Per un certo tempo tutto andò, o sembrò andare, abbastanza bene, ma accadde a un certo momento che la salute, forse l’equilibrio morale – là era quasi buio –, di don Mariano, che pure aveva resistito a tante scosse, vacillasse. Disturbi della salute, acciacchi dell’età, ma soprattutto una grande depressione lo avevano obbligato a cedere l’ultimo negozio, anche se era dote di Teresina (ma il ricavato fu messo scrupolosamente da parte per lei, da venirne in possesso quando avesse raggiunto la maggiore età). Si aggiunga che egli, che mai si era deciso a occupare l’appartamento donatogli dal principe, sulla Riviera di Chiaia, trovando sempre scuse infantili per rimandare il trasferimento, alla fine vi fu costretto; lo studio del Pallonetto, un paio di stanze che gli erano state lasciate in uso temporaneo da una lettera di Brigitta Helm al suo legale, gli fu tolto da un giorno all’altro, con una ordinanza del Tribunale; e questa fu opera di Pasqualino Helm, il figlio minore di donna Brigitta, un mascalzoncello venuto a far parte della Polizia Borbonica, e l’unico della tribù che si fosse presentato a reclamare la sua parte di eredità (gli altri, probabilmente presi in altri commerci o affari vistosi in Africa, si rimisero agli avvocati). E per don Mariano, il distacco improvviso e definitivo dalla casa amata, da cui non si era allontanato neppure un’ora dopo la partenza di Elmina, fu tremendo. Egli ne uscì, per trasferirsi nel nuovo appartamento, a notte alta, poco prima dell’alba, portando con sé, su una carretta, nascosti da un telo, solo alcuni oggetti personali, fra cui una scatola di cartone che sembrava contenere forse un po’ di vento, tanto era leggera. Seduto accanto a quella scatola, pianse per tutto il tragitto, e poi, giunto a destinazione, balbettava parole – sia rivolto al cavallo, sia a qualche amico invisibile – che testimoniavano del suo sfinimento e grande confusione morale. Iniziava così la sua nuova e, ahimè, breve vita.
Si trovò a ridire (e chi si sarebbe trattenuto dal farlo?), in questa occasione, sulla nuova solitudine di don Mariano, e l’egoismo degli sposi. Ma le cose non stavano proprio così. Era stato don Mariano, e lo sapevano, quasi con desolazione, i più intimi, a non voler seguire assolutamente la figlia e il genero nella casa di Sant’Antonio, malgrado la cara Elmina avesse fatto approntare da tempo, al piano di sopra, due belle stanzette, con certi mobili dorati del Pallonetto (in questo, il Notaro si era sbagliato, qualcosa gli era rimasto), e in più lasciato a disposizione torretta e terrazza per i suoi giorni di «nuvolo». Mai don Mariano, anche prima di ricevere le chiavi di Chiaia, e come abbiamo visto neppure dopo, si era rassegnato ad accettare, se non con grande strazio, un trasloco. Sembrava che là, nella vecchia casa, fosse rimasta l’anima sua, dai tempi stessi in cui aveva conosciuto la signora Helm. E alla fine si era ridotto a obbedire (di notte, e piangendo) solo a una ingiunzione del Tribunale, ma portando con sé la scatola preziosa (bucata persino e legata con brutti spaghi) di quelle che erano facilmente ritenute, tanto la custodia era leggera, le poche lettere «d’amore» della signora Helm a lui. Cose, queste, che ci sembra anche più facile perdonare. E da quelle «lettere», e da quella casa, dono del principe, da allora non si era allontanato più, nemmeno per andare a trovare i «figli». Sedeva in anticamera tutto il giorno, e in quella elegante sala, fra specchi e consoles dorate, aveva fatto sistemare una brandina; mentre su una sedia erano appoggiati una ciotola per l’acqua e un piattino per il mangiare, che la portinaia andava a ritirare ogni giorno – estrema miseria! – alla trattoria sotto casa. La scatola, in genere, era posta presso la brandina, e qualche volta, come riferì la portinaia a un’amica, gli spaghi risultavano smossi. Segno che le lettere preziose nottetempo ne uscivano, per una accecata lettura di memorie a lume della candela, o della luna che brillava sul mare.
Altro non ci sentiamo di aggiungere, e forse non è necessario, per dire lo strazio di quella vecchiaia, insieme al declino dell’affabile intelligenza, la benevolenza e la grazia di quel signore (e lavoratore) eccezionale, una volta scomparsa colei che egli riteneva, sbagliando o meno, essere stata la sua moglie adorata.
Si può dire che pure l’affetto per la figlia ne fosse uscito appannato, ed egli, infatti, non mancava mai di rispondere, al di lei dolce: «Come state, babbo?», quando ella veniva a trovarlo, con uno stanco: «Starei meglio se fossi morto, figlia mia».
«Papà, non dite così» tremando la poverina.
Un sospiro:
«E tu, figlia mia, puoi promettermi – te la senti, davanti a Dio – di fare il tuo dovere quando io non ci sarò più?».
«Papà,» (con emozione) «voi camperete cento anni».
«E tu, Elmina, mi prometti che dopo questi cento anni farai ancora il tuo dovere? Me lo prometti, figlia mia?».
«Papà, io morirei se non facessi il mio dovere. Solo gli Angeli me lo possono impedire, ma non lo fanno» era la dolente e pur sempre sibillina risposta.
Detto ciò, a volte la poverina si appressava alla scatola, sfiorandola con la preziosa manina che aveva reso così fuori di mente il principe, e indugiava in una carezza piena di devota appassionata mestizia.
Che le «lettere» fossero, dopo la sua morte, sottratte a crudeli curiosità di eredi e forse semplici conoscenti, sembrava la disperata ossessione di don Mariano. E perché mai egli non si decidesse a distruggerle, salvandole così, mentre era ancora in vita, dal peggio o dal meglio dei giorni futuri, questo può comprendersi perfettamente da chiunque viva di ricordi, e sopravviva solo a causa dei ricordi.
Erano quelle «lettere» – per ora non possiamo chiamarle che così – il suo unico respiro.
Ma, chiaramente, l’animo di don Mariano era ormai malato, e alla figlia non era dato il bene, secondo un’ottica egoistica, di ignorarlo. Perché non dimenticheremo che suo padre era anche il suo vero Dio.
Ciò premesso, si può forse intendere perché non vi fosse una vera felicità, pur sotto la protezione di alte costellazioni belghe, nella vita dei due giovani sposi. Per Albert, ovviamente, l’impedimento era solo in quei limiti che, a volte con autentica disperazione, egli vedeva al suo ingegno, nella realizzazione di una perfetta testina (Joie). In Elmina, l’indifferenza alle testine, e loro sublime bellezza, e ai rovelli dell’arte, si mescolava a quell’amore senza fine, devoto e semplice, che ella aveva votato a suo padre. Ed ora, l’oggetto di tale amore impallidiva, svaniva. Di ferro, era la giovane anima di Elmina, ma il vivere lontana da suo padre, e anzi vederlo sparire tra gli eterni tramonti del mondo, strappava ai suoi occhi interiori lacrime di fuoco, che tuttavia mai una volta ella fece vedere ad Albert. Egli era fuori del giro magico della poveretta, e del resto, avesse pure voluto comportarsi diversamente, non l’avrebbe capita. A poco a poco, Elmina era disperata, e quasi si pentiva di quel matrimonio che aveva separato il vecchio dai giovani, affrettando la decadenza del primo, e non certo per volontà di questi ultimi, ma per il fatale disporsi delle circostanze, relative al carattere e l’età dei protagonisti. In certo senso, ella non amava più Albert (se pure mai l’aveva amato, essendo il suo cuore di donna stregato dalla grave pietà per il proprio padre). Ne conseguì un certo distacco dai pensieri, se non proprio felici, almeno sereni di prima, rispetto alla sua propria vita; distacco che, purtroppo, sfuggì ad Albert, e di questo, un po’, ella si dispiacque, come di una trascuraggine.
«Voi lavorate, lavorate alla vostra Joie» osservò ella un giorno, con amarezza (gli dava generalmente, da quando erano sposi, il «voi», secondo l’uso antico di Napoli) «e basta così. Ma del resto non vi accorgete».
«E di che dovrei accorgermi, scusate?».
«Mio padre sta veramente male, sta morendo, tanto per dirne una. Forse vi è sfuggito?».
Di queste parole – e questa verità che, però, considerava «esagerata» – Albert si risentì grandemente, e anche con dolore sincero, in quanto correva, tra lui e il vecchio Guantaio, un’amicizia naturale, spontanea, derivata dal comune disinteresse per i valori esteriori, e da una qualche passione segreta che nessuno dei due rivelava mai veramente (forse una memoria, un’idea, delle idee sulla natura celeste del mondo), e questo, assai più del rapporto familiare o patrimoniale, li legava, come non legava Albert ad Elmina; tanto che la sposa, a volte, senza esserne gelosa, trattandosi di suo padre, ne era forse amareggiata.
«Che è amico vostro, si sa; non sembra, però, che finora vi siate preoccupato per lui» diceva per mortificarlo.
Dupré, per alcuni giorni, lasciò scalpelli e marmi e varianti della Joie, e si stabilì quasi, nel senso che passava a Chiaia moltissime ore, presso il Guantaio. Da ciò, in un momento di vera angoscia, di insopportabili strane fantasticherie e rimpianto, derivò l’unica – sembra – lettera che egli indirizzò a Ingmar.
Era redatta in questi termini:
Sant’Antonio, Naples, brumaio1
Mio caro Ingmar,
sono afflitto come difficilmente ti riuscirà d’immaginare. Ti ho ringraziato a stento di tutti i tuoi doni (perduto com’ero nelle novità del mio nuovo studio e del lavoro che sto eseguendo), ma devo dirti che li darei tutti per due cose: riavere te, qui, subito, a me vicino, e ancor più di questo veder tornare in salute, e a nuova felice vita, il nostro caro don Mariano. Sai che sta molto male?
Non esce più, non passeggia, non lavora.
Prima, si vestiva e passeggiava, almeno questo.
No, è troppo difficile vivere (o capire, se non altro), e ignoro quindi se potrò più lavorare alla mia Joie.
Che dispiacere! Era quasi finita.
Vieni presto, se vuoi, caro amico, cara stella, o nuvola del mio cuore.
(Abbracci da Elmina!).
Albert
Ricevuta questa lettera, segnata, fra l’altro, da alcune grigie e brutte macchie di lacrime, Neville, diviso tra gioia e affanno per essere ancora amato dagli amici, sebbene in sì penose circostanze, subito diede disposizioni al suo segretario particolare per la preparazione di un secondo viaggio verso il Sole, cioè nel Basso Mediterraneo. Contava di essere a Napoli, viaggiando questa volta per mare, in quindici giorni, ma un incidente che gli occorse mandò il progetto per aria. Una caduta da cavallo, semplicemente, ma partire non poté più, e seguirono quindi, immobilizzato com’era a causa di un piede, due mesi tremendi. Quando ebbe di nuovo notizie dall’Olimpo, fu a firma di Elmina. Gli balzò il cuore in petto, ma poi, per altre ragioni, mancò. Infine lo agghiacciò il fatto che la firma (stentata) fosse di lei, e la dettatura anche, ma tutto il foglio fosse vergato dalla mano di Teresina.
D’altra parte, la povera Capra non avrebbe potuto, senza aiuto, indirizzare una vera lettera al Benefattore di Liegi (e aggiungiamo che non aveva sofferto nel non farlo). La lettera era del seguente tenore:
Sant’Antonio, Napoli
Illustrissimo Signor Neville,
mio marito, Albert, mi incarica di scrivervi io, in quanto si trova attualmente impossibilitato per il suo lavoro delle statue, e anche un dolore all’occhio. Mi incarica di dirVi, e mi dispiace per Voi, che mio padre, don Mariano, è ora col Signore. Una Messa sarà detta in Santa Lucia il 10 corrente mese, ore nove. Unitevi (sono Teresina che scrive) in pensiero con noi.
Ebbi la pupata. Tanto bella.2
Mio marito – sono Elmina che scrive – Vi dice che aspetta un fanciullo, e lo chiamerà come Voi. È il meno che meritate. Per me, sono indifferente: francamente, avrei preferito il nome di papà, ma non fa niente.
Da parte di mio padre, Vi mando questa catenella.
Portatela (dice papà) sempre con Voi.
Mille benedizioni dal Cielo. (Elmina).
Ora vado bene a scuola. (Sono Teresina).
La medaglia dev’essere lucidata. I due cornetti sono a parte (per gli scongiuri). Sulla medaglia è raffigurata la Chiesa Vaticana, e sul retro i Monti Somma e Vesuvio.
Il Vostro amico avrebbe molto piacere di rivedervi.
Teresina ed Elmina (le sorelle)
Su questa lettera, Neville pianse e rise, mentre in lui si faceva chiaro il moto del tempo, che fino a quel momento gli era quasi sfuggito. L’Olimpo era caduto nel mare. Morto don Mariano, distratto e forse disperato (l’occhio malato) Dupré, la Capra aveva imparato a parlare, e gli mandava quella missiva con l’aiuto della gaia sorella, e forse della bambola di quest’ultima.
Sì, in mezzo a molti altri pensieri, Ingmar si fermò molto sul passare del tempo. E gli parve di capire che altro tempo – tanto! – sarebbe passato, con misteri tanto semplici, freschezza tanto dolorosa. E dentro di sé riudì improvvisa la voce dell’uccello meccanico, il suo: «Oò! Oò! Oò!» e poi: «Oh! Oh! Oh!», come un grido, ma non si capiva (e lui almeno, Ingmar, era disperatamente sicuro di questo: che non si capiva perché non vi era nulla da capire) cosa intendesse, che terminava in un piccolo gemito abbandonato.
«Oh, felicità!» esclamò. «Oh, meravigliosa benedetta felicità! E tu, giovinezza! Ma ditemi, chi siete voi, o sorelle? Perché ci ingannate? Oh, potessi rivedervi ancora, Albert, don Mariano, Elmina, ma già so che questo giorno non è compreso, o non nel modo che io spero, fra i giorni del mio, del nostro avvenire».