Angel Starkey ha avuto una vita difficile. Ultima di sette figli, ebbe di rado manifestazioni di affetto dalla famiglia, subì ripetuti abusi sessuali dal bidello della scuola che frequentava e a tredici anni fu stuprata. «Soffro di depressione da quando avevo circa tre anni» racconta. Da bambina era solita chiudersi nello sgabuzzino del sottoscala e disegnare lapidi sul muro. Il padre morì per un tumore al pancreas quando lei aveva sette anni. A trentotto, «a volte lo sento ancora gridare. Mentre sono sdraiata nel mio letto o seduta nella mia stanza, lo sento e mi spaventa tanto da farmela addosso». Da piccola la sua amica più cara si impiccò proprio mentre Angel bussava alla porta d’ingresso, come si seppe dopo.
Da quando terminò le superiori, diciassette anni fa, Angel è stata quasi sempre ricoverata, fatta eccezione per brevi intervalli in cui ha soggiornato in residenze protette. Soffre di un disturbo schizoaffettivo, il che significa che oltre ad avere una profonda depressione, è vittima di allucinazioni e sente voci che le ordinano di uccidersi. Il panico le impedisce di instaurare normali contatti con il mondo esterno.
Nessuno sa dire quante volte abbia tentato il suicidio, ma avendo trascorso la maggior parte della sua vita adulta in ospedale, è sempre stata salvata, anche quando si è gettata sotto un’auto. Ha le braccia segnate dalle cicatrici per tutte le volte che si è tagliata; di recente un medico le ha detto che non aveva più cute elastica e che se avesse continuato a ferirsi, le lesioni non avrebbero avuto modo di cicatrizzarsi. La pelle del ventre è devastata dalle ustioni perché in più occasioni ha tentato di darsi fuoco. Angel ha cercato di strangolarsi (con un sacchetto di plastica, con un laccio da scarpe e con il manicotto dello sfigmomanometro) fino «a diventare viola in faccia» e sul collo ha i segni che lo testimoniano. Ha le palpebre raggrinzite nei punti in cui si è bruciata con le sigarette accese. I capelli sono radi perché se li strappa e i denti rovinati, in parte, a causa dei farmaci (una bocca cronicamente secca può causare gengiviti).
Al momento prende clozapina, 100 mg, cinque volte al giorno, e 25 mg, cinque volte al giorno; omeprazolo, 20 mg, una volta al giorno; quetiapina, 200 mg, due volte al giorno; oxibutinina, 5 mg, quattro volte al giorno; fluvastatina, 20 mg, una volta al giorno; buspirone, 10 mg, sei volte al giorno; fluoxetina, 20 mg, quattro volte al giorno; gabapentina, 300 mg, tre volte al giorno, topiramato, 25 mg, una volta al giorno e benztropina, 2 mg, due volte al giorno.
Ho incontrato Angel per la prima volta al Norristown Hospital, la struttura statale che ho visitato in Pennsylvania, di cui era paziente. Fui colpito dalle cicatrici, dal gonfiore provocato dai farmaci, dal suo intero aspetto. Ma in un luogo pieno di occhi vacui e come di vetro, lei sembrava più viva. «Ha bisogno di molte cure,» mi disse una delle sue infermiere «ma è anche molto dolce di natura. Angel è speciale.» Senza dubbio tutti sono speciali, ma Angel è fiduciosa in un modo commovente, addirittura straordinario per una persona con un’esperienza di vita come la sua. Malgrado la sofferenza e le sue conseguenze, è una donna piacevole, fantasiosa e generosa, nonché piuttosto attraente tanto che alla fine ci si dimentica del suo aspetto sgradevole. La personalità di Angel è offuscata, ma non annientata dalla malattia.
Con il tempo imparai a conoscere più da vicino Angel e i suoi schemi di automutilazione. Il suo strumento preferito per ferirsi è la parte superiore di una lattina. Una volta si è tagliuzzata le braccia in maniera tanto orribile che le dovettero dare quattrocento punti. «Tagliarmi è l’unica cosa che mi procuri piacere» mi confessò. Non avendo a disposizione lattine, riuscì ad aprire la parte finale di un tubetto di dentifricio e a usarlo per asportarsi brandelli di carne. Ciò accadde mentre era stesa sul lettino in attesa di essere sottoposta a sbrigliamento – la rimozione chirurgica del tessuto devitalizzato – in seguito ad alcune ustioni autoinflitte.
Nel ristretto mondo del Norristown State Mental Hospital «entro ed esco dal padiglione cinquanta, il centro delle emergenze. Devo andarci se mi taglio. Prima si trovava al sedici, ma ora è al cinquanta. Vivo nel padiglione uno come residente fissa. Per cambiare un po’, a volte vado alle serate di karaoke al trentatré. Questa volta sono stata ricoverata perché soffrivo di continui attacchi di panico. Il mio cervello non funzionava bene, capisci no? Era come se andasse a scatti, ero terrorizzata. E dovevo continuamente andare in bagno: è davvero strano il modo in cui tutto il mio corpo reagisce a un po’ di ansia! Ieri siamo andati per negozi ed è stato spaventoso. Anche nei piccoli locali. Ho dovuto prendere il lorazepam e anche quello non ha funzionato. Ho la paranoia di farmela addosso. Ieri sono entrata e uscita dai locali in fretta e furia e sono andata in bagno almeno dieci volte. Non riuscivo a deglutire. Quando mi spostavo da qui a lì, la paura mi bloccava. Eppure, quando è stata ora di rientrare, avevo paura di tornare in ospedale».
Il dolore fisico le è sempre stato indispensabile. «Chiedo sempre che non mi ricuciano, che non mi facilitino le cose» confessò. «Anzi, che le peggiorino. Mi sento meglio se fa male. Se devo provare dolore, preferisco il dolore fisico a quello emotivo. Ridurmi in uno stato tale da non riuscire più a respirare è per me una liberazione. I punti metallici sono meglio dei punti di sutura perché fanno più male, anche se non a lungo. Quando mi taglio, voglio morire… chi si prenderà cura di me quando sarò tutta a brandelli, bruciata e chissà che altro? Vedi, non sono una brava persona.»
Angel fu sottoposta a sorveglianza continua – non poteva star sola nemmeno in bagno – nei tre anni della fase particolarmente acuta. In alcuni periodi fu necessario legarla al letto. È stata tenuta sottochiave e per un po’ le hanno messo la camicia di forza, per costringerla alla totale immobilità. Angel descrive questa esperienza come qualcosa di indicibilmente spaventoso. Ha imparato tutto sui farmaci che assume, è una paziente informata. «Ancora una parola sulla clozapina» aggiunse «e inizierò a vomitarla, capisci?» È stata sottoposta anche a terapia elettroconvulsivante prolungata.
Durante un recente ricovero al Norristown, mi rivelò che chiamava la madre tutti i giorni e che andava a casa da lei due fine settimana al mese. «Amo mia madre più di qualsiasi altro al mondo. Molto più di quanto non ami me stessa, sai? È dura per lei. A volte penso: ha avuto sette figli, forse potrebbe accontentarsi di sei. Da parte mia non sarebbe un abbandono. L’ho torturata a sufficienza. Non ha bisogno che combini guai. Le faccio male con la mia malattia, la malattia e l’imbarazzo. La mia depressione, la sua depressione, la depressione delle mie sorelle, dei miei fratelli, capisci? Non finirà mai, credo, finché non saremo tutti morti. Vorrei solo trovare un lavoro e darle dei soldi. Dicono che mi preoccupo troppo per la mamma, ma sai, ha settantatré anni. Vado a trovarla e faccio le pulizie. Vado a casa in preda alla frenesia e pulisco. Pulisco, pulisco e pulisco senza freno. Divento fanatica della pulizia. Amo lavare gli oggetti e la mamma lo apprezza.»
La prima volta che ci incontrammo Angel era visibilmente tesa e afflitta da gravi problemi di memoria, dovuti all’elettroshock prolungato (trenta sedute) e agli alti dosaggi dei farmaci. Si perdeva a metà di una frase, parlava delle piccole gioie del suo mondo ristretto. «Non so perché tutti sono così gentili con me. Io mi odiavo tanto. Odiavo tutto ciò che facevo. Dio deve ricordarsi di me perché, voglio dire, mi sono buttata sotto due auto, mi sono tagliata fino a dissanguarmi e sono ancora viva. Sono brutta. Molto goffa. Non riesco… la mia mente è così sconvolta che a volte non riesco nemmeno a pensare. L’ospedale è la mia vita, sai? I sintomi non se ne andranno che alla fine. La depressione e il senso di solitudine.»
Perfettamente consapevole delle difficoltà della nostra comunicazione, poche settimane più tardi mi inviò una lettera, due righe «di chiarimento», nella quale scrisse: «Ho fatto tutto il possibile per uccidermi e ferirmi. Tutto è diventato molto faticoso. Non penso che mi sia rimasto un cervello. A volte, iniziando a piangere, mi viene il terrore di non riuscire più a fermarmi. Ho perso, perso in continuazione. Ci sono tante persone che vorrei aiutare, anche se solo con un abbraccio. Ciò basta a rendermi felice. A volte scrivo poesie, per raccontare a me e agli altri quanto sono stata malata. Ma questo dimostra che c’è speranza. Con affetto, Angel».
L’anno dopo Angel lasciò il Norristown, dapprima per un centro di terapia intensiva e poi per uno di assistenza tradizionale, a Pottstown, in Pennsylvania. Per più di quattordici mesi non si ferì alle braccia.1 I farmaci parevano contrastare efficacemente le voci. Prima di lasciare Norristown mi aveva detto: «Ciò che veramente mi terrorizza è che non saprò tenere tutto sotto controllo, non sarò in grado di fare cose come la spesa e le scale, tre rampe di scale. E anche le persone mi terrorizzano. Tutto». Invece affrontò il cambiamento incredibilmente bene.
«Sto meglio di quanto non lo sia mai stata» mi rivelò circa un mese dopo. Continuò a migliorare, un po’ alla volta, acquistando una fiducia inaspettata. Sentiva sempre una voce che la chiamava, ma non era più il demoniaco e assillante richiamo che aveva udito in precedenza. «Cosa più importante, non ho la minima voglia di ferirmi. Era una specie di compulsione; ci penso ancora, ma non come una volta. È completamente diverso rispetto ad allora: mi ferivo con la stessa facilità con cui gli altri starnutiscono. Ora ho voglia di vivere e mi sento piena di speranza per tutto il resto della mia vita!» esclamò.
Mi colpì che Angel, diversamente da molti pazienti autolesionisti, non avesse mai cercato di fare del male al prossimo: in tutti gli anni trascorsi in ospedale non aggredì mai nessuno. Mi raccontò che una volta, in pigiama, si era data fuoco ma che, un attimo dopo, aveva provato orrore all’idea che, bruciando, avrebbe potuto incendiare l’intero padiglione: «Pensai alle persone che sarebbero morte per colpa mia e spensi subito le fiamme».
Angel venne coinvolta nell’attività del Consumer Satisfaction Team del Norristown, il gruppo che tutela i diritti del paziente all’interno dell’ospedale. Uscì accompagnata dai suoi medici, cosa che le piacque ma insieme la terrorizzò, per raccontare nelle scuole come si viva negli ospedali psichiatrici. Quando trascorrevo un po’ di tempo con lei al centro rieducativo, osservavo che era l’unica a insegnare agli altri come fare le cose: spiegava loro come preparare dei panini imbottiti con una pazienza quasi infinita. «Devo vivere la vita» mi confidò «e desidero davvero aiutare gli altri. Forse col tempo, sento che farò qualcosa anche per me. La donna con la quale condivido la stanza è tanto buona. Quando la chiami, risponde sempre, è davvero un tesoro! Ha avuto moltissimi problemi; non cucina né fa mai le pulizie. Non fa quasi nulla. Ma è buona, e non si può essere cattivi con lei. Sono due mesi che sto cercando di insegnarle a pelare un dannato cetriolo, ma non ce la fa.»
Angel scrive poesie per tentare di dar voce alle sue esperienze:
Vorrei poter piangere
semplicemente come fa il cielo. Le lacrime ora
non scendono tanto facilmente. Sono
bloccate dentro la mia anima.
È vuota e ho paura.
Lo senti, il vuoto? Credo
sia la mia stessa paura, dentro. Dovrei
essere coraggiosa e combattere quella paura.
Ma è una lotta che dura da
così tanto tempo. Sono stanca.
I bambini crescono e le lacrime
scorrono dai miei occhi. Perdere la
loro crescita è come perdere il trascorrere
delle stagioni, il profumo delle rose che sbocciano
in primavera e i fiocchi di neve che cadono
d’inverno. Quanti anni ancora
dovrò perdere? Gli anni non si
fermeranno per me o per loro, perché mai
dovrebbero? Fioriranno e
sbocceranno ancora, e la mia vita resterà per sempre
immobile come uno stagno silenzioso.
Andai a trovare Angel poco prima che si trasferisse nel centro di terapia intensiva. Mi aveva fatto un regalo: una casetta per uccelli di un azzurro vivace con la scritta «Si paga l’affitto». Andammo a pranzo in un ristorante cinese del centro commerciale, a Pottstown. Parlammo di Pippin, lo show che aveva visto quand’era stata a New York. Mi raccontò del tentativo di lavorare part-time in un negozio di gastronomia, dove avrebbe dovuto aiutare a preparare i sandwich. Non l’avevano assunta e lei si era demoralizzata: si era tanto entusiasmata all’idea di avere un impiego, anche se era spaventata dal registratore di cassa e dal dover fare i conti per dare il resto ai clienti. «Ho fatto tre anni di matematica» mi confidò. «È spaventoso. E ho anche poca memoria, come quella di un bimbo di tre anni. Credo che la colpa sia dei medicinali.»
Parlammo del suo libro preferito, Il giovane Holden. Dei sogni che faceva. «Sogno sempre l’oceano,» osservò «sono in una stanza come questa, c’è un muro e dietro al muro c’è l’oceano. E non riesco mai ad arrivare alla spiaggia per raggiungere l’acqua. Combatto e combatto, ma non ce la faccio. Altre volte sogno del caldo. Il sole inizia a scottarmi e i miei capelli si bruciacchiano. Il calore del sole mi fa paura. Sai, anche nella vita reale cerco di andare in luoghi dove non vi siano finestre da cui si possa vedere il tramonto, quando il sole diventa rosso. È una cosa che mi terrorizza.» Parlammo un po’ dei suoi vuoti di memoria. «Sono la madrina di una delle mie nipoti,» mi raccontò «ma non ricordo di quale, e mi imbarazza chiederlo.»
Dopo quell’incontro non ci sentimmo per sei mesi. Quando ci rivedemmo, Angel mi chiese che cosa fosse successo: le risposi che avevo avuto una piccola ricaduta. Non era trascorso molto tempo dalla slogatura della spalla e dalla terza crisi. Tornammo al ristorante cinese. Angel risistemò il centro tavola avvizzito. «Sai,» affermò un minuto dopo «ero veramente preoccupata per te, voglio dire, pensavo ti fossi ucciso o qualcosa del genere.»
Cercai di rassicurarla. «Non era grave a tal punto, Angel. È stato orribile, ma probabilmente non tanto pericoloso. O almeno, si è risolto in maniera non troppo pericolosa. Ho preso l’olanzapina, ho superato tutta una serie di cose e mi sono rimesso subito in sesto.» Sorrisi e allargai le braccia: «Ora sto bene».
Angel sollevò lo sguardo e sorrise: «È fantastico. Ero così preoccupata» disse. Mangiammo. Poi con coraggio osservò: «Io non riuscirò mai a stare bene». Le dissi che bisognava fare un passo alla volta, che stava andando straordinariamente bene, che stava mille volte meglio rispetto al nostro primo incontro di due anni prima. Aggiunsi che l’anno precedente non avrebbe nemmeno concepito di uscire dall’ospedale e di vivere in un posto come quello in cui si sarebbe trasferita di lì a poco. «Già» commentò, e per un attimo si sentì timidamente fiera. «A volte odio tanto i farmaci, ma mi aiutano.»
Prendemmo un gelato ed entrammo in un negozio accanto al ristorante, dove tutto costava un dollaro. Angel comperò il caffè e poche altre cose che le servivano. Ci avvicinammo all’auto per tornare nel luogo in cui viveva. «Sono davvero felice che tu sia passato» esclamò. «Non mi aspettavo che saresti venuto oggi. Spero che non ti senta obbligato a venire a trovarmi.» Le risposi che era entusiasmante vedere ciò che le stava accadendo e che anch’io ero felice di essere lì. «Vedi,» proseguì lei «se solo potessi stare abbastanza bene da fare qualcosa, mi piacerebbe partecipare a uno di quei grandi show, magari all’Oprah Show. Sarebbe il mio sogno.»
Le chiesi perché volesse andare in televisione.
«Vorrei solo trasmettere il mio messaggio alla gente» rispose mentre salivamo in macchina. «Voglio dire a tutti: non tagliatevi di proposito, non feritevi e non odiatevi. Vedi, è molto importante. Vorrei averlo imparato prima. Lo voglio dire a tutti.» Per un po’ proseguimmo in silenzio. «Cercherai di dire questo alla gente quando scriverai il tuo libro?» mi chiese. E rise lievemente nervosa.
«Cercherò di dire ai lettori proprio ciò che hai detto» confermai.
«Promesso? È molto importante.»
«Promesso.»
Poi andammo in quella che sarebbe di lì a poco diventata la sua nuova casa, la residenza protetta; le girammo attorno e sbirciammo dalle finestre, io salii una rampa di scale esterne per vedere il panorama dalla terrazza sul retro. Era tanto diverso dall’ospedale un po’ fatiscente in cui era vissuta. Ristrutturata di recente, sembrava un albergo: ogni appartamento di due stanze aveva la moquette nuova, un grande televisore, una poltrona, un divano e una cucina bene attrezzata. «Angel, questo posto è stupendo» esclamai e lei rispose con un «Sì, è davvero bello. Molto più bello».
Tornammo nel luogo che avrebbe presto lasciato. Scendemmo entrambi dall’auto e l’abbracciai a lungo. Le augurai buona fortuna, lei mi ringraziò nuovamente per essere passato a trovarla e mi disse quanto la mia visita avesse significato per lei. Io la ringraziai per la casetta degli uccellini. «Mio Dio, fa freddo» osservò Angel. Salii in auto e la guardai trascinarsi dal parcheggio al portone d’ingresso. Mi accinsi a partire e la salutai: «A presto, Angel!». Lei si voltò e mi fece un cenno con la mano. «Ricordati la promessa» gridò mentre me ne andavo.
Sembrava un quadro felice, e tale rimase nella mia mente, ma nei sei mesi successivi Angel si martoriò i polsi e l’addome, fu di nuovo ricoverata in ospedale e sottoposta a terapie psichiatriche intensive. Quando tornai a trovarla al Norristown, aveva le braccia coperte di vesciche simili a crateri pieni di sangue perché si era versata caffè bollente sulle ferite per alleviare una crisi d’ansia. Mentre parlavamo, si dondolava avanti e indietro sulla sedia, ripetendo che non voleva più vivere. Pensai, tra tutto il materiale raccolto per il libro, a qualcosa che potesse confortarla. «Non sarà sempre così» osservai, anche se in realtà supponevo il contrario. L’eroismo e l’entusiasmo non bastano quando c’è di mezzo la depressione.
Una donna schizofrenica continuava a interromperci, farneticando sulla sua famiglia che l’aveva ingiustamente maltrattata. Voleva che noi appianassimo la situazione. Nel frattempo un uomo dai piedi enormi mi bisbigliava nell’orecchio varie ipotesi di complotto. Alla fine Angel li scacciò urlando: «Andate via!». Poi si strinse con le braccia deturpate. «Non lo sopporto» sbottò infuriata, imbronciata e avvilita. «Non mi libererò mai di questo posto. Voglio solo sbattere la testa contro il muro fino a spaccarla, a staccarmela, capisci?»
Prima che me ne andassi, un assistente mi chiese se fossi ottimista nei confronti di Angel e io scossi il capo. «Nemmeno io» rispose. «Lo sono stato per un po’, perché non si comportava in modo così folle come gli altri. Ma mi sbagliavo. Ora è abbastanza a contatto con la realtà, ma è ancora così malata.»
«Mi hanno tirato fuori dal più profondo baratro una volta, perciò spero che lo facciano ancora» mi disse Angel in quell’occasione.
Di lì a sei mesi la bufera era passata, lei era di nuovo libera dalla malattia ed era tornata nel suo bell’appartamento. Stava davvero molto bene e aveva trovato finalmente un lavoro (confezionava generi di drogheria), il che la rendeva molto orgogliosa. Al ristorante cinese sembrarono felici di rivederci. Chiacchierando, evitammo di pronunciare termini come sempre e mai.
La gente continuava a chiedermi perché scrivessi un libro sulla depressione. Il fatto che volessi occuparmi di questo sgradevole argomento risultava perlopiù incomprensibile, e devo ammettere che quando iniziai le ricerche ebbi spesso l’impressione di aver compiuto una scelta folle. Rispondendo, adducevo diverse motivazioni: ritenevo di poter dire cose che non erano ancora state dette e che scrivere fosse un atto di responsabilità sociale; inoltre, volevo aiutare il prossimo a capire la depressione e a curarsi nel modo migliore. Ammisi che mi era stato offerto un generoso anticipo per il libro, che pensavo che l’argomento avrebbe colpito l’immaginazione del pubblico e che volevo diventare uno scrittore famoso e apprezzato. Ma solo quando arrivai a tre quarti dell’opera, il mio scopo mi si rivelò nella sua interezza.
Non mi aspettavo di imbattermi nella profonda, devastante vulnerabilità dei depressi né conoscevo le complicate modalità con cui essa interagisce con la personalità. Mentre lavoravo al mio progetto, una cara amica si fidanzò con un uomo che, nascondendosi dietro la malattia, perseverava in un comportamento autoindulgente e ostile: freddo e refrattario al sesso, pretendeva che la fidanzata provvedesse al suo sostentamento e che gli organizzasse la vita, perché trovava troppo penoso assumersi qualsiasi responsabilità. Si tormentava per ore mentre lei cercava di confortarlo, ma non faceva caso a nessun dettaglio della vita della compagna né se ne interessava. Per molto tempo incoraggiai la mia amica a sopportare con pazienza, ritenendo che tutto si sarebbe risolto quando l’uomo fosse guarito. Ma non esistono terapie al mondo capaci di trasformare un debole in un uomo di carattere.
Tempo dopo un’altra amica mi confessò di essere stata brutalmente percossa dal marito. L’uomo si era comportato in maniera strana per settimane: aveva reagito in modo paranoico ad alcune normali telefonate e aveva malmenato i loro cani. Dopo la violenta aggressione la mia amica, in preda allo spavento, aveva chiamato la polizia e il marito era stato ricoverato in un ospedale psichiatrico. Malgrado gli avessero diagnosticato un disturbo schizoaffettivo, restava ugualmente colpevole.
Spesso la malattia psichiatrica svela il lato oscuro delle persone più che alterarne completamente l’indole: talora questo lato è commovente, assetato com’è di attenzioni e di affetto, talaltra brutale e crudele. La depressione porta alla luce realtà dolorose, che la maggior parte degli individui cela nel profondo, esacerbando il carattere. A lungo andare credo che essa renda migliori le persone buone e peggiori quelle cattive. Può cancellare il senso della misura, scatenare fantasie paranoidi e generare un falso senso di impotenza, ma è anche una finestra sulla verità.
Non ho dato spazio in questo libro alle vicende dei due uomini summenzionati. Durante il lavoro di ricerca ho incontrato moltissimi depressi per i quali ho provato sentimenti negativi o nessun sentimento. Ho scelto di non parlarne e di occuparmi solo di chi ammiro. Le persone che ho descritto sono forti o brillanti o determinate, in ogni caso notevoli.
Non penso che esista il cosiddetto soggetto medio, né che avvalendosi di un prototipo si possano trasmettere verità profonde: la generalizzazione dell’essere umano è, non a caso, il principale difetto dei testi psicologici divulgativi. Solo conoscendo la varietà della resilienza, della forza e dell’immaginazione umane è possibile comprendere l’orrore della depressione e l’irriducibilità della vitalità umana. Un giorno un uomo fortemente depresso, più anziano di me, mi disse che «i depressi non hanno storia: noi non abbiamo nulla da raccontare». Tutti hanno una storia, e i sopravvissuti al male ne hanno di avvincenti. Nella vita reale l’umore è sottoposto a una miriade di sollecitazioni positive e negative. Il mio libro rappresenta uno spazio protetto in cui dar voce alle storie di persone straordinarie, nella speranza che possano aiutare altri malati così come hanno aiutato me.
Alcuni vengono resi del tutto inabili dalle forme più lievi della malattia, altri, pur affetti da depressione grave, riescono invece a realizzarsi nella vita. «Alcuni soggetti restano funzionali al di là di quello che accade» spiega David McDowell, che si occupa di abuso di sostanze alla Columbia. «Ciò tuttavia non significa che soffrano meno.» È difficile effettuare valutazioni assolute. «Purtroppo» osserva Deborah Christie, psicologa infantile all’University College London, «non esiste un metro per misurare il suicidio, il dolore o la tristezza. Non è possibile stimare in modo obiettivo quanto un individuo sia malato o quali siano i suoi sintomi. Si può solo stare ad ascoltare ciò che riferisce e accettare che esso corrisponda a quello che sente.»
C’è un’interazione tra la malattia e la personalità. La sopportazione dei sintomi è del tutto soggettiva, in alcuni casi addirittura nulla, come del resto la volontà di combattere la malattia. Dato che la depressione è fortemente demotivante, serve un forte istinto di sopravvivenza per andare avanti e non cedere sotto il suo peso. Il senso dell’umorismo è il miglior fattore predittivo della guarigione, e spesso anche il miglior modo per indurre gli altri ad amarci. Se lo si coltiva, si ha speranza.
Naturalmente può essere difficile conservarlo durante un’esperienza niente affatto piacevole, ma bisogna farlo. La cosa più importante da ricordare durante un episodio depressivo è questa: non si recupera il tempo perduto. Nessuno, al termine della vita, potrà compensare gli anni di dolore. Qualsiasi sia il tempo che la depressione ci ha rubato, è perduto per sempre, i minuti che passano durante l’esperienza della malattia sono minuti che non si conosceranno mai più. Non importa quanto si stia male, bisogna sforzarsi di continuare a vivere, anche se tutto ciò che si è in grado di fare è respirare. Aspettate di guarire e impiegate al meglio il tempo dell’attesa: questo è il mio consiglio ai depressi. Bisogna far tesoro del tempo, non desiderare che tutto finisca. Anche i momenti in cui si pensa di stare per soccombere sono momenti di vita e non torneranno più.
Crediamo nella chimica della depressione con un fanatismo stupefacente e, per cercare di liberare dalla depressione coloro che ne soffrono, veniamo coinvolti nell’annosa contrapposizione tra ciò che è naturale e ciò che non lo è. Nel tentativo di distinguere fra depressione e paziente, e fra terapia e paziente, finiamo per annullare quest’ultimo. Nella Possibilità dell’altruismo Thomas Nagel scrive che la vita umana non è una ricezione passiva di stimoli, piacevoli o spiacevoli, soddisfacenti o insoddisfacenti, ma consta perlopiù di attività e di occupazioni. Non solo, ma ognuno deve vivere la propria vita: nessuno può sostituirsi a lui.2 Che cos’è naturale o autentico? Sarebbe meglio andare alla ricerca della pietra filosofale o della fonte della giovinezza piuttosto che analizzare la vera chimica del sentimento, della moralità, del dolore, della fede e dell’onestà.
Questo problema non è nuovo. In una delle ultime opere scritte da Shakespeare, Il racconto d’inverno, Perdita e Polissene discutono in un giardino del limite tra reale e artificioso, tra ciò che è autentico e ciò che è artefatto. Perdita si riferisce agli innesti delle piante come a «un’arte che … ha tanta parte / quanta la grande creatrice Natura». Polissene replica:
Sia pure; e tuttavia ogni mezzo
che migliora la Natura è un mezzo prodotto
dalla Natura stessa. Così, al di sopra
di quell’arte che voi dite aggiungere alla Natura,
c’è un’arte che è la Natura a creare. Vedete,
dolce fanciulla … Questa è un’arte
che corregge la Natura – anzi la muta.
Ma è l’arte stessa a essere Natura.3
Sono molto lieto che l’uomo sia riuscito a scoprire più modi per migliorare la natura con la sua arte: che abbia imparato a cucinare i cibi e ad abbinare gli alimenti dei cinque continenti, che abbia ottenuto nuove razze di cani e cavalli, che abbia imparato a forgiare il metallo, che abbia incrociato gli alberi da frutto sino a ottenere le pesche e le mele che oggi conosciamo. Mi compiaccio che sia arrivato a costruire impianti di riscaldamento centralizzato, tubature interne, grandi palazzi, navi e aerei. Sono entusiasta dei rapidi mezzi di comunicazione: è quasi imbarazzante riconoscere quanto io faccia affidamento su telefono, fax, e-mail. Sono felice che siano state elaborate le tecniche di prevenzione dentale e di profilassi di determinate malattie, e strategie atte a innalzare l’età media di gran parte della popolazione.
Non nego che tutto ciò abbia avuto conseguenze negative, tra le quali l’inquinamento, l’effetto serra, la sovrappopolazione, la guerra e le armi di distruzione di massa. Ma nel complesso la nostra arte ci ha permesso di progredire e ci siamo adattati a ogni nuovo sviluppo sino a farlo apparire normale: ci siamo dimenticati che un tempo le attuali rose dai petali tanto fitti erano giudicate un’ignobile sfida alla natura, la quale non aveva prodotto fiori simili finché non si erano intromessi gli orticoltori. Fu opera della natura o dell’arte la costruzione della prima diga da parte dei castori o l’atto di sbucciare le banane col pollice opponibile da parte delle scimmie? Il fatto che Dio abbia creato uve che fermentano trasformandosi in una bevanda alcolica rende in qualche modo l’ebbrezza naturale? L’uomo ubriaco non è più se stesso? E allora, quando è affamato o mangia troppo, chi è?
Se nel XVII secolo l’innesto simboleggiò il dominio umano sulla natura, nel XXI tale primato spetta agli antidepressivi e alla manipolazione genetica, che con il tempo diverrà sempre più comune. I principi espressi quattrocento anni fa si applicano oggi alle tecnologie più innovative, che sembrano anch’esse sovvertire l’ordine naturale delle cose. Se l’umanità appartiene alla natura, allora lo stesso vale per le invenzioni dell’uomo. Qualsiasi forza vitale originaria abbia creato la prima ameba ha creato anche un cervello umano influenzabile dalla chimica, ed esseri umani capaci di scoprire quali sostanze sintetizzare e con quali effetti. Quando l’uomo si intromette nella natura o la modifica, lo fa con tecniche di cui dispone grazie a una particolare combinazione di idee provenienti dal mondo naturale. Chi sono io veramente? Sono una persona che vive in un mondo in cui ogni tipo di manipolazione è possibile e che ha accettato alcune di queste manipolazioni. Questo è ciò che sono. Il mio io sofferente non è più o meno autentico, così come non lo è l’io sottoposto a terapia.
Essere buoni implica una lotta continua. Forse il fidanzato della mia amica non aveva altra scelta che quella di comportarsi da idiota, forse nel suo animo si nascondeva una forma di depravazione morale; e forse il marito dell’altra era nato malvagio. Non credo che sia così semplice. Tutti gli uomini ricevono dalla natura ciò che chiamiamo volontà: non accetto l’idea della predestinazione chimica e la scappatoia morale che essa crea. Esiste un unicum che comprende l’essenza dell’uomo, il suo sforzarsi d’essere buono, il suo andare in pezzi e il suo ricomporsi. L’assumere farmaci e il sottoporsi a elettroshock, l’innamorarsi e l’adorare gli dei e la scienza. Angel Starkey, con il suo ferreo ottimismo, è riuscita a parlare in pubblico sulla vita nel Norristown Hospital. Con tenerezza e frustrazione infinite ha cercato di insegnare alla compagna di stanza a sbucciare un cetriolo. Ha annotato i suoi pensieri per me, per aiutarmi a realizzare questo libro. Pulisce la casa della madre da cima a fondo. La depressione mina la sua efficienza, non il suo carattere.
Si vorrebbero tracciare i confini netti del sé. In realtà, non esiste un sé fondamentale che giace puro come una vena d’oro sotto il caos dell’esperienza e della chimica. L’organismo umano è una sequenza di sé che a vicenda si subordinano o si associano. Ogni uomo è la somma di scelte e di circostanze; il sé esiste nell’angusto spazio in cui il mondo e le scelte operate si congiungono. Penso a mio padre, agli amici che sono venuti a vivere con me durante la mia terza crisi depressiva. Sarebbe mai possibile entrare in uno studio medico, sottoporsi a un trattamento e uscire capaci di tanta generosità e tanto amore? Generosità e amore richiedono un grande dispendio di energie, fatica e volontà. È pensabile che un giorno queste qualità saranno a disposizione gratis, che si faranno iniezioni di carattere per trasformarci tutti in tanti Gandhi o in tante Madri Teresa? Le persone eccezionali hanno diritto alla loro gloria, o anche questa è dovuta a una combinazione chimica casuale?
Leggo gli inserti scientifici dei giornali pieno di speranza. Gli antidepressivi saranno sostituiti da altre pozioni magiche. Non è più inconcepibile mappare chimicamente il cervello né somministrare una terapia per far innamorare pazzamente qualcuno in modo mirato e in circostanze precise. Tra non molto le coppie in crisi potranno scegliere tra un colloquio psicoterapeutico e l’assunzione di un farmaco per risvegliare il loro amore. Che cosa accadrà se verranno svelati i segreti dell’invecchiamento e di tutti i difetti dell’uomo e nascesse una razza di dei, di esseri immortali privi di malvagità, di collera e di gelosia, animati da una profonda moralità e impegnati a lottare per l’ideale della pace universale? Forse tutto ciò accadrà davvero, ma in base alla mia esperienza, la medicina può solo fornire all’uomo un modo per reinventarsi. Non sarà la medicina a reinventarlo.
Non possiamo esimerci dall’operare scelte. Il sé sta nelle scelte, in ogni scelta, ogni giorno. Io sono colui che sceglie di prendere i farmaci prescritti due volte al giorno, di parlare con mio padre, di chiamare mio fratello e di avere un cane. Sono colui che sceglie di alzarsi (o di non farlo) quando suona la sveglia, e colui che a volte è crudele, a volte egocentrico, spesso sbadato. Esiste una chimica dietro alla mia volontà di scrivere questo libro e forse, se riuscissi a dominarla, potrei scriverne un altro, ma anche questa sarebbe una scelta. Pensare mi sembra una dimostrazione dell’esistere meno convincente di quanto non lo sia scegliere. La nostra umanità non sta né nella chimica né nelle circostanze, ma nella volontà di adoperare le tecnologie disponibili nel periodo in cui viviamo, in base al nostro carattere, alle situazioni e all’età.
Vorrei talora poter vedere il mio cervello. Mi piacerebbe sapere quali segni vi siano stati impressi. Lo immagino grigio, umido e complesso, all’interno della mia testa, e a volte sento come se ci fossi io, che vivo la mia vita, e questa strana cosa nella testa che ora funziona e ora no. È molto strano. Questo sono io. Questo è il mio cervello. Questa è la sofferenza che vive nel mio cervello. Osservandolo, si possono vedere le tracce che ha lasciato, i punti ingarbugliati, aggrovigliati, e quelli luminosi.
Chi è depresso ha probabilmente una visione più precisa del mondo che lo circonda rispetto a un soggetto sano.4 Chi percepisce di non essere molto amato è forse più vicino alla verità di chi crede di godere dell’amore universale. Un depresso ha una migliore capacità di giudizio rispetto a una persona normale. È stato dimostrato che depressi e non depressi rispondono egualmente bene a domande astratte; tuttavia, quando vengono posti quesiti riguardanti il controllo di un evento, gli individui sani credono sempre di avere maggior controllo di quanto in realtà non ne abbiano, mentre i depressi formulano valutazioni più esatte. In un’indagine basata su un videogioco i soggetti depressi che avevano giocato per mezz’ora sapevano esattamente quanti mostri avessero ucciso; quelli sani supponevano d’averne colpiti da quattro a sei volte più di quanto non avessero fatto in realtà. Freud ha osservato che l’individuo malinconico «ha un occhio più attento alla verità rispetto a chi non lo è».5
La comprensione esatta del mondo e del sé non costituiva una priorità dell’evoluzione poiché non serviva allo scopo della conservazione delle specie. Una visione troppo ottimistica induce a correre rischi inopportuni, ma un moderato ottimismo rappresenta un forte vantaggio selettivo. «Il pensiero e la percezione umane normali» scrive Shelly E. Taylor nel suo recente e inquietante Illusioni: quando e perché l’autoinganno diventa la strategia più giusta «sono caratterizzati non dalla precisione, ma da illusioni positive, corroboranti, riguardanti il sé, il mondo e il futuro. Inoltre, queste illusioni sembrano realmente adattative, paiono stimolare la salute mentale più che minarla … Chi soffre di depressione lieve sembra avere una visione più precisa di se stesso, del mondo e del futuro rispetto a un individuo normale … è chiaramente privo delle illusioni che nell’individuo normale stimolano la salute mentale e lo proteggono dalle difficoltà.»6
L’esistenzialismo è vero quanto la depressione. La vita è futile. L’uomo non può sapere perché si trova sulla terra. L’amore è sempre imperfetto. Non è possibile superare l’isolamento dell’individualità corporea. Qualsiasi cosa l’uomo farà su questa terra, alla fine morirà. È un vantaggio selettivo essere in grado di sopportare questa realtà, occuparsi d’altro e andare avanti, impegnarsi, ricercare e non arrendersi. Guardo i servizi sui tutsi in Ruanda o sugli affamati del Bangladesh: persone che, in molti casi, hanno perso familiari e conoscenti, che non hanno aspettative economiche di alcun tipo, che non sono in grado di procurarsi da mangiare e che soffrono pene atroci. Sono persone per le quali non c’è quasi speranza di miglioramento. Eppure continuano a vivere! Possiedono una cieca vitalità che permette loro di continuare la battaglia dell’esistenza, oppure una visione del mondo che va oltre la mia. Lo sguardo acuto dei depressi fa loro perdere il vantaggio selettivo della cecità.
La depressione maggiore è un maestro sin troppo inflessibile: non è necessario andare nel Sahara per evitare di congelare. Gran parte delle sofferenze psicologiche nel mondo non sono necessarie, e sicuramente chi soffre di depressione maggiore prova un dolore che sarebbe preferibile poter controllare.
Credo, tuttavia, che esista una risposta alla domanda se l’uomo voglia il controllo totale sui suoi stati emozionali, un analgesico emotivo perfetto che renda il dolore inutile come il mal di testa. Porre fine alla sofferenza significherebbe autorizzare un comportamento mostruoso: se l’uomo non si pentisse mai delle conseguenze delle sue azioni, ben presto distruggerebbe i suoi simili e il mondo. La depressione è una disfunzione del cervello, e se il tasso di cortisolo è alterato, bisogna normalizzarlo, ma senza cadere nell’eccesso: rinunciare al conflitto fondamentale tra ciò che l’uomo vorrebbe fare e ciò che fa, eliminare i malumori che lo rispecchiano e le sue difficoltà equivale a rinunciare a essere umani, a ciò che c’è di buono nell’esserlo. Alcuni soggetti non sono abbastanza angosciati e tristi da restare lontano dai problemi e, con molta probabilità, non stanno bene: sono troppo allegri, troppo impavidi e non sono buoni. Che bisogno hanno queste persone della bontà?
Chi è passato attraverso una depressione e si è stabilizzato è spesso più consapevole della gioia del vivere quotidiano: è capace di entusiasmarsi e di rallegrarsi di tutto ciò che c’è di buono e di bello nell’esistenza. Se sono persone come si deve, possono diventare molto generose. Lo stesso si può dire dei sopravvissuti ad altre malattie; ma anche chi si è miracolosamente salvato dal più grave tumore non possiede la «metagioia», la gioia di essere in grado di provare o donare gioia, che arricchisce la vita di chi è stato colpito da una depressione maggiore. Il concetto viene elaborato da Emmy Gut in Productive and Unproductive Depression, in cui l’autrice suggerisce che la lunga pausa alla quale si è obbligati dalla depressione, la lunga meditazione che essa induce stimolino spesso il soggetto a cambiare la propria esistenza in maniera proficua, soprattutto dopo una perdita.7
La realtà non rappresenta la norma per gli esseri umani. Che cosa significa elaborare farmaci e tecniche che mitighino la depressione e che possano alla fine influire anche sulla tristezza? «Oggi possiamo quasi sempre controllare il dolore fisico» osserva lo psicologo evoluzionista Randolph Nesse «ma quanto del dolore fisico che proviamo è veramente necessario? Forse il cinque per cento? Il dolore che ci mette in guardia da eventuali lesioni è indispensabile, ma quello persistente serve davvero? Chiedetelo a chi soffre di artrite reumatoide, di colite o di emicrania! Questa è solo un’analogia, ma quanto del dolore psicologico che si prova è veramente necessario? Più del cinque per cento? Che cosa significherebbe poter prendere una pillola del giorno dopo all’indomani della morte della propria madre per liberarsi dall’angoscia devastante e improduttiva della sofferenza?» La psichiatra francese Julia Kristeva ha scoperto un’importante funzione psicologica della depressione: «Anche la tristezza che ci sopraffà, il rallentamento che ci paralizza costituiscono una difesa – a volte l’ultima – contro la pazzia». Forse è più facile affermare che l’uomo conta sul proprio dolore più di quanto non ne sia consapevole.
L’uso di antidepressivi è in aumento perché la gente cerca di normalizzare ciò che oggi viene ritenuto anomalo, «banalizzando e semplificando», come sottolinea Martha Manning, che ha descritto in maniera eloquente la sua grave depressione. Nel 1998 sono stati compilati più di sessanta milioni di ricette di SSRI, senza contare quelle per altri antidepressivi.8 Gli SSRI vengono somministrati per la nostalgia, i disturbi alimentari, la sindrome premestruale, l’eccessiva aggressività degli animali domestici, i dolori articolari cronici e, soprattutto, per gli stati di lieve tristezza e di sofferenza comune. Non vengono prescritti solo dagli psichiatri, ma anche da medici di base, ostetrici e ginecologi; ad alcuni miei conoscenti la fluoxetina è stata somministrata dal podologo. Quando cadde il volo 800 della TWA, alle famiglie in attesa di notizie dei loro cari vennero offerti antidepressivi che avevano la stessa funzione palliativa di un cuscino o di una coperta in più.9 Non sono contrario a un utilizzo tanto vasto, ma ritengo debba avvenire in modo consapevole, cauto e ponderato.
Si sostiene che da ogni difetto si possa trarre una virtù: ma se si eliminano i difetti, le virtù resterebbero? «Siamo solamente agli albori del boom farmacologico» sostiene Randolph Nesse. «I nuovi farmaci che verranno sviluppati saranno con molta probabilità in grado di bloccare molti sentimenti indesiderati in modo rapido, facile, economico e sicuro. Ci arriveremo con la prossima generazione e prevedo che li useremo, perché se la gente può star meglio, di solito lo fa. Immagino che tra pochi decenni il mondo diventerà un’utopia farmacologica, e immagino anche individui tanto pacati e sereni da trascurare tutte le proprie responsabilità sociali e personali.» Robert Klitzman della Columbia University afferma che «l’ultima trasformazione di proporzioni altrettanto cospicue risale a Copernico. Nei secoli futuri sorgeranno forse nuove società che ci considereranno creature schiave di sentimenti incontrollati e da questi tarpate». Se così avverrà, molto andrà perduto, ma molto sarà senza dubbio guadagnato.
Dopo una depressione ci si libera almeno in parte dell’angoscia suscitata dai momenti di crisi. Io ho un’infinità di difetti, ma sono una persona migliore di prima. Dovevo sperimentare la depressione per arrivare a desiderare di scrivere questo libro. Alcuni amici hanno cercato di scoraggiarmi dal conoscere le persone di cui ho scritto. Vorrei poter dire che la depressione mi ha reso disinteressato e che ho iniziato ad amare gli emarginati, ma non è andata proprio così: una volta passata una simile esperienza, non è possibile stare a osservare mentre altri la vivono senza sentirsi inorriditi. In molti casi mi è più facile immedesimarmi nel dolore altrui che rimanere a guardarlo dal di fuori. Detesto la sensazione di non riuscire a entrare in contatto con il prossimo. Fremo di fronte alla sofferenza di chi è depresso. Penso di poter essere d’aiuto. Non interferire è come guardare qualcuno rovesciare una bottiglia di buon vino: è più facile raddrizzarla e asciugare il tavolo che ignorare quello che sta accadendo.
La depressione culmina, nella fase peggiore, con un atroce senso di solitudine, che mi ha permesso di imparare il valore dell’affettuosità. Quando mia madre lottava contro il cancro, una volta esclamò: «Tutto quello che gli altri fanno per me è meraviglioso, ma è tuttavia spaventoso essere sola in questo corpo che mi si è rivoltato contro». Spaventoso almeno quanto lo è essere soli in una mente che ti si è rivoltata contro.
Che si può fare quando si vede qualcun altro intrappolato nella sua mente? Non è possibile strappare un depresso alla sua infelicità con l’amore (anche se a volte lo si può distrarre), ma talora lo si può raggiungere là dove si trova. Non è piacevole restare immobili nel buio di una mente altrui, ma è peggio osservarne il decadimento dall’esterno. È possibile affliggersi da lontano o avvicinarsi sempre di più; in certi casi il modo per stare vicini è rimanere in silenzio, o persino a distanza. Non tocca a noi, da fuori, decidere, ma tocca a noi capire. La depressione è prima di tutto solitudine, ma può generare anche il contrario di quest’ultima. Amo di più e sono maggiormente amato a causa della mia malattia, e lo stesso vale per numerose persone che ho incontrato durante le mie ricerche. Molti mi hanno chiesto che cosa fare per amici e parenti che soffrono dello stesso problema. La mia risposta è semplice: attenuare il loro isolamento, con una tazza di tè, lunghe chiacchierate, stando seduti vicini in silenzio in una stanza o in qualsiasi modo richiedano le circostanze. In ogni caso fatelo, e fatelo col cuore.
Maggie Robbins, che ha combattuto la sua battaglia con il disturbo maniaco-depressivo, racconta a questo proposito: «Diventavo molto nervosa e continuavo a parlare come una macchinetta. Poi iniziai a fare volontariato in un ricovero per malati di AIDS. Preparavamo loro il tè e il mio compito era quello di aiutare a distribuirlo ai pazienti, insieme al dolce e al succo di frutta, e poi sedermi con loro a chiacchierare, perché molti non ricevevano nessuna visita ed erano soli. Ricordo un giorno in cui mi unii a un gruppo e cercai di intavolare una conversazione chiedendo che cosa avrebbero fatto il 4 luglio. Mi risposero laconicamente, senza dilungarsi in particolari.
«Pensai dapprima che non fosse un comportamento molto amichevole e proficuo. Poi capii: quei ragazzi non facevano nemmeno due chiacchiere tra loro; dopo quelle concise risposte, tacquero. Ma non volevano che me ne andassi. Allora presi la decisione di restare con loro: sarebbe stata semplicemente un’occasione in cui una persona non ammalata di AIDS, che non sembrava molto sofferente e che non stava per morire, riusciva a sopportare il fatto che loro erano malati e stavano per morire. Così quel pomeriggio rimasi lì, senza conversare. Il bello è esserci, prestare attenzione, in modo incondizionato. Se ciò che le persone fanno è soffrire, questa è la realtà. Allora si sta con loro senza cercare affannosamente di distrarli. Io ho imparato a farlo.»
Chi ha superato una depressione prende le pillole e aspetta. Qualcuno segue una terapia psicodinamica, altri vengono sottoposti a terapia elettroconvulsivante o operati. Tutti vanno però avanti. Non si può scegliere se diventare depressi né come e quando stare meglio, ma è possibile decidere come reagire alla depressione, soprattutto quando se ne è usciti. C’è chi migliora per brevi periodi e, pur sapendo che il male tornerà, cerca in tali fasi di far tesoro della propria esperienza per arricchirsi e migliorarsi. Per altri la depressione è solo sofferenza, dalla quale non ricaveranno mai nulla. Gli individui che ne soffrono trovano talora, superato l’evento, la via per giungere alla saggezza.
In Daniel Deronda George Eliot descrive il momento in cui la malattia se ne va, e la miracolosa sensazione che ne deriva. Mirah era pronta a suicidarsi, ma si è lasciata salvare da Daniel e afferma: «Ma poi all’ultimo momento, ieri, quando desideravo solo che l’acqua si richiudesse sopra di me ed ero convinta che la morte fosse la migliore immagine di misericordia, la bontà è venuta da me sotto le spoglie di un essere vivente e io ho riacquistato fiducia nei vivi».10 La bontà non va sotto le spoglie di un essere vivente da coloro che vivono un’esistenza assolutamente tranquilla.
Quando ebbi la terza crisi, quella più lieve, avevo quasi terminato la stesura del libro. Dato che in quel periodo non riuscivo a comunicare in alcun modo, predisposi una risposta automatica per i messaggi di e-mail in cui dicevo di essere al momento irraggiungibile e registrai un messaggio simile nella segreteria telefonica. I conoscenti che avevano sofferto di depressione capirono subito che cosa mi stesse succedendo e non persero tempo. Ricevetti decine e decine di telefonate di persone che mi offrivano tutto il loro aiuto, col cuore. «Verrò non appena mi chiamerai» mi scrisse Laura Anderson, che mi spedì anche un’enorme quantità di orchidee «e mi fermerò finché non ti riprenderai. Se preferisci, qui sei sempre il benvenuto; se ti serve stare da me per un anno, ti starò accanto. Spero tu sappia che sarò sempre a tua disposizione.»
Claudia Weaver mi pose una domanda: «Preferisci che qualcuno ti cerchi ogni giorno o i messaggi sono un fardello troppo pesante? Se sono un peso, non rispondere al mio messaggio, ma di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, chiamami, in qualunque momento, di notte e di giorno». Angel Starkey mi chiamò spesso dal telefono pubblico dell’ospedale per accertarsi che stessi bene. «Non so che cosa ti serva» esclamò «ma sono sempre in pena per te. Ti prego, prenditi cura di te stesso. Se stai veramente male, passa da me quando vuoi. Mi farebbe veramente piacere vederti. Se ti servisse qualcosa, cercherò di procurartela. Promettimi che non ti farai del male.»
Frank Rusakoff mi scrisse una lettera straordinaria e mi ricordò il prezioso dono della speranza. «Desidero ardentemente ricevere notizie che mi dicano che stai bene e che ti sei gettato in un’altra avventura» mi scrisse e firmò la lettera «il tuo amico, Frank». Ero legato in più modi a queste persone, ma rimasi sbalordito dalla loro spontanea manifestazione di affetto. Tina Sonego mi annunciò che avrebbe preso alcuni giorni di permesso dal lavoro se avessi avuto bisogno di lei, o che mi avrebbe comprato un biglietto aereo per portarmi da qualche parte a rilassarmi. «Sono anche una brava cuoca» aggiunse. Janet Benshoof passò a trovarmi con un mazzo di giunchiglie, dei versi pieni d’ottimismo tratti dalle sue poesie preferite, scritti con la sua chiara grafia, e un borsone con il necessario per fermarsi a dormire sul divano, almeno così non sarei stato solo. Una sensibilità stupefacente.
Anche nella più disperata supplica del depresso – «Perché?» o «Perché io?» – c’è il seme dell’introspezione, un processo questo che di solito si rivela produttivo. Emily Dickinson parla del «bianco nutrimento della disperazione»:11 la depressione può davvero giustificare e sostenere un’esistenza. Una vita priva d’introspezione è preclusa al depresso. Questa probabilmente è la più grande rivelazione che abbia avuto: la depressione in sé non è affascinante, ma può rendere tale chi ne è colpito. Spero che questo semplice concetto possa confortare chi soffre e infondere pazienza e amore in chi è testimone del suo dolore. Come Angel, anch’io ho una missione: portare la cura del rispetto per se stessi a coloro che non ne hanno. Mi auguro che le storie di questo libro insegnino non solo la speranza, ma anche l’amor proprio.
Alcune avversità hanno un grande valore. Nessuno vorrebbe imparare in questo modo: le difficoltà non fanno piacere. Io desidero ardentemente una vita serena: scenderei, e sono sceso, a notevoli compromessi per ottenerla. Ma ho scoperto che posso trarre qualcosa dal mio destino, che vi posso trovare un senso, almeno quando non sono stretto nella sua morsa.
In Areopagitica John Milton sostiene che non si possa apprezzare il bene se non si conosce il male. «Quella virtù, dunque, che è tuttora novizia della contemplazione del male, e che ignora le più grandi promesse con cui il vizio alletta i suoi seguaci, e che perciò le respinge, non è che una vacua virtù, non quella vera, e il suo biancore non è che un biancore di epidermide.»12 La somma conoscenza del dolore diviene quindi la premessa per poter apprezzare pienamente la gioia e, addirittura, intensifica la gioia stessa.
Trent’anni più tardi, un Milton più saggio scrive, in Paradiso perduto, della conoscenza conferita alla coppia Adamo ed Eva dopo la caduta, quando divengono consapevoli della totalità della natura umana:
… ora davvero
abbiamo aperto gli occhi, sappiamo cosa
sono il bene e il
male, bene perduto e male guadagnato. Un ben cattivo frutto,
la conoscenza, …
C’è una conoscenza che, per ciò che insegna, sarebbe stato meglio non acquisire. La depressione non solo insegna molto sulla gioia, ma anche la distrugge. È il frutto cattivo della conoscenza, un frutto che avrei preferito non aver mai colto. Una volta raggiunta la conoscenza, si può tuttavia cercare la redenzione. Adamo ed Eva
… provarono in sé nuova forza
scesa dall’alto, e una speranza nuova di emergere da quella
disperazione, e anche gioia.
Sorretti da questa gioia nuova, umana, partirono per vivere le loro brevi e dolci vite:
Allora si volsero indietro, e videro il fianco orientale
del Paradiso, felice albergo un tempo ora perduto.
…
Lacrime naturali scivolarono dai loro occhi, ma
le asciugarono subito, il mondo
stava davanti a loro, dove guidati dalla Provvidenza
scegliere il luogo in cui fermarsi: la mano nella mano,
per la pianura dell’Eden a passi lenti e incerti
presero il loro cammino solitario.13
Così il mondo sta davanti a noi, e con passi lenti e incerti prendiamo il nostro cammino solitario, sopravvissuti a una conoscenza inestimabile che tuttavia ci impoverisce. Procediamo con coraggio e con eccessiva saggezza, determinati a trovare ciò che è bello. Dostoevskij ha detto: «La Bellezza salverà il mondo».14 Il momento del ritorno dal regno della tristezza è sempre miracoloso e può rivelarsi incredibilmente bello: rende il viaggio nella disperazione quasi degno d’essere compiuto. Nessuno avrebbe scelto la depressione attingendo alla cornucopia dei doni celesti, ma una volta avutala, chi sopravvive può trovarvi qualcosa: può scoprire chi è. Heidegger riteneva che l’angoscia fosse l’origine del pensiero;15 Schelling che fosse l’essenza della libertà umana.16 Julia Kristeva ha con essa un debito di riconoscenza: «La mia depressione mi dà una lucidità suprema, metafisica … L’affinamento nel dolore o nel lutto è il segno di un’umanità che sicuramente non è vittoriosa, ma acuta, pronta a combattere e creativa».17
Oggi tengo sotto controllo la mia mente, ho cambiato abitudini nel dormire, rinuncio più facilmente alle cose, sono più tollerante verso gli altri e più determinato a non sciupare i momenti di felicità che riesco a ottenere. È accaduto qualcosa di impercettibile, di impalpabile al mio sé: non subirà più i colpi come un tempo, e avrà ben poche aperture, ma presenterà pur sempre qualche spiraglio sottile, delicato, luminoso. Rammaricarsi per la mia depressione ora significherebbe rammaricarsi della parte essenziale di me stesso. Mi risento con troppa facilità e troppa frequenza, e impongo la mia vulnerabilità agli altri con troppa disinvoltura, ma penso di essere anche più generoso di quanto non lo fossi prima.
«In casa c’è confusione» mi ha raccontato una donna che ha trascorso la vita a lottare contro la depressione «e io non riesco a concentrarmi. Quando tornerà? Quando mi colpirà di nuovo? Solo i miei figli mi tengono in vita. Ora sono stabile, ma non mi abbandona mai. Non la puoi mai dimenticare, non importa quanto sei felice in un particolare momento.»
«Ho accettato di dover assumere farmaci per tutta la vita» dichiara Martha Manning infervorandosi all’improvviso. «E ringrazio. Ringrazio per questo. A volte guardo quelle pastiglie e mi chiedo se è tutto lì quello che si frappone tra me e il supplizio. Ricordo che da bambina non ero infelice, ma non potevo fare a meno di pensare. Devo vivere la mia vita per intero, forse ottant’anni così, chissà. Prima mi sembrava un enorme fardello. Poco tempo fa volevo un altro figlio, ma dopo due aborti spontanei ho capito che non avrei retto allo stress. Ho limitato la mia vita sociale: la depressione non può essere sconfitta. Puoi imparare a gestirla e scendi a compromessi. Cerchi di rimanere in fase di remissione. Devi avere tanta determinazione e dedicare tanto tempo per non cedere. Quando arrivi tanto vicino a toglierti la vita, se la riottieni, te la tieni stretta, non credi?»
Nel tentativo di tenerla stretta, si persiste nell’idea di una depressione produttiva, di qualcosa di vitale. «Se dovessi rifarlo, cambierei modo» mi confessò Frank Rusakoff pochi mesi dopo l’operazione al cervello. Avevo trascorso il pomeriggio con lui, i suoi genitori e il suo psichiatra, i quali discutevano della spiacevole realtà: la cingulotomia non aveva ancora avuto effetto e forse sarebbe stato necessario un secondo intervento chirurgico. Frank, però, col suo modo di fare coraggioso e gentile, era certo che di lì a sei mesi si sarebbe ripreso. «Credo che questo mi abbia fatto guadagnare molto e crescere parecchio. Mi sono avvicinato molto di più ai miei genitori, a mio fratello e agli amici. Ho avuto un’esperienza positiva con il mio medico.» Quella tranquillità d’animo, conquistata a caro prezzo, suonava vera e commovente. «La depressione ha davvero dei lati positivi, anche se standovi dentro è difficile vederli.»
In seguito, quando fu confermato il successo dell’intervento chirurgico, Frank mi scrisse: «Ho detto che avrei agito diversamente se avessi dovuto rifarlo e credo sarebbe andata così. Tuttavia, ora che sento d’essermi lasciato il peggio alle spalle, sono grato per essere stato dov’ero. Penso sia stato un bene per me andare in ospedale trenta volte e subire un intervento chirurgico al cervello: ho incontrato molte brave persone lungo il mio cammino».
«Ho perso gran parte della mia innocenza quando ho capito che io e la mia mente non saremmo andate d’accordo per il resto della vita» dice Kay Jamison con una scrollata di spalle. «Non posso dirti quanto sia stanca di esperienze che formano il carattere. Tuttavia, apprezzo molto questa parte di me; chiunque mi ami, mi ama con questo dentro.»
«Mia moglie, con la quale sono sposato da pochi anni, non mi ha mai visto depresso» dichiara Robert Boorstin. «Mai. L’ho condotta per mano attraverso la mia depressione, ho lasciato che altri le spiegassero di che cosa si trattava. Ho fatto del mio meglio per prepararla perché senza dubbio avrò un’altra crisi. Una volta o l’altra, nei prossimi quarant’anni, mi rintanerò ancora nella mia stanza, e questo mi spaventa molto. Se qualcuno mi proponesse di guarirmi dalla malattia mentale purché mi tagliassi una gamba, non saprei proprio che fare. Eppure, prima di ammalarmi, ero intollerante e arrogante, e non capivo la fragilità. Essere passato attraverso tutto questo mi ha reso migliore.»
«Il filo conduttore del mio lavoro è la redenzione» afferma Bill Stein. «Non conosco ancora il mio ruolo. Sono attratto dalle storie di santi e di martiri, ma non credo che potrei sopportare ciò che hanno patito loro. Non sono pronto per fondare un ricovero in India, ma la depressione mi ha messo sulla strada giusta. Incontro molte persone, e so che non hanno la mia stessa esperienza. Essere sopravvissuto a una malattia tanto spaventosa ha cambiato in maniera permanente il mio mondo interiore. Sono sempre stato attratto dalla fede e dalla bontà, ma senza la depressione non avrei avuto lo stimolo, il fine morale.»
«Si attraversa l’inferno per trovare il paradiso» esclama Tina Sonego. «La mia ricompensa è molto semplice: ora sono in grado di capire cose che prima non capivo, e le cose che non capisco ora, le capirò col tempo, se sono importanti. La depressione ha fatto di me quella che sono oggi. Ciò che si guadagna sembra poco, ma è tantissimo.»
«I nostri bisogni rappresentano i nostri beni più preziosi» sostiene Maggie Robbins. Se attraverso le proprie necessità l’uomo arriva a conoscersi, ad aprirsi agli altri, allora queste possono generare affetto. «So stare insieme agli altri perché è ciò di cui io stessa ho avuto bisogno. Credo d’aver imparato a dare tutto ciò di cui io stessa ho bisogno.»
«L’umore è… un’altra frontiera, come l’oceano profondo o lo spazio infinito» afferma Claudia Weaver. «Avere un umore spesso depresso ti tempra; ritengo di saper affrontare le perdite più difficili meglio della maggior parte della gente, perché ho provato molti dei sentimenti che esse suscitano. La depressione non rappresenta un ostacolo nel mio cammino: è una parte di me che mi porto dietro, e credo che, probabilmente, in vari momenti mi aiuti. Come? Questo non lo so, ma credo nella mia depressione, nel suo potere di redenzione. Sono una donna molto forte, e questo in parte è dovuto alla malattia.»
Laura Anderson scrive: «La depressione mi ha dato una sensibilità e una capacità di perdonare che trascende quella altrui: sono attratta da coloro che con una mossa sbagliata, una frecciata inopportuna o un giudizio chiaramente insensato offendono il prossimo. Questa sera ho avuto una discussione sulla pena di morte e ho cercato di spiegare, senza fare troppi riferimenti a me stessa, che è possibile comprendere azioni terribili, capire gli spaventosi legami tra umore, lavoro, relazioni e tutto il resto. Non vorrei mai che la depressione diventasse una giustificazione pubblica o politica, ma ritengo che dopo averla superata si comprenda in modo più profondo e immediato la temporanea incapacità di intendere e di volere che porta a comportamenti tanto negativi; forse si impara anche a sopportare il male del mondo».
Nei giorni felici in cui la depressione se ne va, se ne va anche qualcosa d’importante. Se la terra potesse sostentare se stessa e l’umanità senza la pioggia, se l’uomo avesse il dominio del clima e scegliesse un perpetuo sole, non ci mancherebbero i giorni grigi e i temporali estivi? Così come in un’insolita bella giornata dell’estate inglese, dopo dieci mesi di cielo uggioso, il sole sembra più luminoso e limpido di quanto non appaia ai tropici, nello stesso modo la recente felicità mi dà un’emozione enorme, toccante, superiore a qualsiasi aspettativa. Può sembrare strano, ma amo la mia depressione. Non mi piace essere depresso, ma mi piace la depressione in sé. Mi piace quello che sono per causa sua.
Schopenhauer disse: «L’uomo è pago a seconda del grado della sua ottusità e della sua insensibilità».18 Quando gli fu chiesto di definire il concetto di felicità, Tennessee Williams rispose: «Insensibilità».19 Non sono d’accordo con loro. Sono stato in un gulag e sono sopravvissuto, e so che se dovessi tornarvi, sopravviverei ancora; in un certo qual modo sono più sicuro di quanto non mi immaginassi. Questo rende la depressione quasi (ma non del tutto) meritevole di essere vissuta. Non credo che tenterò più di togliermi la vita né che mi arrenderei facilmente se mi trovassi in guerra o se il mio aereo cadesse nel deserto: combatterei con le unghie e con i denti per sopravvivere. È come se io e la mia vita, dopo esserci trovati di fronte, esserci odiati, aver voluto fuggire l’uno dall’altra, ci fossimo legati per l’eternità.
L’opposto della depressione non è la felicità, ma la vitalità, e la mia vita, mentre scrivo, è pregna di vitalità anche quando è triste. Un giorno o l’altro, il prossimo anno, mi capiterà di svegliarmi nuovamente privo di senno: è improbabile che mi mantenga stabile per sempre. Nel frattempo, però, ho scoperto quella che si chiama anima, una parte di me che non avrei mai immaginato esistesse prima che, un giorno di sette anni fa, l’inferno mi facesse una visita inaspettata. È una scoperta preziosa.
Quasi ogni giorno provo brevi attimi di disperazione, e ogni volta mi chiedo se io sia sul punto di crollare di nuovo. Di tanto in tanto, per un terribile istante, desidero che un’auto mi travolga e devo stringere i denti per restare sul marciapiede finché il semaforo non diventa verde. Oppure immagino come sarebbe facile tagliarmi i polsi o pregusto con avidità la canna metallica di una pistola in bocca o immagino di andare a letto e non risvegliarmi più. Odio queste sensazioni, ma so anche che mi hanno portato a guardare la vita più in profondità, a trovare le ragioni per vivere e ad aggrapparmi a esse. Non rimpiango del tutto il corso che ha preso la mia vita. Ogni giorno decido, ora di buona voglia ora di mala voglia, di rimanere vivo. Non è forse questa una gioia rara?20