Riprendiamo da altre lettere, di Nodier e Teresa, le seguenti notizie. Il bimbo nacque nell’aprile dell’anno successivo a tanti eventi (18 germinale, per Albert), e fu occasione d’immensa letizia per la famiglia della casa di Sant’Antonio a Posillipo, e per i loro amici, che avendo un po’, negli ultimi tempi, trascurato i Dupré, ora si affannavano a recuperare i meriti perduti. Grande motivo di eccitazione veniva poi dallo straordinario incanto del piccino, cui fu dato non più il nome del principe, come promesso, né quello di don Mariano o di Albert, ma lo stravagante nome di Ali Babà, che non faceva pensare a nulla di familiare o domestico, ma solo a qualche favola del Vicino Oriente. Era stata, quella di scartare nomi onorati e cari per fermarsi su un nome tanto assurdo, una iniziativa di Elmina, visto che Albert non pensava proprio al principe, ma solo a suo suocero, e Mariano doveva essere, secondo lui, il nome da dare al piccino. Strana – e contraddittoria, rispetto a quanto asserito in precedenza – obiezione di Elmina alla preferenza del marito: «il figlio è vostro, voi siete il padre, Mariano sarebbe una superfluità» (voleva dire: una esagerazione dell’affetto, un affetto che non vi compete). E Albert non poté non notare (esserne lieto era un’altra cosa, appunto una superfluità) il grande equilibrio, e forse qualcosa di più, una serenità distaccata che era al fondo dell’anima di sua moglie. Probabilmente, ella faceva una distinzione tra i suoi affetti, e per lei il nome sacro del padre non poteva essere prestato ad alcuno, nemmeno a un Dupré. E poté dirsi: «Ha mai amato davvero qualcuno, costei?». E poi, intenerito e triste, doveva riconoscere che essa aveva veramente amato, appassionatamente amato, quasi in modo religioso, suo padre, l’imprevidente don Mariano che aveva raccolto fanciulli altrui; e con quest’atto, dichiarandone intrasferibile il nome, riconoscendo al di sopra di chiunque il valore di quel nome, separato anche in questo dai Dupré e da chiunque, quel nome restava più veramente suo, nella chiesa o tempio silenzioso del cuore. Almeno, tali furono le deduzioni dell’artista. Ingmar, invece, appreso della diversa scelta, non ne riportò certo un senso di tradimento (alla cosa non teneva in modo particolare), ma sì d’inquietudine, quasi, nel dimenticarsi di lui, almeno Albert obbedisse a una sorta d’incantamento, che si faceva luogo nella sua nuova natura (come sale l’ombra su un palazzo prima esposto al sole, se dietro ne sorgono a poco a poco, silenziosamente, degli altri), e lo staccava dai vecchi entusiasmi della giovinezza. E vi era infine un’altra ragione, per cui quella scelta non lo rendeva contento: gli pareva che, portando il suo proprio nome, di lui, Neville, chiamandosi Ingmar, il bimbo sarebbe stato posto, per così dire, sotto la sua giurisdizione, e a lui, Ingmar, sarebbe stato riconosciuto qualche concreto diritto a presiedere alla di lui felicità avvenire; mentre così non poteva, o non era la stessa cosa. Insomma, era inquieto, e si prefisse perfino, quel despota, di intraprendere adesso, con vera ragione, quel secondo viaggio, che tanto aveva desiderato, a Napoli, e che l’incidente occorsogli aveva disgraziatamente impedito. Una volta là (ovviamente era il suo cuore che cercava vere ragioni), ne avrebbe approfittato per far cancellare il già registrato nome di Ali Babà, e disporne un altro, magari doppio, dove i due nomi dimenticati, di don Mariano e di Ingmar, avrebbero ottenuto la loro giusta collocazione. Nome secondario, a questo punto, poteva anche essere Babà; una piccola stravaganza si poteva accettare. Ne scrisse subito allo scultore, ma non gli pervenne alcuna risposta. Egli credette di capire che agli sposi si fosse presentato qualche altro, impensato motivo di infelicità; e provvedendo a un primo fantastico regalo per il battesimo del piccino (un medaglione, con una crocellina di zaffiri da una parte, e la figura dell’Orsa Maggiore e del Carro di Pegaso – nel fondo la Chimera, tutta in diamantini – dall’altra, opera di un geniale orafo di Liegi), regalo che incaricò Nodier di voler consegnare ai genitori del bimbo, chiese all’amico se per caso vi fossero laggiù nuovi motivi di preoccupazione, dato che da tempo non riceveva notizie da Napoli. Giunse la risposta di Nodier, e giustificò il silenzio degli sposi, e di Teresina insieme, con la notizia – che notizia, poi, non era, ma semplice riconferma – della più solare, straordinaria, dirompente felicità, causa appunto di silenzio e indifferenza per l’amico lontano. Il piccolo Albert (come secondo nome Albert era stato accettato) che tutti, però, continuavano a chiamare col barbaro ma legittimo nome di Ali Babà, dunque Babà-Albert cresceva in salute, fascino, benedizioni, ed era la gioia della casa. Dire che il padre ne era pazzo, è dir nulla. Aveva scolpito in quel periodo le sue testine più belle, per quanto ancora non fosse riuscito ad esprimere «la mia idea, capisci, Alphonse, di una cosa superiore alla comprensione umana, di cui non c’è spiegazione, e perciò rassomigliante a un gemito in un cielo di bellezza altrettanto azzurra, totale, festosa, inesplicabile». «Questa, dunque, mio caro Ingmar, la sua strampalata (e però, quanto sensibile!) emozione per la paternità». Leggendo ciò, Ingmar, che si era fatto pensoso (il nome di Albert, dopo Babà, gli sembrava adesso una contraddizione), andava chiedendosi se il suo diletto si sentisse veramente amato da Elmina, e gli pareva di no, in quanto ben sapeva, per esperienza, come un amore, anche il meno ricambiato, se autentico, non lascia più spazio e pensiero per altre figure di sogno. Comunque, giudicò che per quel periodo fosse bene astrarsi dalla sua passione per l’Olimpo napoletano; e anche perché aveva beghe politiche da seguire: e inoltre serbava in programma, da tempo, una visita in Germania, per un matrimonio che intendeva combinare tra due staterelli vicini – anche per questo pensò che una vacanza dai suoi vecchi pensieri non gli avrebbe nuociuto, avrebbe anzi fatto al caso suo. Così fu. E quasi un anno, tra un viaggio e l’altro (si spinse perfino in Turchia), passò tra grandi e fiere emozioni, alternate a squisiti divertimenti, finché non si ridusse di nuovo a Liegi, dove il giorno stesso del suo arrivo poté leggere con gioia, presto oscurata da una non gradita sorpresa, due lettere giunte in date diverse, una di Nodier, l’altra del Ruskaja, che lo invitavano contemporaneamente, per caso, in quanto i due non si conoscevano, a farsi vedere, se possibile, di nuovo a Napoli, non fosse che un giorno solo, «per apprendere strane vicende e cose, mio caro Ingmar, che alla tua esperienza, io penso, molto gioverebbero. Benjamin».
Nella lettera di Nodier, che egli aperse subito dopo, per tornare, quindi, con mano tremante, a quella del Ruskaja, vi erano dapprima notizie degli affari che Nodier aveva intrapreso a Napoli, e che procedevano assai bene, mentre la città, per quanti divertimenti e piacevolezze offrisse, per lui non andava più tanto, e meditava di venirne via per almeno un po’ di tempo, «nella nostra cara Liegi, che non dimentico».
In realtà una delusione, per Nodier, veniva proprio dai loro amici, che all’inizio erano stati la ragione prima della sua entusiastica scelta di Napoli. Per il bimbo – osservava – grande gioia, ma per il resto più di qualche ombra. «Nessun vero e profondo disaccordo, certo, ma un’antipatia dei caratteri, una cosa sottile, caro principe, divide quei due. Ovviamente, l’educazione di Babà è alla base di ogni questione, ma anche l’avversione, sempre più manifesta, di donna Elmina per l’arte del marito, che ella non giudica mai (quale educazione, veramente superiore, se non proprio istruzione, le diede suo padre!), vi ha la sua parte; ed ella non potrebbe dir meglio ciò che ne pensa, così come fa con un semplice staccare lo sguardo dalle opere di lui, se per avventura le accade di posarlo su un naso o una spalla di quelle testine. Non approva l’arte, ora mi è ben chiaro, né la cultura in genere (in questo, divinamente borbonica!): solo le virtù domestiche e familiari; e ritornando a quanto dissi più su, ella è una perfetta madre, ma quanto poco interesse emana da lei, Ingmar mio caro, per la sua creatura! Non li vedevo da vari mesi, e proprio ieri, tornando per una visitina alla casetta di Sant’Antonio (molto luminosa, devo dire, per quanto, caso strano, trattandosi di due giovani innamorati, supremamente disadorna), tornando, come ti dicevo, a visitarli, mi sono reso conto di qualche cosa che prima mi era sempre sfuggita, e questo qualcosa mi ha turbato. Era sera, il tramonto, per meglio dire; la casa era tutta illuminata di rosa dal sole calante, e Ferrantina (ricorderai l’anziana governante che reggeva l’andamento della casa di don Mariano, al Pallonetto, e appena poteva si ritirava come un pipistrello in cucina? non mi era mai andata, e mai mi andrà), Ferrantina entrò dunque, con un lume, nella stanza, per annunciare che il pranzo era servito. Ora – seguimi – mentre ciò diceva l’anziana governante, delle bambine di un tempo, se non pure di don Mariano, come a volte sarei portato a credere data la sua grande età – ma adesso è quasi bionda –, mentre ciò diceva Madame Ferrantina, la signora Dupré, che in questi tempi è un po’ più pallida, e indossava lo stesso abito rosa di quella deliziosa sera del nostro arrivo al Pallonetto, la signora Dupré, dunque, sedeva presso la finestra, cucendo un giubbettino per Babà. Udite queste parole, subito si alzò, e gettò un’occhiata dolce ma severa al nostro Albert, il quale, seduto presso la culla, si gingillava col guaglione (così chiamano a Napoli, burlescamente, anche i piccini di un anno). Questi, in piedi nella culla, sporgendosi come a un davanzale sull’orlo di quel grosso cesto, tendeva le mani verso la gabbietta del cardillo, dono mirabile che tu mandasti in segno di riconciliazione per le nozze già avversate, ricordi? Ebbene, mentre con una mano il giovane padre stringeva una manuccia di seta di Babà, con l’altra alzava e abbassava velocemente quell’oggetto desiderato davanti al naso del figlio; e il gioco consisteva in questo: che, abbassandosi con la gabbietta fin sul naso e il visetto tanto ansioso del ragazzo (inutile dirti che l’uccello, all’interno, sembrava morto, la macchinetta del suono essendosi rotta), egli, il padre, ripeteva rapidamente, in tono di canto, queste parole:
E vola vola vola lu Caddillo!
E vola vola vola... Oh! Oh!1
levando poi via, subitamente, la gabbietta lontano dalle mani di Babà, e in atto così rapido che il bimbo faceva una grande smorfia, tra pianto e risata, e allora Albert la riabbassava, gliela faceva girare davanti al viso, ripetendo tenerissimamente il grido che sai:
Oò! Oò! Oò!
Oh! Oh! Oh!
«Ed era questo ritornello, un po’ roco, quasi emozionato, che faceva scoppiare a ridere freneticamente fino alle lacrime Babà, il quale, rapito dalla gioia, ripeteva col padre:
Lucadillo! Lucadillo! Lucadillo!
e poi:
Aà! Aà! Aà!
variando, come vedi, solo il ritornello della mesta barcarola.
«Capisci, mio caro, piangevano dal gran ridere, per queste lacrime che erano nel ritornello! (Come ora sai, il bel giocattolo è rotto, e l’uccello, di suo, non emette più una nota, si limita ad abbassare appena la testina sul petto macchiato di rosso, ma loro, quei due, il canto l’hanno imparato). Era insomma un momento di strana, di pura gioia, e immagino che nessuno, neppure Sua Maestà li avrebbe mai interrotti, deliziato da quella scenetta di amor paterno e filiale; ma lei, Elmina, dopo averli osservati con calma (aveva già richiamato Albert, che non aveva risposto), si accostò alla culla e tolse dalle mani del marito, con cortesia, ma anche molta energia, la gabbietta scassata, dicendo:
«“Quante volte ve lo devo ripetere, Albert, che questa gabbietta è già rotta, e dovete lasciarla dove l’avete trovata, cioè sul mio comò. La chiavetta si è spezzata”.
«“Scusatemi!” fece pronto Albert. “Era nello scatolo dei cappelli, non sul vostro comò. Perciò mi sono permesso di prenderla”.
«“Io non dico bugie. Non era nello scatolo dei cappelli”.
«Se avesse mentito Albert, per fanciullaggine (ma io non ricordo che lo abbia mai fatto da ragazzo, tanto è caro e sincero), o mentisse lei per animosità verso lo sposo, non saprei dire; purtroppo, il bimbo cominciò a urlare come un pazzo (mai sentita, credimi, Ingmar, una voce così folle e appassionata, ma il piccolo adora suo padre, mentre per lui Elmina è un po’ una nemica), e a dimenarsi e torcersi tutto. E divincolandosi e tremando gridava, nel suo ridicolo furore infantile:
«“Caddillo a Babà! Caddillo a Babà! Caddillo a Babà! Caddillo a Babà!” diventando roco e perdendo, a momenti, la voce dal fuoco che aveva in cuore (ma non spaventarti, perché così sono tutti i piccini di quella età, quando li si contrasta freddamente).
«Senza far conto di sua moglie, Albert lo prese in braccio, con un impeto e una compassione, Ingmar mio, che mi sentii rabbrividire, e tremai per Elmina. Ma ecco che ella, come si trovasse semplicemente davanti a due piccini da separare mentre litigano, e non davanti al suo nobile e avvenente sposo, e al suo tenero figlioletto, toglie con forza il bimbo dalle braccia del padre, e lo consegna con calma a Ferrantina (il nome ti dice quanto questa anziana e, mi dicono, devota serva, sia, nel carattere, come ferro), prende dalle mani di questa il candeliere, e tranquillamente, avviandosi verso la scala, fa:
«“E speriamo che la lezione vi è servita” senza badare, come vedi, al congiuntivo.
«Andammo a tavola, poco dopo, e ancora si sentiva Babà gridare da una stanzetta di sopra, e la voce roca della vecchia cercare di calmarlo. Gli occhi mi si riempirono di lacrime, ed ebbi l’impressione che quei due, il Figlio e il Padre, fossero come Dio Padre e Gesù Bambino, una bontà unica, sola, indivisibile (con altri), inseparabile. Ma Elmina, tra loro, non è certo lo Spirito Santo.
«È una creatura, ora me ne accorgo, taciturna e dura».
1 Questa Canzone del Cardillo, che diamo qui come conosciuta fin dal Settecento, è storicamente datata, invece, ai primi decenni di questo secolo. La dislocazione da un secolo all’altro non è dovuta a mancanza di riguardo per la storia della canzone, piuttosto alla capacità di alcune canzoni, o canti popolari, di fissarsi nella memoria degli uomini, quando udite da fanciulli, senza più barriere di tempo, come alte cose naturali.