Sei

Il termometro segnava quasi quaranta gradi a Freemont Street e Bishop si riparò in un piccolo ristorante vicino a uno dei casinò. Si sedette e fece la sua ordinazione alla cameriera. Qualcuno aveva inciso un grande zero al centro del tavolo. I tagli circolari erano profondi e scoloriti da molti passaggi di straccio bagnato. Esaminò il brutto disegno per un attimo, poi, con molta calma, cambiò tavolo.

In un angolo del locale una donna giocava con due slot-machine. Inseriva un quarto di dollaro in una macchina e tirava la leva, poi faceva la stessa cosa con la seconda, mentre le ruote nella prima ancora giravano. Sul suo viso c'era un'espressione decisa. Aveva un suo sistema, qualcosa che aveva a che fare con l'energia elettrica prodotta dai suoi continui movimenti, e lei voleva vincere su entrambe le macchine, anche se avesse dovuto usare ogni quarto di dollaro o tutti i centesimi che aveva.

Bishop osservava la donna con chiaro interesse. Era ovviamente una turista, grossa e pesante, con rotoli di grasso che le pendevano flosci dalla parte superiore delle braccia e delle gambe. La testa era coperta da un cappello di paglia. La grande quantità di pelle in mostra sembrava di un bianco brillante e il giovane si chiese che effetto avrebbe fatto tagliare tutta quella carne soffice.

La cameriera gli portò quanto ordinato, caffè e un sandwich al prosciutto. «Niente mortadella, come le avevo detto», disse veloce. Poi se ne andò e lui rimase a osservare la sua figura che si allontanava. Era giovane e formosa e almeno dieci chili sovrappeso. Immaginò anche lei sotto la sua lama e il caffè si raffreddò mentre fantasticava.

Era a Las Vegas da quattro giorni. Era arrivato con l'autobus al deposito rimodernato di South Main Street, la sera del 1° agosto, dopo la piacevole corsa da Los Angeles durata sei ore.

Un'ora di passeggiata gli aveva permesso una ricognizione nella zona del centro e lo aveva portato a un hotel abbastanza economico, nonostante la facciata ricoperta di neon, sulla Venticinquesima Nord, subito dopo un centro commerciale. Intendeva fermarsi qualche settimana e poi andare oltre, qualsiasi cosa significasse.

Non che avesse fretta di lasciare Las Vegas. Era affascinato dalla folla di persone che ogni sera si riversava nelle sale da gioco di Fremont Street, molte delle quali apparentemente intenzionate a giocarsi la vita. Nei loro volti, in quei momenti, intravedeva una follia che aveva visto spesso a Willows, l'occhio maniacale, le labbra strette, le guance contratte di chi è sprofondato nell'isolamento e, naturalmente, il finale e inevitabile sguardo vuoto di disperazione totale.

Anche l'enorme quantità di denaro lo incuriosiva. Non aveva mai visto così tanti soldi, non aveva mai neanche immaginato che ne esistessero tanti al mondo. E tutte quelle persone li gettavano via, concentrate solo sul successivo lancio dei dadi, su una nuova carta o su un giro di ruota. A ogni gentile domanda rispondevano burbere che stavano bene e di farsi per cortesia gli affari propri.

«Fate il vostro gioco», chiedevano i croupier con finta premura. «C'è un vincitore a ogni giro». Ma Bishop ne vide ben pochi.

Passava la giornata a visitare la città. Poco dopo il suo arrivo aveva affittato un'auto, utilizzando la patente e la carta di credito intestate a Daniel Long. Ottenne l'auto, una Ford Pinto con chilometraggio illimitato, con grande facilità. In albergo si era registrato prima sotto un altro nome, qualcosa di facile da ricordare, dato che non era richiesto nessun documento d'identità. Era una tecnica che aveva imparato dai polizieschi in TV e che avrebbe continuato a seguire nei mesi successivi mentre attraversava il paese.

Trascorse la prima mattina guidando nelle varie zone della città, anche nel favoloso Strip con le sue due dozzine di opulenti hotel e famosi casinò. Non fece fermate, questa attività la lasciava per le ore serali quando, tra la folla enorme, il suo anonimato era garantito. Nel pomeriggio visitò il vicino lago Mead e la diga di Hoover. L'incredibile panorama dall'alto della diga lo riempì di soggezione: non aveva mai visto niente del genere in televisione. Non riusciva a credere che fosse vera. Lo riempì di disagio il pensiero di cadere da un'altezza simile. Una volta tornato a terra, giurò che non si sarebbe mai più messo in una situazione così pericolosa.

Il giorno successivo guidò lungo il Virgin River fino a Saint George e a Hurricane, poi alle due del pomeriggio raggiunse lo Zion National Park. Pranzò allo chalet, poi fece il giro turistico del parco e visitò il famoso Angel's Landing, il Tempio di Sinawava e il Great White Throne4. Sulla strada del ritorno, cenò con costolette di bue e una bottiglia di Chablis, vino che gli era stato consigliato la sera prima in un ristorante sulla strada. Arrivato al suo albergo subito dopo le dieci, dormì per quasi due ore prima di cambiarsi la camicia e riprendere la sua esplorazione della vita notturna della città.

Tutte le sere passeggiava nella zona del gioco giù al centro e lungo lo Strip, affascinato dalle migliaia di luci al neon, dalle ondate di persone e dalla crescente eccitazione che accompagna sempre il denaro. Aveva visto documentari su Las Vegas in TV, ma impallidivano di fronte alla realtà e, a volte, mentre vagava tra i casinò, si sentiva come fosse di nuovo a Willows, circondato da folli di ogni genere, indipendentemente dagli abiti e dalle uniformi che indossavano. Solo che qui nessuno lo conosceva, nessuno l'avrebbe cercato, né sarebbe mancato una volta scomparso.

Ancora più importante era la presenza delle donne. Erano ovunque, a migliaia, forse a milioni. Le più belle donne che avesse mai visto, specialmente nei grandi alberghi sullo Strip. Dovunque si voltasse, c'erano donne che lo guardavano, lo soppesavano, lo fissavano. E lui le fissava a sua volta. Iniziò a pensare che sarebbero state sue se solo lo avesse chiesto. Ma lui non intendeva chiedere, lui avrebbe preso.

Se qualcuno l'avesse osservato attentamente durante quelle sue uscite notturne, lo avrebbe senz'altro scambiato per uno dei tanti turisti che si godevano una delle maggiori attrattive della capitale del gioco, le donne. Nessuno avrebbe sospettato che quel giovane ben vestito e avvenente, dall'occhio attento, stesse scegliendo con cura la prossima vittima della sua furia omicida. Questa volta gli serviva una che gli procurasse quel denaro di cui lei non avrebbe più avuto bisogno.

La necessità di trovare dei soldi gli era dolorosamente evidente. Gli erano rimasti meno di novecento dollari. Ma Bishop non sapeva niente di lavoro, né come ottenerlo, né come cercarlo. E naturalmente, non avendo mai lavorato nella sua vita, non aveva nessuna qualifica. Senza esperienze né referenze, sarebbe stato costretto ad accettare i lavori più umili. Questo non l'avrebbe tollerato. Aveva intenzione di viaggiare, di vedere posti diversi e di allontanarsi il più possibile dalla California, sempre coperto dal completo anonimato. Nessuno avrebbe dovuto sapere di lui, nessuno avrebbe neanche dovuto sospettare la sua esistenza, se lui intendeva raggiungere il vero scopo della sua vita. No! Avrebbe ottenuto il denaro necessario in qualche altro modo.

Era vagamente consapevole che esistevano molti modi illegali di far soldi, ma lui non ne conosceva nessuno. Inoltre, l'idea non lo attraeva. Era interessato solo alla sua sopravvivenza. Oltre a ciò, le banconote non avevano alcun significato per lui; sembravano tanti coupon che venivano scambiati per ottenere il necessario. E lui aveva poche necessità. In realtà, non sopportava che la sua caccia e la distruzione dei demoni e dei mostri fossero condizionate dal bisogno economico. Si ripromise che, una volta avuto abbastanza per sopravvivere, avrebbe smesso di pensare in quei termini. Allora sarebbe stato davvero libero di abbattere i demoni ovunque si trovassero.

Che ce ne fossero così tanti lo tormentava. Cominciò a osservare le loro bocche, immaginandosi quelle labbra rosse e piene su di lui. Guardava i loro seni, grosse masse di morbida carne che entravano nel palmo della sua mano. E i loro ventri piatti, la pelle levigata che ricopriva tutte quelle cose all'interno che lui aveva bisogno di vedere, di toccare e di stringere. Quasi tutte le donne che incontrava per strada, nei locali, ovunque, stimolavano la sua immaginazione e scatenavano il flusso delle immagini. Bocche senza volto, seni liberi dal corpo, ventri squarciati, tanti organi, fegati, reni, cuori, rotoli di intestino, gli organi sessuali, pezzi di muscolo, ossa e sangue dappertutto, fette di carne, una grande quantità di pelli scuoiate appese a sbiancare al sole, braccia e gambe recise, mani e piedi, tutto che mulinava nel limbo della sua mente torturata, tutto che tormentava la sua anima febbricitante.

Continuava a pensare ai milioni di donne nel mondo, a tutte quelle che non sarebbero state sue neanche per pochi attimi. Non avrebbe mai potuto ucciderle, aprirle, possederle. Una quantità che le rendeva irraggiungibili. Anche all'impossibile ritmo di una al giorno per cinquant'anni, non avrebbe lasciato neanche un segno nell'incommensurabilità del loro numero. Questa consapevolezza lo nauseava ogni volta che ci pensava; rimuginava sulle sue implicazioni. I demoni cospiravano contro di lui, come avevano fatto tutti a Willows. Ma avrebbe sconfitto anche loro in un modo o nell'altro. Se ne sarebbe impossessato, uno per volta. Forse così facendo sarebbe vissuto per sempre, forse era quello il segreto dell'eterna giovinezza. Non trovava niente di strano o di spiacevole nell'idea che quello potesse davvero essere il suo destino.

La seconda sera attaccò discorso con una ragazza in uno dei ristoranti del Dunes Hotel, o forse era stata lei a farsi avanti. Si sorrisero. Il sorriso di lei era più carico di elettricità del suo. Chiacchierarono del più e del meno mentre mangiavano, poi di se stessi. Per divertirsi le disse che veniva da Pittsburgh. Era una ballerina di Chicago, così disse, che cercava di sfondare a Las Vegas. Non era facile, non aveva agganci e così era molto dura.

«Che intendi per agganci?», chiese lui innocente.

Lei lo guardò e batté le ciglia finte con uguale innocenza. «Agganci? Conoscenze, sai cosa intendo», gli disse. «Hai bisogno di conoscenze per lavorare qui».

«E tu li chiami agganci?».

«Tutti li chiamano così. Se non ne hai, non lavori».

«Come si ottengono questi agganci?».

«Dipende da chi sei».

«Cioè? Chi devi essere?».

«Per esempio, aiuta se il tuo ragazzo è il padrone dell'hotel».

«Conosci qualcuno così?».

«Pensi che sarei qui se fosse così?». Lei rifletté per un attimo. «Conoscevo qualcuno del genere, un po' di tempo fa. Uno davvero importante, sai?».

«Che è successo?».

«Era in città solo per una settimana».

«Non puoi semplicemente presentarti e dire che hai ballato a Chicago?».

«Qui non significa niente. Questo è il centro del mondo, rispetto a Vegas tutto il resto è campagna. Con l'eccezione forse di Broadway».

«Allora di' che hai ballato a Broadway».

«A Broadway?».

«Non funzionerebbe?».

«Ti ho detto che questo è il centro del mondo. Senti! La gente che gestisce questi posti è il meglio nell'ambiente. Conoscono tutti, sanno chi ha fatto cosa. E anche dove e quando. E se non lo sanno, basta che alzino il telefono. Dopo che ha lavorato qui, una ragazza può lavorare dovunque. Dovunque! Troverà lavoro così», schioccò le dita. «Ce l'ha fatta, capisci? È per questo che tutte vogliono lavorare qui. È per questo che servono gli agganci. A meno che, magari, tu non abbia le carte più grosse del mondo».

«Che carte?».

«Che carte! Scusa, da dove hai detto che vieni?».

«Pittsburgh», rispose rapido, ma lei non ascoltava.

«Le carte sono le tette, mi segui? Una ragazza ha bisogno di un grosso paio di carte per lavorare qui».

«Tu non le hai?».

«Le mie carte non hanno niente che non vada». Lei tirò indietro le spalle. «Vanno bene finché non arriva qualcosa di meglio».

«Allora se hai delle grosse carte non hai bisogno di agganci».

«Ascolta! Per lavorare in questa città senza agganci, avresti bisogno di un paio di carte più grosse del dirigibile della Goodyear».

Ordinò una bottiglia di Chablis che pagò lui. Gli piaceva quel sapore vagamente amaro.

«Ti va di spassartela un po'?», gli chiese la ragazza, pensando a quanto gli avrebbe potuto chiedere.

«In realtà, sono venuto a trovare una zia malata», rispose lui, sapendo che lei non aveva soldi.

«Ti posso mostrare tutto quello che vuoi».

«Lei ha il cancro».

«Proprio tutto».

«Quando arriverò sarà già morta».

«Per cinquanta ti faccio fare tutto il giro del mondo».

«Cos'è il giro del mondo?».

«Ehi, ma sei sicuro di venire da Chicago?».

«Sei tu quella di Chicago».

«Ah, bene».

«Cos'è bene?».

Si fissarono negli occhi.

«Compri o vendi?».

«Tu non hai delle grosse carte».

«Tu non hai agganci».

I loro sorrisi si spensero ma, alla luce dei neon, nessuno se ne accorse.

La sera seguente lui tornò sullo Strip, ma questa volta andò al Sands Hotel, dove si trovava il casinò. Non aveva intenzione di giocare, ma voleva osservare per un po' il movimento. Per vedere se lì trovava quello che stava cercando. Gli bastò mezz'ora per rendersi conto che era inutile. Le donne erano tutte turiste con uomini al seguito, oppure ragazze del luogo in cerca di uomini danarosi. La vista di tutte quelle donne a bocca aperta e col corpo intatto amareggiava il giovane sensibile che bramava di dedicarsi all'opera di suo padre. Ma decise di attenersi al suo piano: questa volta avrebbe cercato prima il denaro.

Il fatto che molte delle donne fossero prostitute, o comunque in vendita, non lo disturbava affatto. Il sesso era l'arma che le donne utilizzavano contro gli uomini, quindi gli sembrava perfettamente ragionevole che alcune lo considerassero una professione e altre lo vedessero come mezzo di scambio. Non aveva nessuna particolare animosità nei confronti di quelle donne. Se le cercava, era solo perché erano le più accessibili a uno straniero e quindi le meno pericolose. Il loro mestiere richiedeva riservatezza. Come il suo.

Lasciò il Sands ma dovunque andasse era lo stesso. Le emozioni danarose e le promesse sessuali andavano mano nella mano, cominciava a capirlo. Gli uomini promettevano denaro e le donne promettevano sesso. I vincitori ottenevano quello che volevano. I perdenti niente. Gli sembrava tutto piuttosto ragionevole. Solo che le donne, si rammentò amaramente, nella loro furia demoniaca cercavano di distruggere gli uomini con qualunque mezzo. Erano malvagie e quindi dovevano essere distrutte.

Mentre osservava gli attori, capì improvvisamente che l'intero significato di Las Vegas – lo scambio sesso-denaro, l'idea di vincitori e perdenti – era solamente un'altra faccia della follia di un mondo folle; gente di carta che una volta si era rinchiusa in un castello di cartone, sperando di sfuggire ai suoi inseguitori. Erano tutti condannati. Non c'era alcuna possibilità di un vero scambio tra uomo e donna, né di un vero vincitore. «Solo perdenti», disse il brillante giovane mentre metteva una moneta in una slot-machine per poi allontanarsi.

Tornato in auto, Bishop sapeva che avrebbe presto lasciato Las Vegas, non appena avesse portato a termine ciò che era destinato a fare.

Ora, il quarto giorno della sua permanenza, seduto in un piccolo ristorante di Fremont Street, il figlio del destino si concentrò sul giornale. Ordinò un'altra tazza di caffè mentre scorreva i titoli del «Las Vegas Sun». Lo trovò a pagina due, un servizio di tre colonne da Los Angeles via UPI. Guardò la fotografia di Vincent Mungo: bruno, torvo, accigliato. Mentalmente controllò il proprio aspetto – biondo, anodino, sorridente. Sorrise ancora di più.

L'articolo descriveva il brutale omicidio di una ventunenne nel proprio appartamento al centro di Los Angeles. Era una ballerina. Il suo corpo era stato «selvaggiamente mutilato», ma non c'era alcun dettaglio. L'assassino era Vincent Mungo, il maniaco evaso che aveva lasciato indizi della sua identità sulla scena del delitto. Ma anche qui non c'era alcun particolare. Il resto era tutto su Mungo. La descrizione fisica, il passato e l'opinione di psichiatri esperti. La conclusione era inevitabile. Si trattava di un pericoloso omicida che probabilmente avrebbe ucciso ancora se non lo avessero fermato in tempo.

Bishop al momento non sorrideva. Avrebbe voluto che la gente, o almeno gli uomini, capissero ciò che stava facendo. Ma non si aspettava un miracolo di quel genere e istintivamente comprese che avrebbe dovuto vivere la sua vita e compiere la sua opera solo e disperato. Come suo padre.

Uscì dal locale lasciando il giornale sul tavolo. Erano notizie vecchie.

La settimana seguente la passò a guidare attorno a Vegas e alla campagna circostante, sempre con l'occhio attento a un'eventuale preda. Un pomeriggio guidò fino a Lathrop Wells e visitò un bordello all'incrocio della US 95 con la Nevada 29. Qualcuno gli aveva detto che i bordelli erano legali nel Nevada, con l'eccezione di Vegas e di Reno, dove le prostitute erano così numerose che nessun edificio avrebbe potuto contenerle. Gli sembrò un'idea ragionevole.

Tutto il movimento a Lathrop Wells avveniva attorno all'autostrada: due bar, un ristorante, un paio di supermercati e un distributore di benzina. Una freccia lampeggiante al neon che dalla strada indicava una casa bianca in legno con degli alberi sul davanti e uno spazioso parcheggio sul retro. Lui accostò da un lato. Mentre si dirigeva a piedi verso l'edificio, si chiese se le due grandi luci rosse sopra la porta d'ingresso erano state messe lì per quelli che non avevano notato la freccia lampeggiante.

Non appena fu dentro scelse, o meglio fu scelto, da una ragazza bruna vestita di veli di un materiale diafano che le fluttuava attorno mentre lo conduceva nella sua camera. Bishop non era mai stato con una vera prostituta e osservava la ragazza con grande interesse. Quando lei lo condusse al piccolo lavabo e iniziò a lavargli il pene con acqua calda e sapone, lui notò che aveva aggrottato la fronte. «Qualcosa non va?», le chiese.

«Non sei circonciso».

«È un problema?».

«No. È solo più complicato per me».

«Significa che costa di più?».

Lei alzò le spalle. «Dipende da cosa vuoi».

«Mi sembra giusto».

«Vuoi farti una scopata semplice?».

«Cioè? Che cos'è?».

Lei lo guardò. «Tu dentro di me, sai?».

«No. Non è quello che voglio».

«Cosa allora?».

Lui glielo disse.

«Quello è il più complicato di tutto».

«Perché?».

«Perché non sei circonciso e c'è tutta quella pelle in più che devo prendere in bocca». Lo guardò di nuovo. «Ti costerà… dieci dollari extra».

«Davvero?».

«Ti sembra che scherzi, carino?». Gli diede una strizzatina al pene, poi lo asciugò con una salvietta di carta. «Hai i soldi?».

«Sì».

«Allora togliti i vestiti». Lo condusse al letto. «Vuoi che mi spogli anch'io?».

«Mi costerà di più?».

«No. È gratis».

«Mi piacerebbe vedere il tuo corpo».

«È la prima volta?».

«Sì».

«La prima volta», disse lei. «Incredibile!».

Ci fu una pausa mentre lei si spogliava. «Sei sicuro di non volere nient'altro?».

«No. Nient'altro», rispose lui.

«Eccoti i soldi».

Sdraiato sul letto, osservò la ragazza chinarsi coi seni penzolanti su di lui. Aveva un morbido corpo carnoso, la pelle del ventre tirata sopra un sottile strato di adipe. In ginocchio su di lui, gli sembrava un avvoltoio bianco neve che lo aggrediva all'inguine. Poteva quasi sentire gli artigli laceragli la carne, il becco mostruoso che gli strappava gli organi vitali, i denti che frantumavano le ossa, ghermendogli la vita attraverso le ferite aperte. Voleva ammazzare questo orrendo demonio. Stringendo gli occhi, guardò i seni pendenti, masse di grasso che avrebbe potuto facilmente tagliare col coltello. Si sforzò di focalizzarsi sui seni, immaginando cosa avrebbe fatto se lui non fosse stato così piccolo e indifeso. Improvvise fitte di dolore gli attraversarono il corpo. Ridendo, ora, smise di lottare mentre la forza vitale gli sgusciava via e i suoi occhi si abbandonavano a una resa totale.

Quando tornò dal lavabo, la ragazza cominciò a rivestirsi. «Tempo scaduto», gli disse.

Lui non rispose.

«Stai bene?».

«Che significa?».

«Certo che vieni forte».

«A volte».

«Forse hai qualche problema. Sai cosa intendo?».

«No».

«Continuavi a dire "Non picchiarmi. Ti prego non picchiarmi!"».

«Davvero?».

«E di sicuro io non ti stavo picchiando, piccolo».

«Non sono piccolo».

«Certo. Lo so».

Prima di uscire le diede cinque dollari di mancia. Lei glieli aveva chiesti. «Stammi bene», gli disse.

Lui le augurò buona fortuna.

La ragazza gli sorrise. «Non mi serve la fortuna. Quello che vendo sarà richiesto ancora per molto».

Tornato in albergo, Bishop si sdraiò sul letto e pianse a lungo per la frustrazione, fino a quando non scivolò in un sonno agitato.

La maggior parte di quella settimana, Bishop la passò nel deserto intorno a Las Vegas. Lì, a poca distanza dalla strada, trovava la tranquillità e la solitudine che gli mancavano nella città affollata. Lì poteva anche sentire la costante lotta mortale per la sopravvivenza, mentre ogni animale, ogni insetto, uccideva o era ucciso.

Per lui quello era riaffermare il corso della vita, di tutti gli esseri viventi che, dall'insetto più piccolo fino all'uomo, distruggevano la vita per preservarla. La distruzione era una forma di creazione. La morte era una forma di vita. Uccidere significava vivere, non morire. Era solo questione di chi uccideva e di chi veniva ucciso. E lui non aveva nessuna intenzione di essere tra questi ultimi.

L'ultima escursione della settimana fu a un'oasi dell'Amargosa Desert, a undici chilometri dalla Death Valley Junction. Arrivò il 10 agosto e vi passò la notte. Anche se l'Ash Meadows vantava un ristorante con bar, piscina, sala da gioco e diciassette camere in stile motel lungo un porticato in legno, la sua funzione principale era quella di bordello, le ragazze alloggiavano in un edificio separato dallo chalet principale. Il desiderio di isolamento di Bishop lo aveva spinto a intraprendere quel viaggio di centosessanta chilometri. Mentre seduto sulla veranda osservava l'infinito, si ricordò di qualcosa che aveva sentito il giorno prima. Ash Meadows, avevano detto, era così lontano che avresti potuto perderti e nessuno ti avrebbe mai più cercato.

Qualcosa nell'immensità del paesaggio, col suo orizzonte ininterrotto e il biancore assolato, lo inquietava. Girò lentamente il capo di novanta gradi e vide… il nulla. In fretta, si voltò indietro, verso le camere e lo chalet, in cerca di conferme. Ebbe improvvisamente la sensazione che laggiù, davanti a lui, attraverso migliaia di chilometri quadrati privi di esseri umani e di vita animale e vegetale, avrebbe trovato il significato della morte. Questa, allora, era la morte. Il vuoto. La solitudine. Il nulla.

Rimase così, fermo, seduto a lungo. Con l'occhio della mente il giovane uomo vide un bambino, con il gracile corpo piagato e sanguinante, che veniva percosso di continuo. Vide la grande frusta straziante calare sul piccolo, udì le sue suppliche disperate.

«Mi dispiace, mamma. Mi dispiace. Non picchiarmi».

Lo schiocco della frusta.

«Mi dispiace!», urlò. «Non volevo!».

Gli occhi di lei erano sporgenti, aveva la bava agli angoli della bocca. La frusta si sollevava e calava ripetutamente con forza sulla sua testa, sul collo, sulle spalle. Non poteva sfuggire.

«Ti prego, non mi colpire», urlò terrorizzato. «Ti prego! Ti prego!».

Ancora.

Accucciato in preda al terrore più assoluto, tentò di coprirsi il volto con le braccia magre. Una frustata lo ferì ai polsi. Abbassò le mani e un altro colpo gli tagliò una guancia. Morente, il giovane emise un disperato urlo di dolore. La bocca gli si riempì di sangue.

L'orribile frusta calò di nuovo.

E di nuovo lo schiocco.

Lentamente, molto lentamente, il giovane tornò alla vita. Le palpebre si aprirono. Si richiusero, poi si aprirono di nuovo. Tentò di mettere a fuoco. Tutto era confuso. Facce. Facce sopra di lui. Lontane, come se viste dall'altro lato di un telescopio. Sembravano osservarlo.

Sentì dei rumori, strani rumori. Poi delle voci.

«Piano, ora».

«Sta bene?».

«Sì, certo. È solo svenuto».

Ora li vedeva. Tre uomini erano curvi su di lui. No… uno di loro gli si era inginocchiato accanto. Due dita gli sollevarono delicatamente la palpebra destra.

«Sta bene. Lasciatelo solo riposare un minuto».

Un viso amichevole, premuroso, gli stava sorridendo.

«Deve essere svenuto, Mr Jones. Succede, a volte, da queste parti. Il deserto può fare questo effetto». Il viso continuava a sorridergli. «Niente di cui preoccuparsi».

Sentì i sensi riprendersi. La vista, l'udito, il tatto. Sollevò la mano destra, si osservò le dita, lunghe dita sottili che portò al viso. Le sentì fresche sulla pelle.

Voleva sollevare il capo. Qualcuno glielo alzò delicatamente da sotto. Si sentì intontito e lasciò che glielo ripoggiassero a terra. Si riposò ancora.

Dopo un po', lo aiutarono a salire i gradini della veranda. Qualcuno gli diede un bicchiere d'acqua. Due uomini restarono con lui, raccontandogli di come il caldo possa a volte influire sui sensi della gente. Gli dissero che sarebbe dovuto tornare in camera a sdraiarsi un poco. Bastava quello, quando il caldo ti colpiva. Solo un po' di riposo.

Lui rispose che si sentiva molto meglio. Come avevano detto loro, era stato il calore. Li ringraziò e se ne andarono. Lo avrebbero rivisto più tardi, nel cottage principale. Nel frattempo avrebbe dovuto riposarsi un po'.

I gradini della veranda erano comodi. Finì di bere l'acqua osservando l'infinito spazio vuoto che aveva di fronte. Rimase così, immobile, per due ore. Poi pranzò al cottage con carne fredda e birra. Dopo un pisolino vagò senza meta per l'oasi, sempre tenendo d'occhio gli edifici. Non li perse mai di vista.

Quella sera giocò a biliardo nella sala gioco insieme a diversi ospiti e alcuni membri del personale. Non conosceva il gioco e cortesemente gli insegnarono a colpire le palle per mandarle in buca. La palla color avorio era quella che colpiva tutte le altre. Lui disse che il gioco gli ricordava molto la vita. «In che senso?», chiese qualcuno, e Bishop rispose che era sempre l'individuo, il solitario del gruppo, quello che faceva tutto il lavoro, quello che otteneva le cose. «Sempre il solitario», ripeté.

«La teoria del leader», suggerì qualcuno.

«Certo. Alcuni uomini sono dei leader nati».

«Devi essere forte per fare le cose».

«Non forte, Phil. Intelligente. Sveglio quassù». L'uomo si toccò la testa.

«Non ha niente a che fare con l'intelligenza. È la motivazione ciò che serve. Devi essere molto motivato».

«Hai anche bisogno di intuito», disse qualcun altro. «Devi essere capace di vedere cosa manca per farlo succedere».

«O cosa c'è», disse il giovanotto. «E farlo… scomparire».

Ci fu una lunga pausa.

«Sì, è come dice Mr Jones. Devi fare sparire delle cose». Colpì la nove verso la buca d'angolo. La palla rotolò attorno all'angolo imbottito prima di scomparire nella buca.

«Accidenti!».

«Bel colpo, Gus».

Gus scoppiò a ridere. «Non sono stato io. È stata la palla bianca a fare tutto».

«Giusto, come dice l'amico qui. Uno fa tutto il lavoro e, se ci fai caso, è sempre un bianco».

«A meno che non sia nero o messicano».

«Di che colore è il messicano?».

«Non è bianco».

«Giusto!».

«Come la mia vita sessuale», disse qualcuno.

«Che vuoi dire, Harry?».

«Sei di nuovo a caccia?».

Harry si tolse il sigaro spento dalle labbra. «Una palla», disse compiaciuto, «fa tutto il lavoro».

«Ha detto che una palla fa tutto il lavoro?».

«È proprio quello che ha detto, Andy. L'ha detto davvero».

«Ora capisco perché mi ricordi sempre un tavolo da biliardo con metà delle palle mancanti».

«Diglielo, Lee».

Lee indicò Harry. «Questo ragazzo ha solo bisogno di più palle».

Risero tutti, compreso il giovanotto.

Più tardi, quella sera, lui si diresse oltre la piccola piscina fino alla casa dove erano alloggiate le ragazze. Scelse una finta bionda con la bocca a forma di cuore. Questa volta non fece l'errore di sdraiarsi sul letto con la ragazza accovacciata su di lui. Si sistemò invece sulla sponda con la ragazza inginocchiata su un cuscino ai piedi del letto.

Dopo le diede una mancia di cinque dollari senza che gli fosse stata chiesta. Prima di uscire le disse che sperava di rivederla. Comunque, le augurava che le cose le andassero per il meglio.

La ragazza rise. Anche se molto giovane, possedeva già la durezza che si acquista vivendo. E chi diavolo era lui per sapere cosa era meglio per lei? Che ne sapeva lui, lo stupido figlio di puttana? Lo guardò direttamente negli occhi. «In questo lavoro, mister, si può solo scendere più in basso».

Una volta fuori, si sedette di nuovo sui gradini della veranda e alzò gli occhi al cielo stellato. Gli sembrò che risplendesse fuori da ogni controllo. Abbassò lo sguardo. L'oscurità era dappertutto: un buio assoluto, totale, lo circondava, lo stringeva, lo avvolgeva, lo soffocava. Si guardò attorno spaventato. Niente. Guardò in alto di nuovo. Niente, a parte un miliardo di puntini di luce che splendevano, che esistevano, che si mostravano solo per il proprio piacere. Sorrise nervoso. Un'altra Las Vegas nel cielo. Solo un altro mondo della fantasia, pieno di finti diamanti e di promesse scintillanti. Quasi come un bordello.

Cominciò a sentirsi meglio. L'oscurità non era il nemico, né lo era l'ignoto. Il nemico aveva un corpo, forme, seni. Il nemico aveva sangue, ossa e viscere. Il nemico era tutto intorno a lui.

Dopo una lunga pausa, salì nella sua stanza e bloccò la porta con una sedia. Poi sognò fuoco, fiamme color arancio acceso che consumavano i corpi. Tutti i corpi avevano i seni. Lentamente tutti i corpi si annerivano e carbonizzavano, infiniti corpi che esplodevano pieni di sangue bollente che scorreva lungo le ossa arrossate dalle fiamme. Ossa sbiancate e teschi pallidi che ricordavano la palla del biliardo.

Al mattino, dopo colazione, s'inoltrò nel deserto fino a dove poteva arrivare senza perdere di vista l'oasi. Voleva controllare se il malessere del giorno prima sarebbe tornato. Infine trovò un angolo dove sedere e riposare. Gli era stata data una borraccia piena d'acqua e ne bevve avidamente, sempre sorvegliando l'immensa distesa di terra che lo circondava. Si sentiva come il capitano di una nave nel mezzo di un enorme oceano, tranquillo ma pur sempre pericolosamente invitante per la sua fragile imbarcazione. Gli tornò la paura, ma resistette.

Improvvisamente eccitato, iniziò a inoltrarsi nel deserto, avanti, sempre più avanti, fino a perdere di vista ogni edificio familiare. Col sole alle spalle, camminò in linea retta verso sud-ovest. Da qualche parte alla sua destra c'era la strada per la Death Valley Junction; non era preoccupato. Il nome lo incuriosiva. La Valle della Morte. Sapeva che non ci sarebbe mai arrivato. Lui era immortale. Aveva un compito da portare a termine che sarebbe durato per sempre.

Fece un'ultima sosta, fermandosi di nuovo a riposare. Qualcuno prima gli aveva detto che se avesse continuato a camminare, per diversi chilometri, sarebbe arrivato in California. Ci era mai stato? Aveva sorriso e risposto di no. Forse un giorno. Chissà? Era convinto di esservi arrivato, era tornato nel suo Stato di origine. Una ruga gli attraversò la fronte. Non aveva nessuna intenzione di tornare dalla gente che aveva distrutto i suoi genitori e quasi annientato anche lui. Erano tutti malvagi, gli abitanti della California, tutti.

Si trovava nel deserto, solo, ed era di nuovo a casa. Improvvisamente desiderò fortemente che tutti gli abitanti della California morissero. Così lui sarebbe stato il re della California. Gli piaceva come suonava. Re della California. Ecco come si sarebbe chiamato, un giorno, dopo che fossero tutti morti.

Morti e nella Valle della Morte. Proprio lì. Quello era il luogo adatto a loro, disse a se stesso. Saltò in piedi e per dieci minuti gridò e sbraitò contro i venti milioni di abitanti dello Stato della California. In mezzo al deserto, nella terra che lo aveva visto nascere, urlò a tutti chi era realmente e tutte le indescrivibili nefandezze che lui e la sua famiglia avevano subito. Poi gridò quel che aveva fatto lui in cambio.

Una volta finito, disse loro cosa avrebbe fatto poi.

Rientrato ad Ash Meadows, dopo un pranzo leggero, Bishop tornò a Las Vegas. Due giorni dopo incontrò la sua preda, anche se sul momento non lo sapeva. Durante una delle sue irrequiete passeggiate attorno alla zona dei casinò era arrivato all'angolo tra la Fremont e la South Main, nella speranza di trovare ciò che cercava, sapendo che non gli era rimasto molto tempo, quando un'auto della polizia accostò all'incrocio. In pochi secondi fermarono il traffico svuotando la South Main e lasciando passare solo le macchine che svoltavano a destra sulla Fremont e quelle che continuavano verso nord. Poco dopo apparve una processione di limousine dirette a sud verso lo Strip. Dal suo punto di osservazione, poco oltre l'angolo, Bishop vide il corteo funebre superare la stazione della Union Pacific dall'altro lato della strada e affiancarsi a lui.

Davanti c'erano cinque auto scoperte piene di fiori, tutte Cadillac fuori serie coi portapacchi cromati ricoperti di grandi corone di rose e crisantemi. Li seguiva un lungo ed elegante carro funebre, i finestrini coperti da tendine nere. Mentre la processione silenziosa gli scorreva accanto, Bishop contò le auto dei dolenti. Ne contò dieci, tutte limousine impeccabilmente lucide. Sembravano tutte piene dei parenti e degli amici del defunto.

Non aveva mai visto una cosa del genere. Si girò alla sua destra, sorrise alla donna accanto a lui e le chiese se sapeva chi fosse il defunto. Lei lo guardò, gli sorrise brevemente e pronunciò un nome che a lui non diceva nulla, e glielo fece presente. Lei fece una strana risatina. Lui le chiese se l'uomo era stato qualcuno d'importante, per avere un funerale del genere. Lei rise ancora e gli disse che l'uomo aveva posseduto una parte di Vegas. «Una parte importante», disse. E tutti quei fiori e quelle persone in lutto? Aveva degli amici. Che tipo di amici? Il tipo che fa i funerali, rispose, ma lui non capiva. Per qualche minuto la donna gli spiegò sottovoce chi era davvero il morto e, mentre parlava, Bishop si ricordò di un film che aveva visto in TV su Al Capone, che faceva molti funerali e mandava sempre tanti fiori.

Un attimo più tardi la donna se n'era andata, dopo un ultimo scambio di battute. Bishop la osservò allontanarsi e si chiese se aveva del denaro. Scosse il capo e continuò la sua passeggiata.

Arrivata all'isolato successivo, oltre la stazione degli autobus dall'altro lato della strada che aveva appena traversato, la donna si domandò perché avesse parlato tanto liberamente con uno sconosciuto. Stava osservando distrattamente la lunga fila d'auto nere, lasciando vagare la mente, quando quel giovanotto le aveva rivolto la parola. Dopo pochi secondi gli stava raccontando delle cose su Vegas che era meglio non rivelare. Era stato il suo sorriso a persuaderla, un sorriso davvero affascinante. Quello e il suo comportamento innocente. Sto diventando vecchia, si disse con un sospiro di disgusto.

Margot Rule aveva trentotto anni e non era bella. Anche se aveva morbidi capelli castani e denti perfetti, era troppo alta e magra e non aveva né il viso né il corpo tali da far perdere la testa agli uomini. In quella mattina di metà agosto, sperava solo di trovare qualcuno interessato all'appartamento che voleva affittare. Come agente immobiliare, la sua vita le sembrava piena di stanze e di spazi vuoti. Era un lavoro duro, la impegnava per molte ore, ma guadagnava bene, specialmente adesso che aveva aperto una propria agenzia. Si occupava delle quotazioni e degli affitti, e la sua segretaria del telefono e dei dettagli. Era sempre in movimento, il che significava che gli affari andavano bene. Ma soprattutto, l'attività le impediva di stare a casa da sola a pensare alla bottiglia o a tutte le cose che aveva perso o mancato nella sua vita.

Cinque anni prima pensava solo alla famiglia. Sposata con due bambine, la sua esistenza era dedicata a lavare, cucinare e prendersi cura della casa nella parte più in basso della città. Adorava la sua vita. Si era sposata tardi, a ventisei anni, con un uomo semplice ma buono. Un quarantenne bruttino e non appassionato quanto lei, che però lavorava sodo per provvedere a lei e alle bambine, e per questo lo amava. Aveva presto rinunciato al sogno di un amore romantico ed eccitante per accettare una vita sicura, qualcosa che non aveva mai conosciuto nell'infanzia. Quando ci pensava, era sbalordita dalla fortuna che aveva finalmente avuto, dopo un'adolescenza e una prima maturità prive di un qualche reale rapporto con gli uomini. Non erano interessati a lei, tutto lì. Sul letto nuziale, per quanto deludente potesse essere stato, giurò di essere fedele a suo marito, fedele e sincera finché la morte non li avrebbe separati.

La telefonata l'aveva svegliata dal pisolino pomeridiano. Si sforzò di capire le parole, ma dovettero ripeterle. Un incidente, c'era stato un incidente. Poteva andare al Southern Nevada Memorial Hospital? Sì. No, un incidente. Cerchi di venire il più presto possibile.

Stordita, spaventata oltre ogni isteria, arrivò all'ospedale quando era troppo tardi. Suo marito e la sua bambina di sei anni erano morti sul colpo. La piccola, di quattro anni, era deceduta due minuti prima sul tavolo operatorio. Un'autocisterna piena di benzina aveva investito la loro auto ad alta velocità riducendola a un rottame infuocato. Suo marito aveva portato le bambine a fare una gita e adesso erano tutti morti. Tutta la sua famiglia era morta.

Per mesi il mondo di Margot Rule fu una sequenza interminabile di incubi. Sveglia o nel mezzo dei suoi sonni intermittenti, vedeva il camion schiantarsi, la terribile esplosione, le fiamme violente. Vedeva gli ultimi secondi di terrore sul viso delle sue bambine, sentiva le loro urla agonizzanti. A volte le sembrava che la propria stabilità mentale le scivolasse via. Cominciò a bere per attenuare il dolore, cosa che non aveva mai fatto prima. Inizialmente l'alcol l'aiutava a dimenticare, l'aiutava a concentrarsi sul momento e anche a dormire meglio. Man mano che la sua tolleranza aumentava, ebbe bisogno di quantità maggiori per ottenere gli stessi effetti: quello stato di inesistenza in cui non c'era un passato da ricordare. I cambiamenti furono sottili ma progressivi. Dopo sei mesi era diventata un'alcolizzata farneticante.

Il veleno aveva preso il posto del dolore. Anche se quella bestia insaziabile richiedeva di essere alimentata continuamente, a lei non importava, purché il dolore non tornasse. Spese tutti i suoi magri risparmi, poi la piccola assicurazione di suo marito. Infine vendette la casa, trasferendosi in uno squallido appartamento in un quartiere degradato. I molti bar e l'indifferenza generale per le apparenze si addicevano al suo nuovo stile di vita.

Poi ci furono gli uomini. Uno dopo l'altro, dopo un bicchiere o dieci bicchieri o dieci bottiglie. Finché visse nella sua casa, in qualche modo ancora attaccata alla sua vita precedente, riuscì a conservare un minimo di controllo, anche se aveva già cominciato ad andare a letto con degli sconosciuti. Ma nella sua nuova vita, niente importava, perciò tutto era accettabile. Alcol, feste, uomini, qualunque cosa le tenesse la mente impegnata e i sensi annebbiati. Iniziò a giocare e il denaro finiva ancora più in fretta. Per tre anni si aggirò in uno stato di stordimento alcolico e spese tutto ciò che aveva, compresi i ventimila dollari di indennizzo per l'incidente.

Nel 1971 aveva iniziato a frequentare gli Alcolisti Anonimi. All'inizio aveva acconsentito a farsi accompagnare agli incontri da amici che aveva frequentato anni prima ma che non aveva mai sospettato fossero alcolisti. Ora le parevano contenti e tranquilli, mentre lei era cagionevole e disperata. Il tempo aveva cicatrizzato alcune ferite della sua tragedia, ma l'alcolismo le aveva devastato il corpo e la mente. All'incontro degli AA si presentò semplicemente come Margot. Ascoltò attentamente un'interminabile serie di testimonianze sull'orribile spreco e futilità della vita da bevitore. Ognuno insistette sull'importanza di evitare il primo bicchiere e poi di affrontare il problema giorno per giorno.

Margot ne fu colpita. Iniziò a rendersi conto che il suo dolore iniziale aveva lasciato posto all'autocommiserazione, forse la strada più breve per l'alcolismo. Disgustata di se stessa e delle sue motivazioni, che ora vedeva nella giusta prospettiva, decise di porre fine a quell'incubo. Per tre settimane visse con degli amici che l'accudirono e la sorvegliarono nella prima fase della sobrietà. Quanto tornò a un incontro degli AA, non beveva da un mese.

I suoi amici erano stati gentili con lei. In quanto alcolisti, conoscevano lo shock causato al corpo dall'improvviso rifiuto della droga. Ma sapevano anche che, sebbene parte dello shock fosse causata dalla reazione fisica, forte era la componente psicologica e lavorarono sul suo atteggiamento mentale, cercando di rafforzare la fiducia in se stessa assieme all'autodisciplina. In quel periodo aveva i nervi scoperti e un umore mutevole, ma il più delle volte riuscì a controllare gli scatti d'ira. Alla fine del soggiorno con quegli amici, cominciò a credere che il ritorno a una vita pressoché normale fosse possibile.

Aveva bisogno di un lavoro gratificante ancora più del denaro. Anche in questo caso, tramite un amico solidale, ottenne un lavoro in una grande agenzia immobiliare, dove si impegnò subito a imparare il mestiere. A una riunione degli AA incontrò un uomo più anziano di lei, che da tempo aveva superato i cinquanta, e presto iniziarono a passare del tempo insieme. Non era una storia passionale, né soddisfacente per lei, ma era felice di avere di nuovo una relazione continuativa.

Nell'estate e nell'autunno seguenti fecero molte cene e serate in città, tutte senza alcol, naturalmente. Andarono a passeggio lungo i sentieri e guidarono l'auto nel deserto. Pescarono insieme e si divertirono con gli sport acquatici al lago Mead. Visitarono i vicini parchi nazionali, anche quello del Grand Canyon. A Natale volarono alle Hawaii.

Il suo amico era un gentiluomo devoto. Non era mai arrabbiato né scorretto. La lodava quando era necessario e la confortava quando ne aveva bisogno. Le presentò degli amici importanti, che lei coltivò come contatti d'affari. Che lui l'amasse era ovvio a entrambi e un giorno, d'inverno, lui accennò al matrimonio. Lei era mossa da un grande affetto per lui, anche se non era amore. Per la verità, non provava il sentimento del vero amore dai giorni del liceo, e anche allora era stata una cosa completamente unilaterale. Ma pensò di sposarlo comunque, per gratitudine e per quella sua gentilezza che lei tanto apprezzava.

Il matrimonio non doveva farsi. Nella primavera del suo trentaseiesimo anno, l'uomo morì per un improvviso attacco di cuore. Aveva cinquantotto anni, faceva esercizio regolarmente e stava attento alla dieta. Non fumava né beveva. Sei settimane prima del decesso aveva fatto il check-up annuale ed era risultato in piena forma. Alla sua morte, il suo dottore aveva definito l'infarto grave e inaspettato.

Margot, che ancora una volta aveva accantonato i suoi sogni romantici per la realtà di essere amata, ne fu inebetita. Ma aveva giurato a se stessa di non ripetere i suoi precedenti errori. Questa volta non si sarebbe abbandonata all'autocommiserazione, non si sarebbe lasciata andare, né avrebbe cercato di distruggersi. Ma, più di tutto, non sarebbe tornata alla bottiglia. Si dedicò invece al lavoro con un'energia furibonda. Nessuna sfida era troppo ardua, nessun compito troppo impegnativo. Lavorò giorno e notte, nei weekend e nei giorni di festa, incontrò potenziali acquirenti e affittuari e seguì ogni possibile affare. Finché si manteneva attiva era forte, anche se la voglia d'alcol non l'aveva mai abbandonata del tutto. Era brava nel suo lavoro. A settembre aprì una propria agenzia.

Dopo sei mesi il suo successo era assicurato. Il lavoro era la sua passione, poiché aveva poco altro, e gli dedicò tutta l'energia e la dedizione di una madre per i suoi bambini o di una giovane innamorata per il suo uomo. Desiderava solo avere il doppio del tempo, perché era convinta che avrebbe potuto ottenere il doppio. Le suggerirono d'ingaggiare altri agenti alle sue dipendenze, ma respinse l'idea, almeno per il momento. Il lavoro era simbolicamente i suoi figli, il suo amante, di cui si stava prendendo cura con affetto e non aveva intenzione di cederne neanche una parte. Almeno non ancora.

Nell'aprile del 1973 le era stato affidato l'affitto di un piccolo condominio. A maggio vendette diverse case non arredate. A giugno vennero a trovarla due uomini. Non diedero nomi. Era interessata a curare la vendita di una grande proprietà? Certamente. Era disponibile a incontrare il proprietario quando le fosse stato comodo? Naturalmente.

Una settimana dopo la condussero alla proprietà. Costruita su due acri di un terreno con una bella vista, la magione era stata costruita nello stile di un palazzo romano, con colonne di marmo tutte attorno alla lunga piscina rettangolare e con un'enorme terrazza in cotto in stile italiano. All'interno era tutto costoso e di gusto e dotato dei più moderni strumenti elettronici per la sicurezza e per lo svago.

Fu presentata al proprietario, che lei riconobbe immediatamente dal nome. La sua reazione doveva essere stata spontanea e gioiosamente ingenua, un accoppiamento che evidentemente aveva funzionato. Il proprietario le sorrise e congedò i suoi assistenti. Le fu detto quanto lui chiedeva per la proprietà e quanto avrebbe accettato. Non le disse nient'altro. Tutti i dettagli sarebbero stati curati dai suoi legali. Mentre l'accompagnava all'uscita, le suggerì che, se l'affare fosse andato in porto, lei si sarebbe trovata nella lista d'attesa di un grande complesso residenziale allora in costruzione.

Sulla strada di ritorno verso l'ufficio, seduta nel retro di una sfarzosa limousine, si domandò perché fosse stata scelta e decise infine che, probabilmente, era dovuto al passaparola. Il che significava che era brava. Decise di curare la vendita della proprietà perché era un'occasione unica e perché le garantiva una grossa percentuale. Ma avrebbe rifiutato l'appartamento del complesso residenziale se glielo avessero offerto. Il coinvolgimento a lungo termine con quella gente era troppo pericoloso.

Sei settimane dopo la proprietà non era ancora stava venduta, soprattutto a causa del prezzo davvero sconcertante. Un potenziale acquirente milionario non aveva battuto ciglio alla cifra, ma si era tirato indietro quando aveva scoperto da fonti private il nome del proprietario. Neanche una rispettabile impresa immobiliare e i suoi potenti avvocati potevano coprire del tutto l'identità del proprietario o dei suoi soci.

Ora, naturalmente, era troppo tardi. La sontuosa magione sarebbe stata senz'altro venduta, ma il corteo funebre aveva messo fine alle future negoziazioni, almeno per quanto riguardava lei. E per il proprietario, naturalmente. Aveva solo aspettato troppo.

Margot Rule guardò l'orologio. Sarebbe arrivata con qualche minuto di ritardo all'appartamento che sperava di affittare. Si trovava in Gass Avenue ed era il primo dei tre appuntamenti quel giorno. Con un po' di fortuna, ne avrebbe affittato almeno uno prima di sera.

Pensò alla lunga notte che l'aspettava. A luglio e agosto c'era poco lavoro di sera, la gente lasciava la città o cercava locali con l'aria condizionata. Da quando non giocava, né beveva, la vita della luminosa città non l'attraeva più, né le interessavano gli spettacoli e i ristoranti fastosi dello Strip, se non per un'occasionale cena o una rara serata con dei clienti. Sarebbe dovuta tornare alle sue stanze eleganti ma malinconiche. Forse si sarebbe seduta sul sofà di velluto verde a osservare le sue stampe di Picasso. O avrebbe potuto accendere la TV per guardare un film o lo show di Phil Silvers. Era bravo a farti ridere. O forse si sarebbe sdraiata a letto a sognare il ragazzo che aveva amato al liceo o tutti gli altri uomini che pensava di aver amato nei suoi primi vent'anni, ma sempre da lontano. Forse avrebbe potuto anche procurarsi un po' di sollievo fisico, sussurrando come se loro fossero con lei nel letto a fare all'amore. «Vieni da me. Vieni da me», avrebbe sussurrato. «Sono bagnata del tuo amore, amore mio, vieni da me». E loro avrebbero risposto. «Prendimi, prendimi. Amore mio». I loro corpi si sarebbero premuti l'uno contro l'altro, mani forti avrebbero carezzato i suoi seni levigati fino al comando finale: «Ora!». Poi sarebbero rimasti a respirare in silenzio mentre lei gridava la sua gioiosa accettazione.

A mezzo miglio di distanza, nella sua camera d'albergo, Bishop non pensava né al funerale né alla donna con cui aveva parlato. Il suo problema più immediato non era ancora risolto e lo preoccupava. Gli erano rimasti solo settecento dollari.

Il 15 agosto decise di recarsi a uno degli incontri locale degli Alcolisti Anonimi. A Willows in televisione aveva visto un film su tre giovani soli sempre in cerca di una donna finché non avevano trovato il vero amore a un incontro degli AA. Peccato che il loro vero amore fosse per la stessa ragazza, una bionda divorziata, e che questo li avesse portati al rapimento, all'omicidio, al sadomasochismo, al suicidio, al sesso sadico, al cannibalismo, alla necrofilia e ad altre varie forme di violenza. Ma quella era la televisione e questa era la vita reale e lui stava esaurendo tutte le opzioni in una città dove gli uomini vendevano denaro e le donne vendevano sorrisi. Era pronto a provare tutto, e provò soprattutto a ricordare altri film che aveva visto per trarne ispirazione.

L'incontro si teneva in una cappella appena fuori della Freemont. Lei lo riconobbe immediatamente. Lui assomigliava così tanto a qualcuno che le era piaciuto da lontano. Lo stesso sorriso spigliato, le stesse maniere tranquille. Dopo le testimonianze, gli si avvicinò e si presentò ridendo, rammentandogli allegramente la sua sorpresa di fronte al funerale. Lui impostò la sua espressione e fece balenare il suo migliore sorriso, pieno di fascino e piacevolezza. Al termine dell'incontro le chiese se potevano fare una passeggiata assieme. Era una bella serata e lei acconsentì volentieri.

Per strada parlarono del più e del meno. Il giovane era nel ramo dell'import-export e aveva un negozio in Florida, in cui vendeva principalmente articoli del Centro America. Aveva bevuto forte per anni, ma alla fine aveva deciso che non faceva per lui. Gli AA gli avevano salvato la vita. Si era preso due mesi di vacanza per vedere il paese, ma Las Vegas gli piaceva così tanto che non avrebbe voluto andarsene. Lei invece c'era venuta da Los Angeles quando era bambina. Poi suo marito e le sue figlie erano morti in un incidente e si era data all'alcol, ma ora erano due anni che non ne toccava neanche una goccia. Gli Alcolisti Anonimi avevano salvato anche la sua di vita. Viveva da sola, non aveva parenti prossimi, e dedicava tutto il suo tempo al lavoro. Era nel campo immobiliare.

Arrivati all'elegante appartamento di lei, lui le chiese se avrebbe potuto rivederla. Era nuovo della città, non conosceva nessuno e, naturalmente, non voleva avvicinarsi troppo alla vita notturna, dove l'alcol scorreva in abbondanza. Almeno, non voleva farlo da solo. Non era passato così tanto tempo da quando… Lasciò la frase in sospeso.

Lei sorrise timida, o così sperava. A lui ricordava un pipistrello gigante pronto a volare, con le palpebre che battevano come ali. Ma mantenne la sua espressione innocente, la sua aria di speranzosa aspettativa. Lei lo guardò direttamente in volto, in quel suo viso da ragazzo, coi suoi chiari occhi mascolini e la sua incorruttibile onestà. Le ricordava così tanto qualcuno che avrebbe potuto conoscere se fosse stata più carina. Sì, lei acconsentì timida. Sì. «Domani sera a cena?», chiese lui senza fiato. Sì, rispose di nuovo.

Bishop tornò a casa pensando che il suo problema fosse risolto. Lei viveva in una bella casa ed era un'agente immobiliare. Significava che aveva denaro. Viveva sola e non aveva legami. Voleva dire che era sicura. Il suo ultimo pensiero, prima di addormentarsi, fu che lei veniva da Los Angeles. Dalla California.

La sera seguente cenarono al Sahara, sullo Strip. Lui era piacevole e lei stava bene, specie quando lo guardava dall'altra parte del tavolo. Si sentì di nuovo come una ragazzina. Dopo quella volta cenarono assieme tutte le sere. Lui non fu mai pressante e lei non oppose mai resistenza. La quarta sera lo invitò a prendere un caffè dopo cena. Dopodiché lui la baciò su una guancia e se ne andò. La quinta sera lei mise della musica soft prima del caffè. Poi si sedette accanto a lui sul sofà. Parlarono per un po', lei gli prese la mano. Lui la baciò sulle labbra, un lungo bacio appassionato che la mandò in estasi fino quasi a farla svenire. Quando lui si alzò per andarsene, ne fu delusa ma non voleva che lui pensasse che lei desiderasse sedurlo.

La sera seguente lei gli mostrò la vista dalla finestra della sua camera da letto. La stanza dava sullo Strip. Il neon illuminava il cielo, tenendo a distanza l'oscurità del deserto. Era molto bello, disse, quasi quanto lei. In piedi accanto a lui, lei gli mise un braccio attorno alla vita. Lui si voltò a guardarla, poi la baciò, più volte. Quando lui poggiò la mano sul suo seno esiguo lei mormorò sì e, mentre lui la conduceva delicatamente verso il letto, i suoi occhi, il suo corpo e le sue labbra dissero sì, sì. Sì.

Al mattino lei chiamò in ufficio per dire che si sarebbe presa una giornata di vacanza. Preparò un piccolo pranzo da portare nel deserto. Fecero la doccia e partirono con l'auto di lei.

Margot Rule aveva trentott'anni e non aveva mai conosciuto l'amore, non il vero amore, non quello che stava provando ora. Si rese conto di essere stata casta tutta la vita. Ora capiva come doveva essere il sesso, cosa avrebbe dovuto sempre essere. Non riusciva a credere all'intensità delle sue emozioni o a ciò che quel giovane seduto accanto le faceva provare. Lo guardò di sottecchi. Lo amava. Più di quanto avesse mai amato suo marito, che dio la perdoni, anche più di quei ragazzi, così lontani, della sua adolescenza. Nel suo cuore di donna, sentiva che questo era l'amore che le spettava, ciò che doveva provare. Se c'era un dio, lei si sarebbe presa questo amore, a prescindere dai costi, a prescindere da chi ne avrebbe sofferto. Sapeva che senza quell'amore non avrebbe voluto vivere, ma con esso avrebbe potuto vivere per sempre.

Bishop sedeva tranquillo nell'auto sapendo di aver recitato bene la sua parte. Lei era languida d'amore ed era affamata del sesso che si accompagna all'amore, appassionato e prolungato, il tipo di sesso che dava tutto senza chiedere nulla, che recepiva ogni suo desiderio inespresso, che la faceva sentire la donna più desiderabile di tutte. Per quel tipo di amore, teneramente fisico ma legato al bisogno emotivo femminile di costante rassicurazione e di devozione eterna, una donna avrebbe fatto qualunque cosa, sarebbe arrivata ovunque. Il suo giudizio era stato perfetto, la sua tempistica impeccabile. Non era andato con una prostituta e non si era neppure masturbato per una settimana. Le aveva dato una notte di dolci parole e sesso che avrebbe ricordata per sempre. Gli venne da sorridere. Il "per sempre" spesso non durava a lungo e lui aveva programmato che per lei sarebbe finito presto.

Nella settimana seguente si videro tutte le volte che il lavoro di lei lo permise. Lui non si recò più nell'appartamento, per proteggere la sua reputazione, disse. Né voleva, per lo stesso motivo, che lei si recasse al suo albergo, che lui cambiava ogni settimana in modo che nessuno potesse riconoscerlo. Margot pensò che tutto questo fosse molto premuroso e affettuoso da parte sua. Così finivano tutte le sere in motel fuori mano dove era improbabile essere visti. Aspettava in auto mentre lui si registrava, sentendosi come una studentessa peccaminosa e godendone ogni momento.

Quelle notti erano pura estasi, più di quanto avesse mai immaginato nelle sue fantasie. La terza sera insieme, lui le chiese di prendergli il pene in bocca. Lei non l'aveva mai fatto, né con suo marito né con nessun altro, ma fu felice di farlo con lui, senza neanche pensarci, senza riserve. Lui si inginocchiò su di lei e dolcemente le mostrò cosa fare. Quando lo sperma le schizzò in bocca lei lo accettò avidamente, assaporandolo sulla lingua, ingoiandolo lentamente, amorosamente, perché proveniva da lui. Le piaceva la sensazione e si convinse che in quei momenti gli fosse ancora più vicina. Dopo di allora, tutte le notti glielo prendeva in bocca, eccitandolo con le labbra tese sulla punta, aspettando, desiderando quel dolce ingoiare, segno del suo amore, e ascoltando i suoi sussurri negli ultimi attimi, desiderosa di udire le sue parole bisbigliate, attendendo a occhi spalancati il flusso finale di una benedetta boccata di sesso, fusa in un conclusivo singulto d'amore.

Per la fine della settimana, lui aveva saputo che lei aveva ventiseimila dollari depositati nella Nevada State Bank. Calcolò che avrebbe potuto viverci degli anni.

L'ultimo giorno d'agosto, Bishop disse alla sua amata che avrebbe voluto sposarla e vivere con lei il resto della sua vita. Non aveva mai amato prima di allora, almeno non veramente, e non avrebbe mai più amato così. Ma non la poteva sposare perché era un uomo condannato. Degli assassini erano sulle sue tracce. Doveva ventiduemila dollari alle persone sbagliate, giù in Florida, e quello era il motivo per cui cambiava albergo e nome ogni settimana. Il suo vero nome era David Rogers, glielo diceva solo perché l'amava davvero. Se anche lei lo amava, e se voleva restare per sempre con lui, poteva prestargli il denaro per pagare i suoi debiti di gioco. Conosceva quella gente, un giorno o l'altro lo avrebbero trovato e lui sarebbe morto. Gli avevano già preso il negozio in Florida, ora volevano la sua vita. Le chiese di seguirlo in Florida. Avrebbero restituito il denaro, si sarebbero sposati e avrebbero trascorso la luna di miele lì o dovunque lei desiderasse. Sarebbero stati liberi di tornare a Las Vegas, di amarsi e di fare l'amore per sempre. Altrimenti – scrollò le spalle con fatalismo – presto sarebbe morto.

Margot non voleva che morisse. Lo amava irrazionalmente, aveva bisogno di sentirlo dentro di sé, in ogni parte di sé. Senza di lui la sua vita non avrebbe avuto senso, non sarebbe valsa la pena vivere e, improvvisamente, lei aveva tanta voglia di vivere. Pensò al denaro. Aveva sprecato più del triplo bevendo e giocando d'azzardo e non ne aveva ottenuto niente. Almeno, se avesse pagato il debito di David, le sarebbe rimasto lui. E il denaro lo avrebbe rifatto facilmente, ora che il lavoro andava bene.

Il giorno seguente Margot prelevò ventiduemila dollari dal conto dell'ufficio e duemila dai suoi risparmi personali per le spese. Il denaro, duecentoquaranta banconote da cento dollari, le fu messo in una borsa della banca. Essendo una donna precisa, lasciò un appunto nella sua cassetta di sicurezza in cui dichiarava di aver prelevato ventiquattromila dollari per le spese e che avrebbe sposato David Rogers della Florida.

Il programma, su sua insistenza, era quello di unirsi in matrimonio a Las Vegas per poi volare a Miami, rimanervi qualche giorno e tornare. Non era necessaria una lunga luna di miele, perché sarebbero stati sempre insieme. La data della partenza era di lì a tre giorni, il 4 settembre.

Bishop fu subito d'accordo con tutto ciò che lei disse, chiedendole solo di attendere l'ultimo giorno per prenotare il biglietto aereo, così che nessuno ne venisse a conoscenza. Sapeva che la sua era solo paranoia, disse imbarazzato, ma perché correre rischi?

Margot sapeva che David l'amava. Aveva trent'anni, anche se ne dimostrava molti di meno. La differenza di otto anni non la preoccupava. Lo avrebbe sempre reso felice e soddisfatto quanto lo era ora.

Il 3 settembre 1973, l'amorevole coppia fece un'ultima gita nel deserto che amavano tanto, prima del matrimonio del giorno seguente. Sempre con la scusa della paranoia, lui le disse di non lasciare il denaro in casa, dove poteva essere rubato mentre erano via. Accecata dall'amore, lei fece quanto lui le chiese e portò il denaro con sé. In una piccola borsa munita di zip.

Con l'auto noleggiata da lui percorsero la US 95 fino a Lathrop Wells, poi svoltarono a destra immettendosi sulla Nevada 29 diretti alla Death Valley Junction. Dopo qualche miglio al di là del confine della California, lui lasciò la strada e guidò l'auto sul terreno fino a dove non potevano essere visti.

Lei non era mai stata in quella parte del deserto, spoglio e terribilmente inospitale. Non avevano visto un'auto né un qualche segno di vita nei quasi diciannove chilometri percorsi dopo la deviazione. Era felice di essere con lui, ma anche un po' spaventata dall'assoluta desolazione. Bishop la tranquillizzò e prese una coperta dall'auto che stese sul terreno vicino. Lei portò il cestino del cibo e pranzarono parlando della loro imminente vita insieme e della gioia che avrebbero condiviso. Poi a lui venne un'idea.

Perché non si spogliavano e facevano l'amore proprio lì, sotto il cielo? Liberi, senza alcun impedimento, si sarebbero sentiti deliziosamente peccaminosi. Lei rise al pensiero. Ma se passava qualcuno? Ma no, non c'era nessuno per chilometri. No, era troppo ridicolo… Era una donna adulta dopotutto, no? Allora sarebbero tornati ragazzi, almeno per un poco. Ma non pensava al sole? Non sapeva che si sarebbero terribilmente ustionati?

Thomas andò all'auto e tornò con un telone e due paletti di legno. In pochi minuti costruì una tettoia spiovente che dava una gradevole ombra. Lei lo rimbrottò perché aveva quelle cose in macchina e gli chiese quante altre giovani innocenti avesse adescato nel deserto. Risero entrambi di gusto, era un'idea talmente assurda!

Le piacque l'idea. Non aveva mai fatto una cosa simile e la sua indecenza gliela rese deliziosamente affascinante. Perché no?, si disse. Era di nuovo una ragazzetta e aveva l'amore del giovanotto più bello, più gentile e più meraviglioso del mondo. In quel momento si sentì come la principessa da favola delle fantasie della sua vita. Poteva fare tutto ciò che voleva.

Si spogliarono l'uno di fronte all'altra, senza vergogna, senza alcun pudore, gli occhi di lei sul corpo di lui, sul corpo che aveva imparato a conoscere tanto bene in così poco tempo. Nudi, si sdraiarono insieme sulla coperta. Il vento era piacevole sulla sua pelle e l'ombra rinfrescante. Lui montò su di lei con quell'agile movimento che le era ormai familiare. Lentamente, con abilità, la iniziò al suo viaggio ritmato e mentre la sua danza diventava sempre più frenetica, lei sentì che questa volta era diverso, per qualche ragione, diverso anche da tutte le altre volte con lui. Lo spazio aperto, il cielo, la sensazione di essere soli nell'universo, tutto accresceva le sue percezioni. Sentì tutti i suoi sensi sollecitati irrompere assieme, non riusciva a credere a cosa stesse provando: ogni nervo del suo corpo fuso con l'altro, tutti simultaneamente mandavano scosse che le attraversavano il corpo fino a farla esplodere negli spasmi dell'orgasmo.

Anche mentre i suoi brividi scuotevano il cielo, Margot Rule sapeva che avrebbe ricordato questi momenti, più di ogni altro, per il resto della vita. Indipendentemente da quanto ancora le fosse accaduto, questo sarebbe stato il brivido supremo della sua esistenza.

Dopo un lungo istante, lei prese tra le labbra il pene di David portandolo amorevolmente all'orgasmo e, mentre l'amore di lui zampillava nel suo corpo in attesa, le mani di Bishop si strinsero attorno alla sua gola, strangolandola a morte.

All'improvviso, rapidamente, senza nessun segno o preavviso, lei che era stata vita, che aveva dato la vita, che aveva contenuto la vita, ne fu privata. Per lei, d'ora in poi, per sempre, nella sfera dello spirito oltre le stelle, il sole sarebbe sorto a occidente e tramontato a oriente. E lei con lui.

Bishop lavorò veloce. Tolse dal corpo l'orologio e due anelli. Rimise la tenda nell'auto, i vestiti di lei sul sedile davanti, pronti a essere scaricati da qualche parte sulla strada del ritorno. Il cesto del pranzo e l'agenda, privata di ogni segno identificativo, sarebbero stati gettati anch'essi lungo la strada.

Dal portabagagli prese una pala e una tanica da quattro litri di benzina che aveva riempito quella mattina. La versò sul corpo e accese il fiammifero. Le fiamme divamparono e lui rimase a osservare il fuoco che bruciava lentamente il corpo fino a tramutarlo in cenere rovente. Più volte versò altra benzina sulle fiamme rossastre.

Quando non rimasero altro che le ossa e una poltiglia disgustosa, trascinò i resti della coperta verso la sabbia soffice, a una cinquantina di metri di distanza. Qui scavò una fossa, piccola ma profonda, nella quale gettò i detriti umani. Poi spianò la sabbia dove avevano pranzato, si spazzolò accuratamente quel che aveva addosso assieme allo sporco e si rivestì rapido.

Di nuovo in auto, la pala e la tanica rimessi nel baule, guidò fino alla strada, poi tornò indietro a piedi trascinando il ramo di un arbusto per cancellare le tracce degli pneumatici.

Durante il ritorno a Las Vegas si fermò spesso a gettare nel deserto le cose che non gli servivano più, compresa la pala e la tanica ormai vuota. Ripulì accuratamente l'auto, rimovendo ogni traccia degli occupanti.

Si tenne vicino la borsa dei soldi.

Nella sua stanza d'albergo contò i duecentoquaranta biglietti da cento dollari. Ne ripiegò dieci, li mise in tasca e ripose il resto nella borsa, che occultò nello scarico del gabinetto dopo averlo svuotato dell'acqua e aver bloccato il cannello. Un altro trucco imparato dalla TV. Bruciò nel lavandino il contenuto cartaceo del portafogli di lei. Gli altri oggetti, le chiavi, la spazzola per i capelli, lo specchietto e il kit del trucco, erano già stati scartati separatamente, come anche l'orologio e l'anello. Aveva tenuto solamente una fotografia della donna. Indossava un vestito severo che la faceva apparire piuttosto matronale.

Quella sera, in un casinò dello Strip, cambiò le grosse banconote che aveva in tasca in pezzi da dieci e da venti, poi se ne andò. Provò un improvviso disprezzo per la gente che lo circondava. Lui non beveva, non fumava, né giocava d'azzardo. Era un giovane virtuoso in tutto e per tutto.

Di nuovo a casa, ripose la maggior parte dei soldi con gli altri e mise le sue poche cose nella borsa da aereo. Era pronto a lasciare Las Vegas. E ne era contento.

La mattina seguente riconsegnò l'auto all'ufficio noleggio e pagò con alcuni pezzi da dieci e da venti. Non pagò con la carta di credito perché non voleva lasciare tracce che potessero far risalire alla California. Inoltre voleva che la carta rimanesse valida in caso di emergenza. Portava di nuovo gli occhiali scuri e la barba finta che aveva comprato a Los Angeles. Quando li indossava, era impossibile dare una descrizione accurata del suo viso. Avrebbe potuto essere Vincent Mungo, Thomas Bishop, Daniel Long o chiunque altro.

Con la borsa sulla spalla sinistra e con quella del denaro stretta nella mano destra, Bishop salì sul pullman di mezzogiorno diretto a Phoenix. Lasciava Las Vegas nel giorno del suo matrimonio e si lasciava dietro la futura sposa.

Anche lei sarebbe scomparsa.