La regione tra Cassino e Capua, percorsa da buone strade, era ricca di corsi d’acqua. Il duca Roberto, in quella terra ormai conquistata dai normanni, si sentiva a casa, pur sapendo bene che la Puglia e la Calabria erano contese tra i due figli di Roberto il Guiscardo, cioè Ruggero Bursa e Boemondo. Ma la partenza del secondo per l’oltremare rappresentava in quel momento una rinunzia, tanto più che all’altro andava notoriamente l’appoggio del fratello del Guiscardo e zio pertanto dei due principi: quel Ruggero per volontà papale e grazie al proprio coraggio Gran Conte della Sicilia ormai strappata ai saraceni.

Il figlio del Conquistatore era persuaso che i congiunti del Guiscardo gli avrebbero reso ogni onore: e difatti a Montecassino si erano dati convegno, per accoglierlo degnamente, tanto i messi dei due Ruggeri quanto i signori e i vescovi normanni di tutta l’area spettante alle due diocesi di Capua e di Benevento. A sud del Garigliano, non c’era nulla da temere: si poteva pertanto tranquillamente abbandonare il prudenziale proposito del largo aggiramento a est costituito dalla Via Latina, lasciar da parte le tappe di Alife e di Telese e, ripreso il tracciato dell’Appia, puntare tranquillamente su Capua e di là su Benevento.

Giunti nell’antica e venerabile capitale longobarda i monaci cassinesi, che l’abate aveva concesso ai pellegrini affinché li scortassero per un tratto di strada, narrarono ai chierici riuniti attorno a loro come il santo vescovo Barbato, al tempo delle lotte tra i nefandissimi longobardi e i greci, avesse obbligato il duca longobardo di Benevento, Romualdo, ad abbandonare i perversi aviti costumi pagani prima facendo abbattere un albero millenario attorno al quale quei barbari si davano a nefandi sacrifici, quindi ordinando che fosse fuso un serpente d’oro cui essi rendevano onori idolatrici: col prezioso metallo recuperato dall’idolo, il presule aveva fatto foggiare un calice e una patena per il sacramento dell’altare.16

A Benevento, fondamentale nodo viario, si doveva scegliere definitivamente che strada prendere per raggiungere i porti pugliesi. I cavalieri normanni vassalli e alleati degli Altavilla assicuravano che la strada era sicura dappertutto: nessun brigante dei pochi rimasti, della cui resistenza il Guiscardo non era riuscito a venire a capo, avrebbe mai comunque osato assalire schiere tanto forti. Era semmai consigliabile ripartire la torma dei pellegrini e l’armata che la scortava in scaglioni più piccoli possibile, in quanto qualunque strada si scegliesse presentava strettoie, passi di montagna, guadi e ponti difficili e comunque lenti da superare. Dopo una sosta di un paio di giorni attorno alla prospera, ospitale Benevento, si ripartì il totale dei viaggiatori – circa duemila armati dei quali almeno quattrocento a cavallo (il che voleva dire un centinaio e più di milites con i rispettivi aiutanti d’arme), che scortavano oltre quattromila pellegrini – in una decina di scaglioni, ciascuno di circa seicento persone tra armati e no. La proporzione tra guerrieri e inermi era più che soddisfacente, anche considerando la pratica inesistenza di pericoli d’aggressione: tuttavia il mantener la calma e la disciplina e il predisporre rifornimenti d’acqua e di cibo nonché alloggi per tanta gente era molto difficile. Tra i viaggiatori v’era difatti una mobilità continua: taluni certo morivano, altri si ammalavano e bisognava lasciarli per strada. Ma soprattutto molti erano i pellegrini che cambiavano idea e che arrivati a un certo punto del viaggio, sopraffatti e scoraggiati per le fatiche o spaventati per la lunghezza d’un cammino che ormai durava – per quelli che venivano di lontano – da oltre due mesi, si fermavano per strada, chiedevano ospitalità a ospizi e monasteri o semplicemente tornavano indietro. Vero è che, in cambio, lungo i centri attraversati sempre nuovi pellegrini si univano ai vari gruppi: sovente, però, abbandonavano i compagni di strada alla tappa successiva. Più raro il caso di cavalieri locali che decidessero di seguire i loro colleghi in Anatolia e, chiestane licenza ai rispettivi signori, si presentassero da uno dei capi dell’armata domandando di entrare al suo servizio. Questa continua mobilità faceva comunque disperare il buon Fulcherio di Chartres, che come cronista dell’impresa aveva ricevuto dal conte Stefano, tra l’altro, l’incarico di tenersi continuamente aggiornato sul numero degli effettivi.

Era ormai chiaro che, tra le possibilità di raggiungere i porti pugliesi, si stava scartando quella più rapida e breve: non si sarebbe continuato a percorrer l’Appia, che dipartendosi da Benevento si snodava in un tracciato sostanzialmente dritto e coerente in direzione sud-est e, passando per Venosa, raggiungeva Taranto e di là Brindisi. I capi avevano scelto di ripercorrere quella strada che fin dagli inizi circa del secolo era familiare ai normanni che giungevano nella penisola italica in cerca di quella che, nel loro idioma franco-settentrionale, essi chiamavano aventure: vale a dire di possibilità di guerreggiare al servizio non importa se dei longobardi o dei bizantini, arricchendosi con i proventi della guerra mercenaria e del saccheggio e magari, se la fortuna li avesse assistiti, d’impadronirsi di un po’ di terra, di qualche insediamento contadino di cui farsi signori, d’una più o meno ampia torre e fortezza, meglio se addirittura della mano della figlia di qualche dominus del luogo. Lungo la strada che da Roma portava in Puglia, quei guerrieri non mancavano mai di affrontare una robusta deviazione che con qualche giorno in più di viaggio ottimamente speso li portava sul Gargano, a venerar la grotta dell’apparizione dell’arcangelo Michele, protettore di chiunque porti armi e guida sicura delle anime che abbandonano il loro corpo e intraprendono i primi passi – i più incerti e pericolosi – nel mondo dell’Aldilà, prima di affrontare il Giudizio.

Non era una deviazione di poco conto: si sarebbe dovuto puntare a nord-est e attraverso i passi montani, gli stretti cammini, i precipizi e i guadi degli impetuosi torrenti dell’Irpinia giungere ad Aecae (che tutti ormai chiamavano Troia, come la città del cavaliere Ettore di cui cantavano i trovieri) e di lì a Lucera, quindi a Siponto e infine al santuario michelita. Il dicembre era ormai inoltrato, sugli Irpini si sarebbe trovata la neve: giunti al Gargano, sarebbe stato pertanto consigliabile passarvi il Natale. Si spedirono dei messaggeri al vescovo di Siponto, suffraganeo del presule beneventano, in modo che egli pensasse ad avvertire i custodi del santuario dell’Arcangelo e a predisporre alloggiamenti per circa seimila persone e per circa quindici giorni, corrispondenti alle feste tra il Natale e l’Epifania. Grosse staffette composte da cavalieri esperti, abili maestri di campo, furono inviate a studiare il terreno: gli accampamenti avrebbero dovuto venir dislocati tra Lucera, Siponto e le aree climaticamente più adatte e meno ardue a raggiungersi della penisola garganica.

Si affrontò quindi la Via Traiana, che collegava Benevento alla Puglia attraverso i duri e scoscesi passi appenninici dell’Irpinia. Molti erano i guadi, non larghi ma posti ad attraversar torrenti incassati tra rocce e rive alte e scoscese, vecchie frane che avevano accumulato massi informi nel fondovalle, pietroni appuntiti tra i quali l’acqua filtrava in gorghi e cascate per allargarsi poi, traditrice, in pozzi ampi e profondi. I pellegrini intonavano spesso canti e litanie in onore di san Cristoforo, il gigante scita dalla testa (o, secondo altri, dalle sole orecchie) di cane che sovente si vede raffigurato nelle chiese e addirittura sulle facciate di esse, mentre si appoggia a una grande palma da lui usata come bordone e reca sulle spalle possenti il piccolo Bambino Gesù benedicente. Cristoforo, che non è un nome ma una funzione – colui che porta il Cristo – è considerato il patrono di viandanti e di pellegrini; ed è ferma convinzione di tutti che chi ne contempli l’immagine può star poi sicuro che non morrà di morte improvvisa per l’intera giornata.

«San Cristoforo ha la testa di cane» motteggiava qualche servitore del conte Guido rivolto ad Astolfo: «di’, scudiero, non ti pare che somigli un po’ al nostro Rimondino?»; «Casomai» ribatteva lo scudiero «Rimondino ha la testa di lupo, come i suoi amici; lasciatelo in pace»; e quindi, rivolto al ragazzo: «non prendertela, sai; d’altronde, anch’io noto che hai qualcosa del lupo; si somiglia sempre a quel che si pratica. Io credo di aver acquistato ad esempio molto dei tratti di un cavallo, in tutti questi anni di servizio reso al conte»; «A me pare invece» aveva ribattuto Rimondino «che tu vada sempre più somigliando proprio a lui»; «A chi, al signore?» aveva chiesto con finta sorpresa Astolfo, dando poi in una breve risata: «Dio ce ne guardi tutti e due. Non è onorevole per un conte somigliare a un servo, e per un servo somigliare a un conte è molto scomodo. Vero è che ci frequentiamo da tanti anni, che abbiamo mangiato, bevuto, riso, scherzato e combattuto tanto insieme, che in qualche modo possiamo anche esserci scambiate le facce. Se non proprio quelle, i gesti e le abitudini. Succede anche fra cane e padrone, sai?», e aveva riso di nuovo, più forte.

Il conte Guido era a capo di uno dei dieci scaglioni di guerrieri e di pellegrini che procedevano tra guadi e monti. Tutti i suoi toscani marciavano con lui; gli amici Germano e Fulcherio, la conversazione dei quali mancava molto a padre Ranieri, li precedevano ormai di almeno una giornata, con lo scaglione guidato da Stefano di Blois; Tagliaferro poi era al fianco del duca di Normandia, in testa alla colonna, e allietava il suo signore con il racconto ritmato delle gesta di Oggeri di Danimarca. Quando i toscani fossero giunti al santuario dell’Arcangelo, sicuramente avrebbero trovato il duca e il suo cantore ben sistemati da almeno un paio di giorni, tra buon vino e bocconi delicati com’era abitudine di entrambi.

Le serate attorno al fuoco passavano in pii e dotti racconti recitati da Ranieri e da un monaco cassinese che accompagnava lo scaglione toscano e che aveva subito fraternizzato col vallombrosano. Il monaco Grimoaldo era un giovane incanutito precocemente, magro allampanato, dalle spalle strette, il dorso incurvato e le ciglia folte. Parlava piano, scegliendo le parole, nel volgare del luogo che i toscani stentavano talora a comprendere: ma si aiutava con frequenti espressioni latine, le più facili delle quali erano familiari a tutti e le più complesse venivano regolarmente tradotte e interpretate da Ranieri.

I guadi e la leggenda di Cristoforo furono uno degli oggetti dei dotti intrattenimenti di Ranieri e di Grimoaldo, ai quali dopo cena partecipava volentieri anche il conte dividendo con gli altri un posto attorno al fuoco e una sorsata di vino da un otre di pelle che girava in circolo.

Questo Cristoforo, dunque, era un gigante scita; gli sciti sono un antico popolo che vive non lontano dalle montagne del Caucaso, là dove il grande Alessandro edificò una muraglia di ferro per tenere a bada i popoli mostruosi di Gog e Magog che sciameranno sulla Cristianità alla Fine dei Tempi, un giorno che non è forse più troppo lontano. I dotti sostengono che gli sciti sono affini alla ferocissima gente degli unni, tra i quali difatti esistono – come anche esistevano tra i longobardi; e, pare, tra gli ungari – tribù di cinocefali, cioè di gente dalla testa o almeno dalle orecchie di cane. Il re Attila aveva, appunto, orecchie di cane.

Il gigante scita dalla testa canina di cui non conosciamo il nome era quindi molto ambizioso, e desiderava servire il re più potente del mondo. Vagò per questo di corte in corte fino agli estremi confini della terra: ma, per quanto incontrasse potentissimi signori, si rendeva prima o poi sempre conto che c’era qualcuno più forte di loro o che essi temevano. Gli dissero alla fine che l’unico sovrano davvero invincibile sulla terra era colui che alcuni chiamano il Re del Mondo, cioè il diavolo.

Il gigante si mise dunque in cerca del diavolo: interrogò ogni sorta di peccatori, di ladri, di assassini e d’incantatori per sapere quale fosse il cammino che lo avrebbe condotto al cospetto del potente spirito. Infine, fornito di adeguate formule magiche, riuscì a violare i cancelli dell’Averno e a giungere dinanzi al trono di fuoco del demonio. Vinta la paura, gli offrì i suoi servigi affermando ch’egli non aveva altro scopo nella vita se non divenir vassallo del signore più potente della terra: non avrebbe voluto niente per sé, né ricchezze né onori, e anzi sarebbe stato lieto di lasciar dopo morto l’anima nelle mani del suo padrone.

Il diavolo non chiedeva di meglio: non gli era mai capitata una fortuna simile, non aveva mai fatto miglior affare. Da allora in poi, egli e il gigante furono inseparabili nel correre in lungo e in largo la terra commettendo ogni sorta di cattive azioni. Una notte però, dopo aver indotto un santo abate a commettere un orribile peccato carnale e aver con successo istigato al suicidio il disperato monacello che di tale peccato era stato il tramite, i due complici cavalcavano in una foresta. A un tratto, a un crocevia, il cavallo nero del diavolo s’inchiodò di botto, si mise a nitrire e a scalpitare e non volle procedere oltre. Anche il diavolo, dopo essersi guardato intorno, prese a tremare e a sudar freddo. Il gigante non capiva: non vedeva nulla intorno a loro, se non la strada, gli alberi e un tronco spoglio a tre palmi dalla cima del quale era stato legato orizzontalmente un ramo. «Di là non posso passare» balbettava e singhiozzava il demonio: «quel segno me lo impedisce»; «E perché? È forse l’insegna di qualcuno più potente di te?»; «È la croce, l’insegna di Colui che non posso nominare!». Il gigante aveva già veduto quell’insegna; chiese allora: «Non è forse il simbolo del Cristo?». Non aveva finito di pronunziar la frase che il diavolo, con un grido terribile di belva ferita a morte, sprofondò nelle viscere di una voragine che si era aperta sotto gli zoccoli del suo cavallo.

Il gigante si pose allora in cerca del nuovo signore al quale intendeva offrire i servigi e tutto se stesso. Ma incontrare il Cristo era ancor più difficile di quanto non lo fosse stato giunger fino al diavolo. Il cinocefalo scita aveva trovato del tutto logico rivolgersi ai ministri del suo sperato interlocutore, vescovi e abati: ma ne aveva ottenuto risposte altere e beffarde. Era un miserabile peccatore condannato all’Inferno per i suoi orribili crimini: come poteva sperar di vedere il Figlio di Dio? Come poteva osar di pensare che Questi avrebbe accettato qualcosa da chi per anni era stato il braccio destro dell’Ingannatore sulla terra?

Provò allora a rivolgersi ai preti e ai monaci: ne ebbe, quanto meno, risposte improntate a una più generosa carità. Incontrare il Cristo? Non si può volerlo: il fedele non conosce volontà che non sia quella di Dio, fiat voluntas Tua. Ma si può ardentemente sperarlo, e nulla viene ricusato a chi lo chieda con fede. Anzitutto, ad ogni modo, il vecchio criminale avrebbe dovuto mettersi in pace con la Chiesa, accostarsi ai sacramenti: e per questo era necessario un pentimento sincero.

Il miserabile si sentì perduto. Gli si chiedeva la fede, ma egli non sapeva neppur che cosa fosse. Gli si domandava di pentirsi, ed egli non era neppur sicuro di capire il senso di questa domanda. Tutto quel che egli faceva derivava da quel che sentiva: l’orgoglio della propria forza, la volontà di metterla al servizio di chi detenesse l’unica cosa che egli capisse e ammirasse, una forza ancor maggiore. Era tutto, ed era l’intero suo mondo.

Fu un povero vecchio eremita a dargli il consiglio forse risolutore. È vero, non ci si può pentire senza un interiore, profondo consenso: e quella è una conquista intima, che non si può imporre con la volontà né conseguire dal di fuori. Ma, se il pentimento è impossibile, inconseguibile, possibili sono le azioni, i gesti che lo esprimono. Non sai pentirti, povero infelice? E sia: ma comportati come un pentito, fa’ penitenza. Non sai dove sia il Cristo? Lo ha spiegato Lui stesso, dove lo si possa incontrare: qualunque cosa fatta al più piccolo dei Suoi fratelli è fatta a Lui. Mettiti al servizio degli umili, cerca i peggiori diseredati della terra e fatti loro servo come hai voluto farti servo dei re e perfino del demonio. Servi il Cristo nei Suoi poveri.

Servire i poveri! Era difficile perfino quello. Cercò disperatamente vedove da difendere, orfani da tutelare, ammalati da curare, miserabili da confortare. Incontrò dappertutto diffidenza, rancore, malvagità. Imparò che i poveri sono quasi sempre ancor più cattivi ed egoisti dei ricchi; che se qualcuno si pone volontariamente al di sotto di loro, invece di amarlo ed essergli grati cercano di sfogare su di lui tutta la loro frustrazione, tutto il loro odio nei confronti del genere umano. Solo la povertà volontaria, quella eroica e cavalleresca d’un Gualtieri Senza Averi, è dolce e redentrice. La povertà non cercata e non voluta, come la malattia o la vecchiaia, è un giogo immondo e odioso, una ferita purulenta, una porta spalancata sulla corruzione dello spirito. È più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago che un povero involontario si salvi. Tutto quel che il povero involontario o l’ammalato che non vuol accettare la sua condizione per amore di Dio sono capaci di desiderare è la sfortuna, l’abiezione altrui: soltanto in un mondo d’infelici essi sarebbero crudelmente appagati.

La scoperta di questa diffusa malvagità umana fu per il povero gigante una spaventosa rivelazione. Era stato fino ad allora convinto di essere il più abietto dei peccatori perché aveva stuprato e ucciso, sempre per il suo piacere o per obbedire agli ordini di signori malvagi che serviva solo perché erano forti, senza mai chiedersi se fossero anche giusti e buoni. Scopriva adesso la ferocia di chi non fa il male solo perché non sa e non osa farlo, perché non ne ha la forza né il potere. Dio, liberaci da questo male: non darci mai in potere degli impotenti, che sarebbero – se solo potessero – i peggiori dei tiranni.

Tornò allora sconvolto dal suo eremita, gli si gettò ai piedi, gli parlò a lungo della sua scoperta. Egli lo ascoltò con un sorriso compassionevole, e poi gli disse molto semplicemente: «Vedi, tu sei come il santo Barlaam».

Pare che questo Barlaam fosse un gran principe, nella lontana India, là dove esistono foreste immense di alberi di tutte le spezie odorose e salutifere del mondo ma vi si aggira anche la manticora, mostro crudelissimo che ha un corpo immenso a somiglianza di leone dal pelo screziato d’oro, volto umano d’incantevole purezza e bellezza, occhi azzurri come zaffiro, fauci fornite di tre chiostre di denti aguzzi. La manticora è la più feroce creatura del mondo, che uccide solo per il piacere di assistere all’agonia delle sue vittime.

Questo Barlaam, dunque, era appena un ragazzo quando suo padre, un re potente che aveva però ricevuto dalla vita ogni sorta di dolori e di umiliazioni, decise che suo figlio non avrebbe giammai dovuto conoscere che cosa fosse il male. Fece costruire per lui su un’isola un palazzo immenso e bellissimo al centro d’uno sconfinato parco ricco di fiori, di acque, di splendidi e mansueti animali. Lì il giovane Barlaam visse alcuni anni nell’ignoranza di che cosa fosse il dolore. Ma una notte si svegliò in preda a pensieri che non conosceva: forse un incubo l’aveva visitato. Vagò allora in punta di piedi per le stanze del palazzo: osservò i servi addormentati, udì i gemiti che emettevano nel sonno e ne fu turbato; scorse il viso purissimo della più dolce e bella delle sue ancelle, in quel momento preda d’un sogno agitato, e lo vide stravolto in un’orribile maschera di paura mentre un filo di saliva le scorreva per il mento dalle labbra semichiuse. Fuggì allora dal palazzo, si arrampicò sull’alto muro di cinta, lo scavalcò, si allontanò a nuoto dall’isola: e s’imbatté subito nel dolore. Incontrò un fanciullo abbandonato che piangeva, un uomo ferito che stava agonizzando sul ciglio d’una strada, una partoriente che gridava e bestemmiava contro l’uomo che l’aveva amata e il fanciullo che la faceva soffrire uscendole dal ventre, un ammalato che si dibatteva in preda a una sofferenza atroce, una vecchia laida che si disperava per aver perduto la bellezza e cercava il modo di darsi la morte o di procurar quella di chiunque fosse più felice di lei. Poi si avvicinò a un sepolcreto e scorse tre sarcofaghi scoperti: dentro al primo giaceva un uomo appena morto, già livido e gonfio; nel secondo uno defunto da più tempo e divorato dai vermi; il terzo ospitava invece un cadavere scarnificato e scheletrito. In questo modo, in una sola notte, il principe Barlaam aveva scoperto che la vera stoffa di cui è fatta la vita si chiama Dolore e Morte; e che soltanto l’oblio, l’annientamento, la fine di tutto possono interrompere quest’immensa catena di dolore.

Ecco, aveva concluso l’eremita, che cos’è il mondo senza la fede, il mondo senza la luce del Cristo. Nel paese del saggio Barlaam, che in una notte si era risvegliato alla vita e alla conoscenza, c’è chi lo crede un Maestro e quasi un dio. Quegli sconsiderati pensano che l’unica uscita dalla vita sia l’annientarsi, la fine di tutto, ma ritengono che solo ai puri e ai perfetti questo sia possibile: viver senza peccato serve quindi ad affrettare la fine, l’uscita dalla catena del dolore; altrimenti si rinasce di continuo, ma sotto la specie di vite inferiori, di animale o di pianta, finché soffrendo e aprendosi alla conoscenza non si riesca ad uscire da questa ruota dei dannati e raggiungere il Grande Silenzio.

Tutto questo è orribile, aveva mormorato il gigante. «Certo», aveva replicato l’eremita; «e tu sei come Barlaam, perché hai appreso l’esistenza della diffusa malvagità del mondo, quella malvagità della quale, nella tua ignoranza e superbia sconfinate, ti ritenevi il massimo e forse l’unico portatore. Ma ora che sai, ti si para dinanzi solo la via della conversione»; «E come mi convertirò», aveva gridato sconvolto il cinocefalo, «se tutti mi negano aiuto, se tutti respingono la mano che porgo loro?»; «Disponiti a servire», gli aveva risposto l’anacoreta: «questo solo è perfetto, questo solo basta».

Il gigante non aveva dunque chiesto più niente. Si era sistemato sulla sponda d’un gran fiume; sradicando un albero ben alto e dritto si era ricavato un robusto bordone e si era messo ad attendere: così, semplicemente. Era arrivato sulla riva un uomo in cerca d’un ponte o d’un traghetto; ed egli lo aveva traghettato dall’altra parte portandoselo sulle spalle. Aveva quindi fatto lo stesso con un paio di ragazze che badavano alle oche e con il loro starnazzante corteggio; era stata poi la volta di pastori, di mercanti, di pellegrini, di mandriani, anche di dame e di cavalieri; la voce si era sparsa, e naturalmente non si erano fatti attendere grassi abati e solenni prelati. Il gigante traghettava tutti e non voleva niente, nemmeno un tozzo di pane: si raccomandava solo alle preghiere dei traghettati. Siccome gli altri guadi, oppure il ponte di pietra che pur esisteva a monte del fiume, erano tutti a pedaggio, il lavoro – così a buon mercato per la clientela – non mancava. Il cinocefalo trasportava gente, animali e suppellettili giorno e notte; e, poiché lo faceva per l’amor di Dio, veniva sovente villanamente svegliato e redarguito dai suoi numerosi, esigentissimi clienti.

Poi, una volta sul far della sera, giunse sulla riva del fiume un fanciulletto. Era bello, ma aveva mani e piedini piagati e una ferita che gli sanguinava in mezzo al petto: «Dimmi chi ti ha ridotto così», esclamò il penitente, «che lo scoverò dovunque si nasconda e gliela farò pagare». Ma il bambino gli aveva risposto soavemente, serenamente, che era stata la malvagità degli uomini a produrgli quelle ferite: e non aveva voluto aggiungere altro. In cambio, gli aveva confessato che avrebbe voluto guadare il fiume ma non sapeva come fare. «Son qua io», gli aveva risposto baldanzoso il cinocefalo. «Tu?», aveva riso il fanciullo: «tu non sei abbastanza forte da sostenermi.» Stavolta era stato il gigante a scoppiar in una risata sonora. «Io porto dall’altra parte le vacche tenendole per la collottola, a due a due, come si fa coi gattini! Porto sulle spalle carri interi carichi di fieno o di masserizie, e il proprietario non ha nemmeno bisogno di scaricarne prima parte del contenuto! Quanto vuoi che pesi un soldo di cacio come te?»

«E sia», aveva sospirato il ragazzino come si fa con gli ostinati: «proviamo.» Il fiume era in piena quella sera, la corrente era rapida e fangosa, l’acqua si avvolgeva in mulinelli minacciosi: «Hai paura, eh»?, rideva il gigante alzando un po’ la testa per dare un’occhiata all’ospite che gli stava abbarbicato sulla spalla destra. «Io no», rispondeva l’altro: «e tu?». Un’altra risata di quelle che scotevano le sponde del corso d’acqua, e avanti. Ma il fondo quella sera era più scivoloso del solito, la corrente lo faceva incespicare e vacillare, la profondità del letto pareva aumentata come se qualcuno avesse scavato l’alveo e l’avesse riempito di pietre aguzze che foravano i piedi del traghettatore. Intanto, accadeva una cosa strana: il bambino aveva cominciato a pesare sempre più. Era senza dubbio un’impressione: ma ogni cinque o sei passi il gigante era costretto a chiedere al suo ospite di cambiare la spalla su cui egli sedeva. Il fanciullo rideva, gli pizzicava le orecchie, gli tirava i capelli; e il gigante si sentiva al tempo stesso intenerito per quel piccino che evidentemente non comprendeva che la situazione stava diventando rapidamente drammatica e irritato perché il piccolo incosciente non solo lo disturbava di continuo, ma ormai era diventato pesante come una montagna.

Era cominciata una pioggia fitta e battente, l’oscurità era completa e da essa di tanto in tanto emergevano alberi sradicati, grovigli di arbusti, animali morti portati dalla corrente limacciosa. Un repentino avvallarsi inatteso dell’alveo fece perdere l’equilibrio al gigante: questi smarrì il suo grande bordone che fu trascinato subito via dalla corrente, cadde in ginocchio sul fondo limaccioso, sentì l’acqua penetrargli nella bocca e nelle cavità delle orecchie, il bambino gli pesava addosso sino a stroncargli la spalla: «Signore!», implorò. «Tu porti il Cristo!», gli rispose una voce che proveniva dal fanciullo e che era più forte del vento e del tuono. Da allora il gigante dalla testa di cane è santo e noi lo chiamiamo Cristoforo, cioè Portatore del Cristo, e nessuno in viaggio si rivolge a lui senza averne un aiuto: così aveva concluso padre Ranieri.

Le soste serali attorno al fuoco erano il momento più atteso della giornata. Rimondino cominciava a capire che il pellegrinaggio poteva essere una straordinaria scuola di sapere, dove s’imparavano moltissime cose. I guadi erano continui in quel tratto di strada tra Benevento e Troia. Si dovevano attraversare fiumi in quella stagione dell’anno maestosi, come il Calore e il Miscano, ma anche una rete di affluenti e di torrenti. Per i guadi non c’erano pedaggi da pagare – né sarebbe stato possibile esigerne, da una compagnia tanto numerosa e tanto armata – e nemmeno cristofori dalla testa canina, né era troppo largo il tratto fra le due rive. Anzi, spesso per gli esseri umani tutto si riduceva a un esercizio di equilibrio: si trattava di saltare fra una pietra piatta e l’altra. Ma cavalli, muli e soprattutto asini si trovavano sovente in qualche difficoltà. Si persero anche alcuni animali, che si erano azzoppati malamente e avevano dovuto essere abbattuti.

I pellegrini erano però colpiti dall’abbondanza dei ponti e dalla varietà, talvolta dalla bellezza dei loro nomi. «Ponte Valentino», «dei Ladroni», «di San Marco», «delle Chianche», «di Santo Spirito»: tutti d’origine romana e ben riconoscibili, con il loro stretto dorso arcuato. Alcuni erano però danneggiati al punto da non poterli usare, su altri si preferiva far transitare solo le bestie, altri ancora erano infine ridotti a passerelle di legno e cordami malfermi. Tuttavia, erano così arditi che ci si chiedeva come potessero esser stati costruiti. E Ranieri la sera, pazientemente, ricordava ai suoi toscani che anche dalle loro parti ce n’erano di simili – alcuni a nord di Lucca, sulla strada di Canossa – e che la leggenda voleva fossero stati costruiti dal diavolo. Era vero?, chiedeva qualche pellegrino un po’ più apprensivo degli altri. Sicuramente no, o meglio forse no, si schermiva il vallombrosano: certo è che talune costruzioni alla luce della nostra attuale abilità costruttiva sarebbero impossibili, ma, si sa, i romani... Eh, via, replicava qualcuno, lo sanno tutti che i romani costruivano edifizi per sapienza astrologica: ne abbiamo visti parecchi anche a Roma; vuoi che non c’entri il demonio? C’entra sì, al punto che parecchi ponti, al pari dei mulini, sono detti «del Diavolo». I mulini, si sa, li chiamano «del Diavolo» perché son posti dove si gioca d’azzardo e ci si fanno anche delle belle zuffe con le mugnaie – Rimondino ripensava al mulino di Fonte all’Orso, ai capelli castani della Marta, e non sapeva se arrabbiarsi o piangere quando sentiva certe cose: magari quello che le diceva c’era stato, con la Marta... –: ma i ponti, quelli perché li chiamano così, eh?

«Io posso dirvi quel che si racconta», rispondeva Ranieri. «In effetti girano delle storie su ponti che sono stati costruiti in una sola notte, e che hanno appunto quella forma curva: si dice che il diavolo quando fa un ponte così vuole in premio la prima cosa che ci passa sopra, e allora c’è l’uso di farci transitare un cagnolino o un capretto. Io credo siano tutte leggende: l’ho sentite raccontare spesso, ma non ho mai incontrato un testimone diretto di cose del genere. Come le storie che i piloni dei ponti contengano dei tesori, al pari dei punti da cui comincia e in cui finisce l’arcobaleno. Balle, certo. Però tra i pagani i fiumi erano delle divinità, e quindi passarci sopra con un ponte un sacrilegio: per questo i romani avevano dei sacerdoti speciali per costruire i ponti, e li chiamavano “pontefici”, col nome che poi è passato ai nostri vescovi. Ma con la fede cristiana questa parola ha acquistato un valore molto più profondo: come il ponte unisce due sponde, così il sacerdote, che amministra i sacramenti, è un ponte fra la terra e il cielo. Chiunque sia vicario di Dio in terra è come un ponte. Una volta ho veduto a Milano, dov’ero andato giovanissimo a predicare ai patarini di là che si battevano contro i preti simoniaci, un dipinto in una chiesa dov’era rappresentato il santo imperatore Enrico II: ebbene, la sua corona è sormontata da un ponte d’oro, a significare ch’egli come fonte della giustizia garantisce il legame tra Dio e gli uomini.»

«Mi hanno detto che anche sul cammino di Santiago, in Spagna, ci sono molti e bei ponti», aveva interloquito una giovane pellegrina suscitando per il suo ardire un’occhiata di riprovazione d’un uomo maturo ch’era con lei, forse il padre. «Sì, figliola, ma i ponti dedicati a san Giacomo sono parecchi anche sia nel Patrimonio di San Pietro sia qui tra Puglia e Calabria», aveva risposto il padre Grimoaldo. «Si dice che il cammino di Santiago lo si debba far tutti, prima o poi: chi non lo fa da vivo, lo fa da morto. Ci sono dei ponti dove si narra che, la vigilia della festa del beato Giacomo, si radunano di notte le povere anime che non hanno ancora fatto il loro pellegrinaggio. Chi passa quella notte da quei ponti sente il frusciare degli spiriti che vanno verso Santiago, ne ode i lamenti, qualche volta si sente come soffiare sul volto e allora vuol dire che lo hanno toccato. Ma non bisogna andarci: dicono che chi viene toccato da quelle povere anime muore poco dopo.»

«Del resto», concludeva Ranieri, «ho sentito molti penitenti che erano stati gravemente ammalati e che a detta dei parenti avevano passato lunghi momenti o addirittura ore stesi e immobili, senza respirare, come fossero morti, raccontare di aver fatto dei sogni in cui entrano sempre dei ponti. Sono ponti strani e terribili: stretti come una lama di spada – qualcuno, che forse esagera, dice come un capello – e tesi sopra un abisso cupo, così profondo che non se ne può scorgere il fondo ma dal quale si sente provenire il rombo di acque impetuose. Altri sostengono invece che il fiume si vede benissimo, in fondo a una gola paurosa: è fatto di fiamme, e vi nuotano mostri con le fauci spalancate pronti a divorare chi cade. Infatti è caratteristica di questi ponti allargarsi o stringersi a seconda dei peccati di chi vi transita. Comportatevi bene, e vi troverete in Paradiso al termine d’una strada lastricata d’oro.»

I toscani giunsero a Siponto il mercoledì 17 dicembre, giorno di penitenza e di digiuno perché uno di quelli che la liturgia chiama «quattro Tempora». Molti scaglioni erano ormai a San Michele, mentre già da Troia avevano incontrato gli accampamenti dei pellegrini che si accingevano a svernare: avrebbero visitato a turno, in piccoli gruppi, il santuario dell’Arcangelo ch’era una delle stationes di pellegrinaggio più importanti situate tra Roma e Costantinopoli. Era chiaro ormai che i capi si erano orientati per una comoda residenza invernale in Puglia, che li ponesse al riparo dai rischi della traversata marittima d’inverno e che desse tempo a molti pellegrini di partire prima se volevano, o di tornare indietro. Le notizie che provenivano da Costantinopoli e dalla penisola balcanica – dove si sapeva che si trovavano in quel momento, in punti differenti, sia il duca di Lorena, sia il marchese di Provenza, sia il principe Boemondo – non erano troppo buone. I pellegrini erano un impiccio per i combattenti: poteva essere opera buona e meritoria lo scortarli, ma erano troppi e troppo indisciplinati e pareva stessero indisponendo l’imperatore dei greci. Meglio quindi aspettare.

A Siponto, in molte e belle chiese anche se talune in parte rovinate, si veneravano la Vergine Maria, i martiri Agata e Stefano e i santi vescovi Felice e Lorenzo: padre Grimoaldo spiegò con devota sollecitudine che appunto al tempo del vescovo Lorenzo, contemporaneo di papa Gelasio e dell’imperatore Anastasio – il beato Benedetto, fondatore di Montecassino, poteva aver allora sì e no una decina d’anni – si erano avute sul Gargano le prime apparizioni dell’Arcangelo. Questo Lorenzo era a sua volta d’origine principesca, imparentato con l’imperatore Zenone. Insomma, aveva concluso Grimoaldo, in realtà pare proprio che l’Arcangelo si sia fatto vedere da queste parti molto prima di quanto sostengono alcuni preti beneventani, interessati a collegare il culto del Gargano alla loro città e alle sante gesta del vescovo Barbato. Come al solito, scoteva la testa il buono scudiero Astolfo, i preti non vanno mai d’accordo su nulla e stanno sempre a litigare sui miracoli, sulle apparizioni, sulle reliquie. Ma cambia, la fede, per questo? La fede no, ma l’entità delle elemosine sì: sono questi costumi che bisogna sradicare dalla Chiesa, lo rimbeccava Ranieri. State zitti, li ammoniva il conte.