Mathilda, Dei gratia si quid est. Lei si firmava così; suonano così le sue sottoscrizioni ai documenti solenni. I dotti la chiamavamo ora Mathilda, ora Mathildis; per la gente d’Oltralpe era la «Margravia», com’essi traducevano, storpiandolo nel loro barbaro idioma, il titolo di marchionissa che gl’italici rendono col termine «marchesa». Ma non era cosa rara sentirla chiamare, in Toscana, anche duchessa, secondo il vecchio uso longobardo.

Era nata dal sangue più chiaro e nobile della Cristianità: ultimogenita, come sempre sono i prediletti. Suo padre era Bonifacio duca di Tuscia, sua madre Beatrice duchessa di Lorena. Fiera della sua appartenenza al casato dei conti di Canossa, la rocca avita del padre, amava il semplice titolo di contessa. Per questo la gente del suo tempo la chiamava Magna Comitissa, la Gran Contessa, così come chiamava «il Gran Conte» quel Ruggero d’Altavilla fratello di Roberto il Guiscardo che in quegli stessi anni stava completando la conquista della Sicilia strappandola ai musulmani in una serie di epiche battaglie durante le quali non disdegnavano di apparire i santi Giorgio, Teodoro e Michele arcangelo; in un caso perfino la Vergine Maria. Allo stesso modo, del resto, molti anni prima l’apostolo Giacomo, il corpo benedetto del quale è venerato a Compostela in Galizia e che è meta di tanti pellegrinaggi, si era mostrato in battaglia apparendo armato a cavallo, un fulgido vessillo nella sinistra, nella destra una spada che faceva rotolar tra gli zoccoli dell’animale decine di luride teste di mori. Matilde non aveva mai avuto occasione di combatter gli infedeli: ma Dio le aveva comunque mostrato il suo favore, con ciò assicurando che la sua causa era buona, allorché nell’ottobre del 1092 lo scomunicato imperatore Enrico IV, assetato di vendetta, aveva assediato la rocca di Canossa senza poterla conquistare perché una nebbia miracolosa l’aveva protetta sottraendola allo sguardo suo e dei suoi sgherri. In questo modo l’empio sovrano aveva dovuto ripiegare, più o meno a cinque o sei miglia dalla rocca: sul posto sarebbe sorto, a ringraziar il cielo per il pericolo scampato, il santuario della Madonna della Battaglia.

Enrico aveva le sue distorte ragioni per odiar Matilde e Canossa: era proprio lì che quindici anni prima del vano assedio, alla fine del gennaio del 1077, egli aveva dovuto sostare a lungo, negli stracci del penitente e a piedi nudi, implorando il perdono dal papa Gregorio che nella rocca soggiornava ospite della marchesa. Era stato soprattutto grazie alle preghiere insistenti di Matilde e del pio Ugo abate di Cluny che il pontefice aveva accettato di riammettere quel reprobo nella comunione dei fedeli e gli aveva personalmente amministrato l’eucarestia. Tutti sanno con quale slealtà il tiranno, appena possibile, era tornato come il cane al suo vòmito: nel 1084 era disceso rapace su Roma, aveva preso la corona imperiale dalle mani del suo complice Guiberto da Parma, da lui fatto elegger papa dei simoniaci, nonostante fossero ben consci entrambi – miserabili – dell’atto blasfemo che stavano compiendo, loro entrambi scomunicati! Solo l’arrivo del fedele vassallo di papa Gregorio, il valoroso Roberto normanno, aveva consentito al papa di liberarsi dall’assedio che gli scismatici gli ponevano nella sua stessa città e di riparare a Salerno. E lì sarebbe morto in esilio: pagando così il fatto di aver sempre amato la giustizia e odiato l’iniquità.

In tal modo il padre Ranieri aveva riassunto, per Rimondino e per tutta le gente del seguito del conte Guido, le vicende dell’ultimo ventennio, quelle che avevano avuto la Gran Contessa protagonista. A dire il vero, al ragazzo del Pratomagno era parso che né il conte Guido, né soprattutto lo scudiero Astolfo seguissero sempre con approvazione quanto il vallombrosano andava dicendo con passione; qualche rapido aggrottar le ciglia, un certo schiarirsi a tratti la voce, gli sembravano segnalargli che soprattutto Astolfo era insofferente di quel modo di ricostruire i fatti. Il giovane Guido Guerra, al contrario, ne pareva entusiasta; e Rimondino, temendo di mancar di discrezione, non aveva posto domande.

D’altra parte, la verità dei fatti gl’interessava poco. E lo coinvolgevano poco anche le malsane curiosità che sentiva circolar tra gli armigeri e i servi del conte. Era vero che l’imperatore si fosse follemente innamorato di Matilde, che essa al contrario lo disdegnasse e avesse invece concesso i suoi favori al vecchio e iracondo Gregorio? Era vero che fosse un’amante spregiudicata e instancabile, e che avesse adottato come figlio Guido Guerra perché suo padre il conte era stato uno dei suoi ultimi favoriti; o addirittura, come malignamente insinuava qualcuno del seguito, perché era il giovinetto a piacerle?

Rimondino ascoltava non senza una curiosità forse morbosa queste chiacchiere: ma esse lo mettevano a disagio più di quanto non riuscissero a eccitarlo. Per lui, Matilde era come la contessa Ermellina, ma molto più in alto: era una dama circonfusa d’oro e d’azzurro, qualcosa da venerare al pari della Vergine Maria. La immaginava bellissima, i capelli d’oro sotto la corona gemmata, lo scettro nella mano e il gesto imperioso.

La vide poi da presso, un paio di giorni dopo l’arrivo della comitiva sotto le mura di Lucca. Il conte aveva fatto montare il suo padiglione sulla riva del Serchio, in un luogo adatto ad abbeverare i cavalli, attingere acqua, prender dei bagni e darsi alla pesca: le mura erano là, poco vicino. La contessa aveva a un mezzo miglio da lì un suo palazzo, non sontuoso ma forte e comodo: tuttavia, per un atto di rispetto e di gentilezza nei confronti del vescovo e dei più ragguardevoli cittadini, non era penetrata all’interno del perimetro murario al fine di non dar l’impressione di voler riaffermare il suo diretto dominio sulla città. Il conte andò a visitarla: e Rimondino ottenne, grazie ai buoni uffici di Astolfo, di far parte del seguito. Per l’occasione gli avevano fornito un giubbone di spesso panno rosso cupo dal bordo ricamato e strette brache dello stesso colore; il ragazzo vi aveva aggiunto il cinturone col suo bel coltello da caccia e si pavoneggiava. Chissà se la Gran Contessa l’avrebbe notato, se davvero era così ghiotta di maschi giovani come dicevano gli armigeri...

La signora si fece incontro a Guido molto semplicemente, a piedi, accogliendolo sul portone del palazzo: in verità un modesto edificio rispetto a quelli, sacri e no, che Rimondino aveva visto in città. Il giovane si pentì e si vergognò di quel che aveva pensato dando ascolto a quelle bestie dei servitori. Per qualche istante, poté vederla da vicino mentre s’inginocchiava come tutti al suo cospetto. Dinanzi a lui c’era una donna quasi vecchia, che dimostrava per intero i suoi cinquant’anni. Era esile, curva, quasi che il suo lungo abito d’un color bruno prugna le pesasse indosso. La veste era fornita d’un cappuccio sobriamente ricamato, con il quale essa copriva un sottostante velo bianco che le nascondeva dei capelli impossibili a immaginarsi se non grigi. Aveva pallidissimo il volto, illuminato solo da due grandi occhi infossati ma vivi d’intelligenza, d’una luce azzurra leggermente opaca, come il dorso di certe felci dei boschi di montagna. Le mani erano coperte da guanti della stessa stoffa e dello stesso colore dell’abito; quando si tolse il destro per porger la mano al bacio dei convenuti, Rimondino vide – e per un istante ebbe tra le sue – una mano che sembrava la reliquia d’una santa: piccola ma dalle dita lunghissime, diafana, candida, percorsa da una rete di venuzze azzurre. Freddissima.

Che cosa si fossero detti, la marchesa e il suo vassallo, Rimondino era mille miglia lontano dall’immaginarselo: e, del resto, non se lo chiese neppure. Ma Astolfo, che certo sapeva qualcosa e forse molto, per tutta la sera successiva rimase d’uno strano umore, tra l’eccitato e il preoccupato. Un umore che rispondeva poco alla sua indole sicura di sé, tranquilla, allegra.

Era chiaro a tutti che la marchesa accoglieva, nel suo sobrio palazzo, un ospite. Attorno all’edificio v’erano armati troppo numerosi, e troppo guardinghi, per ritenere potessero appartenere al solo seguito della signora; s’incrociavano fra loro modi di parlare troppo diversi, estranei comunque alla Tuscia, per poter far pensare che l’ospite non venisse da lontano. E c’era anche un andirivieni di chierici e di monaci eccessivo perfino per chi, come Matilde, godeva fama di profonda pietà religiosa e di grande affetto per la Chiesa.

Il giorno dopo, di buon’ora, Astolfo e Ranieri, nella stessa tenda dei quali dormivano Rimondino e tre servi, si alzarono di buon’ora e si vestirono rapidamente. «Ti aiuto, signore...», aveva azzardato il ragazzo; «Qui non ci sono signori. Dormi», lo aveva rimbeccato burbero lo scudiero. Avevan lasciato la tenda in gran fretta: e Rimondino, spiando, li aveva visti aspettare davanti al padiglione. I due conti ne erano usciti poco dopo e, con cinque o sei cavalieri, erano montati a cavallo e avevano spronato rapidi nella direzione della Francigena verso nord, cioè verso il passo del monte Bardone.7 Erano tutti armati, padre Ranieri portava con sé una croce astile di rame che conteneva una reliquia di sant’Ilario – Rimondino conosceva bene quell’oggetto – e Astolfo inalberava l’insegna scarlatta del conte, il vexillum simbolo del suo potere di banno. La banderia, come la chiamavano cavalieri e armigeri. Non andavano certo a scontrarsi con qualcuno, per quanto fossero armati: avevano piuttosto l’aria di chi si reca a un incontro ufficiale.

Tutta Lucca infatti ferveva d’attesa. Il ragazzo era penetrato nel pomeriggio all’interno delle mura, aveva raggiunto la chiesa di San Martino, aveva pregato dinanzi al Santo Volto e aveva ascoltato in giro chiacchiere e dicerie. Aveva attaccato discorso con chierici, mercanti, pellegrini e mendicanti. Aveva imparato come la santa immagine fosse giunta dalla Terrasanta, misteriosamente navigando o galleggiando, sino al porto di Luni; come da quella città dalle origini pagane, e perciò maledetta e ormai in rovina, essa fosse stata poi trasferita a Lucca, e come si dicesse che in esso albergavano delle reliquie della Passione che non si erano mai potute però trovare. Apprese anche molte leggende, come quella del povero giullare che aveva cantato e suonato ai piedi dell’immagine in suo onore e al quale il Cristo ligneo, alla fine del canto, aveva lanciato in dono quale ricca ricompensa uno dei calzari tempestati di gemme che portava ai piedi. Si diceva che nel sud della Tuscia, in un luogo chiamato appunto Sansepolcro in onore del più santo dei santuari di tutta la Terrasanta, vi fosse un altro crocifisso simile a quello lucchese, non scolpito cioè da mano d’uomo (alcuni però sostenevano che quelle immagini erano opera di Nicodemo, il discepolo pavido ma fedele...): ma non così somigliante al Cristo come quello. Nel portico d’ingresso di San Martino, poi, gli era stato mostrato un disegno profondamente inciso sulla pietra della parete. Era un cerchio fatto di molti altri cerchi concentrici, che ripeteva – gli avevano spiegato – il tracciato di un palazzo che si trovava in antico nell’isola di Creta, oggi nelle mani dell’imperatore dei greci. Quel palazzo si chiamava Labirinto ed era sede di un demone dalla testa di toro detto Minotauro: era difficile entrarvi e impossibile non perdervisi; c’era riuscito tuttavia un cavaliere di nome Teseo in quanto la sorella del mostro, di nome Arianna, si era innamorata di lui e lo aveva fornito di un magico filo col quale era stato facile ritrovare l’uscita. Molti pellegrini dicevano di aver visto spesso questi labirinti, nelle chiese; padre Ranieri aggiungeva che secondo una leggenda anche la tomba di un antico re di Tuscia, tale Porsenna da Chiusi, era un labirinto sotterraneo. Questa fiaba pagana aveva comunque un profondo significato: il Labirinto era difatti il simbolo del pellegrinaggio a Gerusalemme, minacciato da ogni sorta d’insidie ma che pur si poteva condurre a buon compimento se si era aiutati dalla grazia divina, significata dal magico filo. Anzi, aveva aggiunto un chierico, più che del pellegrinaggio il Labirinto poteva indicare il viaggio stesso della vita umana; ma era lì a ricordare il pellegrinaggio perché a Lucca facevano tappa molti pellegrini dal nord o dal sud: i primi diretti a Roma da cui molti proseguivano per i santuari di San Michele del Gargano e di San Nicola di Bari, quindi per Costantinopoli e Gerusalemme; i secondi intenzionati invece a visitare San Michele della Chiusa in Piemonte e di lì a raggiungere Santa Fede a Conques e poi magari San Giacomo di Compostella in Galizia.

Verso sera, quando Rimondino e gli amici stavano per volgere i passi verso il loro accampamento, la città si animò inaspettatamente: le torri si accesero di lumi, dappertutto si sentiva cantare e gridare, l’aria si animò di suoni di campane e di corni e di rumor di timpani mentre dalla chiesa di San Frediano il clero cittadino usciva in processione incontro a qualcuno evidentemente degno di grande onore.

Giunsero, infatti, in una selva di vessilli e di lance. Il conte Guido cavalcava con loro, in una nube bruna di polvere che il tramonto tingeva di riflessi dorati. Rimondino non aveva mai visto tanti armati, tanti bei colori, tante fulgide vesti; gli passavano dinanzi le lance alte e brune dai pennoncelli colorati e i lunghi scudi a mandorla che i cavalieri tenevano con la punta appoggiata al piede sinistro. Erano scudi rossi, verdi, bianchi, azzurri, decorati da umboni di metallo dorato, argentato, brunito, e rinforzati da borchie metalliche sagomate a forma di fiore, di stella, di drago, di serpe.

Cavalcava dinanzi a tutti un gruppo di araldi, ciascuno recante un’insegna: ma Rimondino seppe riconoscere solo quella del suo signore. Quindi, su una giumenta saura, caracollava un giovane cantore dallo sguardo fiero e beffardo, i capelli rossi lunghissimi, un abito a strisce gialle e verdi ornato di campanelli d’argento, una gran pelliccia di volpe buttata dietro le spalle e tra le mani una grossa cetra. Cavalcava sicuro, le redini abbandonate sul collo della bestia il passo della quale sembrava seguire e ritmare il canto:

L’imperatore fa suonare i corni.

Scendon di sella i suoi francesi, e indossano

usberghi, ed elmi, e spade ornate d’oro.

Han begli scudi, e spiedi grandi e forti,

bianchi e vermigli e azzurri i gonfaloni...

S’è fatto chiaro il vespro e chiaro il giorno.

E le armature splendon contro il sole;

usberghi ed elmi gettan gran fulgore,

come gli scudi, ben dipinti a fiori,

come gli spiedi e i gonfaloni d’oro...

Son alti i poggi, e tenebrosi, e grandi,

le valli fonde, e precipitan l’acque.

Si fa un sonar di trombe, da ogni parte,

e ogni tromba fa eco all’olifante.

Rimondino fu colpito dal fatto che, su molti degli elmi a cono e su molti degli scudi portati da quei cavalieri, fosse dipinta una semplice croce. Non si trattava di un ornamento accurato; anzi, era come eseguita con due rapidi colpi di colore. Allo stesso modo, sui manti e sulle vesti di quasi tutti quelli del seguito e sugli abiti d’una folla innumerevole di pellegrini disarmati che seguiva la truppa a cavallo – i più erano uomini, ma vi abbondavano anche i ragazzi, i vecchi, addirittura le donne e i bambini –, tornava lo stesso motivo: una semplice croce, il più delle volte due liste sottili di panno scarlatto cucite in modo da formare il santo segno; qualcuno, più raro, aveva invece ricamato la croce all’altezza della spalla. Il colore del simbolo era di solito il rosso, ma ve n’erano alcuni anche di tinta diversa.

I capi del corteo erano scesi dinanzi a San Frediano; poco più tardi – l’aria era ormai bruna, e brillavano già le prime stelle –, in un fragor d’armi battute contro gli scudi e i giachi di ferro e in un fulgore di torce che si riflettevano sul metallo, era giunta alla chiesa, attesa e accolta dal nuovo vescovo della città – dissero si chiamasse Rangerio – anche la contessa Matilde.

La città era preda della più grande agitazione. La maggior parte degli armati e tutti i pellegrini avevano dovuto restar fuori le mura; attorno ad esse, sui bordi del grande fossato che le cingeva, si stavano dovunque accendendo fuochi e drizzando febbrilmente accampamenti di fortuna. I gran signori giunti sarebbero rimasti quella notte ospiti del vescovo e dei prelati cittadini; altri avrebbero trovato asilo presso la marchesa o nei molti ospizi che si ergevano in città e nei suoi immediati dintorni; ma i più, e la totalità dei poveri pellegrini, si apprestavano a passar la notte all’addiaccio. Era, del resto, appena la fine d’ottobre; tirava una lieve brezza di mare e il clima della piana presso il Tirreno era dolce.

Quella notte, però, non ci furono alloggiamenti che tenessero: tranne i capi guerrieri, il vescovo e la signora, a Lucca non dormì nessuno. Gli armigeri e i servitori dei nuovi arrivati, così come i pellegrini, erano subissati di domande. La maggior parte di loro rispondeva in una lingua che a Lucca come in tutte le città attraversate dalla Via Francigena era abbastanza abituale, e che del resto aveva qualche somiglianza con quella parlata dai toscani: era l’idioma dei franchi del nord, quelli che abitavano più o meno – spiegavano i mercanti, gente che aveva viaggiato – tra il fiume Mosa, il fiume Loira e il grande oceano. Di solito lo si definiva francesco, o francese, appunto perché parlato dai franchi occidentali; mentre quelli orientali usavano un idioma teutonico, quello nativo dell’imperatore Enrico IV e della madre della contessa Matilde, che del resto parlava l’una e l’altra lingua al pari della figlia.

Si venne così a sapere chi erano i signori giunti dal nord, ma la gente stentava a crederlo. Si trattava anzitutto di Ugo detto «il Grande», sire di Vermandois in Francia, che era fratello di Filippo re di Francia ma che evidentemente stava facendo la strada di Roma per impetrare dal vicario di Pietro il perdono per il suo sciagurato congiunto, scomunicato perché aveva rubato la moglie del conte d’Angiò, Bertrada, e viveva in concubinato con lei. Lo accompagnavano Roberto detto «Cortacoscia», duca di Normandia e figlio di quel duca Guglielmo che trent’anni prima aveva conquistato l’Inghilterra (il fratello minore di Roberto, Guglielmo detto «il Rosso», era appunto re della fredda Inghilterra; e anche la sua ortodossia era dubbia); il cognato del duca Roberto, cioè Stefano conte di Blois e di Chartres, che tutti dicevano il signore più buono e generoso dell’intera terra dei franchi; infine Roberto conte di Fiandra. Provenendo dalla Francia, da dove erano partiti sul finir dell’estate, avevano varcato le Alpi a quel passo che gli antichi e i dotti chiamavano Mons Jovis (e la gente del posto «Gran San Bernardo») e quindi, attraverso Aosta, Ivrea, Vercelli, erano giunti alla città nella quale s’incoronavano i re d’Italia: Pavia. Avevano passato il Po a Piacenza – e ci avevano messo parecchi giorni perché, tra armati e pellegrini inermi diretti a Roma che s’erano accodati alle truppe, erano parecchie migliaia – e attraverso Borgo San Donnino e la valle del Taro erano giunti all’Appennino che avevano varcato al Monte Bardone. Lì, dinanzi alla chiesa del luogo detto Berceto, avevan trovato una gran ressa di gente del posto che offriva loro canestri pieni del frutto più ricercato di quei boschi, dei grossi funghi; e avevano inoltre incontrato i vassalli e i messi della marchesa di Toscana ad accoglierli. Tra loro, Rimondino sapeva ora che c’era anche il conte Guido: e invidiava Astolfo, che gli raccontava delle gran bevute di vino rosso frizzante e della gran mangiata di funghi e di cacciagione che i chierici e la gente di Berceto avevano apprestato per tutti, dei canti che s’erano intonati, delle novità straordinarie dall’Oltralpe. Ormai, sapevano tutto: anche il nome del misterioso ospite di Matilde, che fino ad allora non era entrato in Lucca, anzi non si era neppur mostrato. I francesi dicevano che era sceso dalle Alpi con loro, ma precedendoli e facendo frequenti deviazioni. A Lucca c’era un appuntamento, era chiaro: ma soltanto i capi dovevano saperlo.

Attorno ai fuochi dei bivacchi, presso il fossato delle mura, si discuteva animatamente. Padre Ranieri aveva fatto casualmente amicizia con un chierico francese al seguito del conte Stefano: gli aveva parlato d’una sua visita a Chartres di qualche anno prima e del suo stupore dinanzi al grande santuario che si stava costruendo sulla cripta sotterranea dov’era venerata una piccola statua annerita della Vergine Maria, nota per i miracoli e conosciuta, si diceva, fin dal tempo dei pagani. Del resto, Ranieri spiegava che fino dai tempi degli antichi dèi, al cospetto del pio imperatore Augusto, il mago e profeta Virgilio aveva annunziato che una Vergine avrebbe partorito un Bambino e che tale evento mirabile avrebbe segnato un rinnovamento in tutto il mondo.

Al sentir parlare di Chartres, il chierico di Stefano s’era illuminato: quella era appunto la sua città, il suo nome era Fulcherio e il conte lo aveva condotto con sé per due motivi: anzitutto, avrebbe dovuto scrivere ogni giorno una lettera per la consorte del suo signore, la contessa Adele, ch’era figlia del conquistatore d’Inghilterra e sorella quindi del duca di Normandia; e poi avrebbe avuto anche il compito di registrare le gesta del conte durante il lungo viaggio che li attendeva, sia a edificazione della contessa sia a futura memoria per i suoi vassalli e i loro discendenti. Ranieri ascoltava rapito queste notizie: forse avrebbe potuto convincere anch’egli il suo signore a scrivere – magari non proprio ogni giorno... – alla contessa Ermellina, e perfino a tenere un diario delle sue gesta.

Quella notte si sarebbe pregato fino all’alba dinanzi all’effigie del Santo Volto, che vegliava con i suoi grandi occhi spalancati su una selva di ceri accesi; Ranieri e Fulcherio si erano avviati insieme verso la chiesa di San Martino, tenendosi sottobraccio e chiacchierando affabilmente in un buffo miscuglio tra il latino e l’idioma dei francesi del nord, che Ranieri aveva dato prova di conoscere abbastanza bene anche perché – si era scoperto – sapeva a memoria e poteva perfino cantare lunghi brani di quelle che egli chiamava cantilenae e Fulcherio invece chansons: i cantari dell’imperatore Carlo dalla Barba Fiorita, e di Roma la Grande, e di Rolando, e di Guglielmo, e di Bovo d’Antona, e dei quattro figli d’Aimone, e del buon Oggeri di Danimarca, e del dannato Gano con tutta la schiatta scellerata dei maganzesi...

Astolfo e Rimondino erano invece rimasti a bere e a chiacchierare accanto al fuoco insieme con un giovane che aveva qualche anno appena più del luparo, per quanto la faccia riarsa dal sole e piena di efelidi sotto i capelli rossi e un’incipiente pinguedine lo facessero sembrare più vecchio. Disse di chiamarsi Germano, al pari d’un santo del suo paese ch’era stato gran missionario presso i galli pagani e gran persecutore di demoni; al pari di lui, anche il nostro Germano – ch’era l’accolito di Fulcherio di Chartres – era chierico esorcista. La cosa non mancò di meravigliare e un po’ impaurire il ragazzo toscano. Ma Germano, che in effetti portava alla sommità della testa una piccola tonsura, ormai quasi invisibile tra i capelli ch’erano cresciuti incolti, scoppiò a ridere: e spiegò che, tra quelli che la Chiesa chiamava ordines minores, l’esorcista era uno dei più bassi e dei meno stimati. Si diventava esorcista con niente: bastava conoscere un po’ di formule. Ma i demoni – obiettava Rimondino – avevano davvero paura di quei gesti, di quelle parole? Germano aveva dato di nuovo in una grande risata. Non aveva l’aria di intendersi troppo di cose di Chiesa; in cambio, anche lui conosceva – e molto meglio di padre Ranieri – le storie di Carlomagno e di Rolando. Anzi, la persona che in tutta l’armata francese e normanna amava di più, a parte il suo dominus Fulcherio, era il giullare Tagliaferro, quello ch’era entrato in Lucca alla testa delle truppe cantando le gesta del paladino Rolando.

Germano, pur essendo chierico, sapeva molto poco di latino; ma non gli sarebbe servito saperne di più, dal momento che né Astolfo né Rimondino conoscevano in tale lingua quasi niente, a parte alcune formule e qualche preghiera debitamente storpiata. Per il resto, Germano si esprimeva in una buffa lingua mista di parole e di espressioni di vari idiomi. Quella notte, Rimondino imparò qualcosa di molto importante per chiunque viaggi: che cioè la differenza tra le lingue è un ostacolo molto tenue alla comprensione reciproca. Dopo una buona mezz’ora di colloquio, nessuno dei tre – e di altre cinque o sei persone che, sedendo in cerchio attorno al fuoco, si erano unite alla conversazione – sapeva più in che lingua o dialetto stesse parlando: ma si comprendevano benissimo, anzi si accorsero ch’era loro possibile discutere di cose abbastanza complesse.

Fu così che da Germano, cordiale e allegro quanto il suo signore ma per certi versi più informato di lui, si vennero ad apprendere parecchie cose. Anzitutto e soprattutto, che cos’era quella turba promiscua di armati e di pellegrini che stava solcando l’Italia diretta a meridione.

Ricordate – chiedeva Germano – lo scorso anno, il millenovantacinquesimo della nascita di Nostro Signore? Era un anno speciale: la Pasqua cadeva il giorno stesso dell’Annunciazione dell’angelo a Maria, il 25 marzo, e circolavano da tempo certe profezie secondo le quali il mondo sarebbe finito nell’anno in cui le due festività avessero coinciso: quella sarebbe stata la data del Giudizio Universale, della Fine dei Tempi e dell’avvento del Regno di Dio. Invece non era successo nulla, aveva interloquito Astolfo. Piano, come corri!, lo aveva rimbeccato Germano. Altro che nulla. Intanto fra il 4 e il 5 aprile, nella settimana successiva alla domenica In Albis, c’era stata una gran pioggia di stelle e tutti i popoli della Cristianità l’avevan vista. Era stato, quello, il segnale perché dalla Germania, dall’Aquitania, dalla Puglia, torme mai viste di pellegrini si mettessero in cammino verso Santiago in Galizia, Monte San Michele «al Pericolo del Mare» di Normandia, Monte Sant’Angelo di Puglia e perfino Gerusalemme. C’erano state apparizioni divine e diaboliche, terremoti e nascite mostruose: tutti segnali certi di mutamenti e di grandiosi eventi futuri, come quando – alla vigilia della conquista dell’Inghilterra da parte del duca Guglielmo – si era vista in cielo una grande stella cometa: e qualcuno sosteneva ch’era la stessa che aveva illuminato la notte della nascita del Salvatore.

In quello stesso aprile d’un anno prima, a Piacenza – quindi non lontano da Lucca, e sulla stessa Francigena – si era tenuto un concilio presieduto da papa Urbano II. Il pontefice stava recandosi in Francia per riorganizzare anche lì la Chiesa; ed era uno strano viaggio il suo, per metà un vero e proprio trionfo e per metà una continua fuga dagli sgherri dell’antipapa sedicente Clemente III, vale a dire di Guiberto di Parma. A Piacenza, tuttavia, ad aspettare il papa c’era una solenne ambasceria dell’imperatore dei greci. Quel sovrano, e quelle genti orientali, si erano staccati una cinquantina d’anni prima dalla comunione con la Chiesa latina: i loro preti si sposavano e non volevano saperne di tornare all’insegnamento di san Paolo, come invece ci si proponeva di fare in Occidente; inoltre si ostinavano a celebrare l’eucarestia usando pane lievitato, contro l’uso indicato dalle Scritture e l’esempio di Gesù Cristo; infine, preti e vescovi greci erano servilmente supini agli ordini del loro sovrano e nulla nella Chiesa greca faceva supporre che essa volesse recuperare la sua libertà rispetto al potere temporale, a differenza di quanto i papi Gregorio VII e Urbano II avevano invece voluto e insegnato.

Insomma, non si può dire che i greci fossero proprio degli eretici; certo erano degli scismatici. Ma ora qualcosa di grave era loro avvenuto, e si doveva comunque soccorrerli. Da molti secoli parte dell’impero dei greci, che si era sostituito a quello romano, era stata invasa dai pagani arabi i quali avevano imposto una religione fondata da un monaco cristiano rinnegato, un certo Mahoma, o Malcommetto, o Maometto. Gli arabi infedeli erano dilagati in tutto il mondo, avevano occupato la Spagna e la Sicilia, si erano impadroniti di parte del mare Mediterraneo, avevano osato perfino strappare alla Cristianità la Santa Città di Gerusalemme. Poi però i rapporti con i cristiani erano gradualmente migliorati: i pellegrini cristiani, sia pure soggetti a qualche soperchieria, avevano potuto continuar a visitare Gerusalemme; intanto la Cristianità era passata all’offensiva e stava cacciando i pagani arabi: che, in quanto discendenti da Agar serva e concubina del patriarca Abramo, come narrano le Scritture, erano detti agareni (ma qualcuno li chiamava scioccamente saraceni: e si sbagliava, perché non avevan nulla a che fare con Sara, sposa legittima del patriarca). Senonché un nuovo pericolo si stava profilando: le plaghe orientali dell’impero dei greci erano state da poco occupate da gente anch’essa pagana, ma ben più feroce. Germano aveva dimenticato il loro nome ma si ricordava che venivano dalla Persia, ch’è sempre stata riserva di ogni barbarie e di ogni magia. Questi persiani avevano sconfitto l’imperatore dei greci in battaglia; e ora egli, disperato, inviava i suoi messi a implorare l’aiuto dal fiore dei guerrieri della Cristianità, da quei cavalieri franchi ch’erano noti come i combattenti più coraggiosi e valorosi del mondo. Il papa aveva promesso che quanti fossero partiti per recar aiuto ai cristiani d’Oriente avrebbero ricevuto il perdono per tutti i loro peccati. E Dio sa se ne avevan bisogno, certuni, specie quelli che fino ad allora si erano dati a guerre e a vendette fratricide o che, peggio, avevano appoggiato l’imperatore scomunicato e il suo papa blasfemo contro la vera Chiesa.

Ma le hai sentite tu, queste cose?, gli avevano chiesto. No, aveva risposto: a Piacenza, Germano non c’era. Però sette mesi dopo, nel novembre, era a Clermont: e lì era accaduto qualcosa di molto più straordinario. Parlaci di Clermont, Germano.

Clermont significa «Chiaromonte» ed è una città d’Alvernia, nel centro della Francia, al di là del Rodano e di quei centri come Lione e Vienne, dov’è ancor tanto forte l’impronta dell’impero romano. Ma l’Alvernia è un luogo selvaggio e misterioso, ricco d’impenetrabili foreste e disseminato di strane montagne coniche le quali recano, alla loro vetta, una sorta di valle profondamente incavata. La gente le dice dimora delle fate, perché è ancora semipagana: in realtà, hanno l’aspetto di vulcani spenti. Vero è che i vulcani sono luoghi tremendi, ingressi dell’Inferno. Come il Vesuvio, la montagna che fuma e getta fiamme presso Napoli, dov’è sepolto il mago Virgilio; o come Stromboli, dove un demonio sotto forma di cavallo nero gettò il re pagano Teodorico, persecutore della Chiesa; o come l’Etna, nell’isola di Sicilia ancora occupata dai saraceni infedeli, nelle viscere del quale i bretoni folli sostengono che dorma il loro re Arturo, il quale si sveglierà alla fine dei tempi. Anche vicino a Roma c’è un gran vulcano, ormai spento, il cui cratere ora è riempito dalle acque che formano un lago. Lì viveva, in tempi antichissimi, la fata demoniaca detta Diana; e nei pressi c’era un bosco profondo, tutto di querce, una delle quali recava nascosto nelle sue chiome un ramo dalle foglie d’oro. Chi avesse affrontato quel luogo, vinto in duello il suo guardiano – il Re del Bosco – e quindi trovato e colto il ramo d’oro sarebbe diventato il signore del luogo e avrebbe potuto aver anche accesso al regno delle ombre e farsi svelare dai morti tutti i punti della terra nei quali sono sepolti antichi tesori.

Le montagne più terribili, però, erano in Alvernia. Lì c’era quella, anch’essa invasa al suo culmine dalle acque d’un lago, dov’era precipitato Ponzio Pilato che, come tutti sanno, dopo l’iniqua sentenza fu sollevato da un turbine di vento e portato lontano. Ma lì, soprattutto, c’era il luogo più spaventoso di tutti: quello che la gente del posto chiamava il Poggio della Cupola, che vuol dire anche il Poggio del Tempio. Era là che i galli pagani, prima che Giulio Cesare li sconfiggesse, adoravano un demonio che chiamavano Lug; nemmeno i romani osarono abbattere quel tempio, e si limitarono a sostenere che quel dio era il medesimo ch’essi stessi onoravano chiamandolo Mercurio. Da quella montagna nascono furiose tempeste, da lì traggono origine rovinosi terremoti.

L’uditorio ascoltava attonito. Il giullare Tagliaferro si era fatto vicino al gruppo, emerso da chissà dove col suo abito giallo e verde, e accompagnava il racconto di Germano scotendo di tanto in tanto i campanelli d’argento dei quali la sua veste era cosparsa. Rimondino sentiva dei brividi corrergli lungo la schiena. Un ragazzo si schiarì la voce e osò domandare: «Ma se codesta Alvernia è un posto così terribile, perché il papa l’ha scelta per farci un concilio?» (Scemo, rispose qualcuno, appunto per esorcizzarla, per portarci il nome di Gesù; ma Germano, che stava bevendo del vino da un otre perché il racconto gli aveva seccato le fauci, scosse la testa come chi la sa lunga).

«Dovete dunque sapere, ignoranti che siete, che quel paese che i romani chiamavano Gallia e ora si chiama Francia è molto grande. Confina da una parte con l’oceano, dall’altra con i fiumi e le foreste dove abitano i teutoni, e poi ancora con i Pirenei che la separano dalla Spagna e con le Alpi da cui siamo scesi noi pochi giorni fa. Noi chiamiamo ormai “Francia” tutto il paese, per via dei franchi che lo abitano da tempo, ma le cose sono più complesse. Nel suo meridione, a sud d’un grande fiume detto Loira dalle rive del quale provengono parecchi dei nostri compagni di viaggio (ci si ricavano vini che voialtri nemmeno immaginate), i franchi in realtà non sono quasi arrivati. Prima c’erano i galli, poi ci giunsero i romani e poco dopo il paese diventò cristiano: sapete che in vecchiaia ci arrivò perfino Maria Maddalena, sissignori, quella che aveva lavato i piedi a Gesù ungendoli con un unguento prezioso, e poi anche le Tre Marie, quelle del Sepolcro? È inutile che facciate quelle facce: non credere a queste cose sarebbe come non credere nel Santo Volto. Domandatele ai preti. Del resto, sono chierico anch’io: e faccio l’esorcista, badate a voi.

«Dicevo dunque che il fiume Loira si può dire divida la Gallia in due: a nord ci governa il re di Francia, ma conta poco perché è uno scomunicato e i suoi vassalli non gli ubbidiscono. Vabbè, ha messo le corna al conte Goffredo d’Angiò, gli ha portato via la moglie. Ma bisogna dire che se la signora non fosse stata una puttana non avrebbe tradito il marito per uno che valeva tanto meno di lui: ché il re è un fantoccio incapace di controllare poche spanne del suo regno mentre il conte d’Angiò è un gran signore che governa una regione grande tre volte la Tuscia. E poi ci sono i duchi di Normandia, d’Aquitania, di Borgogna, di Guascogna; e i conti di Bretagna, di Fiandra, d’Angiò, di Nevers, di Bourbon, d’Alvernia, di Tolosa, di Barcellona. Inoltre ci sono le signorie ecclesiastiche, come quelle tenute dai buoni vescovi di Laon, di Tournai, di Reims (dov’è custodita la Santa Ampolla dell’olio inviato dal cielo per ungere i re di Francia: non c’è nulla da ridere, stupidi, è verità sacrosanta), di Beauvais, di Corbie, di Langres, d’Orléans, ch’è la città più piacevole del mondo, dove si mangia e si beve meglio che altrove e dove io ho avuto la fortuna d’incontrare il mio signore Fulcherio quattro mesi fa.

«Ora, che credete, che in terra di Francia i vassalli obbediscano ai loro naturali signori? Questo non s’è più visto, dopo i tempi del buon imperatore Carlo. La Francia non è mica la Germania, dove al massimo litigano i duchi tra loro e i vassalli stanno ciascuno col suo duca, e ci sono perfino cavalieri che sostengono di esser nobili in quanto servi e si gloriano del nome di ministerialis, che vuol dire essere al servizio di qualcuno. Noialtri francesi, dal più potente all’ultimo rustico, siamo uomini liberi: ci picchiamo di continuo fra noi, re e vassalli, vassalli e vassalli, vassalli e cavalieri, cavalieri e libere comunità. Lo faceva anche il buon sire Guglielmo, che nella canzone insorge contro l’imbelle re Ludovico e lo manda a quel paese: vero, Tagliaferro? Figuratevi che negli ultimi tempi vescovi e abati, che vogliono riformare i costumi della Chiesa e costringere i preti a vivere come Gesù comanda nel Vangelo (ma sarà dura...), hanno invitato tutti i francesi a aderire al loro programma, e per questo hanno cominciato a proibire guerre, battaglie, duelli e così via. Hanno vietato quei giochi che si chiamano giostre e tornei dicendo che erano origine di costumi lussuriosi e di occasioni per ostentar superbia e ricchezza, a parte il pericolo di lasciarci la pelle; e poi hanno cominciato a dichiarare che certi luoghi, come i santuari, i mercati, le strade, gli ospizi, sono protetti dalla Pace di Dio (visto che alla Pace del re non ubbidisce più nessuno). Vi sono anche categorie di persone protette dalla Pace di Dio: come i pellegrini, i mercanti, i chierici – anch’io, dunque –, le vedove, gli orfani, i poveri in generale. E poi ci sono momenti dell’anno o della settimana in cui non si può combattere, perché si tratta di giorni o di periodi in cui si dovrebbe tener meglio a mente che cosa il Signore ha patito per noi incarnandosi. E allora è vietato combattere durante la Quaresima, le Quattro Tempora, l’Avvento e in tutte le feste dei santi; inoltre, in ricordo della Passione del Signore, non si può combattere dai vespri del giovedì fino al mattino del lunedì. E questa è la Tregua di Dio...»

«Ma combattere non è sempre peccato, a meno che non lo si faccia contro i pagani...» osservò uno degli astanti, «...o contro gli eretici e gli scismatici?», completò e corresse un altro, che in quel momento stava pensando al sedicente imperatore Enrico e al falsissimo papa Clemente.

«Certo, senza dubbio», intervenne il giullare Tagliaferro, che sentiva spesso discutere signori e prelati e stava molto attento alle loro argomentazioni: «Chiunque versi il sangue di un cristiano è come se versasse di nuovo il sangue del Cristo, e commette peccato mortale. L’ha dichiarato anche un concilio. Però chi infrange la Pace o la Tregua di Dio fa qualcosa di peggio: è come se commettesse un sacrilegio: che so?, sputare nel santo calice della messa...» tutti gli astanti si fecero devotamente il segno della croce; e Tagliaferro riprese, strizzando l’occhio: «... ora, ai sacrileghi che infrangono Pace e Tregua di Dio spetta la scomunica. Sapete che cosa diventa uno scomunicato? È come un brigante, come un lupo: potete fargli di tutto, ammazzarlo, sbattere i suoi cuccioli contro una roccia, fottergli la moglie e poi sgozzarla mentre è ancora lì ansante per terra e magari ci si è anche divertita; allo scomunicato potete rubare impunemente i beni, ed è tutta roba vostra; potete diventare duchi o conti al suo posto, e vi meritate anche il Paradiso».

Un mormorio concitato aveva salutato le ultime parole del giullare. Il chierico Germano intervenne: «Tagliaferro è un ghiottone, un ribaldo, uno che non rispetta nulla. Per combattere gli scomunicati bisogna aver fede ed essere in grazia di Dio. Si è mai sentito di un buon cristiano che faccia certe cose? Però su un punto, nella sostanza, Tagliaferro ha ragione: gli scomunicati possono venir perseguiti fino alla morte e alla spoliazione. In questo modo...».

«In questo modo» riprese Tagliaferro, ridendo ancora ma visibilmente contrariato «in terra di Francia si sono organizzate delle Leghe di Pace, spesso guidate da cavalieri che avevano parecchie cose da farsi perdonare, e che sono andate all’assalto dei castelli di quelli che rompevano la Pace o la Tregua di Dio. Così si è fatta giustizia, e con la giustizia si è imposta la pace. Maledetto chi versa il sangue d’un cristiano, sì: ma uno scomunicato non è più un cristiano, e chi lo fa a pezzi si guadagna l’indulgenza per i suoi peccati e si fa anche un bel gruzzolo...», sputò in terra e rise di nuovo, feroce. Nemmeno Germano aveva osato contraddirlo; per un istante vi fu un imbarazzato silenzio attorno al fuoco. Qualcuno pensava a cose accadute anche in Lombardia e in Toscana. A poveri preti cacciati dalle loro parrocchie e qualche volta fatti a pezzi a furor di popolo solo perché avevano da tanto tempo una compagna con la quale divider la loro miseria e alleviare le loro privazioni, e dalla quale avevano avuto dei figli. A vescovi ch’erano anche giusti e pii, e che da un momento all’altro si eran visti accusare di simonia solo perché, all’atto dell’investitura accettata dalle mani dell’imperatore come si era fatto da innumerevoli anni, avevan inviato in dono di ringraziamento al loro signore un falco o un segugio da caccia, o un paio di guanti ricamati, o un morso da cavallo niellato e dorato. Pochi riuscivano veramente a convincersi, nell’intimo, che tali eccessi fossero davvero il giusto prezzo da pagare perché la Chiesa tornasse santa e pura: e la gente della curia del papa, e i buoni monaci di Cluny, potevano dire quel che credevano. Germano pensò bene di riprendere in pugno la situazione.

«Ebbene, sì. Molte cose nella Cristianità stanno cambiando. Qualcuna anche violentemente. Ci saranno innocenti che dovranno pagare per colpe non loro e mascalzoni che al solito la faranno franca e si arricchiranno. È così che va il mondo. Ma ora sta succedendo qualcosa di nuovo, vi dico. Sono parecchi decenni che i pellegrini si muovono in gruppi sempre più consistenti verso la Terrasanta. Più o meno dal 1033, quando è caduto il millennio della Resurrezione del Signore. Ora l’Annunciazione e la Pasqua hanno coinciso, il cielo ha pianto stelle, si sono visti angeli e demoni combattere nell’aria. I tempi sono maturi, vi dico. Guardate noi stessi: non s’era mai vista una turba così grande in cammino dai tempi in cui Mosè ha tratto il Popolo Eletto dalla schiavitù dell’Egitto. Questo è un nuovo Esodo, vi dico; e allora deve aspettarci una nuova Terra Promessa...»;

«Dove? Dove?», chiesero in coro concitato gli astanti.

«Non lo so: forse non è proprio un luogo, è piuttosto un nostro cambiamento nel modo di vivere. Forse ci aspetta un mondo nel quale i potenti saranno più giusti e generosi, i poveri più ubbidienti e riconoscenti. O forse un mondo nel quale non ci saranno più né ricchi né poveri, né potenti né deboli. Perché ridete? Lo dice Giovanni l’Evangelista, nell’Apocalisse: un cielo nuovo, una terra nuova. Papa Urbano, a Clermont d’Alvernia...»

«Parlaci ancora dei gran signori che sono venuti qui a Lucca», lo apostrofarono alcuni del posto, che già meditavano di unirsi alla turba dei pellegrini.

«Il duca di Normandia e il conte di Fiandra sono qui con noi, in questa schiera, infatti; e potete scommettere che han bevuto stasera vino migliore della porcheria che avete portato voi qui. Bene, pensate che abbian chiesto il permesso al loro re scomunicato prima di partire? Nemmeno per idea: sono al servizio del papa, loro. E non venitemi a dire che non si è mai sentito prima d’ora che un gran signore di questo mondo si metta al servizio del papa. Da ora in poi lo si sentirà sempre più spesso. E poi, con che diritto credete che Guglielmo di Normandia sia diventato re d’Inghilterra, Roberto il Guiscardo duca di Puglia, e con che diritto pensate che Pietro di Navarra e d’Aragona e Alfonso di Castiglia stiano strappando terre ai mori pagani, la stessa cosa che sta facendo Ruggero in Sicilia? Il papa come capo dei cristiani ha il diritto di governare le terre che non sono di nessuno, le isole sparse nell’oceano, le terre occupate dai pagani: tale diritto, può delegarlo. A tutti questi signori, il papa ha inviato delle bandiere di san Pietro, con l’effigie dell’Apostolo, o con le chiavi che sono il suo attributo, o con la croce di Nostro Signore. Quelle bandiere sono il simbolo del diritto a governare le terre conquistate di fresco, nel nome della Chiesa e per delega del pontefice.

«Ecco perché anche il duca di Normandia e il conte di Fiandra si sono messi agli ordini del papa. E anche quello che io considero adesso il mio signore perché lo è del dominus Fulcherio, cioè Stefano conte di Blois e Chartres. Perché il papa, a Clermont...»

«Ma insomma» ora le voci erano impazienti «che cos’ha fatto il papa a Clermont?»

«...se mi ci aveste fatto arrivare, ve lo avrei detto subito» (Ma se stai parlando da più di mezz’ora!, aveva protestato qualcuno). «Clermont, sapete, non è un posto come gli altri. L’Alvernia è infestata dai demoni, ma lì vicino c’è anche un luogo detto Le Puy, che voialtri italici tradurreste “Il Poggio”. È una città posta in un luogo elevato, come sta scritto nella Bibbia; sotto la città c’è una grande caverna alla quale si accede dall’abside della cattedrale. Lì è venerata un’altra Madonna Nera, che sarebbe la Vergine più potente che si possa immaginare. È nera perché piange la morte di Gesù, ma anche perché deve ancora partorirlo: nera come la terra, che nelle sue viscere custodisce i morti ma anche il seme di ogni frutto. Questa Vergine è signora delle acque sotterranee che scorrono sotto la chiesa e la città, è signora dell’universo e di tutte le forze che vi si agitano. Quella terra è sacra; a sua guardia c’è una roccia altissima, alta e sottile come un immenso ago di pietra, sulla cui cima c’è una cappella consacrata all’arcangelo Michele. Il vescovo di Le Puy è il signor Ademaro di Monteil, ch’era un gran cavaliere, ora è uno dei vescovi che con maggior entusiasmo si sono dati alla rigenerazione della Cristianità. Egli si è già mosso in compagnia del signore più potente di tutta la Francia: Raimondo di Saint-Gilles, che come conte di Tolosa sarebbe vassallo del duca d’Aquitania e quindi del re di Francia, ma che come marchese di Provenza è vassallo del re di Arles, ch’è l’imperatore Enrico. E, siccome imperatore e re sono scomunicati, Raimondo non obbedisce ormai più che al papa – al quale ha promesso di convertirsi pienamente – e alla sua volontà.»

«E allora, il papa?»

«Durante il concilio, ch’è durato una decina di giorni, non è successo nulla di speciale. Ma era un concilio grandioso per essere soltanto provinciale. Sembrava una riunione plenaria di tutta la Chiesa di Dio: dicono che ci fossero una quindicina di arcivescovi, circa ottanta vescovi e novanta abati; alcuni erano venuti fin dalla Spagna. Ma quel che colpiva era il numero di laici d’ogni rango e condizione: v’erano naturalmente mercanti, quelli arrivano sempre in tempo di concilio o di festa come mosche sul miele; ma v’erano anche cavalieri, pellegrini, povera gente con donne e bambini. Qualcuno veniva da molto lontano, dal Berry, dalla Piccardia, dalla Lorena, dalla Catalogna. Il concilio si teneva in cattedrale, le grandi porte erano chiuse e l’edificio sorvegliato da gente armata. Le notizie però filtravano ugualmente: e ai piedi delle mura della chiesa, sulle piazze, ai crocicchi v’erano predicatori d’ogni genere – alcuni sembravano usciti da chissà quale eremitaggio, ma non erano né monaci né chierici in regola con i cànoni – che parlavano di fine del mondo, di pienezza dei tempi, di fiamme infernali e di città d’oro.

«Poi, l’ultimo giorno del concilio, nel pomeriggio del 28 novembre, papa Urbano parlò alla moltitudine. Si era fuori della chiesa di Notre-Dame du Port, attorno alla quale si stendeva una moltitudine di padiglioni variopinti di signori, di tende di fortuna, di pergole fatte di pali e di frasche, di carri, di capanne. Il tempo era incerto: alla fine di novembre, in Alvernia il clima non è dolce come qui in Tuscia. Piovigginava: una pioggia insistente, sottile, che ti penetrava nella carne come tanti aghi; nel cielo bigio c’era come un presagio di neve. Comunque nessuno pareva sentire il freddo. Io ero nella folla: scorgevo il papa da lontano, ma abbastanza distintamente a causa della casula rosso sangue che indossava: aveva appena celebrato la messa vespertina in onore del martire di Tolosa, Saturnino, la cui festa solenne ricorreva l’indomani; e si sapeva che il conte di Tolosa aveva inviato un’ambasceria numerosa per assistere a quella cerimonia. Era in piedi attorniato dai vescovi, dagli abati, da una nuvola di chierici che agitavano turiboli d’incenso. Stava dritto appoggiandosi al pastorale d’argento: da lontano, sembrava reggere in mano un raggio lunare. Lo avevo visto e sentito predicare più di tre mesi prima, a Le Puy dove insieme con Ademaro aveva celebrato solennemente la festa dell’Assunzione di Maria. Allora, d’estate, la sua voce era arrivata forte e chiara a noialtri della folla. Adesso era velata; forse l’umidità autunnale lo aveva colpito alla gola, forse era stanco per i lavori del concilio e le preghiere della cerimonia liturgica. Quel che diceva ci giungeva a ondate, ripreso e ripetuto dagli astanti.

«Parlò a lungo dei mali della Cristianità, delle guerre continue, del sangue di Cristo venduto e comprato, della vecchiezza del mondo, dell’ira di Dio che sembrava ormai prossima a scoppiare: e lo si vedeva dai segni, dalle eclissi, dalle piogge di stelle, dalle comete, dai terremoti, dalle inondazioni, dalle carestie, dalle invasioni di locuste, dalle nascite mostruose.

«Ma soprattutto lo si vedeva dalle sofferenze delle genti cristiane d’Oriente, invase e soggette alla ferocia d’un popolo pagano nuovo, proveniente dalla Persia – il nome l’ho scordato – che profanava le chiese, abbatteva o bruciava le sante immagini, tormentava i cristiani uccidendo, rubando, taglieggiando e violentando. L’imperatore dei greci, impotente a fronteggiare questo flagello, si era rivolto con rinnovata umiltà – lui, così orgoglioso da aver osato, pochi anni prima, allontanarsi dalla comunione con la Chiesa latina – implorando l’aiuto di quei franchi ch’erano i più valorosi e coraggiosi tra le genti occidentali.

«Ecco l’occasione. E qui il papa si era rivolto soprattutto ai grandi, ai cavalieri. Andate a oriente, percorrete le vie del pellegrinaggio di Gerusalemme. Per strada, troverete da combattere. Fino ad ora siete stati briganti, avversari della pace, spoliatori di chiese e torturatori d’innocenti. Diventate guerrieri del Cristo, accorrendo in aiuto dei vostri fratelli d’Oriente. In tal modo, i peccati vi saranno tutti perdonati: questa è una promessa formulata sull’autorità dell’apostolo Pietro. Se morrete, sarete considerati come santi sulla via del pellegrinaggio, martiri al cospetto di Dio Altissimo. Ma, se vivrete e vincerete, sappiate che l’Oriente è la terra più ricca del mondo, che vi scorrono il latte e il miele, che ogni sorta di gemme e di spezie vi si trova. Vincerete gli infedeli in una contesa voluta da Dio e tornerete carichi delle loro preziose spoglie. La folla aveva acclamato, e dalle acclamazioni era sorto un grido che sarebbe divenuto il motto della spedizione: Dio lo vuole! Allora, come si usa, si era chiesto un segno per questi nuovi pellegrini. Il papa si era solennemente spogliato della casula rossa e l’aveva consegnata ad alcuni chierici che rapidamente l’avevano ridotta in sottili strisce di stoffa: due di queste piccole strisce, cucite in croce, venivano applicate sulla spalla o sul petto di chi pronunziava il voto di partire per l’Oriente, come si applica la conchiglia alle vesti di chi torna pellegrino da Santiago di Galizia. Ormai, queste croci riempiono la Cristianità: anche noi ne portiamo una. Sono del colore del sangue dei martiri, perché chi le indossa si dispone al martirio. Il papa sapeva quel che faceva, quando ha dato la sua veste liturgica che gli era servita a dir messa in onore di un martire: è quella che hanno tagliato per fare le croci. Chi se le cuce sull’abito, sa che dovrà partire per l’Oriente, combattere la gente pagana di Persia, soccorrere i fratelli in Cristo greci, armeni, siriani; e da lì potrà compiere facilmente anche il pellegrinaggio sino al Santo Sepolcro.»

La gente era rimasta ad ascoltare attonita, nel più perfetto silenzio. Quando il chierico ebbe finito, tutti tacquero ancora per un istante. Poi un armigero dal giaco di cuoio coperto di placche di ferro, levandosi in piedi e agitando l’elmo in una mano e l’arco nell’altra, gridò alto: «Dio lo vuole!», e tutti si alzarono tumultuosamente in piedi applaudendo e gridando. Chi non aveva ancora una croce cucita all’abito si affrettò a procurarsi il necessario. Intanto, albeggiava. Astolfo e Rimondino si accomiatarono da Germano promettendogli di proseguire con lui il viaggio. Tagliaferro stava in disparte: si era procurato un pezzetto di legno stagionato e con un coltello stava incidendo qualcosa: forse una specie di fischietto. Batté la mano sulla spalla ad Astolfo e commentò: «Sentito? Praticamente il papa ha detto ai tuoi amici cavalieri: noialtri preti qui abbiamo vinto i nostri avversari. Voi avete combattuto con noi, e vi ringraziamo; o ci avete ostacolati, e vi perdoniamo. Ora però c’è bisogno di pace per ricostruire con tranquillità un mondo nuovo, quello che vogliamo noi. Voi qui non ci servite, perché sapete soltanto combattere, uccidere e rubare. Allora, dal momento che non volete rinchiudervi in un monastero, fate una cosa: continuate pure a combattere, uccidere e rubare, ma andate a farlo da un’altra parte». Tutti risero e si salutarono.

Mentre assonnati si dirigevano verso il luogo nel quale la gente del conte Guido aveva drizzato il suo accampamento, Rimondino chiese preoccupato ad Astolfo: «Non ti sembra che il giullare Tagliaferro potrebbe avere un po’ ragione?». «Certo che ce l’ha», ribatté l’altro, «solo che quel che ha detto lui non basta a spiegare tutto questo. C’è dell’altro.» Il sole stava sorgendo all’orizzonte quando si buttarono sulla paglia che copriva il suolo sotto la tenda, senza neppur pensare a una coperta. Del resto, sapevano che avrebbero dormito solo poche ore.