni scarsamente distinguibili le une dalle altre. È come se avessimo diversi tipi di «tosse»: alcuni rispondono agli antibiotici (tubercolosi), altri alle variazioni d’umidità (enfisema), altri ancora alla psicoterapia (tosse secondaria a comportamento nevrotico) o alla chemioterapia (cancro polmonare); certe forme, infine, sembrano incurabili. Alcune tossi, se trascurate, possono essere fatali, altre cronicizzano o sono solo temporanee e stagionali. Alcune guariscono da sole, altre sono di origine virale.
Ma che cos’è la tosse? Abbiamo deciso di definirla come un sintomo di varie malattie anziché un disturbo a sé, benché anch’essa comporti una sintomatologia: mal di gola, turbe del sonno, difficoltà a parlare, sensazione di pizzicore e di irritazione, affanno. La depressione non rappresenta una categoria razionale di malattia: come la tosse, è un sintomo che presenta, a sua volta, più sintomi. Se non conoscessimo le diverse patologie responsabili della tosse, non potremmo capire la forma «refrattaria» e avremmo addotto ogni sorta di ragioni per spiegare perché certi tipi siano resistenti alla terapia.
Oggi non disponiamo di un sistema preciso per classificare i diversi tipi di depressione e le loro conseguenze; è del resto improbabile che tale malattia abbia un’origine monofattoriale. Se, dunque, insorge per diverse ragioni, si dovrebbero usare più sistemi per esaminarla: i modelli attuali impiegati allo scopo risultano poco accurati, basati come sono su una combinazione di principi psicanalitici, biologici e ambientali. Sarebbe, viceversa, opportuno distinguere la depressione dal dolore, dalla personalità e dalla malattia prima di poter attribuire un significato reale agli stati mentali depressivi.
La reazione più istintiva è la sensazione. L’esperienza della fame è sgradevole, mentre il senso di sazietà è piacevole per tutti gli animali: per questo facciamo lo sforzo di nutrirci. Se la fame non fosse spiacevole, moriremmo tutti di inedia. Possediamo istinti che ci conducono al cibo e, quando essi vengono frustrati, per esempio dalla mancanza di cibo, proviamo una fame estrema, una condizione che ci induce a fare qualsiasi cosa pur di alleviarla.
Le sensazioni tendono a generare stati d’animo: quando siamo infelici perché abbiamo fame, rispondiamo emozionalmente a una sensazione. Sembra che anche gli insetti e numerosi invertebrati sviluppino sensazioni e le relative reazioni emozionali, e appare difficile stabilire dove, nella gerarchia animale, inizi tale risposta. Per quanto questa non sia caratteristica esclusiva dei mammiferi più evoluti, sarebbe però improprio parlare di sfera emozionale con riferimento a un’ameba. Siamo afflitti da una patetica, erronea convinzione che ci spinge a valutare tutto in un’ottica antropomorfica, come quando, per esempio, sosteniamo che una pianta cui manca l’acqua soffre o che un’automobile fa i capricci quando non parte. Non è facile distinguere tra queste proiezioni e i veri sentimenti. Uno sciame di api è infuriato? Un salmone che risale il fiume è risoluto?
Alla fine degli anni Quaranta l’illustre biologo Charles Sherrington osservò al microscopio una pulce nell’atto di mordere e scrisse: «L’atto, fosse o non fosse di reazione, sembrava permeato dall’emozione più violenta. Pur in scala molto ridotta la scena ricordava quella del leone predatore di Salammbô. È stato un lampo che suggeriva un vasto oceano di “stati emozionali” pervadente il mondo degli insetti».2 Ciò che Sherrington descrive è come all’occhio umano l’azione sembri riflettere il sentimento.
Se il sentimento è un fenomeno più complesso della sensazione, l’umore lo è ancora di più. Il biologo evoluzionista C.U.M. Smith paragona la sfera emozionale alle condizioni atmosferiche del momento (per esempio, la pioggia che sta cadendo qui e ora) e l’umore al clima di una certa regione (umido e piovoso).3 L’umore è uno stato emozionale prolungato che influenza le risposte alle sensazioni; è costituito da un sentimento che ha acquisito vita propria, che si è reso indipendente dai fattori esterni che lo hanno suscitato: si può essere tristi a causa della fame e sviluppare un’irritazione che non sarà necessariamente alleviata dall’atto di mangiare qualcosa.
L’umore esiste in tutte le specie. In genere, quanto più esse sono evolute, tanto più l’umore si manifesta con potenza, indipendentemente dalle circostanze esterne. Ciò vale soprattutto per l’uomo. Anche chi non soffre di depressione può talora sentirsi triste: quando le piccole cose gli ricordano continuamente la sua mortalità, quando prova una nostalgia improvvisa e profonda di chi non c’è più o dei tempi andati, quando il solo fatto di esistere in un mondo effimero lo getta in un paralizzante sconforto. A volte si è abbattuti senza alcun motivo evidente. D’altronde, anche chi è sovente depresso si rallegra quando il sole splende, tutto è delizioso, il mondo appare pieno di possibilità, il passato è solo un preludio alla gioia presente e futura. Perché ciò accada resta un mistero sia dal punto di vista biochimico sia sotto l’aspetto evolutivo. I vantaggi selettivi della sfera emozionale risultano più comprensibili della funzione dell’umore nelle specie.
La depressione è un’alterazione come il cancro? O è una manifestazione di difesa come la nausea? Secondo gli evoluzionisti, insorge troppo spesso per essere una semplice disfunzione. Pare che la capacità di svilupparla implichi meccanismi che in alcuni stadi hanno rappresentato un vantaggio riproduttivo.
Alla luce di ciò si possono formulare quattro ipotesi, ciascuna delle quali è almeno in parte vera: la prima suggerisce che la depressione sia servita per uno scopo, ora non più necessario, prima ancora che l’uomo comparisse sulla terra. La seconda sostiene che le situazioni stressogene della vita moderna siano incompatibili con il cervello umano, così come si è evoluto, e che la depressione sia l’effetto di un comportamento al quale l’uomo non si è adattato. La terza afferma che la depressione svolga un’importante funzione nella società e che talora sia un bene che gli individui siano depressi. Secondo la quarta e ultima ipotesi, i geni e le conseguenti strutture biologiche implicati nella depressione determinano anche altri comportamenti e sensazioni più vantaggiosi: la depressione sarebbe, dunque, il risultato secondario di una variante utile della fisiologia cerebrale.
L’idea che la depressione sia servita per una funzione utile ormai non più tale – e sia perciò un tratto residuo – è suffragata da molte nostre risposte emozionali. Come ha sottolineato lo psicologo Jack Kahn, «le persone non hanno una paura naturale di pericoli reali come, per esempio, le automobili o le prese di corrente, ma sprecano tempo ed energia ad avere paura di ragni e serpenti inoffensivi», animali che era logico temere in altri tempi, in uno stadio diverso del nostro sviluppo come specie.4
Allo stesso modo la depressione spesso si concentra su fattori che sembrano del tutto irrilevanti. Secondo Anthony Stevens e John Price, alcune forme depressive sarebbero state necessarie per la formazione delle società primitive, basate su schemi gerarchici.5 Sebbene gli organismi inferiori e alcuni mammiferi superiori, come l’orangutan,6 siano solitari, la maggior parte degli animali più progrediti formano gruppi sociali per difendersi meglio dai predatori, avere maggior accesso alle risorse, migliori e maggiori opportunità riproduttive, e per poter cacciare collettivamente. La selezione naturale ha, senza alcun dubbio, favorito la collettività. L’impulso verso quest’ultima è molto forte nell’uomo: viviamo in società e la maggior parte di noi è pervasa da un forte senso di appartenenza. Se essere bene accetti è una delle più importanti soddisfazioni della vita, essere esclusi, ignorati o impopolari è una delle esperienze peggiori che possiamo fare.
Nei gruppi c’è sempre un capo: una società che ne fosse priva sarebbe caotica e ben presto si disgregherebbe. Le posizioni degli individui all’interno del gruppo sono spesso soggette a cambiamenti nel corso del tempo: chi comanda deve continuare a difendere la propria posizione dagli sfidanti finché non viene sconfitto.7
In tali società la depressione ha un ruolo decisivo nella risoluzione del conflitto per il predominio.8 Se l’animale di grado inferiore sfida il capo e non si scoraggia, continuerà a sfidarlo, non ci sarà più pace e il gruppo non sarà più funzionale come gruppo. Se invece, dopo la sconfitta, cade in stato «depressivo» (caratterizzato più da passività che da una crisi esistenziale), riconosce il trionfo del rivale e accetta la nuova gerarchia del gruppo. Sottomettendosi all’autorità, questa figura gregaria esonera il vincitore dall’obbligo di ucciderlo o di cacciarlo dal gruppo. In tal modo, grazie all’insorgenza di una depressione mite o moderata, la società gerarchica riesce a mantenere l’ordine interno.
Il fatto che i depressi vadano spesso incontro a recidive potrebbe suggerire che chi ha lottato e perso debba evitare ulteriori scontri, in modo da ridurre al minimo il danno. L’evoluzionista J. Birtchnell sostiene che i centri cerebrali controllino costantemente la posizione del soggetto nel gruppo in rapporto a quella altrui e che tutti agiamo secondo le nozioni interiorizzate di grado sociale.9
Nella maggior parte dei casi è l’esito della lotta a determinare il rango degli animali e la depressione può essere utile a far sì che questi non cerchino di migliorare il proprio rango nelle situazioni in cui non ne abbiano la possibilità. Spesso, anche se il fenomeno non è correlato con l’ascesa sociale, gli individui soffrono a causa delle critiche e degli attacchi altrui: la depressione serve, in quest’ottica, ad allontanarli dalle circostanze in cui sono oggetto di rimprovero, ad aiutarli a evitare l’umiliazione (la teoria offre, a mio avviso, una spiegazione esagerata di un problema minore). L’elemento ansiogeno della depressione sarebbe dunque legato alla paura di essere oggetto di attacchi molto forti o di venire esclusi dal gruppo, un fatto che nelle società animali e tra i cacciatori-raccoglitori del passato avrebbe avuto conseguenze fatali.
Questa concezione evoluzionistica della depressione risulta, tuttavia, poco pertinente alla forma che oggi colpisce la nostra società, strutturata in base a numerosi principi esterni. Tra gli animali gregari la gerarchia del gruppo è determinata dalla forza fisica espressa attraverso la lotta, in cui prevale l’individuo che riesce a sottomettere o dominare l’altro. Russell Gardner, per molti anni direttore della Across-Species Comparisons and Psychopathology (ASCAP) Society, ha studiato le correlazioni tra la depressione umana e i modelli animali e ha osservato che tra gli uomini il successo viene ottenuto non tanto per sottomissione altrui quanto per iniziativa propria: esso poggia sulle capacità individuali più che sul fatto di impedire agli altri di affermarsi.10 Ciò non significa che siamo liberi da comportamenti concorrenziali e lesivi, ma la competizione che caratterizza la maggior parte dei sistemi sociali umani è più costruttiva che distruttiva. Nelle società animali l’aspetto fondamentale della questione si riduce a una dimostrazione di forza (sono più forte di te), nell’uomo a una di bravura (sono terribilmente bravo).
Secondo Gardner, se tra gli animali l’ordine sociale – e le correlate manifestazioni simildepressive degli sconfitti – è determinato dalla forza posseduta, tra gli uomini esso è stabilito dall’opinione altrui. Pertanto, mentre un babbuino si atteggia a depresso perché ogni suo simile può batterlo, e lo fa, un uomo potrebbe diventare depresso perché nessuno pensa bene di lui. L’ipotesi fondamentale di un nesso tra gerarchia sociale e depressione è confermata anche dall’esperienza: chi perde la propria posizione diviene depresso e ciò lo rende più incline ad accettare uno status sociale inferiore. Va tuttavia notato che anche chi rifiuta di venire relegato in una posizione meno prestigiosa non viene di solito espulso dalla società; alcuni di questi soggetti diventano, anzi, dei rispettabili rivoluzionari.
La depressione è una sorta di silenzioso isolamento, di letargo in cui si risparmiano energie e tutti i sistemi rallentano. Tale teoria sembrerebbe suggerire che essa sia un tratto residuo. Il fatto che i depressi desiderino stare a letto e non vogliano uscire di casa evoca il letargo: in effetti, gli animali vanno in letargo non in mezzo a un campo, ma nella relativa sicurezza della loro tana. Secondo un’altra ipotesi, la depressione sarebbe una forma naturale di ritiro che deve avvenire in un contesto sicuro. «Probabilmente la depressione è associata al sonno» spiega Thomas Wehr, lo studioso del National Institute of Mental Health, «perché è collegata al luogo in cui si dorme, al fatto di essere a casa».11 Essa potrebbe associarsi, inoltre, a variazioni del tasso di prolattina, l’ormone che permette agli uccelli di covare le uova per settimane senza interruzione (atto che rappresenta, in fondo, una forma di ritiro e di immobilità). Delle forme depressive più lievi Wehr afferma: «I membri della specie che non amavano le folle, non si arrampicavano in posti elevati, non entravano nelle gallerie, non si distinguevano, evitavano gli estranei e si ritiravano in luogo sicuro quando avvertivano un pericolo, vivevano probabilmente a lungo e prolificavano molto».
È importante ricordare che l’evoluzione persegue fini particolari. La selezione naturale non elimina le malattie, né ricerca la perfezione, ma favorisce l’espressione di alcuni geni rispetto ad altri. Il nostro cervello si evolve meno rapidamente del nostro modo di vivere, fenomeno che McGuire e Troisi hanno definito «ipotesi del lag genomico».12 La vita moderna comporta senza dubbio oneri incompatibili con l’evoluzione cerebrale, e la depressione potrebbe proprio essere una conseguenza del nostro agire secondo schemi per i quali non ci siamo evoluti. «Credo che per una specie predisposta per vivere in gruppi di cinquanta, settanta componenti» sostiene Randolph Nesse, eminente psicologo evoluzionista, «vivere in un gruppo di molti miliardi sia difficile. Ma chissà? Forse la causa è nella dieta, nel livello di attività fisica, nei cambiamenti della struttura familiare, dei modelli di accoppiamento e della vita sessuale, nel sonno, nella concezione della morte come idea cosciente, o forse in niente di tutto ciò.»
James Ballenger, della Medical University of South Carolina, aggiunge: «Gli stimoli ansiogeni non esistevano in passato. Non ci si allontanava molto da casa, e la maggior parte della gente può imparare ad ambientarsi in un singolo luogo. La società moderna genera ansia».
L’evoluzione ha creato un paradigma secondo il quale una risposta specifica è utile in una circostanza specifica: ebbene, la vita moderna provoca quella risposta, quella costellazione di sintomi, in numerose circostanze in cui non risulta utile. I tassi di depressione tendono a essere bassi nelle società di cacciatori-raccoglitori o in quelle meramente agricole, più alti nelle società industriali e molto elevati in quelle in fase di transizione, il che corrobora l’ipotesi di McGuire e Troisi.
Le società moderne sono afflitte da mille problemi che le comunità più tradizionali non conoscevano e che precludono qualsiasi forma di adattamento, se non si ha il tempo di apprendere le strategie adeguate per gestirli. Tra questi il peggiore è forse lo stress cronico: allo stato selvaggio gli animali vivono situazioni momentanee di tensione, che si risolvono con la sopravvivenza o con la morte; esclusa la fame persistente, non subiscono alcuno stress cronico. Non svolgono lavori che detestano, non si sforzano di mantenersi calmi per anni con chi non sopportano, non lottano per ottenere la custodia dei figli.
Con molta probabilità la causa primaria del tasso elevato di stress nella nostra società non è costituita, tuttavia, da tali problemi ma dalla libertà di cui disponiamo, che si traduce in una quantità esorbitante di scelte non informate. Lo psicologo olandese J.H. Van den Berg, autore de The Changing Nature of Man, edito nel 1961, sostiene che società diverse abbiano sistemi differenti di motivazioni e che ogni epoca richieda nuove teorie: pertanto, ciò che Freud scrisse potrebbe essere stato valido per gli uomini del tardo Ottocento e del primo Novecento a Vienna e a Londra, ma non lo era necessariamente più per quelli della metà del secolo scorso o per gli abitanti di Pechino.13
Secondo Van den Berg, nella cultura moderna non viene operata alcuna scelta informata in ordine al modo di vivere; egli sottolinea, peraltro, l’indeterminatezza delle professioni, la cui continua diversificazione ha tanto allargato il ventaglio delle opportunità da superare ogni possibile conoscenza complessiva. Nelle società preindustriali un bambino poteva girare per il proprio villaggio e osservare gli adulti al lavoro. Tendeva a scegliere (laddove era possibile farlo) il suo mestiere in base a una conoscenza abbastanza precisa di quel che comportasse ciascuna opzione: sapeva che cosa significasse essere fabbro, mugnaio o fornaio. Forse i particolari della vita sacerdotale erano meno chiari, ma il modo di vivere era del tutto trasparente. Ciò non vale per la società postindustriale: pochi capiscono che cosa facciano esattamente un intermediatore bancario, un amministratore delegato o un professore associato, o come vivano tali mansioni.
Lo stesso avviene nella vita privata. Fino al XIX secolo non c’erano molte alternative sociali: a eccezione di pochi avventurieri e ribelli, la gente cresceva e moriva nello stesso posto, inquadrata da rigide strutture di classe. Un fittavolo dello Shropshire che volesse sposarsi aveva poche possibilità: doveva scegliere tra le donne dell’età e della classe giusta nel suo villaggio. Forse non trovava quella che avrebbe voluto e finiva per accontentarsi di un’altra, ma almeno ponderava le diverse opportunità, sapeva ciò che avrebbe fatto e ciò che lo aspettava. I membri delle classi più alte vivevano in un mondo meno limitato dal punto di vista geografico ma sempre numericamente ridotto: anch’essi conoscevano in genere tutti i potenziali consorti ed erano consapevoli delle opzioni disponibili.
Questo non significa che non si celebrassero matrimoni tra classi diverse, o che le persone non cambiassero residenza, ma tali iniziative non erano frequenti e costituivano una trasgressione alle consuetudini. Le società molto strutturate e incapaci di offrire ampie opportunità possono indurre una vasta fascia della popolazione a rassegnarsi al proprio destino, benché una piena accettazione in tal senso sia rara in qualsiasi società di qualsiasi epoca.
Con lo sviluppo dei mezzi di trasporto, la crescita urbana e l’avvento della mobilità sociale, si ampliarono notevolmente le possibilità di scelta del partner: chi a metà del 1700 poteva affermare di aver valutato tutti i membri disponibili dell’altro sesso e di aver scelto il migliore, in anni più recenti è stato costretto ad accontentarsi della consapevolezza, meno confortante, di aver scelto il meglio tra coloro con cui è venuto a contatto. La maggior parte di noi incontrerà molte persone nel corso della vita. La perdita della certezza fondamentale – la sensazione di aver scelto la professione giusta e il compagno adatto – ci ha lasciati del tutto disorientati: eppure, non ammettiamo di esserlo e ci aggrappiamo all’idea che le scelte debbano essere basate sulla conoscenza.
Dal punto di vista politico la libertà può rappresentare un onere, il che spiega perché spesso la transizione dalla dittatura alla democrazia generi depressione; da quello personale, sia la schiavitù sia la libertà eccessiva sono opprimenti.14 Se alcune parti del mondo sono afflitte da uno stato di estrema e ineluttabile indigenza, le nazioni più sviluppate lo sono dalla mobilità dei loro membri, dal cosiddetto nomadismo del XXI secolo, dal continuo sradicarsi e stabilirsi in luoghi diversi per agevolare le professioni, le relazioni e persino i capricci personali. A tale proposito lo scrittore George Colt racconta la storia di un ragazzo, la cui famiglia si era trasferita per ben cinque volte in un breve periodo. Il giovane si era infine impiccato a una quercia nel prato dietro casa. Su un biglietto attaccato all’albero aveva scritto: «Questa è l’unica cosa qui attorno che abbia radici».15
Il dirigente che visita una trentina di paesi l’anno, l’impiegato che a ogni cessione dell’azienda vede ridefinite le proprie mansioni, i propri capi e i propri sottoposti, chi vive da solo e incontra volti sempre nuovi alle casse del supermercato, avverte un analogo senso di lacerazione. Nel 1957 un supermercato americano medio disponeva di sessantacinque tipi di frutta e di verdura, e gli acquirenti li conoscevano tutti per averli provati; nel 1997 ne offriva più di trecento, talora anche mille.16 Ci troviamo in preda all’incertezza anche quando dobbiamo scegliere che cosa comperare per cena. L’aumento delle scelte non è proficuo: genera solo confusione. Quando in ogni campo si presenta una tale varietà di opzioni – luoghi dove abitare, cose da fare o da comprare, persone che potremmo sposare – ne consegue un disagio collettivo che ben spiega, a mio parere, l’aumento dei tassi di depressione nel mondo industrializzato.
Inoltre, pur vivendo in un’epoca di tecnologie sorprendenti, non conosciamo il funzionamento della maggior parte delle cose che ci circondano. Come funziona un forno a microonde? Che cos’è un chip di silicio? Come si modifica geneticamente il grano? Come si trasmette la voce con il telefono cellulare? E con quello fisso? Come avviene l’addebito in conto delle somme in valuta straniera prelevate dai bancomat esteri? È possibile svelare ognuno di questi misteri, ma conoscere la risposta a tutti i piccoli quesiti scientifici della vita è un’impresa impossibile. Anche chi sa come funziona il motore di un’auto e come si produce l’elettricità si perde poi nell’oscurità dei meccanismi della vita quotidiana.
Esistono molti altri fattori fonti di tensione per i quali non siamo preparati. Tra questi vi sono sicuramente la crisi della famiglia e l’abitudine sempre più diffusa a vivere da soli, la perdita del contatto, talvolta dell’intimità, tra le madri lavoratici e i figli, la mancanza di movimento o di attività fisica dovuta al lavoro, l’eccessiva esposizione alla luce artificiale, la perdita del conforto religioso, il bombardamento di informazioni cui siamo sottoposti. La lista può proseguire all’infinito. Come potrebbero i nostri cervelli essere preparati a elaborare e sopportare tutto questo? Non dovrebbero compiere uno sforzo troppo grande per riuscirci?
Molti scienziati concordano sul fatto che la depressione svolga una funzione utile nella nostra società. Secondo la teoria evoluzionistica, essa favorirebbe la perpetuazione di determinati geni, ma se si osservano i tassi di riproduzione, si scopre che di fatto essa li diminuisce. Come il dolore fisico, la depressione è un campanello d’allarme, poiché ci rende sgradevoli o insopportabili quelle attività o quei comportamenti che potrebbero risultare pericolosi. Più che il disturbo in sé, ciò che è utile è la capacità di svilupparlo.
Gli psichiatri evoluzionisti Paul J. Watson e Paul Andrews hanno suggerito che la depressione sia un mezzo di comunicazione, e hanno elaborato modelli evolutivi in base ai quali essa risulta essere una malattia sociale con una specifica funzione interpersonale.17 I due ricercatori ritengono che, in forma lieve, stimoli l’introspezione e l’autoanalisi, attività che permettono di operare i cambiamenti esistenziali necessari a conformarsi alla propria indole. Spesso questa depressione può essere (ed è) dissimulata e la funzione serve l’individuo. L’ansia, ossia la tensione che anticipa un evento, è in molti casi una componente della malattia e può essere utile per evitare situazioni problematiche.
La depressione lieve, l’abbattimento che si manifesta al di là di eventuali circostanze scatenanti, può indurre a recuperare ciò che è stato stoltamente scartato e rivalutato solo in un secondo momento. Può suscitare il rammarico per gli sbagli compiuti e far sì che questi non vengano ripetuti in futuro. Nella vita le decisioni obbediscono spesso alla vecchia regola degli investimenti: quelle ad alto rischio potrebbero comportare grandi ricompense, ma a un costo potenzialmente troppo alto per la maggior parte delle persone. La depressione può liberarci da una situazione di stallo quando perseguiamo un fine che non ha speranza di riuscita. Le persone che cercano di raggiungere i propri obiettivi con eccessiva tenacia e che non riescono a rinunciare ai desideri incauti sono particolarmente inclini a sviluppare il disturbo. «Perseguono un obiettivo interpersonale che non avrà successo, ma non possono rinunciarvi perché sono troppo coinvolti dal punto di vista emozionale» dice Randolph Nesse. Lo scoraggiamento è utile per correggere l’ostinazione.18
La malattia è in grado di inibire comportamenti i cui effetti negativi dovremmo altrimenti sopportare. Lo stress eccessivo, per esempio, causa depressione, che a sua volta potrebbe indurci a evitare lo stress; la carenza di sonno potrebbe provocare il disturbo, e questo a sua volta aiutarci a dormire di più. Tra le funzioni primarie della patologia c’è quella di modificare i comportamenti improduttivi: essa ci segnala che sfruttiamo male le nostre risorse e che dovremmo prendere provvedimenti in tal senso. Il che avviene spesso nella vita moderna: so di una donna che, benché scoraggiata da insegnanti e colleghi, voleva fare carriera come violinista e che era affetta da una forma depressiva acuta solo minimamente responsiva ai farmaci e alle altre terapie. Quando rinunciò alla musica e rivolse le proprie energie a un’attività per la quale presentava maggiore inclinazione, la malattia si risolse.19 Benché appaia paralizzante, la depressione può fungere da stimolo.
Le forme più gravi suscitano l’attenzione e l’interessamento altrui. Secondo Watson e Andrews, fingere di aver bisogno dell’aiuto del prossimo non significa necessariamente ottenerlo: gli altri sono troppo accorti per venire ingannati da un falso bisogno.20 La depressione è un meccanismo vantaggioso perché crea una realtà convincente: se si è depressi si è indifesi e, se davvero si è indifesi, è forse possibile ottenere aiuto. La depressione è una forma costosa di comunicazione, ma proprio per questo più persuasiva. Watson e Andrews ritengono che sia l’orrore a motivare gli altri: la disfunzione causata dall’insorgenza della malattia potrebbe assolvere uno scopo utile, ovvero essere «un dispositivo per suscitare l’altruismo». Potrebbe inoltre convincere chi ci ha causato un problema a lasciarci in pace.
La mia depressione ha spinto amici e familiari a dimostrarmi tutto il loro sostegno: ho ricevuto molta più attenzione di quanta non mi sarei aspettata, e chi mi è stato accanto si è adoperato per sollevarmi dalle preoccupazioni finanziarie, emozionali e comportamentali. Ero libero da qualsiasi obbligo di riconoscenza nei confronti dei miei amici perché stavo troppo male per potermi sdebitare. Ho smesso di lavorare, non ho avuto scelta a questo proposito. Ho perfino usato la malattia per ottenere una dilazione di pagamento delle bollette, e diverse persone noiose hanno cessato d’importunarmi. Quando ho avuto il terzo episodio depressivo, ho chiesto con assoluta fermezza, e ottenuto, una proroga per completare questo libro: per quanto mi sentissi fragile, sono stato in grado di dichiarare che no, non avrei potuto continuare a lavorare e che mi sarei dovuto curare.
Lo psicologo evoluzionista Edward Hagen considera la depressione come un gioco di potere: essa implica la sospensione di tutte le attività a favore del prossimo sino alla piena soddisfazione dei propri bisogni.21 Non sono d’accordo. I depressi esigono molto da chi li circonda; se stessero bene non si comporterebbero così. Le possibilità di vedersi totalmente esauditi sono però scarse. La depressione può essere un comodo ricatto, anche se di solito è troppo sgradevole per il ricattatore e troppo inaffidabile per poter rappresentare un mezzo adeguato a raggiungere fini specifici. Se può essere gratificante ricevere aiuto quando ci si sente molto male, se può creare un legame affettivo profondo altrimenti inimmaginabile, sarebbe tuttavia molto meglio non arrivare a tal punto e non aver tanto bisogno del sostegno altrui.
No. Credo che la depressione abbia una funzione analoga al dolore fisico poiché impedisce comportamenti che avrebbero spiacevoli conseguenze, ma l’idea diffusa secondo cui sarebbe uno strumento per raggiungere obiettivi sociali non ha per me molto senso. Se la depressione maggiore è una strategia della natura che porta degli esseri prima indipendenti a cercare aiuto, è quanto meno una strategia rischiosa. Il fatto è che la maggior parte delle persone ne sono spaventate: benché alcuni rispondano dimostrando maggiore solidarietà e altruismo, i più hanno una reazione di repulsione e disgusto. Quando si è depressi, non è raro rendersi conto che chi si riteneva affidabile in realtà non lo è, una scoperta di cui si farebbe volentieri a meno. Le mie crisi mi hanno aiutato a individuare i veri amici, ma a che prezzo? Bisogna rinunciare ai rapporti che, pur piacevoli, si sono rivelati inaffidabili nei periodi più bui? Che amico sarei per queste persone? In che misura l’amicizia si basa sull’affidabilità? Che rapporto c’è tra l’essere affidabili durante una crisi e l’essere gentili, generosi o buoni?
L’idea che la depressione sia una disfunzione di meccanismi che hanno anche effetti utili è forse la più convincente di tutte le teorie evoluzionistiche. La depressione è spesso provocata dal dolore e rappresenta una forma aberrante di tale sentimento. Non è possibile comprendere la malinconia separatamente dal lutto: il modello basilare della depressione è il dolore ed essa potrebbe essere un meccanismo utile che si è inceppato. Il nostro cuore può pompare più o meno sangue per consentirci di sopravvivere in diverse circostanze e in vari climi: come un cuore che non pompa sangue fino alle dita dei piedi, la depressione vera sarebbe allora una condizione estrema priva di qualsiasi vantaggio intrinseco.
Il dolore ha un ruolo fondamentale nella condizione umana: credo che la sua funzione più importante sia generare l’attaccamento. Se la perdita non ci provocasse un dolore tale da temerla, non potremmo amare intensamente. L’esperienza dell’amore include la tristezza. Il desiderio di non ferire chi amiamo, e di aiutarlo, è utile anche per la conservazione della specie. L’amore ci mantiene vivi quando diveniamo consapevoli dei problemi del mondo. Se avessimo sviluppato l’autocoscienza senza amore, non avremmo sopportato a lungo i duri colpi della vita. Non ritengo esistano studi controllati sull’argomento, ma penso che le persone con maggiori capacità d’amare siano più predisposte ad attaccarsi alla vita, a rimanere vive, nonché più predisposte a essere amate, il che a sua volta le mantiene vive. «Molti considerano il paradiso come un luogo di intensità e varietà infinite» ha affermato Kay Jamison. «Non come un luogo libero dal dolore. Bello sarebbe eliminare alcuni estremi, non certo ridurre lo spettro a metà. C’è una differenza molto sottile tra affermare di desiderare che la gente soffra e affermare di desiderare che non le sia negata la sfera emozionale.» Amare significa essere vulnerabili, rifiutare o sminuire la vulnerabilità significa ripudiare l’amore.
L’amore ci trattiene dall’abbandonare troppo prontamente i nostri affetti: siamo predisposti a soffrire se lasciamo chi amiamo davvero. Forse l’anticipazione del dolore è determinante per la formazione dell’attaccamento emotivo: è l’idea della perdita che ci lega a ciò che possediamo. Se non provassimo disperazione dopo aver perso qualcuno, dedicheremmo il tempo e l’energia emozionale a quella persona solo finché ciò ci risultasse piacevole, non un minuto di più. «La teoria evoluzionistica» dichiara Nesse «viene in genere ritenuta un approccio cinico. I biologi evoluzionisti interpretano la complessità del comportamento morale come se fosse solo un sistema atto a soddisfare le esigenze egoistiche dei geni. Sicuramente gran parte del comportamento persegue tale obiettivo, ma spesso le azioni esulano da questo schema.» Nesse si occupa, in particolare, dei patti: «Gli animali non possono stipulare patti complessi riguardo al futuro. Non possono contrattare e dire: “Se in futuro farai questo per me, adesso io faccio questo per te”. Il patto è la promessa effettuata nel presente di fare qualcosa nel futuro, quando potrebbe anche non essere più vantaggioso per noi. Molti vivono in base a patti simili. Hobbes ne era consapevole: egli comprese che la capacità di assumerci questi obblighi è ciò che ci rende uomini».
La capacità di stringere accordi rappresenta un vantaggio evolutivo per i geni: è la base di una famiglia stabile che costituisce l’ambiente ideale per la prole. Ma quando possediamo questa capacità, possiamo usarla a nostra discrezione, e in ciò emerge il canone morale dell’essere umano. «Le nozioni riduttive della scienza che molti possiedono hanno fatto sì che i rapporti venissero visti prevalentemente come una manipolazione e uno sfruttamento reciproci» afferma Nesse «ma di fatto le sensazioni di amore e di odio si ampliano fino a diventare inattuabili: esse non si adattano per nulla al nostro sistema razionale. La capacità di amare può fungere da vantaggio evolutivo, ma il modo con cui ci comportiamo di fronte all’amore è un processo personale. Il superego ci spinge a fare cose che arrecano beneficio agli altri a scapito del nostro piacere personale.» Ci apre il regno delle alternative morali, un regno che perde di significato se cerchiamo di eliminare il dolore e la sua versione più mite, il dispiacere.
Alcuni insetti nascono da uova incustodite, dotate dei nutrienti necessari a garantire la vita; essi hanno bisogno di impulsi sessuali, non di amore. Una forma primitiva di attaccamento esiste tuttavia anche nel mondo dei rettili e degli uccelli. L’istinto di covare le uova e di tenerle al caldo aumenta la riproduttività rispetto a quello di deporle e poi lasciarle esposte al freddo e al rischio che vengano rotte o mangiate da predatori. In molte specie apparse successivamente a quella dei rettili le madri che nutrono i piccoli, come avviene tra gli uccelli, hanno più probabilità che questi sopravvivano, il che aumenta il loro successo nel generare una prole che diventerà adulta e a sua volta si moltiplicherà. La prima forma di sentimento, selezionata nel processo evolutivo, è affine a quello che chiamiamo amore materno. Sembra che l’amore sia nato con i primi mammiferi, per motivare queste creature a prendersi cura dei piccoli appena nati e relativamente indifesi perché privi di protezione in un mondo pericoloso. Una madre che sta accanto alla prole, la protegge dai predatori, l’accudisce e la nutre, ha maggiori probabilità di trasmettere il proprio patrimonio genetico rispetto a una che l’abbandona. I piccoli delle madri protettive hanno maggiori probabilità di raggiungere la maturità rispetto a quelli di madri indifferenti. La selezione favorisce le madri capaci d’amore.
Altri sentimenti comportano specifici vantaggi. Il maschio carico di rabbia e di odio entrerà più efficacemente in competizione con gli altri maschi, tenterà di annientarli e pertanto favorirà le proprie tendenze riproduttive. Il maschio protettivo nei confronti della compagna avrà anch’esso un vantaggio; e così sarà per quello che allontanerà i rivali il quale, nei periodi di fertilità della femmina, potrà fecondarla e trasmettere così i propri geni. La strategia migliore per conservare il patrimonio genetico negli animali che generano solo pochi piccoli è quella di combinare una madre affettuosa e premurosa e un padre geloso e protettivo (o viceversa). Gli animali dominanti hanno buone probabilità di riprodursi con maggior frequenza; quelli animati da sensazioni di rabbia vinceranno probabilmente nelle situazioni competitive. L’amore (eros, fratellanza, amicizia, devozione filiale, maternità e ogni altra forma assunta da quell’emozione incontrollata) si basa su un modello di ricompense e punizioni. Esprimiamo amore perché la sua gratificazione è enorme; continuiamo a farlo e a essere protettivi perché la perdita dell’amore è traumatica. Se non avvertissimo dolore per la morte di chi amiamo, se avessimo il piacere dell’amore ma non il dolore della perdita quando l’oggetto del nostro amore viene distrutto, saremmo molto meno protettivi di quanto non siamo. Il dolore rende l’amore autoprotettivo: ci prendiamo cura di chi amiamo per evitare a noi stessi una sofferenza insopportabile.22
Questa visione mi sembra più plausibile delle altre: la depressione in sé non ha una grande utilità, ma la gamma di sentimenti che suscita è tanto preziosa da giustificare tutti gli estremi che conosciamo.
L’evoluzione sociale e quella biochimica della depressione sono correlate, ma non coincidenti. La mappatura genica non ci consente ancora di conoscere le funzioni esatte dei geni capaci di causare la depressione, ma a quanto pare il disturbo si associa alla sensibilità emotiva, che rappresenta un tratto utile. Ma esso potrebbe anche essere attribuibile alla struttura stessa della coscienza.
Gli evoluzionisti contemporanei adottano il modello del cervello trino o tripartito: la parte più interna, o rettiliana, è simile a quella degli animali meno evoluti, ed è sede dell’istinto. La porzione intermedia, o limbica, tipica degli animali più evoluti, è la sede dei sentimenti. La regione più esterna, presente solo nei mammiferi superiori quali i primati e l’uomo, è l’area cognitiva preposta al ragionamento, alle forme elaborate di pensiero e al linguaggio. I tre strati concorrono a determinare la maggior parte delle azioni umane.
La depressione è, secondo il famoso evoluzionista Paul MacLean, un fenomeno che riguarda solo l’uomo ed è causata dal funzionamento dissociato di questi tre livelli: è l’inevitabile conseguenza del fatto che istinto, sentimento e coscienza agiscono sempre insieme.23 Il cervello sbaglia talora nel coordinare la risposta alle avversità sociali. Idealmente, quando si avverte un ritiro istintivo, si dovrebbe provare una negatività emozionale e un riadattamento cognitivo. Se i tre processi avvengono in sincronia, si dovrebbe sperimentare un ritiro normale, non depressivo, dall’attività o dalla circostanza negativa che sta inattivando il cervello istintivo. A volte però i livelli superiori del cervello contrastano quello istintivo. Potremmo, per esempio, andare incontro a un ritiro istintivo ma sentirci emozionalmente attivati e arrabbiati, condizione questa che genera uno stato depressivo agitato. Oppure avvertire un ritiro sul piano istintivo, ma prendere la decisione conscia di continuare a lottare per ciò che vogliamo, sottoponendoci così a un grave stress. Tale conflitto è un’esperienza molto comune in grado, a quanto pare, di scatenare una forma depressiva o anche altri disturbi. La teoria di MacLean concorda perfettamente con l’ipotesi secondo cui il nostro cervello farebbe più di quanto l’evoluzione non lo abbia preparato a fare.
Timothy Crow, a Oxford, è andato oltre il principio del cervello trino.24 Le sue tesi sono molto personali ma, vere o false, ci inducono alla cautela di fronte alle affermazioni, a volte improbabili, dei principali teorici evoluzionisti della mente. Crow propone un modello linguistico-evolutivo in cui il linguaggio rappresenta l’origine dell’autocoscienza e questa, a sua volta, l’origine della malattia mentale. Rifiuta i moderni sistemi di classificazione e considera i disturbi della mente un continuum; a suo parere, le differenze tra la normale sensazione di tristezza, la depressione, la malattia bipolare e la schizofrenia sono in realtà indicative di una diversità di grado anziché di tipo, ossia quantitative anziché qualitative. Secondo il suo punto di vista, tutte le malattie mentali hanno una causa comune.
Crow ritiene che il cervello dei primati sia simmetrico (i fisiologi polemizzano sulla questione) e che ciò che rende l’uomo uomo – il punto di speciazione – sia il cervello asimmetrico (sviluppatosi, secondo l’autore, in base a meccanismi genetici alquanto complessi, per mutazione del cromosoma X nel maschio). Mentre la dimensione del cervello aumentava in rapporto alle dimensioni corporee, durante l’evoluzione dei primati e poi dell’uomo, una mutazione ha permesso ai due emisferi di svilupparsi e di acquisire una certa indipendenza reciproca. Se nei primati i due emisferi non possono riflettere l’uno sull’altro, nell’uomo sì: di qui ha origine l’autocoscienza, la consapevolezza del proprio sé in quanto tale. Secondo molti evoluzionisti, l’asimmetria potrebbe essere dovuta a una semplice mutazione, correlata con i fattori di crescita di ciascun emisfero, divenuta significativa nel corso dell’evoluzione.
Dall’asimmetria cerebrale, sempre secondo Crow, ha origine il linguaggio, una funzione mediante cui i concetti e le intuizioni dell’emisfero destro vengono espressi o elaborati dall’emisfero sinistro.25 L’ipotesi è nata studiando i pazienti colpiti da ictus: quelli con lesioni circoscritte all’emisfero sinistro riescono a capire i concetti e a distinguere gli oggetti, ma non chiamano niente per nome e non hanno accesso al linguaggio o alla memoria linguistica. Non è solo un problema di vocalizzazione: i soggetti sordi vittime di un ictus dell’emisfero sinistro riescono a esprimersi con la mimica e i gesti (come tutti gli uomini e i primati),26 ma non a usare il linguaggio dei segni né a capire la grammatica profonda con cui costruiamo frasi e discorsi.27 Gli individui colpiti da un ictus all’emisfero destro conservano le facoltà intellettuali ma perdono i concetti e le sensazioni normalmente espressi mediante tali facoltà. Non sono in grado di effettuare astrazioni complesse, e le loro capacità emozionali risultano molto compromesse.28
Quali sono le strutture anatomiche che ci predispongono ai problemi dell’umore? Crow suggerisce che i disturbi schizofrenici e affettivi siano il prezzo che paghiamo proprio per l’asimmetria cerebrale, quel fenomeno che ci consente l’elaborazione concettuale, la conoscenza e il linguaggio.29 Prosegue quindi ipotizzando che tutte le malattie mentali siano conseguenza di un’anomalia nell’interazione fra i due emisferi: «Tra di essi potrebbe verificarsi una comunicazione eccessiva o insufficiente: se i due emisferi agiscono in modo discordante, si produce la malattia mentale». A suo avviso l’asimmetria fornisce «maggiore flessibilità d’interazione» e «una capacità superiore di apprendimento», nonché «una migliore capacità di comunicare con membri della stessa specie». Tali caratteristiche rallentano tuttavia la maturazione cerebrale nell’uomo rispetto a quanto avviene negli altri animali. Nell’età adulta questi sembra però possedere una maggiore plasticità cerebrale: non è facile insegnare a un vecchio cane nuovi giochi, ma un uomo anziano affetto da disfunzioni legate all’età può apprendere un nuovo sistema di attività motoria per compensarle.
Tale flessibilità favorisce la percezione interiore e la conoscenza, ma ci rende anche più vulnerabili: come osserva Crow, può indurci a superare i normali limiti della personalità e a sviluppare psicosi, talora in presenza di fattori esterni scatenanti. Ciò che l’evoluzione avrebbe selezionato, in questo modello, non è tanto un’espressione specifica della plasticità, quanto la plasticità stessa.
L’asimmetria cerebrale è un tema molto dibattuto. Lo studio più importante in questo campo è stato condotto dal neuroscienziato Richard J. Davidson, dell’Università del Wisconsin, a Madison, grazie anche alle nuove e più sofisticate tecniche di scansione cerebrale: a differenza di cinque o sei anni fa gli scienziati riescono oggi a osservare ogni particolare del cervello, e in un futuro prossimo disporranno probabilmente di apparecchi ancor più precisi. Usando una combinazione di PET (tomografia a emissione di positroni) e MRI (imaging a risonanza magnetica), si riesce a ottenere un’immagine tridimensionale dell’intero cervello ogni due secondi e mezzo circa, con un’approssimazione spaziale di soli tre millimetri e mezzo. La MRI ha una migliore risoluzione temporale e spaziale, la PET risulta più accurata per mappare le reazioni neurochimiche nel cervello.
Davidson ha anzitutto mappato l’attività neurale e chimica del cervello in risposta a stimoli «normali», per scoprire quali aree si attivino nel momento in cui un soggetto vede un’immagine erotica o sente un rumore allarmante. «Vogliamo esaminare i parametri della reattività emozionale» afferma. Quando viene individuata la zona cerebrale in cui si verifica la reazione a una determinata immagine, è possibile misurare la durata di attivazione, che varia da persona a persona: alcuni, di fronte a una fotografia raccapricciante, vanno incontro a una scarica neurochimica breve, altri hanno la stessa reazione ma per un tempo più lungo. Ciò vale per qualsiasi individuo: alcuni hanno un cervello rapido, altri uno lento e, secondo Davidson, chi ha un periodo di ripresa lento sarebbe più vulnerabile alle malattie mentali. La sua équipe nel Wisconsin ha rilevato variazioni evidenti della velocità di recupero nei singoli cervelli, esaminati dopo sei settimane di terapia antidepressiva.
Tali variazioni avvengono, a quanto sembra, nella corteccia prefrontale e non sono simmetriche: quando si è in fase di recupero dopo una crisi depressiva, la velocità di attivazione e inattivazione aumenta nel lato sinistro della corteccia prefrontale.30 È noto che gli antidepressivi alterano i livelli dei neurotrasmettitori, i quali potrebbero influenzare l’apporto ematico alle varie aree cerebrali.31 Qualsiasi siano i meccanismi, spiega Davidson, le asimmetrie di attivazione, le diversità di attività tra lato sinistro e lato destro della corteccia prefrontale «sono correlate con l’indole, l’umore e i sintomi ansiosi e depressivi. I soggetti con un’attivazione maggiore del lato destro sono più predisposti a soffrire d’ansia e di depressione».
Come Crow, egli mette in dubbio la purezza categoriale della depressione come malattia: «Uno degli elementi che distinguono il comportamento umano da quello delle altre specie è la maggiore capacità di controllare la sfera emozionale. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: la maggiore capacità di alterarla. Penso che entrambe siano strettamente collegate all’attività della corteccia prefrontale». In altre parole, i nostri problemi sono la conseguenza dei nostri punti di forza.
Tali ricerche, oltre a far luce sulla genetica dei disturbi disforici, presentano innumerevoli implicazioni pratiche: se è possibile individuare la zona esatta della disfunzione in un cervello depresso, lo è anche elaborare gli strumenti atti a stimolarla o inibirla. Studi recenti hanno suggerito la presenza di squilibri del metabolismo della serotonina nella corteccia prefrontale dei pazienti depressi. La stimolazione asimmetrica del cervello potrebbe essere dovuta proprio a questo fenomeno, oppure in alcuni casi potrebbe verificarsi un’asimmetria fisica, per esempio, della distribuzione capillare e pertanto dell’apporto ematico.
Alcuni modelli di attività cerebrale si sviluppano precocemente nella vita, altri invece cambiano col tempo. È stato di recente scoperto che nell’adulto le cellule cerebrali sono in grado di riprodursi:32 quando siamo colpiti da una forma depressiva, il loro numero potrebbe aumentare in certe zone e diminuire in altre. Le nuove tecnologie potrebbero forse permetterci di stimolare la crescita o viceversa di lesionare determinate aree cerebrali.
Studi di vecchia data indicano che la stimolazione magnetica transcranica ripetuta (rTMS), che utilizza il magnetismo in modo mirato per aumentare l’attività in una regione particolare, potrebbe, se diretta alla corteccia prefrontale sinistra, favorire il miglioramento della sintomatologia depressiva.33 Potrebbe inoltre essere possibile, mediante un intervento esterno o una sorta di addestramento, imparare ad attivare la parte sinistra del cervello. Anche la resilienza può essere acquisita, soprattutto dai giovani.34 Grazie alle tecniche di scansione sarà forse possibile studiare il cervello, individuare precocemente le aree inattivate della corteccia cerebrale sinistra e prendere le debite misure profilattiche «che potrebbero comprendere la meditazione», come sostiene Davidson, in modo da aiutare il soggetto a non cadere nell’abisso della depressione.
In alcuni individui si ha una maggiore attivazione della corteccia prefrontale sinistra,35 in altri è quella destra a risultare più attiva. (Ciò non ha niente a che fare con la questione della dominanza emisferica, in base alla quale un individuo è o no mancino.) Gran parte dei soggetti presentano una maggiore attivazione del lato sinistro;36 chi ne presenta una superiore del lato destro tende a provare sentimenti più negativi rispetto agli altri. L’attivazione dell’emisfero destro è predittiva del rischio di immunodepressione e correlata con livelli elevati di cortisolo, l’ormone dello stress.37 Benché i modelli di attivazione non si stabilizzino prima dell’età adulta, i neonati con una maggiore attivazione del lato destro si agiteranno quando la madre uscirà dalla stanza, mentre quelli con un’attivazione superiore del lato sinistro tenderanno a esplorare il locale senza ansia apparente. Nei neonati, tuttavia, l’equilibrio è soggetto a oscillazioni. Secondo Davidson, «è probabile che nei primi anni di vita il sistema sia più plastico, il che aumenterebbe le possibilità da parte dell’ambiente di plasmarlo».
Combinando questa tesi con le idee di Crow sul linguaggio, si possono trarre conclusioni interessanti. «Una delle prime cose che notiamo quando i bambini iniziano a pronunciare singole parole è che indicano gli oggetti» spiega Davidson. «La parola è l’etichetta di un oggetto e quasi sempre all’inizio indicano con la mano destra. Il bambino ha un’esperienza positiva, è chiaramente interessato all’oggetto e cerca di avvicinarlo. L’uso iniziale del linguaggio è molto piacevole per i bambini piccoli. La mia ipotesi, non ancora studiata in modo sistematico, è che la lateralizzazione dell’emisfero sinistro in ordine al linguaggio possa essere un effetto secondario della lateralizzazione di tale emisfero per i sentimenti positivi.»38
Tale ipotesi potrebbe dimostrarsi elemento fondamentale per una neuroanatomia della risoluzione catartica della depressione. Il linguaggio è recepito come qualcosa di positivo, e tale resta. Parlare è uno dei più grandi piaceri della vita e la volontà di comunicare è straordinariamente potente in tutti noi (anche in chi non riesce a produrre suoni coerenti e usa il linguaggio dei segni, gesticola o scrive per potersi esprimere). I depressi perdono la voglia di parlare, mentre chi è affetto da una forma maniacale parla incessantemente. In tutte le culture il dialogo aiuta a risollevare l’umore: rimuginare eventi negativi può essere doloroso, ma parlare della pena che ci affligge contribuisce ad alleviarla. Quando mi chiedono, e avviene di continuo, quale sia la migliore terapia antidepressiva, esorto le persone a parlarne, non in modo isterico, ma semplicemente esprimendo i propri sentimenti. Bisogna parlarne ai familiari, se sono disposti ad ascoltare, agli amici, al terapeuta.
Probabilmente Davidson e Crow hanno scoperto i meccanismi grazie ai quali parlare aiuta: potrebbe essere che certi modi di parlare attivino le stesse zone dell’emisfero sinistro implicate nella malattia mentale. L’effetto liberatorio che deriva dal fatto di potersi esprimere a parole è assolutamente fondamentale per la nostra società. Amleto si lamenta di essere costretto a «sgravarsi il petto di parole come una baldracca»,39 eppure ciò che abbiamo acquisito, assieme alla capacità di sviluppare malattie mentali, è la capacità di sgravarci l’animo (in questo caso, la corteccia prefrontale sinistra) di parole.
Benché esistano terapie efficaci anche per malattie che ancora non riusciamo a capire, conoscere le correlazioni dei vari elementi di una patologia ci aiuta a distinguerne i fattori scatenanti immediati e ad affrontarli. Ci permette di comprendere il complesso dei sintomi e come un sistema ne influenzi un altro. La maggior parte dei modelli esplicativi della malattia – biochimico, psicanalitico, comportamentale e socioculturale – sono incompleti: lasciano molte questioni irrisolte e suggeriscono che anche gli approcci combinati, adesso di moda, sono poco sistematici e metodici. Perché determinati sentimenti e azioni risultano correlati nella malattia ma non nella salute?
«L’esigenza più urgente della psichiatria» scrivono McGuire e Troisi «è quella di abbracciare la teoria evoluzionistica, di iniziare a identificare i suoi dati più importanti e di verificare le nuove spiegazioni dei disturbi. I tentativi di spiegare il comportamento, normale o no, senza possedere una conoscenza profonda delle specie che si studiano, dà luogo a errori d’interpretazione.»
Non sono convinto che conoscere l’evoluzione della depressione sia particolarmente utile per curarla, ma è essenziale per poter prendere le decisioni terapeutiche necessarie. Sappiamo che le tonsille svolgono una funzione circoscritta, conosciamo il ruolo che hanno nell’organismo, riteniamo che debellarne l’infezione sia più complicato che rimuoverle e che tale intervento non arrechi grave danno al corpo. Sappiamo che è preferibile asportare l’appendice piuttosto che trattarla, ma anche che un’infezione epatica deve essere trattata, perché senza fegato si muore. Sappiamo che è necessario operare i tumori cutanei, ma che i foruncoli non causano un’infiammazione sistemica. Comprendiamo i meccanismi di queste parti del sé fisico e in genere conosciamo il tipo e l’entità dell’intervento adeguato per ogni loro disfunzione.
Ma non esiste consenso su quando si debba trattare la depressione. Dovrebbe essere rimossa come le tonsille, trattata come una malattia del fegato o ignorata come un foruncolo? La gravità del disturbo ha rilevanza? Per rispondere correttamente a queste domande, dobbiamo capire perché esiste la depressione. Se aveva una funzione utile per i cacciatori-raccoglitori, ma nella vita moderna è ormai ininfluente, dovrebbe essere rimossa. Se è una disfunzione cerebrale che compromette i circuiti indispensabili per lo svolgimento di altre funzioni del cervello, dovrebbe essere trattata. Se alcune forme lievi fungono da meccanismo di autoregolazione, dovrebbero essere ignorate. L’evoluzione potrebbe suggerirci una teoria affine a quella unificata dei campi, rivelando le correlazioni strutturali tra le diverse scuole di pensiero che studiano la depressione. Questo ci permetterà di decidere se, quando e come trattarla.40