Una questione familiare. Chiusi a chiave! Grandi rivelazioni e, su iniziativa del Duca, la terza domanda di matrimonio. Dichiarazione (o preghiera?) di Elmina al Cardillo e primi provvedimenti di Nodier nei confronti del Portapacchi

Ridestandosi, con la suprema indifferenza dei morti – ma egli non lo era, solo la vita delle passioni, nel suo cuore, era spenta – Neville prese coscienza di trovarsi tuttora nella vecchia cucina, presso il tavolo, ma completamente dimenticato da tutti. Per fare qualcosa, si era messo a sgusciare piselli, e aveva anche coscienza di stare sperando, nel suo cuore, che donna Elmina lo richiamasse, sia pure con un rimprovero: «Lasciate stare quel lavoro, signor Neville, non è cosa vostra». Invece, ella si trovava seduta al tavolo, ma dall’altra parte, rossa in viso di collera, e guardava qualcuno che era entrato da un momento. Quel qualcuno era l’eccellentissimo mago di Caserta, il Benjamin Ruskaja.

Doveva essere entrato da appena qualche attimo, ma molte ore dovevano essere trascorse da quando si era udito il Cardillo canzonare tutti quegli sventurati. Era notte, e una piccola luna gialla sorgeva nel riquadro azzurro della porta sul giardino. Nella stanza (lo diciamo subito per evitare confusioni o ritardi) si trovavano adesso anche i due fidanzati e il Notaro, e tutti, poi, sapevano che nella stanza accanto, la stessa da cui era uscita la farfalla nera due notti prima, la signora Helm e don Mariano, rinchiusi a chiave dall’esterno, protestavano per uscire. C’era Pasqualino Helm, davanti alla porta, piagnucoloso e implorante, e non smetteva di ripetere:

«Maman, ancora un momento e poi vi facciamo uscire... Stiamo parlando».

«Traditore del sangue tuo!» lo ingiuriava, con passionalità mediterranea, donna Brigitta, che ardeva dall’ira per essere stata esclusa dalla trattativa (il suo carattere violento aveva suggerito questa cautela al buon Pasqualino).

«Maman, ancora un momento, e poi apriamo la porta... Stiamo parlando... I vostri interessi sono ben tutelati» ripeteva monotono l’appuntato.

Ma:

«Traditore del sangue tuo!» lo incalzava, sempre più implacabile, la moglie del Guantaio; al che, facendo orecchio da mercante, con la pazienza inalterabile del figlio più amato, don Pasqualino non si scomodava; e assai blando:

«Ancora un momento, maman, lasciateci parlare!» con l’occhio di rapace, ma non malvagio, sul Duca.

Questi – ecco il motivo dell’ira della signora Helm e di sua nipote, ma ira di diverse, anzi opposte radici – aveva posato sul tavolo un sacchetto di tela grezza, molto rigonfio, dalla cui grossa trama traspariva uno scintillio d’oro. Veri ducati, e d’ignota provenienza. Ingmar, invece, conosceva perfettamente, ma con indifferenza, la loro provenienza: e che il Duca li aveva ritirati dal di lui conto, presso la Banca Inglese di Napoli, quella stessa mattina.

«Per voi, donna Elmina!» aveva detto imperiosamente, cosa in lui, data l’eterna dolcezza di modi, assai singolare, il nobile polacco. «Sazierete così quella fiera del signorino Helm, e di sua madre... Con Sasà,» aveva aggiunto minaccioso «faremo i conti in un secondo momento. Non ce ne dimentichiamo sicuramente».

Mentre donna Brigitta, o colei che abbiamo riconosciuta, anche senza vederla, come la Voce Acidula, continuava a gridare dall’altra stanza: «Pasqualino, apri la porta! Don Mariano, qui mi si insulta... Don Mariano, difendete vostra moglie!», mentre risuonavano tali proteste, Sasà era scoppiata in un pianto dirotto:

«Paummella buo-na! Paummella buo-na!» ripeteva in modo da spezzare il cuore degli astanti, umile e sommessa.

«Si è pentita, dunque» pensò il principe, ma senza gioia.

Quasi avesse letto nel di lui pensiero:

«Mia figlia non c’entra» aveva ribattuto, calma, la vedova Dupré.

«Ah! Non c’entra?» gridò, quasi, il Duca di Polonia, l’amico intimo dell’eroe di questa storia.

«Paummella buo-na! Paummella buo-na!» gemeva la disgraziata.

«Salvo che ha rovinato Lillot, con le sue manine piccine piccine! La penna, ora, si è staccata! Ecco cosa gli ha fatto!» gridò più forte il Duca. E a Madame Pecquod: «Signora Ferrantina, questa ferita si deve disinfettare».

«Sale e aceto! Sale e aceto! Subito! E un po’ di carta di maccheroni» si affrettò a dichiarare Ferrantina.

Il Portapacchi, inteso che si parlava di lui, tentò di fuggire.

«Piccerì, statti fermo! Bambino, se non ti disinfetti muori!» lo aggredì, rude, il nobile. «E butta via» soggiunse «questa brutta penna tutta sporca».

Con un solo dito, la spinse a terra, senza badare alla disperazione del Folletto.

Ma a donna Elmina questa non era sfuggita, e pietosamente si chinò e raccolse la penna. Il «malato» allungò la sua rossa zampetta (aveva una zampetta di pulcino, ora) per riprendersela (e che visino disfatto, aveva!), ma ancora il Duca si oppose, e questa volta fu Ferrantina che gli rimise, con decisione, la penna fra le braccine piumose. «Tanto,» borbottò tra sé in francese «penna o non penna, il ragazzo non ha più tanto tempo davanti a sé. Le sue ore, Dio le ha contate!».

E fu a questo punto che al principe tornò in mente la scena di tanti anni prima, nel solitario cimitero di Napoli, e le date e le diciture terribili, apparse per un attimo e subito dileguate, sulla lapide: reali anche se confuse profezie, che si erano poi avverate per i Dupré padre e figlio, mentre la terza, per Hieronymus Käppchen, appariva ora incombente, minacciosa. Erano infatti i primi anni del nuovo secolo. E a questo punto, la vita dello sventurato Folletto era data come cessata.

«Vedo che siete superstiziosa, cara Ferrantina» qui il Duca con un cattivo sorriso.

«Per forza! Le cose si devono sempre avverare; sono scritte, signor mio – questo è ciò che chiamate superstizione –, perdonate a una povera donna ignorante».

«Ignorante? Voi sapete tutto, cara la mia Ferrantina... Madame Civile... e in questa storia ci avete messo del vostro... per distruggere una famiglia».

«La famiglia, un tempo, ero io... io la vera moglie di don Mariano... la vera e la prima!» piangendo la vecchia serva.

«Zitta voi... di là!» gridò furiosa la signora Helm (prima, per il mondo, signora Civile).

Parole grosse, che però non lasciarono nessun segno nell’aria, salvo il pianto sommesso di Hieronymus. La vecchia (e prima, per la verità delle cose, Madame Civile?) strusciò sale e aceto, come usava allora tra i poveretti per piccole contusioni, sulla fronte del Folletto, concludendo con un impacco della nominata carta di maccheroni, che gli assicurò sulla fronte con un fazzoletto, mentre il Duca e Nodier cercavano di quietare il pianto, o per dir meglio pigolio, sconsolato dell’orfano. Tutt’e due le manine di questi erano diventate zampetti – e dunque una di quelle metamorfosi, in felino, capretto o pulcino, di tutte le volte che il Portapacchi aveva paura, si stava adesso verificando, ed era brutta da vedere. Con gli zampetti, egli non poteva rimettersi la penna adorata sul capo, ma lo tentò; alla fine, disperato, la prese in bocca.

(Oh, se lo avesse visto lo studente Watteau, quale trionfo sarebbe stato per lui!, pensò smarrito colui che lo contemplava). Già, inoltre, gli spuntavano baffi bianchi sulle povere gote, segno che la metamorfosi era di tipo misto, e i trecento anni, nel suo portamento muto, ora li dimostrava tutti.

Un gran silenzio gravava sulla casa.

Si riudì la voce canzonatoria e dura del Duca:

«Voi, Madame Civile (Pecquod era solo il vostro nome di ragazza), discendente di artigiani francesi, maestri nella lavorazione del guanto in cerca di fortuna a Napoli nel ’34, quando Napoli divenne Regno, voi, Madame Civile, vi siete completamente vendicata. Il vostro amore legittimo per don Mariano non era tanto legittimo, se il Cardillo non voleva. E il Cardillo non voleva! E siete stata voi, perdonate, che lo avete ucciso, o creduto di ucciderlo, quel venerdì santo, accusando la povera Elmina e, più tardi, questo sventurato Berrettino germanico, per meglio dire fanciullo della natura, incapace di difendersi perché privo di parola. Francia e Germania, una storia che vi brucia eternamente il sangue – gelosia, confessatelo! – e avete rovinato così tanti bambini e ben due famiglie. Elmina, Floridia e la stessa disgraziata Soricinella (Nadine Dufour, per la Storia, il cui nome figura ancora sulla lapide, figlia di una domestica e malvagiamente accusata) morirono così al mondo; e, anche per questo, la nostra ingenua Alessandrina ha appreso le vostre arti... Vola, la disgraziata, mentre Berrettino è un pulcino di razza, spesso un capretto, che si rifugia disperatamente in un randagio (e le sue debolezze morali sono ormai diventate la sua malattia... di ciò muore!). Senza dire che li avete messi voi, l’uno contro l’altro, i due bambini, come già un tempo le due damigelle del Pallonetto...».

«Mi accusate anche della morte di quello sciocco dello scultore, e di suo figlio Alì... suppongo» la vecchia con aria sconvolta.

«Questa rivelazione tocca a voi... Ma sbrigatevi».

«Quella morte, se lo volete proprio sapere, fu dovuta al Cardillo, che essi avevano tanto amato!» fu la risposta un po’ trionfante dell’ex operaia. «Per il resto, devo ammettere che è andata così. Su una sola cosa non potete errare: sono e resto borbonica, devota per la vita a Sua Maestà Dio Guardi, e questo solo – la medesima devozione – mi ha fatto perdonare, alla fine, la signora Dupré: che è borbonica abbastanza...».

Questa dichiarazione lasciò indifferenti, per varie ragioni, gli astanti, meno uno.

«Credete, dunque, che il Cardillo nuoccia a chi lo ama?» con una cupa ansia, che gli era nuova, il principe.

«È così... Distrugge chi lo ama... Perché è la nostra memoria, signore... il desiderio dei giorni belli... i giorni impossibili, che tutti abbiamo incontrato... almeno una volta, nella vita...». E la poveretta, che era seduta, si alzò e andò verso i fornelli. Tolse il coperchio alla pentola.

«È piena di lacrime, ma un poco di sale ci vuole lo stesso» disse tra sé.

«E io che vi credevo una signora... una donna buona!» sibilò la voce di Pasqualino Helm.

Si udirono ancora colpi ripetuti e voci di trionfo dalla stanza dove erano chiusi i prigionieri:

«Figlio mio, ora vedi come tutti, anche tu, vi siete ingannati sul conto di questa donna discreta (così pareva), in ombra... che reggeva tutta la casa. Ma io lo capii fin dal primo istante... chi era veramente, e tacqui sempre solo per amore della pace... La colpa, però, fu di questo tuo secondo (si fa per dire), generoso e insensatissimo “padre”, che tenne tutta la storia per sé... non disse mai di averla sposata, e che il Cardillo anche adesso era contrario; si opponeva al suo nuovo amore... comunque, non lo interpellò...».

«Egli solo, dunque,» pensò il principe dell’uccello fatale di questa storia «è il vero demone di questa casa, e non Berrettino... Non lo sapevo, non lo onorai... non gli chiesi mai alcun parere, ed egli si prese gioco di me. Potrò mai sottrarre la piccola Elmina» (si espresse proprio così, riferendosi chiaramente all’apparizione sui Gradoni) «al suo potere senza tregua... ai suoi comandi implacabili, senza essere distrutto? Ma credo che tutto sommato dipenda da lei... È lei che si deve opporre... rinunziando al primo dei comandi dell’Uccello, il suo amore senza fine per quest’orribile Capretto. Là, nel suo amore così insensato, ha sede la schiavitù, la perdita di donna Elmina al cielo del vivere, che ardo di offrirle io. Oh, potessi liberarla da questo dovere di morte!».

Risuonò, dietro la porta, con una nota di grande ansia e quasi di delicata consapevolezza, la voce di don Mariano:

«Elmina, figlia cara, tu a questa povera donna e a questo povero uomo di tuo padre, ora li devi perdonare. La vita è passata. E chi l’ha pagata più di tutti» (con sentimento) «è stato quel povero ragazzo di mio genero, con Alì Babà, e anche questa Paummella, ora, che vola sempre e ha pensierini cattivi... Non parliamo del povero Gerontuccio Käpp, e di sua sorella...».

«Papà, non preoccupatevi, io non sento nessun dolore» disse la voce dolce di Elmina.

«E quando mai quella ha sentito qualcosa» brontolò nell’aria la voce di fuoco di donna Helm. «Quella non sente niente per nessuno. Li vede morire tutti: le basta realizzare qualche risparmio... purtroppo anche sul caffè della mattina».

Di nuovo, a questo punto, suonò con fortissimo accento, e un che di straordinariamente giulivo, e insieme ringhioso, la voce del Duca rivolto a donna Elmina:

«Cara donna Elmina, e non più signora Dupré, ora avete certo sentito e valutato ogni cosa; vi chiedo dunque apertamente, davanti a tutti gli astanti: volete cambiare la vostra vita, rimaritandovi subito con l’uomo più degno e generoso del mondo? Tale, a mio avviso – perdonate la presunzione –, è Ingmar Neville, principe di Liegi, duca di Braganza, diplomatico di fama e, inoltre, mio collega apprezzato in scienze negromantiche. Voi lo conoscete ormai da dieci anni. Adotterà inoltre vostro fratello, che sfuggirà così alla sentenza; e sarà per lui un educatore, di cui – se permettete – ha proprio bisogno, e anche un buon padre».

Si attese a lungo la risposta di Elmina.

«E questo ve l’ha detto l’America, con la sua Costituzione, che la felicità in terra esiste, e anzi è il primo dovere?» sibilò, in disparte, la voce ironica di Ferrantina. «Ma essa pure è stata ingannata, perché la realtà, signor mio, l’America non la sa... non sa dove ci troviamo... ciascuno di noi».

«E sarebbe?...» beffarda la voce di Pasqualino Helm, che aveva sentito.

Ma anche queste parole erano destinate a spegnersi nel silenzio. Una sorta di dolorosa oscura emozione vibrava nell’aria.

In quanto al principe, quell’uomo così autorevole e quasi temuto, tremava adesso come un bambino inseguito dagli Spiriti per le scale di casa,1 o anche come un esploratore spiato da una tigre nascosta dietro un albero. Poteva salvarlo solo, sebbene per un momento, un nuovo intervento del Duca: ma la cara voce non fu udita. Piuttosto – ferma, cortese, ma inesorabile – suonò la voce, così musicale e dolce un tempo, della regina di questa storia.

La ricordiamo, così come fu registrata nel cuore di lui, eternamente.

Era rivolta, per suprema crudeltà, al di lui amico.

«Al signor Neville, signor Duca, sono molto obbligata per le sue cortesie verso mio marito, e per il terzo matrimonio che mi propone in soli dieci anni: ma non è un uomo simpatico, né devoto a Sua Maestà (che non è re di Napoli, né di altri luoghi di questo mondo). I suoi doni li ho sempre dati via, e i suoi prestiti (per l’atelier) non li voglio. Ho ceduto già Monsieur Nodier a mia sorella Teresina. Monsieur Nodier si premurerà di riscattare, in buon accordo col mio fratellastro Pasqualino, la Casarella. Gli lascio anche Sasà, e concedo fin d’ora la mia approvazione al suo matrimonio col figlio di donna Carlina Watteau... quando ambedue le creature saranno cresciute. Io sono, e resto, camiciaia. Mi porto appresso il mio fratello adottivo – parlo di Gerò, sapete, Hieronymus Käppchen è un nome difficile –, ritorno, spero, da donna Violante. Mi darà un letto in qualche stanza di servizio. In quanto a Lillot capirà che questa casa non è più nostra, ma avrà sempre vicino sua sorella Elmina, e sarà quella la sua vera casa. È vero, Lillot,» rivolta al vecchio piccino «è vero che perdonerai alla tua povera Elmina, bimbo mio? Questo vuole il Cardillo, e con lui gli Angeli del Cielo – noi lo abbiamo capito – e questo faremo. E in quanto al signor Neville» aggiunse guardando lontano, al di là di quel viso straziato e incredulo «so che anch’egli mi perdonerà se dico di no, perché sento, e anche lui la sente, spero, la voce del Cardillo. Noi dobbiamo dimenticarci l’uno dell’altro, fin quando il Re della vita vorrà così – perché questa è la nostra regola, di obbedire al Re: lo dico anche per questo povero bimbo mio – non dimenticate il suo nome, signori miei, e di quanto patì. Ma insieme rivedremo i bei giardini dorati della nostra patria, io lo sento... No, non Napoli... già questa pena è finita... Non è vero, bambino mio, che hai capito, e non vuoi più la penna? Ti duole ancora, la ferita?».

Gerontuccio (qualcuno lo aveva guardato) faceva cenno col capo di sì, di sì.

Lo prese tra le braccia, perché il piccino sembrava svenuto tanto era bianco (come un certo nobile molto alto all’altro capo del tavolo) e anche il principe sembrava prossimo a cadere. Ma Ingmar trovò ancora la forza di tacere, silenziosamente avvicinandosi ai due, e di riappoggiare sulla fronte fredda del Folletto – da cui scivolava in quel momento l’inutile impacco di sale e aceto – la fatidica penna di gallina, simbolo per il fanciullo della vita amata e perduta, vita che adesso definitivamente lo abbandonava.

Un generale mormorio di approvazione (e perplessità?) chiuse la scena, e si udirono ancora per un po’ voci – di Spiriti, di Fidanzati, di Generosi, d’Insensati e di povere Governanti e Madri inutili – commentare il tutto; si udì ancora, mentre il Duca si allontanava scontento, il piagnucolio lamentoso della Paummella, e il mormorio del piccino di Colonia che finalmente parlava, le prime e forse ultime parole della sua minuscola e terribile vita, tutte contraddittorie, certi: «Nein... Nein... Nein...», e poi «Ja... Ja... Ja...», sempre abbassando e rialzando il capo, e che cosa rifiutasse, e insieme accettasse fra i singhiozzi, questo non si capiva.

Suonò vicino al principe – ma egli non vi fece caso – la voce di Alphonse Nodier, sommessa ma stranamente fredda e risoluta:

«Mia cara Teresella, fate, orsù, qualcosa anche voi... Allons... Vite... Nello studio c’è ancora la scatola coi buchi – provenienza Colonia – nella quale il fanciullo dimorò a lungo, sotto il focolare del Pallonetto... Datele una spolverata, e portatela qua: rimetteremo il piccino là dentro, ormai per la casa non può più circolare... ha le gambine addormentate... inoltre tutto il suo aspetto è sconveniente».

Un silenzio di piombo, ma distratto e disattento, coprì la triste esortazione.

«Molto angelico e degno di Dio, invece!» si udì un istante dopo la voce serena di Elmina «come non certo il vostro, Monsieur Alphonse – e del vostro Paradiso. Avete voluto ogni bene della terra, e di ogni bene vivrete... finché il tempo vi proteggerà... Non dura a lungo, sapete. Vi raccomando a Teresella... e raccomando al Cardillo il vostro amico. E noi, andiamocene, anima mia».

E con queste parole mormorate al fanciullo, alla sua testina già abbandonata sul petto, la vedova si mosse verso la porta della scala.

Ma prima di uscire, mentre con un braccio reggeva Lillot, con la mano libera aveva spazzato via, come un vento, tutti i ducati ammucchiati sul tavolo. Che andarono a spargersi dappertutto, rotolando in ogni angolo di quella fredda caverna, spersi e scintillanti come mezzelune in ogni crepa del pavimento.

«Il vostro amico!». Questo ricordava Ingmar, mentre ormai la carrozza del Duca correva sulla via di Caserta – o forse erano già oltre le Alpi e la boscosa Austria –, questo ricordava, e non sapeva più che ore fossero, né il giorno soprattutto, né il luogo sapeva più. Che fosse, quella dove si trovava, la carrozza del Duca lo capiva dal suo lusso, lo splendore blu delle cortine, e il rotolio morbido delle ruote, dal regolare e armonioso scalpitio dei cavalli. Il Duca stesso, dopo la orribile scena, lo aveva accompagnato alla carrozza, che era in attesa davanti al giardinello; lo avrebbe seguito, aveva promesso, su un’altra. Voleva lasciargli piangere, aveva detto, «tutte le sue lacrime». Ma il buon principe, di lacrime non ne aveva più, ed era solo.

Tutti scomparsi: donna Elmina, il Duca, Sasà, i Fidanzati, Ferrantina, le «voci» dei suoceri, Pasqualino, il Notaro, e soprattutto l’infelice Portapacchi. Lo rivedeva adesso, a lampi rapidissimi, nel buio azzurro della notte: sui Gradoni, nella stanza dello studente, lungo la quieta Scalinatella, e sempre col piccolo pugno teso contro di lui, Ingmar, e un sorriso amaro... forse non un sorriso: una espressione estatica, supplichevole... finché non reclinava il capino, e dormiva – o così semplicemente sembrava?

«Nein... Nein... Nein...» e poi: «Ja... Ja... Ja...» in un povero pigolio, chiudendo gli occhietti.

Ed Elmina, la bella e dura sorella, dov’era più?

Oh, che cosa avrebbe dato perché fossero ancora i bei giorni in cui egli progettava con gli amici il suo lieto viaggio verso il Sole, nella misteriosa e affascinante capitale mediterranea; o più tardi, quando si preparava a tornare a Napoli e rivedere la bionda Elmina, con tutta la dolcezza e l’ingenuità di un cuore giovane, anche se eternamente sdegnato. Allora, non c’era ancora il piccolo «fratello».

Richiuse gli occhi... li riaprì, e non solo la luna sui boschi di Caserta e dell’Austria, o sulle finestre di Chiaia o di Sant’Antonio... non solo la luna era scomparsa, ma tanto tempo era già passato.


Conclusione provvisoria del «Cardillo addolorato»

1 Esperienza toccata, una volta, anche a chi scrive queste pagine.