Dona a ciascuno la sua parte: / al prato l’erba / al fosso la primula, / al cipresso la bacca. / [...] Ad ogni muro la sua lucertola, / ad ogni tegola il suo muschio, / ad ogni vicolo il suo gatto / ad ogni gatto il suo gomitolo. / Ad ogni attesa il suo ritorno, / [...] ad ogni morto la tua vita.

(Zarri, PG 30-31)

Struttura anaforica hanno il Cantico di Frate Sole, di san Francesco d’Assisi, parecchie delle Laudi di Iacopone e molte terzine dantesche. Struttura anaforica, per citare ancora un esempio fra gli innumerevoli in prosa e in poesia, ha La storia di Montale, con la ripetizione insistita del tema:

La storia non si snoda / come una catena / di anelli ininterrotta / [...] / La storia non contiene / il prima e il dopo / [...] / la storia non è prodotta / da chi la pensa e neppure / da chi l’ignora. La storia / non si fa strada, si ostina...

Come si vedrà a conclusione della presente sezione, l’anafora è la manifestazione più evidente del parallelismo.

Procedimento anaforico è pure il polisindeto (a cui si è accennato all’inizio del presente paragrafo 2.17:A): coordinazione mediante congiunzioni ricorrenti. Nelle lingue ove esistono congiunzioni enclitiche (cioè non accentate e unite alla parola che le precede in modo da formare con questa un’unità provvista di accento: in latino -que, -ve; in greco te) il polisindeto ha la configurazione dell’epifora ([6]): “tectumque laremque / armaque Amyclaeumque canem Cressamque pharetram” (Virgilio, Georgiche, III, 344-345); nella trad. it. (“e la casa e il focolare e le armi e il cane Amicleo e la faretra cretese”) il polisindeto è anaforico.

Come tipo sintattico è ovvio trovare il polisindeto in ogni genere di comunicazione linguistica, com’è ovvio trovarvi la coordinazione asindetica. Censimenti e campionature dell’uno e dell’altro procedimento potrebbero mostrare le differenze di effetti retorico-stilistici ottenuti usando alternativamente l’uno o l’altro. Nella lingua letteraria la frequenza relativa di ciascuno dei due tipi è in grado di contrassegnare lo stile di uno scrittore o di un’opera. Ad es. il discorso di Manganelli, in RV, si presenta come una lunga serie di catene anaforiche polisindetiche puntellate a loro volta sui ricorrenti E dunque..., che formano il polisindeto di base, e contenenti, al loro interno, vorticose successioni di asindeti. Un esempio di coordinazione polisindetica di frasi:

E dunque sosterete. E dopo qualche minuto di sosta vi accadrà di sentire un rumore lieve, e comincerete a chiedervi: rumore o voce? E di che o di chi? E come descriverlo?

(Manganelli, RV 7)

dove si noti la mescolanza del polisindeto detto copulativo (e...e...) col disgiuntivo (o...).

Polisindeto di membri di frase:

ma per acquisto d’esto viver lieto / e Sisto e Pio e Calisto e Urbano / sparser lo sangue dopo molto fleto.

(Par., XXVII, 43-45)

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge / et fiumi et selve sappian di che tempre / sia la mia vita...

(Petrarca, Canz. XXXV, 9-11)

Polisindeto nel coordinare frasi di diversa struttura e loro componenti:

Tu vuogli udir quant’è che Dio mi puose / ne l’eccelso giardino / [...] // e quanto fu diletto a li occhi miei, / e la propria cagion del gran disdegno, / e l’idioma ch’usai e che fei.

(Par., XXVI, 109-115)

Polisindeto seguito dall’asindeto, in due serie anaforiche (e... e... e... / nel... nel... nell’...):

Sprofonderò nella tenebra divina [...], e in questo sprofondarsi andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza, e in quell’abisso il mio spirito perderà se stesso, e non conoscerà né l’uguale né il disuguale, né altro: e saranno dimenticate tutte le differenze, ǁ sarò nel fondamento semplice, ǁ nel deserto silenzioso dove mai si vide diversità, ǁ nell’intimo dove mai nessuno si trova nel proprio luogo.79

(Eco, NR 503)

[6] L’epìfora o epistrofe (gr. epiphorá “il portare in aggiunta”, “conclusione”; epistroph “conversione”; antistroph “il volgersi indietro”; donde i calchi latini: desitio, conversio, reversio) è figura speculare all’anafora, poiché consiste nella ripetizione di una o più parole alla fine di enunciati (o di loro segmenti) successivi (configurazione: /...x/...x/):

Assenza di senso: distruzione del senso, perdita del senso, constatazione che in nessun momento vi è stata traccia, indizio, sintomo di senso

(Manganelli, RV 91)

Noi venivamo saziati di colpa, quotidianamente; i nostri istinti erano colpa; le visioni erano colpa; i nostri desideri, i nostri sensi erano colpevolizzati.

(Merini, AV 89-90)

livellatori della lingua buona per tutti, come certi vestiti grigi a prezzo fisso, buoni per tutti

(Gadda, TeO 96)

La civiltà è una questione di piedi al caldo. Dove i piedi sono trattati bene, il resto va bene.

(Flaiano, OSP 356)

E si ritorni al passo di Auerbach già citato fra gli esempi di [2]:

il potere di uno spirito che, esponendo la propria vita, acquista potere sulla vita...

(Auerbach, LLP 97)

Anafore ed epifore instaurano parallelismi tipici della prosa oratoriamente sostenuta. Figure caratteristiche dell’insistenza deprecatoria, esse si raccolgono a piene mani nelle suppliche, nelle imprecazioni, nelle preghiere. Epifore sono anche le esclamazioni (alleluia), le invocazioni (ora pro nobis), le formule conclusive (amen), ricorrenti in qualità di ritornelli alla fine di frasi o cola.

[7] La combinazione dell’anafora con l’epifora si chiama sìmploche (gr. symplok “intreccio, congiungimento”; sýnthesis “combinazione”; koinótēs “comunanza”; lat. complexio “congiungimento”; conexio, conexum, communio, tutti calchi sinonimici dai corrispondenti termini greci). Configurazione: /x...y/x...y/. Negli esempi seguenti l’anafora è segnalata dal grassetto, l’epifora dal corsivo; la combinazione che ne risulta (la simploche o complexio) può essere di natura polittotica (cfr. [9]).

La successione di inizi anaforici e di ritornelli come epifore dà alle strofe della Laude VI di Iacopone la struttura di simplochi; riportiamo solo i vv. 10-13:

Guàrdate da l’odorato, lo qual ène sciordenato, / ca ’l Segnor lo t’ha vetato: / guarda! // Guàrdate dal toccamento, lo qual a Deo è spiacemento, / al tuo corpo è strugimento: / guarda!

Quanto osservato poco fa per anafora ed epifora nelle preghiere, nelle invocazioni ecc. vale naturalmente per le due figure congiunte.

Dammi la pace [...] Una pace forte e senza cedimenti, una pace virile e senza debolezze, una pace rischiata e senza fughe, una pace combattuta e senza tregua.

(Zarri, PG 145)

Anafora, epifora e simploche sono figure del parallelismo, che è la collocazione ‘in parallelo’ di suoni, di parole, di forme grammaticali, di strutture sintattiche, di cadenze ritmiche: dei componenti, insomma, del discorso su tutti i livelli della sua organizzazione. La retorica classica ha classificato i fenomeni del parallelismo come parisosi, omeoteleuto e omeottoto (cfr. 2.17:[28], [29] e [30]): le “figure della corrispondenza dei membri”, nella sistemazione lausberghiana. Corrispondenza come “equivalenza”, di posizione e di composizione, operante nel linguaggio poetico, secondo la nota teoria di Jakobson (1966:181-218; ma cfr. anche la riformulazione di Ruwet 1979 [1975]).

È stato giustamente notato (A.L. Lepschy 1983:802) che il parallelismo

può esser considerato come una forma generale dell’anafora, come ricomparsa di una stessa struttura grammaticale, anche in mancanza della ripetizione di singoli elementi lessicali.

Sarebbe possibile (e molto utile) riordinare le figure del discorso secondo il principio della ricorrenza di forme, funzioni e posizioni. Si vedrebbe allora l’anafora assumere il carattere di struttura-modello della ripetizione: un ruolo più generale di quello che le è stato assegnato dalla retorica classica e coincidente in parte con ciò che la linguistica odierna intende per ‘anafora’. Per esempio, l’anadiplosi verrebbe interpretata come una ripresa anaforica di un’espressione mediante la replica di questa; la climax come un’anafora concatenata. La collocazione dei membri in parallelo, che è costitutiva dell’anafora, permette di accostare a questa la struttura dell’antitesi (2.18:[8]). Non lo fanno i modelli classici; ma lo richiede la lettura dei testi, in particolare dei testi poetici. Per Anna Laura Lepschy, che analizza anafore e antitesi della Gerusalemme liberata come forme del parallelismo,

l’antitesi, in quanto combinazione di due termini opposti ed equivalenti, appare quasi come un caso particolare dell’anafora in quanto combinazione di termini equivalenti per la loro identità (o parentela all’interno di una famiglia lessicale).

(A.L. Lepschy 1983:802)

Nella strutturazione retorica del poema tassiano (ma l’osservazione può valere anche per altri testi) l’anafora è responsabile “dell’effetto di fluidità, di scorrevolezza, di fraseggio legato invece che sincopato” (ivi). Se questo è uno dei possibili risultati dell’uso di strutture anaforiche, lo si deve al carattere più generale dell’anafora. Per quanto riguarda la poesia, l’anafora è

la figura che meglio sembra rappresentare l’organizzazione del testo poetico, il suo essere strutturato, il suo consistere di parallelismi (ai vari livelli: fonologico, lessicale, grammaticale, metrico), il costante e necessario “ritorno” di elementi equivalenti, indicato ancora una volta da Jakobson, e che ci ricorda l’accostamento freudiano fra la coazione a ripetere e la natura dell’arte, e il piacere derivante dal riconoscimento del noto nell’ignoto, insieme al carattere inquietante (unheimlich) per cui nel noto che ritorna c’è qualcosa dell’ignoto: l’elemento ripetuto è anche diverso, a volte addirittura antitetico...

(A.L. Lepschy 1983:802)

La seconda sottoclasse delle figure della ripetizione è caratterizzata dalle differenze fra i membri (cfr. fig. 8), differenze provocate o variando la forma e la funzione sintattica delle parole, o usando le medesime con sensi diversi nello stesso contesto.

Nella prima condizione sono implicite due possibilità: che a variare sia o solo una parte dell’involucro verbale, oppure la parola tutta intera. In questo secondo caso abbiamo a che fare con la sinonimia; nel primo caso, con figure considerate, tradizionalmente, come varianti della traductio (“trasposizione”) o gioco di parole. Si gioca sulla somiglianza puramente esteriore dell’involucro verbale (paronomasia), si sfruttano le variazioni funzionali legate alla flessione (polittoto), oppure l’identità della radice (figura etimologica).

La seconda condizione (il significante permane intatto mentre cambia il significato) consente di sperimentare monologicamente (nella diafora) o dialogicamente (nella antanaclasi) le differenze di significato che una ripetizione può indurre.

In ogni caso si accostano ingegnosamente forme diverse della stessa parola, omonimi e forme polisense. Esempi classici di traductio si trovano in Rhet. Her., IV, 14, 21:

Vĕnĭam ad vos, si mihi senatus det vĕnĭam (“Verrò da voi, se il senato me ne darà il permesso”)

che è un caso di omonimia (intraducibile in italiano);

amare (amari) iucundum(st), si curetur, ne quid insit amari (“amare / essere amati / è bello, se si sta attenti che non abbia in sé qualcosa di amaro”)

che è un campione topico di paronomasia: anche in italiano amore amaro è un tópos paronomastico. Si veda la seguente serie paronimica (e allitterativa: cfr. 2.20:B)

...mio avaro amore amaro

(Sanguineti, L’ultima passeggiata, 1, 8)

Un esempio di ripetizione polisemica della stessa forma, ove le tre repliche sostantivate mantengono irrisolta l’ambiguità (e l’intercambiabilità) delle possibili letture (“l’esistere”, oppure “l’ente, l’entità”):

Ora, la cosa sta sperimentando le prime sollecitazioni dell’essere; e può essere che l’essere sfregi l’essere della cosa...

(Manganelli, RV 41)

Il parlare equivoco sta di casa in molti luoghi. È esercizio letterario, connaturato all’ambiguità della poesia. Tra i contemporanei, citeremo ad apertura di libro:

ermetica gabbiuzza tabernacolo

[...]

che ondeggi oscilli nell’altissimo dei colli alati

rimessi rimessi

in te dentro furono tutti i peccati

(Zanzotto, Biglia, Pasqua e antidoti)80

con l’omonimia di rimessi (“ricollocati” e “perdonati”);

e: devi farmela piangere, per piacere, a piacere: (per il piacere)

(Sanguineti, Rebus, 9, 4)

È passatempo enigmistico (cfr., tra gli altri, il gioco del polisenso), che può travasarsi in componimenti poetici (si rimanda nuovamente a Pozzi 1981 e 1984a). È trovata pubblicitaria, che può sfruttare il piacere a buon mercato della boutade, come l’effetto inquietante dell’inatteso. Si veda, tra gli innumerevoli, uno slogan costruito sul doppio valore dell’espressione per piacere (“prego, per favore” e “affinché piaccia”, o anche, nel caso specifico, “se vuoi piacere”):

Vèstiti per piacere / Per piacere vèstiti

L’accostamento dei due enunciati, che singolarmente ammettono la doppia lettura, obbliga, apparentemente, ad assegnare un’interpretazione precisa a ciascuno dei due; nella sostanza, l’ambiguità permane, raddoppiata semmai, con un effetto paragonabile a quello, visivo, del trompe-l’oeil.

Altro motto pubblicitario, costruito sul doppio senso della parola classe:

Una classe che fa scuola

e rinforzato dal messaggio che lo accompagna (oltre che dalla serie parallela delle allusioni contenute nella parte figurativa): “Il design armonioso di... è un classico da studiare...”, con il richiamo etimologico classe / classico.

[8] La paronomàsia o paronomasìa, detta anche bisticcio o annominazione (gr. paronomasía “alterazione di un nome”, parēchēsis “somiglianza di suono”; lat. annominatio, calco del primo termine greco; affictio, sinonimo di adnominatio; supparile “quasi uguale”; levis immutatio “lieve mutamento”), è l’accostamento, in presenza o per richiamo implicito, di parole che abbiano una qualche somiglianza fonica, dovuta o no a parentela etimologica, ma siano differenti nel significato:

Traduttore traditore / Chi non risica non rosica / Moglie maglio / Sposa spesa / Penna pena / Prender fischi per fiaschi / Dalle stelle alle stalle / Vista la svista?

Si munge, si mangia

(slogan pubblicitario)

Girella (emerito / Di molto merito)

(Giusti, Il brindisi di Girella, 1-2)

Si suole distinguere la paronomasia apofonica da quella isofonica. La prima è basata sull’apofonia, cioè sull’alternanza vocalica nella radice delle parole (risica / rosica; sposa / spesa; stella / stalla). La seconda sull’isofonia, cioè sull’uguaglianza dei suoni su cui cade l’accento di parola (traduttore / traditore; vista / svista; emerito / merito).

Letterariamente, la paronomasia ha una tradizione illustre (si tralasciano qui gli esempi greci e latini, per cui si rimanda a Lausberg 1969:148-150; cfr. pure Segre 1993 per le tessiture paronomastiche petrarchesche: Laura, l’aura, lauro, l’auro; “l’aura che ’l verde lauro e l’aureo crine...”):

ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto

(Inf., I, 36)

perché fuor negletti / li nostri voti e vòti in alcun canto

(Par., III, 56-57)

Girò tre volte a l’oriente il volto

(Ger. liber., XIII, 6, 3)

Si veda pure, nei versi di Iacopone già citati in [5], l’accostamento paronomastico: smarrita / sparita.81

Accade qualche volta che fra i termini in questione, detti paronimi, si instauri una sorta di liaison dangereuse, un’attrazione che i linguisti hanno denominato tecnicamente attrazione paronimica: “fenomeno di etimologia popolare per cui si dà lo stesso senso o un senso equivalente a parole che in origine si rassomigliavano solo per la forma: il senso di ‘mancia o regalo’ attribuito a regalia (dal latino regalis) è dovuto all’attrazione paronimica di regalare”. (Dubois 1979:35)

Accanto ai casi di attrazione istituzionalizzata, cioè non più sentita dai parlanti nella sua originale devianza, stanno gli innumerevoli episodi di invenzione estemporanea individuale: i giochi paronimici, veicolo di comicità, di satira, di umorismo paradossale o bonaccione o demenziale o che altro dir si voglia, arguzia raffinata o passatempo divertente di poche pretese. Giochi verbali, insomma, come trasgressione creativa, in testi letterari e paraletterari; come parodia di luoghi comuni, per esempio:

L’inverno è lastricato di buone intenzioni

(Flaiano, OSP 338)

o come preziosismo letterario:

Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso [...], rosa che ha roso, il mio cervello s’è mangiato.

(Consolo, R 15)

Per lumina, per limina

(titolo di una poesia di Zanzotto, in Misteri della pedagogia)

Nelle sue innumerevoli varianti la deformazione paronimica ha una lunga carriera nell’avanspettacolo (i monologhi di Gandolin, i dialoghi dei Fratelli De Rege ecc.) e nelle affabulazioni di attori comici vecchi e nuovi. Si sfrutta la spiritosaggine dello strafalcione involontario, di vita effimera, ma fin troppo ricorrente. Eccone uno, recentissimo, inedito (e spontaneo): “Siamo obesi di lavoro”; degno del Falso monetario deamicisiano (nel libro L’idioma gentile): un pittore ligure a cui “fiorivano sulla bocca gli spropositi con una fecondità maravigliosa”: strame per stame, aureola per arietta, raffineria per raffinatezza, guerre intestinali per intestine ecc.

Le paronomasie involontarie sono dette malapropismi dal nome di Mrs Malaprop (coniato sull’espressione francese mal à propos “a sproposito”), personaggio della commedia di Richard Sheridan, The Rivals (I rivali), rappresentata per la prima volta nel 1775. Mrs Malaprop diceva allegoria al posto di alligatore, epitaffio invece di epiteto ecc.: come fa il parlante poco avvertito quando di fronte a termini inconsueti ricorre a parole note che somigliano nella forma alle ignote, le confonde e talora le fonde insieme (il risultato è la paretimologia, a cui si è appena accennato): “tintura d’odio”, “aria congestionata” anziché condizionata (cit. da Primo Levi, L’altrui mestiere).

Agli svarioni su cui ironizzava bonariamente De Amicis sono apparentati nella forma, ma non nelle intenzioni, gli sberleffi che Flaiano allineava (nel 1967) sotto il titolo Prontuario d’italiese:

Saluti dalle pernici del Monte Bianco; / si sono tutti alcolizzati contro di me; / le zucchine mi piacciono trafelate; / ma questo lo discuteremo in separata sedia; / ha un completo di inferiorità...

(Flaiano, Op., 855-856)

Nel marasma della produzione umoristico-demenziale degli ultimi decenni basterà isolare alcune trovate di Gino Patroni, a cominciare dal titolo del libretto che le contiene, Il foraggio di vivere (Milano, Longanesi, 1987):

Sta Federico / imperatore / in coma (titolo: “Agonia imperiale”) Crampo notturno / di un pastore / errante per l’Asia (titolo: “Reumatismo leopardiano”)

Una paronimia allusiva (segno-sogno) era il titolo di una collettiva di grafica americana degli anni Sessanta-Settanta:

Segno americano

La deformazione paronimica applicata a nomi propri di persona gioca spesso sull’allusione, coi meccanismi della parodia. Analoghe considerazioni per i titoli giornalistici che sfruttano le paronomasie con ammiccamenti, doppi sensi e argute invenzioni:

Straordinari stradivari (“La Repubblica”, 20/8/87)

Il piacere è tutto mostro (“Panorama”, 17/1/88)

Versi perversi (“Il Venerdì di Repubblica”, 12/2/88)

L’ultimo titolo ingloba il bisticcio: “versi per versi”, ossia versi famosi anagrammati in modo da formare altri versi, con un possibile richiamo allusivo agli esercizi poetici sanguinetiani:

ma succhiami, tu almeno, questi versi perversi, queste fiale d’inchiostro / bestiale, di fiele e di miele...

(Sanguineti, L’ultima passeggiata, 6, 8-9)

[9] Il polittòto o poliptòto (gr. polýptōton “di molti casi”, metabol “cambiamento”, metáklisis “mutamento di posizione”, parēgménon “derivazione”, tradotti in lat. rispettivamente con: figura ex pluribus casibus, variatio, declinatio, derivatio, oltre che col prestito integrale polyptoton; si noti che il grecismo metàbole è stato assunto come denominazione generale per tutti i fatti retorici: cfr. Gruppo μ 1976) è la ricorrenza di un vocabolo con funzioni sintattiche diverse o nello stesso enunciato o in enunciati contigui e fra loro collegati.

È uno schema implicato in altre figure della ripetizione, come si è già dovuto notare più volte qui. Esso comprendeva originariamente, come parēgménon o derivatio, anche la figura etimologica (cfr. [10]). Come la paronomasia, a cui viene ascritto da taluni, il poliptoto induce mutamenti morfologici nelle parole ripetute, il cui significato (lessicale) però, a differenza di quanto avviene con la paronomasia, rimane immutato col mutare della funzione sintattica.

Il polittoto occupa qualsiasi posizione, iniziale, mediana, terminale negli enunciati e nei loro raggruppamenti; lo si trova in ogni tipo di discorso: in frasi fatte della lingua comune (gli occhi negli occhi, le mani nelle mani; stare con le mani in mano ecc.), negli slogan pubblicitari e in genere in ogni occasione comunicativa in cui si sfruttino coi fini più svariati le figure della ripetizione.

Dalla presentazione televisiva di una rubrica giornalistica (l’enunciato ha la struttura dell’epanadiplosi o inclusione: cfr. supra [4]):

il potere di opporti alla prepotenza del potere.

Fra gli esempi letterari, ne proponiamo alcuni dalla Gerusalemme liberata del Tasso (tratti da una serie di ventisette, registrati in A.L. Lepschy 1983):

Sono ambo stretti al palo stesso; e vòlto / è il tergo al tergo e ’l volto ascoso al volto

(II, 32, 7-8)

anzi la pugna de la pugna i patti

(III, 26, 8)

giunta or piaga a la piaga ed onta a l’onta

(VI, 45, 6)

Sol contra il ferro il nobil ferro adopra

(XIX, 32, 1)

Vissi e regnai: non vivo più né regno

(XIX, 40, 6)

celar co ’l foco tuo d’amor il foco?

(XIX, 91, 6)

E da scrittori del nostro tempo:

Dio con te stesso ricongiunto / Nel vano punto del tuo punto

(Giudici, Aspirazioni, 49-50)

Che è mai questo frastuono? [...] Questo urlare della notte, scheggiata in una moltitudine di notti, perle, gocce di notte?

(Manganelli, RV 145)

attuazione polittotica di un’epifora (2.17:[6]).

Un esempio giornalistico:

eccellente il lungo “servizio” di Demetrio Volcic, che ci ha fatto [...] ascoltare interessantissime cose della Russia di oggi, dalla Russia di oggi.

(B. Placido, “La Repubblica”, 5/11/87:31)

[10] La figura etimologica (gr. parēgménon; lat. derivatio: cfr. [9]) è la ripetizione della radice di un vocabolo. Come traspare dalle denominazioni antiche e da quelle moderne, latina (figura etymologica) e italiana, è in gioco la derivazione (o l’origine) delle parole.

La radice è “l’elemento di base, irriducibile, comune a tutti i rappresentanti di una stessa famiglia di parole nell’ambito di una lingua o di una famiglia di lingue” (Dubois 1979:237). Poiché la radice contiene il sema (che è l’unità di significato) comune a tutti i termini di una stessa famiglia etimologica, la ripetizione di un radicale in parole contigue o vicine è una sottolineatura semantica, un rinforzo della significazione. Si va da stereotipi quali “vivere la propria vita”, “amar d’amore...” ecc., a espressioni proverbiali (“se marzo non marzeggia...”), a massime, a creazioni filosofiche (natura naturata / natura naturans) e letterarie, a invenzioni estemporanee, slogan (Vietato vietare) ecc.

Qualche esempio letterario:

e li ’nfiammati infiammar sì Augusto

(Inf., XIII, 68)

O Spirto spirante, che spiri con l’anima del Verbo nel seno del Padre...

(Maria Maddalena de’ Pazzi, PE 120)

E se, come ora, la distanza si distanzia, la lontananza si allontana, e la perdita si perde, si assenta l’assenza...

(Manganelli, RV 74)

reggendo il lume al fine di guardare dentro la culla il bimbo che piange un sogno non sognato bene.

(Corti, VNE 14)

Un intreccio della figura etimologica (viva... si ravviva; culture... culta) e del poliptoto (viva... nella più... viva) si trova nell’enunciato seguente:

Viva nella più ampia e viva di tutte le culture, si ravviva quella lingua nel focolare della culta famiglia...

(Ascoli, Pr 16)

[11] La sinonimia (gr. synōnymía “comunanza di nome”; lat., oltre al grecismo synonymῐa, il calco traduttivo communio nominis e la specificazione exaggeratio a synonymis “accumulazione da sinonimi”) come figura della ripetizione consiste nella ricorrenza dello stesso senso in espressioni diverse, siano esse sinonimi veri e propri (cfr. 2.15) o tropi (2.16). Naturalmente, si tratta per lo più di equivalenza, non di identità perfetta di senso; anzi, la più o meno lieve variazione che la non-identità comporta è ragione di esistenza dell’uso retorico della sinonimia. Annidata in figure come la perifrasi, l’iperbole e l’enfasi e nelle varie forme della ripetizione, la sinonimia è tratto caratterizzante della climax nella sua accezione meno antica (climax2), quando i membri disposti in gradazione di intensità crescente o calante (ascendente o discendente) possano considerarsi sinonimi, in quanto conservino un sema comune (come si è già notato, una gradatio che sia una progressione sinonimica può trovare posto tra le figure della ripetizione in quanto replica parziale del senso di un’espressione). Esempio:

Questo gli permetteva un rapporto familiare, una sorta di comunicazione, addirittura a volte una comunicazione letteraria con gli alberi.

(Corti, VNE 128)

Partecipe degli usi tropico e sinonimico è la seguente progressione:

In Italia si ha l’idea di nascosti incontri furtivi, di fragili trame; e in certi ambienti addirittura di artifici da cospirazione.

(Corti, VNE 32)

Gli esempi qui addotti danno ragione a Lausberg (1969:152), secondo cui “non chiari e netti sono i limiti tra sinonimia semanticamente amplificante ed enumerazione coordinativa” (cfr. [16] nel presente paragrafo). Tratto costitutivo della prima e carattere prevalente nella seconda è la disposizione dei membri in progressione: quantitativa (dal meno al più lungo) oppure qualitativa (dal meno al più ‘carico’ di intensificazione semantica), secondo la già citata legge fondamentale della dispositio.

Altro carattere ricorrente nelle successioni sinonimiche, come nelle enumerazioni, è la struttura ternaria (a cui si è accennato in 2.8); per gli opportuni esempi si rimanda alla maggior parte dei passi citati a illustrazione della climax (cfr. [3]); cfr. pure in [6]:

constatazione che in nessun momento vi è stata traccia, indizio, sintomo di senso.

Una specie di ripetizione sinonimica non rilevata dai retori antichi e medievali, che hanno prestato più attenzione alla congeries e all’enumerazione (asindetica) di sinonimi, ma registrata da G.I. Vossio, è la dittologia: “congiunzione di due vocaboli simili nel significato e complementari” (Tateo, 1972). La dittologia sinonimica risponde alla tecnica dell’amplificazione che produce ridondanza:

congiunge e unisce

(Conv., IV, 1, 1)

mondissimo e purissimo

(Conv., IV, 5, 5)

Dittologie ‘congelate’:

a immagine e somiglianza

principio e origine

vispo e arzillo

I due termini possono attirarsi per allitterazione, essere in gradazione o l’uno essere variante metaforica dell’altro:

il perché e il percome

grande e grosso / senza garbo né grazia / vivo e vegeto / come mi pare e piace

(Valesio 1967:205-206)

Una specie diffusa della sinonimia è la interpretatio (“interpretazione”) o “sinonimia glossante”, descritta e praticata da retori e grammatici greci e romani; in auge nell’età ellenistica, si trasmise, attraverso la tarda latinità, ai glossatori medievali. Con uno o più sinonimi viene chiarita un’espressione giudicata oscura o difficile o equivoca: tropo, voce straniera, termine specialistico, oppure disusato perché arcaico, parola polisemica ecc. Molte delle definizioni lessicografiche antiche e moderne constano di sinonimi. Un esempio di uso letterario della glossa:

Un grosso volume non basterebbe a registrare tutte le spadellate (colpi messi fuori del bersaglio, voce toscana) dei poeti dell’Ottocento...

(Gadda, TeO 69)

Il dominio della traductio si estende alla diàfora e all’antanàclasi (usurpante, quest’ultima, il posto della diafora, in classificazioni recenti). In queste due figure il mutamento e l’arricchimento del senso sono essenzialmente il prodotto di un’enfasi (2.16:[7]), mentre negli altri giochi di parole paronomastici e metabolici si gioca sull’equivocità derivante dall’accostamento arguto di omonimi e di termini polisemici.

[12] La diàfora (gr. diaphorá “differenza”, antístasis “opposizione”, plok “intreccio, combinazione”, sýnkrisis “combinazione, confronto”, antimetáthesis “scambio”; lat. contentio “opposizione”, copulatio “unione, combinazione”) o ploce ha luogo quando si ripete la stessa espressione in modo che la seconda occorrenza si differenzi dalla prima per il cumulo dei sensi di cui si carica enfaticamente. Lo stesso fenomeno in forma dialogica costituisce l’antanaclasi.

Esempi di diafora:

Un padre è sempre un padre.

Io... non sono più io.

La mattina seguente, don Rodrigo si destò don Rodrigo

(I promessi sposi, VII)

quell’arte che sola fa parer uomini gli uomini

(Leopardi, P 27)

Per alcuni (fra cui Lausberg) la diafora si ha in contesti monologici; lo stesso fenomeno in forma dialogica costituisce l’antanaclasi [13]. Peacham (1577) riservava il titolo di diafora alla ripetizione di nomi comuni e quello di ploce alla ripetizione di nomi propri (cfr. pure Lanham 1969:77-78). Vico (1989:343) non parla di diafora e definisce la ploce come l’uso di una parola che “significa in un luogo la persona o la cosa, in un altro il carattere e le qualità” (es.: O Bruto, bruto). Per altri si tratterebbe di sillepsi oratoria, perché una replica è usata in senso proprio, l’altra con valore figurato.

Nella funzione predicativa, come mostrano gli esempi ora riportati, la diafora ha la forma di una tautologia (“proposizione in cui il predicato ripete ciò che è già contenuto nel soggetto”). Per questo una ‘diafora negativa’, qual è quella del secondo esempio, contiene un paradosso: perché nega ciò che è implicitamente asserito nella configurazione semantica del soggetto.

Secondo Perelman e Olbrechts-Tyteca (TA 228-230) il valore argomentativo di tali espressioni tautologiche sta nel fatto che esse, come la maggior parte delle figure della ripetizione, suggeriscono delle differenze nel momento stesso in cui sembrano stabilire delle identità. Si veda a questo proposito il famoso enunciato di Gertrude Stein (per cui si rinvia al commento di Eco 1968:66):

A rose is a rose is a rose is a rose

sorta di diafora moltiplicata.

La diafora è alla base di neoformazioni che consistono nell’accostare due termini identici:

questo è caffè-caffè

Dim inventa il Collant-Collant

[13] L’antanàclasi (gr. antanáklasis “ripercussione”; lat. reflexio “ritorcimento”, “conversione”), o “ripetizione in senso opposto”, è (nella classificazione di Lausberg 1969 e 19732) una diafora dialogica. Ha luogo quando, in uno scambio di battute, l’interlocutore, “rivolta” un’espressione usata dall’altro partecipante al dialogo, in modo da darle un senso diverso.

Rimbalza dall’uno all’altro trattato di retorica l’esempio di Quintiliano (Inst. orat., IX, 3, 68):

Cum Proculeius quereretur de filio, quod is mortem suam exspectaret et ille dixisset se vero non exspectare, – Immo, inquit, rogo exspectes. – (“Poiché Proculeio si lamentava che suo figlio aspettasse la sua morte, e avendo quello detto che lui davvero non l’aspettava, – Anzi, disse, ti prego di aspettarla –”)

Altra antanaclasi famosa:

Hamlet, thou hast thy father much offended. // Mother, you have my father much offended (“Amleto, tu hai molto offeso tuo padre. // Madre, voi avete molto offeso mio padre”)

(Amleto, III, 4, 9-10)

Nell’interpretazione più diffusa, e fin dall’antichità (cfr. HWR, I: 483-485), l’antanaclasi o anaclasi, non distinta dalla diafora, viene intesa come indicante ogni ripetizione che induca variazioni o ribaltamenti di senso.

a2) L’accumulazione. Si ha accumulazione quando si ‘aggiungono’ gli uni agli altri, con procedure coordinative o subordinative, membri di frase che non siano ripetuti.

[14] Soccorre qui immediatamente quale esempio probante la climax2, da classificare come figura dell’accumulazione quando non possa essere intesa come ripetizione (cfr. [3] e [11]).

(i) L’accumulazione coordinante (o coordinativa) è detta in greco synathroismós (“raccolta, agglomeramento”) e in latino plurium rerum congeries (o coacervatio). Congeries e coacervatio (da cui i termini italiani ‘congerie’ e ‘coacervo’) sono resi, tecnicamente, da ‘accumulazione’. ‘Congerie’ richiamerebbe piuttosto l’accumulazione caotica; e vedremo che così è chiamato un procedimento stilistico enumerativo. La specificazione plurium rerum (“di più cose”, ossia concetti, nozioni) rinvia alle “figure di pensiero”.

Fra queste infatti l’accumulazione viene classificata da alcuni (ad es. da Faral e da Arbusow), in quanto riunisce “sinonimi o altre espressioni e locuzioni intorno a un pensiero” (Arbusow 1963:65). Ma la tradizione prevalente è quella che registra l’accumulazione, sotto vari nomi, tra le figure da descrivere in rapporto all’espressione anziché al contenuto. Fontanier, che in parte si rifà a Beauzée e in parte innova originalmente, colloca l’accumulazione tra le “figure di stile” (cfr. fig. 4), identificandola con l’enumerazione e denominandola conglobazione. Osserva poi (FD 364) che la medesima “usa ordinariamente come mezzo necessario l’aggiunzione”, che egli descrive tra le “figure di elocuzione”, nella sottoclasse delle “figure per collegamento”, insieme con il polisindeto e l’asindeto.

Le serie enumerative del seguente esempio illustrano vivacemente le procedure dell’accumulazione:

La grande poesia ottocentesca disponeva d’un armamentario che farebbe invidia ai magazzini della Scala: i cimieri, i brandi, gli usberghi, vi furoreggiano, i destrieri, le pugne, le prore, le tube, le torri, le selve, ne combinano d’ogni maniera. Senza contare il serraglio: volatili e quadrupedi. L’aquila e il leone. Non era caso infrequente che un qualunque tipo, per un po’ di baccano che aveva fatto, venisse dai poeti insignito d’uno sguardo aquilino; d’un collo leonino, e magari di tutt’e due insieme. Da fare impallidire certe figure dei geroglifici, con zampe di struzzo, orecchie d’asino, e becco di coccodrillo.

(Gadda, TeO 194-195)

Alcuni caratteri dell’accumulazione coordinante sono già stati riscontrati nella sinonimia (cfr. [11]). È una forma di accumulazione (di suoni) anche l’allitterazione (2.17:[29]), che sarà descritta tra le figure dell’“ordine”. Accumulazioni coordinative sono le specie di enumerazione esaminate nell’inventio e nella dispositio: la partizione e la ricapitolazione.

[15] Quando almeno uno dei membri accumulati è formato da due o più sinonimi, si ha una diàllage (gr. diallag “accordo”). Come figura argomentativa, la diallage è la convergenza di molti argomenti in una stessa conclusione.

Esempi di diallagi come diramazioni sinonimiche di uno o più membri di una accumulazione:

Sei stato lontano, assente, irraggiungibile, con le tue angosce, le tue inquietudini, il tuo malessere, una voglia disperata di libertà, incapace di fermarti e di andare avanti...

Si noterà che la diallage così intesa è un caso particolare della sinonimia. Si cita perciò nuovamente il seguente passo, già riportato parzialmente in [11] (oltre che in [6]):

Assenza di senso: distruzione del senso, perdita del senso, constatazione che in nessun momento vi è stata traccia, indizio, sintomo di senso.

(Manganelli, RV 91)

  e nulla vi è di più meraviglioso dell’elenco, strumento di mirabili ipotiposi.
  (Eco)

[16] L’enumerazione o elenco (gr. epimerismós, da epimerízō “distribuisco”; lat. enumeratio) è l’accostamento di parole o gruppi di parole messi in successione e collegati sia sindeticamente sia asindeticamente, sia nell’uno e nell’altro modo congiunti di coordinazione (cfr. l’inizio del presente paragrafo: 2.17:A).

L’enumerazione è procedimento comune a ogni tipo di discorso e di testo: si pensi, ad es. agli elenchi di pezzi e congegni nelle descrizioni tecniche di oggetti e di macchinari; alle voci di una nota spese; all’elencazione dei presenti e degli assenti, nel verbale di una seduta; agli indici, alle ricapitolazioni dei notiziari, ai resoconti improvvisati di azioni quotidiane (“ho fatto questo, questo e quest’altro...”) e a quante altre forme e occasioni comunicative presentino una qualche parte almeno dei tratti caratterizzanti il tipo di testo che va sotto il nome di elenco. L’enumerazione è retoricamente marcata quando le intenzioni comunicative, il contesto verbale, la situazione d’uso ecc. le attribuiscono efficacia argomentativa, descrittiva (cfr. l’ultimo passo citato di Gadda), narrativa o espositiva.

Ciò vale naturalmente, come si è già avuto occasione di notare, per qualsiasi procedimento sintattico-testuale considerato come costitutivo di figure (cfr., ad es. la ripetizione). Nel caso dell’enumerazione, che è registrata essa stessa come figura, sembra riproporsi con maggiore evidenza il problema dell’estensione, e della costituzione, del dominio retorico.

[17] La distribuzione (gr. diáiresis “separazione, partizione”, merismós “divisione”; lat. distributio, designatio) è un’enumerazione a membri distanziati da espressioni (complementi, apposizioni, attributi), mentre caratteristico della enumeratio nella sua forma canonica era considerato il “contatto” fra i membri stessi. I due tipi tuttavia non sono chiaramente distinguibili, e quand’anche lo fossero si troverebbero facilmente mescolati o alternati nei testi.

Esempi di distributio:

Piccole teste a zampa d’uccello, animali con mani umane sulle terga, teste chiomate dalle quali spuntavano piedi, dragoni zebrati, quadrupedi dal collo serpentino che si allacciava in mille nodi inestricabili, scimmie dalle corna cervine, sirene a forma di volatile...

(Eco, NR 84-85)

Lo schema può essere anche quello dell’anafora o dell’epifora (cfr. [5] e [6]) e può pure risultarne un isocolo (cfr. 2.17:[28]). Si noti la struttura anaforica del seguente passo (l’Italia... l’Italia...) con le serie enumerative aggettivali:

L’Italia retorica, professorale, greco-romana e medioevale di Carducci, l’Italia, georgica, piagnucolosa e nostalgica del Pascoli, l’Italia bigotta del piccolissimo Fogazzaro, l’Italia erotomane e rigattiera di D’Annunzio, tutto il passatismo italiano, insomma, è definitivamente morto e sepolto.

(Marinetti)82

Una morfologia dell’enumerazione potrebbe distinguere il tipo ove il membro contenente la nozione sovraordinata (o inclusiva delle altre) è collocato per primo:

Ogni tavolo aveva tutto quanto servisse per miniare e copiare: corni da inchiostro, penne fini [...], pietrapomice [...], regoli [...].

(Eco, NR 80)

dal tipo ove questo è collocato per ultimo: nell’es. appena citato di Marinetti, “tutto il passatismo italiano, insomma”.

L’enumerazione come procedimento discorsivo corrisponde alla percezione analitica degli oggetti, opposta al ‘colpo d’occhio’ che coglie simultaneamente una totalità. Corrisponde alla scomposizione di un insieme nelle sue parti e alla elencazione di queste. Vari tipi di testo si caratterizzano, relativamente alle procedure enumerative, per la presenza o l’assenza di un ordine sistematico.

La cosiddetta accumulazione caotica può trovarsi nella comunicazione pratica informale, nel discorso colloquiale, familiare ecc., nella comunicazione patologica e in testi letterari. Sarebbe fuori luogo come procedura espositiva in un testo scientifico, o in testi normativi (leggi, regolamenti, prescrizioni, istruzioni per l’uso ecc.), ovunque l’ordine e la sistematicità dell’esposizione siano requisiti irrinunciabili.

Esempi di accumulazione caotica in un discorso informale:

Guarda qua: fogli, matite, mozziconi di sigaretta, cartacce, sporco, un disordine che non ti dico; accidenti, ma come si può?

e in un testo letterario:

Tuttaquanta oramai la riliggione / Conziste in zinfonie, genufressione, / Seggni de croce, fittucce a la vesta, / Cappell’in mano, cenneraccio in testa, / Pesci da tajo, razzi, pricissione, / Bussolette, Madonne a ’gni cantone, / Cene a ppunta d’orloggio, ozzio de festa, / Scampanate, sbaciucchi, picchiapetti, / Parme, reliquie, medaje, abbitini, / Corone, acquasantiere e moccoletti.

(Belli, La riliggione der tempo nostro, 2-11)

Esemplari di enumerazioni caotiche sono offerti dalle litanie, la cui struttura si trova in realizzazioni letterarie appartenenti ai generi più svariati.

Un solo esempio, dove il cumulo litanico non è caotico, perché regolato dalla disposizione sistematica di elementi del significante: l’ordine alfabetico, nei perni della struttura portante, le allitterazioni (cfr. 2.20:B) e soprattutto i richiami analogici che legano tra loro i membri: liato (in rapporto di fantastica derivatio con lia, di cui è paronomasia), → liana → catena → bagno → libame → licore affatturato – letale pozione (in disposizione chiastica: cfr. 2.18:[11]) → inferno ecc.; spire → angue → guizza → lioparda → lippo; liquame nero → pece:

Rosalia. Rosa e lia. [...] Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi! per mia dannazione.

(Consolo, R 15)

Il cosiddetto ‘flusso di coscienza’ si avvale volentieri di procedimenti enumerativi. Che sono pure tipici della climax, ascendente e discendente (cfr. qui [3]).

L’accumulazione di aggettivi, come ogni altro procedimento retorico, è sfruttata nel linguaggio pubblicitario. Si hanno esempi estremi di serie aggettivali, ove il carattere caotico del cumulo litanico è dato dal fatto che le predicazioni (il cui soggetto sono immagini, non parole), applicate a persone, sembrano anche riferirsi, ammiccando, ai loro oggetti di abbigliamento:

Brillanti, avventurosi, disinvolti, allegri, sereni, protagonisti. Accurati, fantasiosi, precisi, incontentabili, originali. Giovani, stupendi, unici, inconfondibili, indimenticabili. Liberi e felici.

(marchio Belfe)

  Dalla lettura del Pasticciaccio non risulta affatto che Carlo Emilio Gadda sia ingegnere e milanese [...] Ingegnere e milanese è un’endiadi per quella coscienza popolare che è diventata il punto di riferimento di Gadda.
  (Cesare Cases)

[18] L’endiadi (lat. tardo hendiadys, dal greco hèn dià dyôin “una cosa per mezzo di due”) consiste nell’usare due espressioni coordinate (generalmente due nomi) al posto di un’espressione composta da due membri di cui l’uno sia subordinato all’altro (aggettivo + nome, oppure nome + specificazione complementare subordinata):

pateris libamus et auro (“beviamo in coppe e in oro”) = pateris aureis libamus (“beviamo in coppe d’oro”)

nella strada e nella polvere = nella strada polverosa

(ii) Sotto il titolo di accumulazione subordinante o subordinativa Lausberg comprende la serie dei rapporti di dipendenza sintattica possibili tra i membri di frase: subordinazione di avverbi e complementi al verbo; di aggettivi o di complementi (detti ‘adnominali’) al nome; di avverbi (o locuzioni avverbiali variamente composte) agli aggettivi e ad altri avverbi. Il fatto che una tassonomia delle figure retoriche inglobi argomenti come questi è una riprova ulteriore della vocazione del modello classico a sviluppare un’analisi del discorso sulla base della grammatica, che veniva applicata, descrittivamente, all’analisi stilistica dei testi.

  E Renzo venne a risapere che s’era detto da più d’uno: “avete veduto quella bella baggiana che c’è venuta?” L’epiteto faceva passare il sostantivo.
  (Manzoni)

[19] L’epìteto (gr. epítheton, epithetikón “aggiunto”: “aggettivo”; lat. adiectivum) è illustrato, nelle trattazioni retoriche, come caso emblematico dell’accumulazione subordinante. Sono epiteti sia gli aggettivi usati come attributi, sia i sostantivi (o qualsiasi perifrasi nominale) usati come apposizioni di un altro sostantivo.

Lausberg (1969:165-170) analizza minuziosamente la semantica dell’aggettivo, chiedendosi se quest’ultimo porti o no informazioni nuove rispetto al senso del nome sovraordinato. In caso affermativo, si distinguono gradi di “necessità” dell’aggettivo. I più ‘necessari’ sono quelli che non possono essere tolti da un enunciato senza modificarne radicalmente il senso. Nell’esempio seguente, se si elimina l’aggettivo sediziosa, si cambia il riferimento del sintagma nominale di cui l’aggettivo è parte:

Chiunque fa parte di una radunata sediziosa di dieci o più persone è punito, per il solo fatto della partecipazione, con l’arresto fino a un anno.

(art. 655 del Codice penale)

E in quest’altro, non solo si modifica, ma si compromette il senso di ciò che si dice, se si toglie l’aggettivo:

Camminavano con gli occhi fissi.

I meno necessari sono gli aggettivi detti appunto pleonastici: che non danno informazioni nuove, o ne danno di irrilevanti, rispetto a quelle già contenute nel gruppo nominale o nell’enunciato a cui appartengono.

In italiano un aggettivo corre il rischio di parere o di diventare pleonastico se è anteposto al nome. Un conto è dire: “Versa il rosso vino nei bicchieri”, un altro è dire: “Versa il vino rosso nei bicchieri”. Nel secondo caso si specifica qual è il vino da mescere (il rosso, e non il bianco, né altra bevanda). Nel primo, invece, si suppone come nota la qualità del vino in questione e la si nomina in soprappiù; a tale presupposto è legato l’effetto di ricercatezza dell’intera espressione.

I grammatici hanno distinto tra funzione accessoria o descrittiva o non-restrittiva, che è quella dell’aggettivo anteposto al nome, e funzione necessaria o determinativa o restrittiva, propria dell’aggettivo posposto. Nell’ambito della grammatica generativo-trasformazionale sono state formulate regole per spiegare a quali condizioni il carattere restrittivo e la posizione postnominale siano interdipendenti (basta, ad es. la presenza di un dimostrativo per annullare la funzione restrittiva di un aggettivo posposto. Si confrontino i seguenti enunciati: “Seguo le trasmissioni televisive interessanti” – solo quelle, e non le altre – “Seguo le interessanti trasmissioni televisive” – tutte le trasmissioni televisive sono qualificate come interessanti – Ma è indifferente dire: “queste trasmissioni interessanti” o “queste interessanti trasmissioni”). La grammatica e la semantica generative hanno pure spiegato perché per una classe di aggettivi italiani (alto, buono, grande, povero, semplice, sporco, vecchio, vero...) la posizione pre- o postnominale comporti un significato diverso.83

L’aggettivo, anteposto o posposto, può essere un esornativo. Epitheta ornantia (esornativi, appunto) furono chiamati gli aggettivi, e le espressioni equivalenti, la cui funzione è puramente ornamentale. Talora essi ricorrono come formule fisse, quasi emblemi o distintivi per l’individuo (persona o cosa) a cui si applicano. Tali sono gli esornativi omerici: Achille piè veloce; il canuto mare.

L’esornativo tende a diventare uno stereotipo negli epigoni di tutte le maniere letterarie: si pensi all’aggettivazione del petrarchismo, o del classicismo ottocentesco. Ma è anche l’assuefazione a un linguaggio massificato, frutto di inerzia inventiva, a provocare i formulari di espressioni viete, bersaglio di satira metalinguistica. Si ricordano, a questo proposito, le canzonature dell’enfasi aggettivale fascista che circolavano nelle redazioni dei giornali dell’epoca, sotto forma di comico catechismo:84

– Com’è il Duce? Magnifico. Invitto e invincibile. Insonne. – La sua figura? Maschia. – La sua sagoma? Romuna. O anche: forgiata nel bronzo... – Come sono le sue legioni? Quadrate. – E i fedeli? Della vigilia. Della dura vigilia... – Come si arriva alle immancabili mete? Nudi... – Come sono le democrazie? Agnostiche e imbelli...

o certe note sul conformismo linguistico di anni più vicini a noi. Si potrebbero citare saggi di linguisti e storici della lingua, rubriche e articoli giornalistici di fonti svariate,85 accomunati dall’interesse, quasi sempre dalla preoccupazione e talvolta dal biasimo per un diffondersi di stereotipi che rivela pigrizia, povertà inventiva, sudditanza acritica a un esercizio massificato del linguaggio. Due sole annotazioni:86

Concreto. Sarà anche stato ai suoi tempi un aggettivo coi piedi per terra, serio, rispettabile. Ma è molto cambiato, negli ultimi anni. Il meno che si possa dire di lui è che si lascia usare con troppa facilità da gente equivoca, presta il proprio suono grigio e fidato a nomi di notoria labilità e frivolezza [...]: concrete iniziative, concreti interventi, concreti sviluppi, concrete proposte, concrete aperture, concreti impegni, concreti sbocchi... La sua presenza accanto a qualsiasi sostantivo è ormai segnale infallibile di vacuità, dilazione, inconcludenza. È garanzia di totale astrattezza.

(Lucentini)

Perverso. Non consultate testi psicoanalitici. Tempo perso. Basta sostituire a “perverso” la parola “sbagliato” e tutto è chiaro. In ogni caso “perverso” è il contrario di ciò che negli anni Cinquanta era “valido”.

(Eco)

[20] La retorica antica ha affrontato solo in parte gli effetti retorici dell’aggettivazione, occupandosi di particolari costruzioni delle lingue classiche. Tale è la cosiddetta ipallage o enallage (gr. hypallagē “scambio, commutazione”, enallagē “inversione”) dell’aggettivo. Questo viene agganciato al ‘determinante’ o complemento di specificazione, anziché al determinato, a cui invece spetterebbe (cfr. l’esempio latino); oppure viene attribuito al determinato quando dovrebbe essere riferito al determinante (cfr. gli esempi moderni):

altae moenia Romae

(Eneide, I, 7)

(“le mura dell’alta Roma”) anziché “alta moenia Romae” (“le alte mura di Roma”)

Esempi moderni:

e gli alberi discorrono col trito / mormorio della rena

(Montale, Tempi di Bellosguardo, 4-5)

Valmorbia, discorrevano il tuo fondo / fioriti nuvoli di piante agli àsoli

(Montale, Valmorbia..., 1-2)

L’ipallage dell’aggettivo è una figura grammaticale (cfr. 2.12:B1). La ricerca degli effetti retorici sfrutta la collisione tra l’aspettativa di una relazione conforme ai cliché logico-semantici secondo i quali vengono attribuite proprietà agli esseri, e il risultato imprevisto di un inconsueto connubio.

Superfluo aggiungere che l’impostazione classica della retorica dell’aggettivo lascia abbondantemente insoddisfatti. Un tentativo interessante di grammatica degli enunciati figurati è quello di Tamba-Mecz (1981:65-136): un’analisi di strutture retoriche fondate su relazioni sintattico-testuali e non sull’appartenenza degli elementi che compongono le figure a una ‘parte (grammaticale) del discorso’. A proposito dell’aggettivo, Tamba-Mecz rileva l’eterogeneità di questa categoria. Che si vede bene nel diverso comportamento, poniamo, degli aggettivi qualificativi (come feroce) e degli aggettivi di relazione (come mentale). Quando si ‘nominalizza’ (cioè si trasforma l’aggettivo in sostantivo), il primo dà un nome astratto, il secondo un sintagma preposizionale: “una città feroce → la ferocia della città” / “le dimore mentali → le dimore della mente” (e non: “la mente delle dimore”). L’ipallage, aggiungiamo, potrebbe configurarsi, in certi casi, come passaggio dal valore qualificativo a quello di aggettivo di relazione: “piante fiorite” (la fioritura / i fiori delle piante) “nuvoli fioriti” (nuvoli di fiori).

B) Figure di parola per soppressione

  Usitatissima presso i nostri antichi maestri e anche nel parlar famigliare toscano si è la figura ellissi, per la quale, con vaghezza e senza oscurità, si tace or l’una or l’altra parte dell’orazione.
  (Corticelli)

La seconda classe delle figure di parola (cfr. fig. 8) è individuata secondo la categoria della soppressione, o sottrazione o detrazione (detractio), che consiste nell’omettere (o nel ‘cancellare’) in un enunciato un qualche elemento che si presuma far parte della struttura di frase.

[21] Procedura comune e sovraordinata alle figure della soppressione, e figura essa medesima, è l’ellissi o “sottinteso” (gr. élleipsis “mancanza”, prosypakouómenon “sottinteso”; lat. ellipsis).

Tradizionalmente si è distinta l’ellissi retorica dall’ellissi grammaticale. La prima è stata considerata come la realizzazione sintattica della aposiopesi: figura di pensiero che consiste nel ‘tacere’ qualcosa facendo intendere che lo si tralascia (cfr. 2.18:[19]). La seconda ha visto di volta in volta dilatarsi o restringersi il suo ambito: dal sistema del grammatico Francisco Sànchez de Las Brozas (noto col nome latino di Sanctius), che nell’opera Minerva seu de causis linguae latinae (1587) assumeva l’ellissi a principio esplicativo delle ‘irregolarità’ della lingua, postulando per questa una struttura logica (legitima constructio) da mettere in luce integrando le “deficienze” delle costruzioni superficiali, che sono ellittiche rispetto a quella struttura; fino a descrizioni più recenti, per le quali l’ellissi comprenderebbe sia l’omissione di elementi già menzionati e perciò presenti nel contesto linguistico (o co-testo), sia la mancanza, in un enunciato, di elementi ipotizzabili in una realizzazione alternativa dello stesso enunciato (ad es.: “Visto che bello?” / “Hai visto come è bello questo?”). Si è perciò parlato di ellissi in absentia: certi elementi sono considerati mancanti in base a un modello linguistico che ne preveda la presenza (un enunciato come “è venuto” sarà considerato ellittico del soggetto se il modello grammaticale che lo descrive prevede la presenza del soggetto nella struttura di frase; e per quanto riguarda le combinazioni di parole, locuzioni come alle tre, alle quattro sono considerate ellittiche perché confrontate con le concorrenti: “alle ore...”). Ellissi in praesentia si avrebbe invece quando si omettono parole già presenti nel co-testo (ad es. nelle risposte a domande: “Che abbiamo fatto? Nulla”). Quando si tralasciano enunciati che il discorso stesso permette di inferire, l’ellissi viene detta “co-testuale”; quando è il suo contesto non verbale (o con-testo) a consentire un’integrazione, l’ellissi è “con-testuale”.

È ragionevole sostenere che “tutte le ellissi sono riconducibili ad ellissi in absentia, cioè ad omissioni rispetto a un modello di frase e/o di comunicazione”, e che non esistono perciò “tipi geneticamente diversi di ellissi: esistono ambiti diversi a cui attingere informazioni per recuperare quanto è stato omesso” (Marello 1984:255).87

Dal punto di vista stilistico, che è quello assunto dai retori quando hanno trattato dell’ellissi come figura di parola, questa viene studiata come espediente per “snellire” il discorso eliminando ripetizioni, come mezzo efficace per suscitare attese e per protrarne il soddisfacimento ‘proiettando in avanti’ l’attenzione di chi ascolta o legge.

Un esempio di inizio in un articolo giornalistico:

Una follia. Una scelta assurda sotto ogni punto di vista, sia economico che ambientale. Anche se i manager dell’Enel non lo scrivono così brutalmente, è questo il giudizio che emerge con prepotenza dalle 101 pagine del loro rapporto...

(“Panorama” 31/1/88:62)

È l’ellissi come elemento preparatorio, come preannuncio del tema di un discorso (ellissi cataforica: che rimanda a cose di cui si parlerà in seguito), frequente nella trasmissione ‘brillante’ di notizie, nella narrativa e nella poesia:

Prese la vita col cucchiaio piccolo / essendo / onninamente fuori e imprendibile. / Una ragazza imbarazzata, presto / sposa di un nulla vero / e imperfettibile

(Montale, Trascolorando, 1-6)

In poesia si trovano anche ellissi “totali” del tema: ciò di cui si parla non viene mai esplicitamente nominato; donde la possibile ambiguità del messaggio e le sollecitazioni che ne derivano al lavoro interpretativo del lettore.

Nella comunicazione quotidiana, l’ellissi del tema è stata spiegata dai linguisti come creazione di “referenti testuali”: in un testo può trovarsi non nominato un oggetto al quale si fa riferimento menzionandone caratteristiche, componenti, circostanze, modi d’uso ecc. Nel seguente passo:

Stavo guidando sull’autostrada, quando all’improvviso il motore incominciò a fare un rumore strano. Mi fermai al primo parcheggio, aprii il cofano, svitai il tappo e vidi che il motore stava bollendo

non è mai nominata esplicitamente l’automobile, a cui rimandano però i termini che qui abbiamo trascritto in corsivo. Il sottinteso agisce così fortemente da diventare elemento di coesione e di coerenza, per il testo.

L’ellissi è tratto caratterizzante di generi testuali (il telegramma e i titoli) e di stili: lo stile “telegrafico”, appunto, e le varie manifestazioni della brachilogia (cfr. 2.18:[16] e [17]), che in parte caratterizzano lo stile nominale, definito comunemente (anche se per certi aspetti impropriamente) come ellittico del verbo.

[22] Lo zeugma o sillèpsi (gr. zêugma “aggiogamento”, da zéugnymi “metto al giogo”; schin163-1ma apò koinoû “figura da comunanza”; sýllēpsis “il prendere insieme”, di cui è calco il lat. conceptio; altri nomi latini: adiunctio, coniunctio, nexum: “congiungimento, connessione”) comprende, tradizionalmente, una serie di varianti dell’ellissi. Sono ellissi che provocano incongruenze o semantiche o sintattiche (cfr. Valesio 1986:48-56).

Esempio celebre di incongruenza semantica (citato in tutti i manuali) è il verso dantesco:

parlare e lagrimar vedrai insieme

(Inf., XXXIII, 9)

con parlare e lagrimar ‘aggiogati’ entrambi a un verbo che esprime percezione visiva e non uditiva. Un’incongruenza semantica che sta fra lo zeugma, l’ipallage dell’aggettivo e (forse) la sinestesia si trova in questo enunciato (ricavato da un discorso orale):88

in modo da rendere il tempo chirurgico relativamente breve ed esangue.

Le incongruenze sintattiche comprendono fenomeni classificati tra le ‘figure grammaticali’ (cfr. 2.12:B1), a cui si aggiungono, nelle trattazioni classiche, esempi comunissimi di quel tipo di ‘ellissi co-testuale’ che consente di risparmiare parole e di evitare ripetizioni superflue. Esempio:

Uno andò a Roma, un altro a Milano, un altro ancora a Genova.

Nel tipo esemplificato da:

Tu sarai contento e i tuoi amici soddisfatti

la discordanza sta nell’unire alla copula (sarai) di seconda persona singolare non solo la parte nominale che le si accorda grammaticalmente (contento), ma anche il plurale soddisfatti (che dovrebbe essere unito a una voce verbale di terza persona plurale). Lausberg (1969:174) cita, a tale proposito, un verso di Racine:

Londre est libre, et vos lois florissantes (“Londra è libera, e le vostre leggi fiorenti”)

Per la tradizione retorica anglosassone, specialmente (Peacham 1577; Lanham 1969), zeugma è l’incongruenza semantica, sillepsi quella grammaticale.

Dalla linguistica odierna lo zeugma è studiato come gapping (cfr. Ramat 1982; Neijt 1979), cioè, prevalentemente, come sfasatura semantica in un parallelismo sintattico (cfr. pure Sperber e Wilson 1986:222-224):

Aveva sedici anni e una moto.

Pietro è venuto con Maria, Paolo con Gigliola, Alberto col muso lungo.

[23] L’asindeto (gr. asýndeton “slegato”; lat. solutum, “slegato, sciolto”, e gli astratti – sinonimi – dissolutio, inconexio) è l’assenza di congiunzioni tra frasi o loro membri, che risultano collegati, o disgiunti, per semplice accostamento:

Veni, vidi, vici

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto

(Orlando furioso, I, 1-2)

Luogo naturale dell’asindeto, le enumerazioni (cfr. [16], al paragrafo precedente).

Generalmente si pensa all’asindeto come all’omissione di congiunzioni coordinative; ma per asindeto si possono esprimere anche rapporti di subordinazione:

Non vengo: non ho tempo (= perché non ho tempo)

Mi piace, lo prendo (= poiché mi piace...); oltre, naturalmente, alla coordinata: “mi piace, e perciò...”)

Lo vuoi? Prendilo (= se lo vuoi, prendilo)

Nella tipologia di Lausberg (1969:178-180) si distinguono le seguenti specie di asindeto: additivo (per semplice somma di membri), sommativo (dei membri assommati il primo o l’ultimo fungono rispettivamente da introduzione o da ricapitolazione), disgiuntivo (i membri sono presentati come alternativi), avversativo (coi membri antitetici), causale, esplicativo, conclusivo (secondo i rapporti che i membri intrattengono fra loro: si vedano gli esempi da noi dati).

Aggiungiamo un solo campione di enumerazione asindetica del tipo sommativo:

Guerra, tirannia, emergenza, guerra fredda [...], catastrofi dunque pubbliche, come i privati cataclismi, sembrano inventati per conferire una durata, già più che abbozzata del resto nelle “Occasioni”, al mondo istantaneo, discontinuo e indiretto della speranza, cioè della poesia, montaliana.

(Contini, AE 146)

Si sarà notato che gli stessi fatti discorsivi compaiono sotto diverse rubriche, in quella che sembra la sistemazione meglio organizzata (su criteri strutturali oltre che nozionali) della teoria classica in relazione alle figure. L’asindeto, ad es. compare come modo dell’accumulazione, nei procedimenti enumerativi, in una rubrica (le procedure dell’aggiunzione) che è l’opposto di quella in cui l’asindeto stesso viene registrato come figura (della soppressione). Questi doppioni classificatori sono giustificati dalle premesse del modello, ma precludono una visione unitaria (e coerente) dei fatti analizzati.

C) Figure di parola per permutazione e corrispondenza

Nell’ordine delle espressioni (parole o segmenti di enunciati), la retorica classica distingue permutazioni, cioè spostamenti di unità rispetto alla posizione considerata regolare, e corrispondenze foniche e morfologiche (cfr. lo schema di fig. 8).

c1) La permutazione. I fatti classificati come figure in questo raggruppamento (l’anastrofe, l’iperbato – entrambi intersecantisi –, l’epifrasi, che è una varietà dell’iperbato, e la sinchisi, la cui nozione ci riporta al dominio della perspicuitas, 2.13) sono oggetto di analisi sintattiche in quanto riguardano la collocazione (l’“ordine”, appunto) delle parole nella frase.

Per la linguistica (e la grammatica) attuali, tali fatti riguarderebbero l’intonazione e il modo in cui è distribuita l’informazione negli enunciati: ciò di cui si parla, cioè il tema o argomento (con termine inglese, topic), correlato a ciò che si dice riguardo al tema, cioè il rema o commento (in inglese, comment). La retorica classica li ha individuati e descritti prevalentemente come fatti stilistici.

[24] L’anàstrofe (gr. anastroph “inversione”; lat. anastrophe, inversio, reversio, conversio) viene generalmente definita come un’inversione nell’ordine, secondo alcuni “abituale”, secondo altri “normale”, di due o più parole o sintagmi successivi:

Ben provide Natura al nostro stato / quando de l’Alpi schermo / pose fra noi et la tedesca rabbia

(Petrarca, CXXVIII, 33-35)

E pianto, ed inni, e delle Parche il canto

(Foscolo, Dei sepolcri, 212)

allor che all’opre femminili intenta / sedevi

(Leopardi, A Silvia, 10-11)

tu / che il non mutato amor mutata serbi

(Montale, La primavera hitleriana, 34-35)

Nella storia del linguaggio poetico, l’anastrofe fa parte delle persistenze di una tradizione codificata che risale a moduli latini, in tutte le lingue romanze. Come altre costanti della tradizione poetica, può essere oggetto di parodia, con intenzioni di rottura del codice; può attuare un accostamento consapevole di antico e di nuovo (come in Saba, per esempio), essere un richiamo memoriale ecc.

Esempi da testi pubblicitari:

Interi mondi / ci siamo lasciati, / alle spalle. / Insieme rincorrendo / le più esaltanti avventure...

(pubblicità di Castrol)

Export di Henninger. Delle tre, la più allegra.

Non sa di plastica, / non sa di latta, / non sa di cartone / e non sa neanche di vetro, / il vetro

(Campagna Associazione Nazionale Industriali del Vetro)

Torniamo per un istante alla corrente definizione dell’anastrofe. Si osserverà che quando si parla di ordine “abituale” ci si riferisce all’uso; quando si parla di ordine “normale” si rimanda, tautologicamente, a una norma definibile, a sua volta, o astrattamente in base a un modello (ad es. quando si spiegano gli enunciati riportandoli a strutture di frase) o mediante generalizzazioni ricavate osservando frequenze e modalità di impiego, giudizi di accettabilità (relativi a tipi e situazioni del discorso) dati dai parlanti ecc. In espressioni entrate nell’uso con fissità fraseologica, come cammin facendo, strada facendo, l’anastrofe rappresenta l’ordine abituale (nell’ordine ‘normale’ delle parole in italiano, dove l’oggetto diretto segue il verbo, fare strada ha il significato di “lasciare il passaggio”). Inversioni quali fermo restando..., a Dio piacendo, sono certamente più ‘abituali’ (più usate) delle corrispondenti costruzioni che mantengono l’ordine normale delle parole.

Nel parlato come nello scritto l’inversione, che è uno dei possibili aspetti dell’anticipazione o prolessi, rappresenta molto spesso un’enfasi sulla parte di informazione ‘nuova’ dell’enunciato, o sul commento anteposto all’argomento o tema (che nell’ordine non marcato delle parole nella frase precede il commento o rema; cfr. quanto detto all’inizio delle presente sezione); come si vede nel primo e nel terzo dei testi pubblicitari appena citati.

[25] L’ipèrbato (gr. hyperbatón “trasposto”; lat. transgressio “l’andare oltre”, transiectio “il far passare al di là; trasposizione”) si produce quando un segmento di enunciato viene interposto a due costituenti di un sintagma, oppure a sintagmi uno dei quali sia subordinato all’altro: è il caso degli adnominali (o modificatori di un nome) e degli avverbiali (modificatori di verbi, aggettivi e avverbi).

Come fatto sintattico l’iperbato, al pari dell’anastrofe (dalla quale, del resto, non è sempre chiaramente distinto nelle esemplificazioni classiche), si colloca tra quelle modificazioni nell’ordine dei costituenti di frase che sono dovute a variazioni nel ‘distribuire’ l’informazione; di qui l’enfasi sugli elementi ‘spostati’. Negli esempi che seguono si segnalano col corsivo le parole (costituenti di sintagmi ecc.) separate dalle interposizioni:

Risponderò alle, senza dubbio numerose, obiezioni

Il di lei fratello...

Quest’accanita a spezzarmi il cuore / carcere mia d’amore!

(Villon, trad. Ceronetti, CT 51)

... tardo ai fiori / ronzìo di coleotteri

(Montale, La rana, prima a ritentar..., 5-6)

Derelitte sul poggio / fronde della magnolia / verdibrune...

(Montale, Derelitte..., 1-3)

colpa che pure le vittime della legge [...] riconoscono inespiabile quanto più sono, nell’accezione comune, innocenti.

(Segre, DM 183)

[26] L’epífrasi (gr. epíphrasis “aggiunta”) come figura riguardante la disposizione delle parole è una variante dell’iperbato (la ritroveremo tra le figure di pensiero per aggiunzione, 2.18:[4]). Essa consiste nell’aggiungere un membro a un enunciato, in posizione tale da produrre un iperbato fra il membro aggiunto e quelli ai quali quest’ultimo si coordina:

Dolce e chiara è la notte e senza vento

(Leopardi, La sera del dì di festa, 1)

Io gli studi leggiadri / talor lasciando e le sudate carte

(Leopardi, A Silvia, 15-16)

d’una clessidra che non sabbia ma opere / misuri e volti umani, piante umane

(Montale, Il rumore degli èmbrici..., 11-12)

L’epifrasi è dunque un iperbato tra membri coordinati, anziché tra elementi in rapporto di subordinazione, tra i quali si verifica l’iperbato nella sua forma canonica.89 Può trovarsi coniugata con figure della ripetizione, e in particolare con l’epifora.

Tra le figure risultanti da interposizioni, si annovera la tmesi, metaplasmo grammaticale (cfr. 2.12:A1) e figura sintattica (“metatassi”) di permutazione nel modello di RG (cfr. fig. 2 e 3.2:B4).

[27] La sìnchisi (mixtura verborum: cfr. 2.13) è la mescolanza come turbamento dell’ordine abituale delle parole, ed è prodotta dalle ripetute combinazioni di anastrofi e iperbati in uno o più enunciati connessi. Le lingue classiche offrono una ricca esemplificazione letteraria dei fenomeni di sinchisi (cfr. Lausberg 1969:183): elaborato funambolismo verbale, sospeso tra l’oscurità (2.13) e un calcolo sapiente dello spazio di libertà compositiva consentito dalle strutture della lingua.

Modernamente, la sinchisi può identificarsi con gli effetti dell’ambiguità semantica e figurale a cui è legata la polisemia dei testi poetici. Un noto esempio è il verso carducciano:

il divino del pian silenzio verde

se si rifiuta di riconoscere in silenzio verde una sinestesia (cfr. 2.16:[3]) e si collega verde a pian, oltre che divino a silenzio, stabilendo, per il verso, una conformazione a scacchiera.

c2) Figura della corrispondenza di enunciati e dei loro costituenti sui piani sintattico, metrico e fonologico è l’isocolo.

[28] L’isocòlo o parisòsi (gr. isókōlon, da íson “eguale” e kin335-1lon“membro”; párison “quasi uguale, corrispondente” [sottinteso: schin163-1ma], tradotto nella designazione latina di compar / exaequatum membris [schema]) è l’equivalenza, nell’ampiezza e nella struttura sintattica, di periodi, frasi e loro membri; e di strofe, versi e cola nella forma metrica.90

Il parallelismo dei membri è tipico, ma non certo esclusivo, dello stile biblico (cfr. 2.17a1); in varie forme è abbondantemente testimoniato in ogni epoca e negli autori più diversi, nella prosa letteraria e nelle movenze del discorso comune. Un esempio dalla Bibbia:

Come latte tu mi hai cagliato / Come formaggio mi hai raggrumato / Di pelle e carne tu mi hai vestito / Di ossa e tendini mi hai armato

(Giobbe, trad. Ceronetti, 10, 10-11)

L’estensione minima dell’isocolo è, ovviamente, di due membri, ciascuno dei quali consti almeno di due parole:

Corto di giorni / Stipato di dolori

(ivi, 14, 1)

Nel parallelismo di due membri si trova di frequente un’antitesi (2.18:[8]):

Compri due / paghi uno

(slogan pubblicitario)

Qui si vince o si muore

Il parallelismo di tre membri o tricòlon (gr. tríkōlon), isocolo trimembre, può essere così esemplificato:

L’esperienza di ieri – l’avventura di oggi – le sfide di domani

(pubblicità di Safariland, Roma)

L’isocolo plurimembre, ad es. il tetracòlon (gr. tetrákōlon), che è costituito di quattro cola paralleli, ha i caratteri dell’enumerazione (2.17:[16]) e spesso ha struttura anaforica (2.17:[5]). Si veda il seguente passo delle Faville del maglio di D’Annunzio (commentato da Beccaria, 1975:308-309):

Era calcina grossa, || e poi era terra cotta, || e poi pareva bronzo; || e ora è cosa viva, || ...

Non odo il suo respiro, | non il canto del gallo, | non il nitrito del poledro, | non il fiotto del bimbo

Nei modelli classici, da Quintiliano in poi (documentati in Lausberg 19732:359-374), la parisosi è stata analizzata secondo l’autonomia sintattica dei membri coordinati (subiunctio, adiunctio), la loro composizione semantica (disiunctio) e la loro consistenza fonica e morfologica (omeoteleuto, omeottoto ecc.). Si ebbero così le seguenti classificazioni:

a)subiunctio o subnexio (gr. hypozêuxis), se i membri coordinati sono frasi intere, sintatticamente autonome:

Chi siamo, donde veniamo, dove andiamo?

b)adiunctio, se i membri (coordinati) sono gruppi (parti di frasi o frasi) non autonomi sintatticamente; questa figura è un tipo di sillepsi (2.17:[22]):

Mi sembra ignobile il proverbiale non vedere, non sentire, non parlare.

c)disiunctio, se i membri constano di sinonimi (questo vale per entrambe le precedenti costruzioni):

Chiedeva compassione, invocava pietà, supplicava clemenza.

Ti prego di non lasciarti andare a chiacchiere, di non indulgere a pettegolezzi.

La disiunctio è un fenomeno della variatio.

Se alla sinonimia, cioè all’equivalenza dei significati, subentrasse l’uguaglianza dei membri, la disiunctio trasmigrerebbe in forme della repetitio (in figure della ripetizione).

[29] Riguardo alla consistenza fonica, l’omeotelèuto o omoteleuto è la terminazione eguale o simile di parole (gr. homoiotéleuton, tradotto in lat. con l’espressione simili modo determinatum “terminante in modo simile”, oltre che adattato nella forma homoeoteleuton). È un fenomeno dell’omofonia, in cui rientrano, oltre all’omoteleuto, anche la rima e l’allitterazione (cfr: 2.20). Se non è letterariamente giustificata (come le rime e le assonanze in poesia: cfr., ad es. le assonanze del Cantico di Frate Sole: Signore / benedittione; splendore / significatione; terra / governa / erba ecc.), la ripetizione di finali di parole genera, nel discorso comune, fastidiose cacofonie (“l’argomento dell’inquinamento, che abbiamo trattato, è documentato dall’allegato...”) da cui sembra difficile liberarsi, specialmente quando si debba, o si voglia, fare uso di tecnicismi (opportuni o presunti tali). Analoghe osservazioni per le forme allitteranti (si noti qui, nella frase precedente, “presunti tali”: allitterazione da negligenza espressiva, in luogo di “o che si presume lo siano / o che sembrino tali ecc.”).

Negli Esercizi di stile di Queneau tradotti da Eco la figura è così esemplificata:

Non c’era venticello e sopra un autobello che andava a vol d’uccello incontro un giovincello dal volto furboncello con acne e pedicello ed un cappello [...].

Un giorno d’estate, tra genti pestate come patate su auto non private, vedo un ebète, le gote devastate, le nari dilatate, i denti alla Colgate, e un cappello da abate [...]

(Queneau, ES 45; trad. Eco)

L’omoteleuto diventa tecnica a effetto negli slogan che sfruttano il parallelismo ripetitivo di rime e cadenze ritmiche martellanti.

[30] L’omeottòto (gr. homoióptōton, tradotto in latino con simile casibus “[espressione] simile nei casi” e adattato nella forma homoeoptoton) è fenomeno delle lingue flessive, che hanno marche morfologiche per i casi (flessione nominale) e per la coniugazione dei verbi (flessione verbale). L’omeottoto può comprendere o no un omeoteleuto; come spiega Quintiliano:

la terza specie [di somiglianza] consiste nel far terminare le ultime parole dei singoli membri con gli stessi casi: ed è detta homoióptōton [...]. I migliori esempi di tale figura sembrano quelli in cui inizi e clausole di periodi concordano in maniera che le parole siano simili ed abbiano uguali terminazioni e desinenze: e che siano anche – questa è la quarta specie – con membri uguali, sì da formare, un isókōlon (frase con membri uguali). [...] Non minus nunc in causa || cederet Aulus Caecina Sexti Aebuti impudentiae || quam tum in vi facienda || cessit audaciae [“Non meno ora nella causa Aulo Cecina cederebbe all’impudenza di Sesto Ebuzio di quanto allora non abbia ceduto, nell’usare violenza, all’audacia sfrontata”] è un isókōlon, un homoióptōton, un homoiotéleuton. Si aggiunge anche l’elegante effetto che deriva dalla figura [il polittoto] consistente [...] nel ripetere dei termini con uscite diverse: non minus cederet quam cessit. Invece, homoiotéleuton e paronomasῐa sono in questo esempio: neminem alteri posse dare in matrimonium, nisi penes quem sit patrimonium (“nessuno può dare una donna in matrimonio ad un altro, se non colui che possegga un patrimonio”).

(Inst. orat., IX, 3, 78-80)

[31] La paromeòsi (gr. paromóiōsis “quasi uguaglianza”; lat. paromoeosis) è lo stadio più complesso della parisosi, in quanto comprende fenomeni dell’omeoteleuto e dell’omeottoto e insieme della paronomasia (2.17:[8]) e del polittoto (2.17:[9]). Molti degli esempi di paronomasia che si danno modernamente sarebbero stati classificati dai retori antichi sotto la paromeosi.

Un esempio di alta letteratura (cit. da Lausberg 1969:193):

et l’on peut me réduire à vivre sans bonneur, / mais non pas me résoudre à vivre sans honneur

(Corneille, Le Cid, II, 1, 395)

E uno di bassa paraletteratura:

Straziami, ma di baci saziami... / Femmine || dalle labbra tumide || dalle bocche languide || ...

Distribuzioni diverse delle classiche “figure di parola” e classificazioni concorrenti o alternative saranno presentate, come già annunciato, nel successivo capitolo 3.

2.18. Figure di pensiero

  Il dividere le sentenzie dalle parole è un dividere l’anima dal corpo.
  (B. Castiglione)

Le classificazioni delle “figure di pensiero” (gr. dianóias schmata; lat. figurae sententiae) appaiono, tutte, disomogenee, meno attendibili delle corrispondenti tassonomie delle figure di parola, che avevano almeno come base di raffronto una qualche individuazione di strutture grammaticali. Le figure di pensiero vennero invece riconosciute sull’incerto fondamento di concetti vaghi, mal (o mai) definiti, fatti coincidere intuitivamente con procedure discorsive talora comuni a più figure. Il riconoscimento di queste è sempre stato in bilico tra gli atteggiamenti che si vedevano manifestati, i modi in cui erano manifestati e i relativi caratteri grammaticali (connessi dunque ai valori argomentativi e stilistici). Avevano un bell’ammonire, gli antichi maestri di retorica, che il fulcro di tali figure era il pensiero, qualunque fosse la maniera di esprimerlo; che la “figura” doveva essere riconoscibile anche col variare dell’elocuzione: alla prova dei fatti diventava difficile definire schemi di pensiero con gli strumenti dell’antica ‘arte del parlar bene’. Fondata sulla separazione tra res e verba, la bipartizione delle figure mette in crisi la separazione stessa: perché anche le res, i contenuti, sono analizzabili in quanto ‘materia formata’ e non magma indiscreto, ma la ‘forma’ non può essere identificata, sic et simpliciter, con “le parole”. Riguardo alle figure di pensiero, le teorie classiche dell’elocuzione si imbattevano nei problemi dell’organizzazione (cioè della forma) del contenuto. I mezzi che avevano a disposizione per risolverli non potevano che condurle a soluzioni contrastanti. Nessuna meraviglia, quindi, se gli stessi fatti discorsivi sono per gli uni figure di pensiero, per gli altri figure di parola, di stile ecc.

La Rhetorica ad Herennium (IV, 35-55) elenca una ventina di figure di pensiero. Anche alla più elementare delle verifiche non sfuggiranno le connessioni della tradizione posteriore (romana, medievale e moderna) con questo catalogo; che è debitore, a sua volta, della dottrina asiano-ellenistica delle figure:

1) distributio “distribuzione” (collocata da altri fra le figure di parola; Lausberg la descrive come uno dei due tipi dell’accumulazione coordinante: già vista in 2.17:[17]);

2) licentia “licenza” (qui [29]);

3) deminutio “attenuazione”, corrispondente in parte alla litote (2.16:[8]);

4) descriptio “descrizione”, ipotiposi (qui [2]);

5) divisio “divisione”, figura simile al dilemma: “distaccando una cosa dall’altra, adduce i motivi e le risolve entrambe, in questo modo: ‘Perché io ora dovrei rimproverarti qualcosa? Se sei onesto, non lo meriti; se disonesto, non ti lascerai turbare” (Rhet. Her., IV, 40);

6) frequentatio “accumulazione” (è descritto ed esemplificato l’uso argomentativo del procedimento che, nelle sue componenti formali, abbiamo visto come procedura di base per il secondo raggruppamento delle figure di parola per aggiunzione);

7) expolitio “ritocco” (qui [1]);

8) commoratio “indugio” (ivi);

9) contentio “antitesi” (qui [8]);

10) similitudo “paragone” (qui [14]);

11) exemplum “esempio” (qui [15]);

12) imago “immagine” (secondo altri, una specie della similitudine);

13) effictio “ritratto” (qui [2]);

14) notatio “descrizione di un carattere”, etopea (qui [2]);

15) sermocinatio “dialogismo” (qui [27]);

16) conformatio “personificazione”, prosopopea (qui [25]);

17) significatio “allusione” (qui [23]), ottenuta mediante: a) esagerazione, b) ambiguità, c) conseguenza, d) reticenza (qui [19]), e) analogia;

18) brevitas “concisione” (qui [16] e [17]);

19) demonstratio “dimostrazione visiva” (il ‘mettere davanti agli occhi’), ipotiposi (qui [2]).

f342-1

Figura 9 - La VII classe delle figure del discorso di Fontanier.

Fontanier, che ridistribuisce originalmente l’eredità della retorica classica e rifiuta, come si è visto, la fondamentale bipartizione tra figure di parola e di pensiero (cfr. fig. 4), riserva tuttavia alle figure di pensiero una classe, la settima, nel suo sistema, e la suddivide secondo procedure assai poco omogenee, come risulta dallo schema in fig. 9.

Lausberg sa benissimo che “elaborazione intellettuale e formazione linguistica sono un processo inscindibile” (Lausberg 1969:194) e perciò si preoccupa di avvertire, all’occasione, che uno stesso procedimento può essere figura grammaticale, per quanto riguarda le modificazioni morfologiche, figura di parola, sul piano della funzione sintattica e degli effetti stilistici, e figura di pensiero riguardo alle relazioni logico-semantiche, all’inquadramento tematico, agli scopi del comunicare ecc. (ad es. l’iperbato è da lui descritto come figura di parola che corrisponde sul piano dei metaplasmi alla tmesi e sul piano delle figure di pensiero alla parentesi: cfr. Lausberg 1969:181). La sua ricerca di simmetria lo spinge a proporre “sperimentalmente” una sistemazione delle figure di pensiero secondo le quattro categorie del mutamento, come appare dallo schema di fig. 10.

Non è indispensabile per un’informazione complessiva sulla tradizione retorica dar conto della rete concettuale in cui Lausberg imbriglia una materia così fluida. Ci contenteremo perciò di passare in rassegna le singole figure, spezzettando la materia in maniera ancora più drastica di quanto non si sia fatto finora. L’attenzione si concentrerà sui tasselli del mosaico terminale, che sono i soli confrontabili con quelli di altri mosaici: la sistemazione di Fontanier, ad es. e le proposte delle attuali neoretoriche.

A) Figure di pensiero per aggiunzione

[1] La commoratio (gr. epimon “indugio, insistenza”; lat., oltre alla denominazione principale, repetitio crebra sententiae “ripetizione frequente di un pensiero”) è un indugio ripetitivo sulle idee comunicate. Tale indugio può attuarsi nella interpretatio o parafrasi interpretativa, che consiste nell’accostare a un enunciato un altro equivalente, col risultato di chiarire e arricchire il pensiero già espresso (procedimento comunissimo, come lo è l’uso di sinonimi):

Non è una melanconia compatta e opaca, dunque, ma un velo di particelle minutissime d’umori e sensazioni, un pulviscolo d’atomi come tutto ciò che costituisce l’ultima sostanza della molteplicità delle cose.

(Calvino, LA 21)

Oppure la commoratio può presentarsi come expolitio, traducibile col termine ritocco: un ritornare sullo stesso tema, o sul nucleo di questo, aggiungendo informazioni complementari e variando l’espressione. Esempio classico l’attacco ciceroniano della prima catilinaria:

Quousque tandem abutēre, Catilina, patientia nostra? Quamdiu etiam furor iste tuus nos eludet? quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? (“Fino a quando abuserai, o Catilina, della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora codesta tua follia si prenderà gioco di noi? Fin dove si spingerà questa tua sfrenata insolenza?”)

Un esempio moderno:

ma soprattutto [i Milanesi] corrono in cerca di quelle espressioni ancora rimaste intatte della “natura”, di ciò che essi intendono per natura: un misto di libertà e passionalità, con non poca sensualità e una sfumatura di follia, di cui, causa la rigidità della moderna vita a Milano, appaiono assetati.

(Ortese, L’I. 15)

I modi della commoratio, come quelli che vedremo nella successiva figura di pensiero, rispondono all’esigenza di ‘specificare nei particolari’; che, nell’inventio, è la funzione tipica sia della “narrazione” sia dell’“argomentazione” riguardo alle rispettive “proposizioni” (cfr. 2.5).

  Raccolte a tulipano le cinque dita della mano destra, altalenò quel fiore nella ipotiposi digito-interrogativa tanto in uso presso gli Apuli.
  (Gadda)

[2] Le risorse dell’expolitio si concentrano anche nell’ipotiposi o descrizione (gr. hypotýpōsis “abbozzo, schizzo”, coi sinonimi: diatýpōsis “il configurare”, ékphrasis “descrizione”, enárgeia “evidenza” ; lat. evidentia, descriptio, illustratio, demonstratio “il mostrare”). È il ‘porre davanti agli occhi’, in evidenza, appunto, l’oggetto della comunicazione, mettendone in luce particolari caratterizzanti, per concentrare su di esso l’immaginazione (phantasía, in greco; visio, in latino) dell’ascoltatore, la sua capacità di raffigurarsi nella mente ciò di cui si parla, di tradurre le parole in immagini.

Rientrano sotto questa rubrica le varie specie e tecniche della descrizione che Fontanier raggruppa (insieme con l’expolitio) nella sottoclasse delle “figure di pensiero per sviluppo” (cfr. fig. 9): la topografia, descrizione di luoghi; la cronografia, di circostanze di tempo; la prosopografia, di qualità fisiche, aspetto, movimenti ecc. di un essere animato; l’etopea, di qualità morali, vizi e virtù, comportamenti ecc.; il ritratto, che comprende la prosopografia e l’etopea; il parallelo, che in due descrizioni, o consecutive o mescolate, mette in evidenza somiglianze e differenze di oggetti e individui descritti; il tableau (“messa in scena”),91 che comprende, esaltandole, tutte le altre forme, in quanto raffigurazione “viva e animata” di “avvenimenti, azioni, passioni, fenomeni fisici e morali” (FD 431).

Occorrono esempi? La memoria letteraria di ognuno potrà provvedere facilmente; e lo potrà pure la comune esperienza di parlanti ‘comuni’: nelle narrazioni di casi della vita ci sarà pure occorso di schizzare (o di apprezzare in un altro la capacità di farlo) un quadro vivo della situazione, di descrivere luoghi e momenti di un avvenimento, di delineare efficacemente una fisionomia ecc.

Le procedure descrittive, su cui i maestri dell’oratoria antica e medievale si erano soffermati per mostrarne l’efficacia specialmente nei generi del discorso persuasivo, vengono oggi assunte, in alcune delle vulgate tipologie dei testi, come tratti caratterizzanti di moduli discorsivi (ad es. la descrizione “tecnica” opposta a quella “impressionistica”), distribuiti in diversi generi testuali.

[3] L’arricchimento concettuale, oltre che con lo specificare nei particolari, si può ottenere argomentando: l’accumulazione argomentativa consta della forma canonica del ragionamento logico-dialettico, il sillogismo, nella sua variante retorica, l’entimema (cfr. 1.5 e 2.6:[3]).

[4] L’epìfrasi, già considerata come figura di parola (2.17:[26]), trova posto nel dominio delle figure di pensiero come sviluppo di idee accessorie, come accumulazione di senso intorno a un nucleo concettuale già manifestato.

Le tre figure successive, nel catalogo di fig. 10, servono, ciascuna in modo diverso dalle altre, allo scopo di chiarire il significato di espressioni date.

  Diffinizione d’una cosa è dicere ciò che quella cosa è, per tali parole che non si convegnano ad altra cosa.
  (Brunetto Latini)

[5] La definizione (gr. orismós, da orízō “segno i confini, determino”; lat. finitio, da finis “confine”) è la delimitazione di un concetto, la dichiarazione precisa di “ciò che si intende per...” Essa trova posto in ogni tipo di discorso. Un esempio di uso eccellente, germogliato sulla tradizione alta della scolastica medievale:

fede è sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi / e questa pare a me sua quiditate

(Par., XXIV, 64-66)

Una definizione, se usata al posto del termine definito, è una perifrasi sostitutiva (cfr. 2.16:[5]). Se si presenta come spiegazione del significato originario (etimo) di una parola, è una etimologia:

Humilis sta in rapporto con humus, il terreno, e nel senso letterale significa basso, posto in basso, poco sollevato. In senso traslato la parola si è sviluppata in direzioni diverse.

(Auerbach, LLP 44)

L’uso argomentativo della definizione (cfr. 2.6:[4] e [6]) è consueto in svariati generi testuali. Un esempio da un manuale giuridico:

Il delitto, pertanto, non ha due eventi, ma uno soltanto: la malattia [...]. Ma che cosa deve intendersi per “malattia”? Secondo la Relazione ministeriale al Progetto è malattia “qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo [...]”. Questa nozione è generalmente ritenuta inesatta [...]. Il Manzini ha sostenuto che, agli effetti del diritto penale, deve considerarsi malattia “ogni processo patologico che richiede cura, riguardi o custodia”, ma giustamente tale criterio è stato ritenuto empirico [...]. Pertanto [...] riteniamo che la malattia consista in quel processo patologico, acuto o cronico, localizzato o diffuso, che determina una apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo.

(Antolisei, MDP I, 66-67)

[6] La dubitatio “esitazione” (gr. aporía “difficoltà, incertezza”, diapórēsis “imbarazzo, dubbio”) è l’incertezza tra due o più possibili interpretazioni di un fatto, evento, stato di cose ecc.; si vagliano circostanze e opinioni contrastanti, si valuta il pro e il contro di una situazione o di un’idea, in vista di una decisione da prendere. I ‘dubbi’ che Dante espone, prima a Virgilio poi a Beatrice, nel corso del suo viaggio ultraterreno, possono essere letti, in gran parte, come esempi di questa figura retorica. A cominciare dal secondo canto dell’Inferno, ove il poeta argomenta sulla sua esitazione a compiere l’“alto passo”, concludendo:

Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede? / Io non Enea, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri ’l crede.

(Inf., II, 31-33)

Si può anche manifestare la difficoltà di dare un giudizio, di pronunciarsi su questioni o eventi:

Fu vera gloria? Ai posteri / l’ardua sentenza...

(Manzoni, Il 5 maggio, 31-32)

Fontanier sdoppia la classica dubitatio in “esitazione” e “deliberazione” (cfr. fig. 9) e annovera la prima fra le “presunte figure di pensiero”, vedendovi soltanto la manifestazione di sentimenti contrastanti, fra i quali non trova posto una riflessione razionale: tanto basterebbe, secondo lui, per rifiutare lo status di figura a ciò che altro non sarebbe se non “turbamento, perplessità, tedio, disgusto, dolore o qualsiasi altra situazione penosa dell’animo” (FD 446). La “deliberazione”, invece, compresa nella sottoclasse delle “figure per ragionamento o per combinazione”, si identificherebbe con le valutazioni razionali del pro e del contro di una possibile decisione, con esitazioni simulate, avendo già ben presente la soluzione ottimale.

[7] La correctio “correzione” (gr. metánoia “cambiamento di parere”, epitímēsis “censura”) come chiarimento semantico si offre in forme svariate e in due tipi principali: come contrapposizione (antitesi: cfr. [8]): ‘non p, ma q’ (con le varianti stilistiche: ‘q, non / anziché p’ ecc.) e come miglioramento: ‘p o piuttosto / per meglio dire ecc. q’ (con varianti stilistiche fra cui segnaliamo le forme asindetiche documentate qui appresso dal secondo e dal terzo esempio):