Il monte Gargano prende nome da un mandriano che in tempi ormai lontani, quando su quelle alture si veneravano gli antichi e mendaci dèi, pascolava una mandria di tori. Uno, il più bello, sfuggì al suo controllo: egli lo cercò a lungo, disperato perché lo amava; lo trovò alla fine, in cima alla montagna, inginocchiato dinanzi a una grotta. Fuori di sé dall’ira, scoccò una freccia contro l’animale con l’intenzione di punirlo uccidendolo: ma il dardo invertì prodigiosamente la sua traiettoria e ferì in modo grave l’arciere, il quale in tal modo comprese di aver commesso una profanazione. Quel luogo era sacro.

Molto tempo più tardi, una battaglia oppose beneventani e sipontini, ch’erano ormai cristiani e fedeli sudditi dell’imperatore, ai napoletani che si erano invece perfidamente alleati ai goti pagani. I fedeli ebbero la meglio grazie all’intercessione dell’Arcangelo guerriero; Michele apparve ripetutamente al vescovo di Siponto, dopo quell’episodio, imponendogli di elevare in suo onore un santuario sulla montagna, proprio nella grotta adorata dal toro che Gargano aveva cercato di colpire con la sua freccia.17

Chi sia questo Gargano, per la verità non lo sa nessuno. Certo doveva in qualche modo esser legato all’arcangelo Michele o costituire una sorta di suo predecessore o antagonista pagano, perché i pellegrini sanno che quando c’è una traccia di Gargano esce subito fuori Michele. Accade ad esempio così in Francia occidentale, dove molti luoghi rammentano un Gargan che doveva essere una specie di dio o meglio di demone di quelle genti pagane, che aveva l’aspetto di un immenso gigante e che fu sepolto sotto una grande montagna tra Normandia e Bretagna, in un luogo nel quale il mare ogni giorno si ritira per molte miglia lasciando scoperta una landa desolata nella quale pesci e molluschi agonizzano e su cui alcune ore dopo le onde salate tornano, traditrici, a far da padrone. Questo Mons Tumba sorge in un luogo terribile, non lontano da quella città d’Ys ch’era la più bella del mondo e che fu inghiottita dal mare esattamente come Sodoma fu distrutta dal fuoco, per la lussuria dei suoi abitanti i quali mai vollero ascoltare le ammonizioni di san Gwenolé e anzi si burlavano di lui. Quando le acque sono tranquille, i pescatori bretoni odono ancora sonare, sul fondo del mare, le campane d’Ys.18 Ancora, presso l’antico Mons Tumba si stendono le spiagge dove ai tempi pagani si diceva che si radunassero gli spiriti dei morti in attesa d’una imbarcazione che li prendeva ogni notte a bordo e li trasportava lontano, verso le Isole Felici del mar occidentale. Ma era turpe fantasia dei demoni che ingannavano quegli infelici: ché, come si sa, l’oceano non è navigabile al di là delle Colonne d’Ercole a causa dei gorghi e dei mostri che vi si trovano.

In questo luogo veramente terribile Michele impose di esser venerato, affinché più chiara apparisse a tutti l’onnipotenza divina. Egli scelse due picchi isolati lontani tra loro, sul pescoso Adriatico l’uno e sul desolato oceano l’altro, e volle che lì le divinità pagane che li infestavano fossero cacciate per sempre e si rendesse invece omaggio a Dio e a chi nel Suo santo Nome – Quis ut Deus? – aveva cacciato il serafino ribelle dal Paradiso.

Michele ama le alture. E il pellegrinaggio voluto da papa Urbano era nato senza dubbio anche sotto i suoi auspici, sotto la sua protezione. Era difatti su un picco alto, sottile come un ago, tagliente come una lama, che a Le Puy l’Arcangelo si venerava in una cappella tanto piccola quanto splendida. E i pellegrini che dall’antico Mons Tumba, che ora la gente del luogo chiamava Mont-Saint-Michel-au-Péril-de-la-Mer, attraversavano l’Europa intera per venerare l’Arcangelo sulla vetta del Gargano, esattamente a metà del loro percorso s’incontravano con un altro straordinario santuario micaelico, un altro colossale edificio arditamente costruito su un’alta cima montana: San Michele «della Chiusa» in Val di Susa, sul monte detto Pirchiriano, in un luogo che domina quella strada del Moncenisio ben nota per essere una delle due – l’altra era quella del Mons Iovis – che permettevano ai pellegrini diretti a o provenienti da Roma di valicare le Alpi. E non va dimenticato che il fondatore del santuario di Val di Susa, nei primissimi anni di regno dell’imperatore Ottone III, era stato proprio un nobile alverniate, Ugo di Montboissier.19 Il pellegrino abituato a riflettere su quel che vede e venera può chiedersi quindi che tipo di legami vi siano tra il santuario micaelita piemontese e quello alverniate, tra quello bretone-normanno e quello pugliese; e tra tutti e quel Castel Sant’Angelo dove, ai tempi di papa Gregorio il Grande, l’Arcangelo si era mostrato ai romani in atto di rinfoderare la spada dell’ira divina che aveva scatenato su di loro una feroce pestilenza. Ora il principe della celeste milizia l’avrebbe senza dubbio snudata di nuovo, quella spada: perché proprio in Castel Sant’Angelo si era chiuso il falso papa Clemente, il lordo Guiberto che osava tuttora contestare a Urbano la signoria su Roma.

Roberto II duca di Normandia sapeva in parte almeno queste cose, ma se ne curava poco. In cambio, la sua devozione per l’Arcangelo era intensa e perfetta quanto poteva esserlo un sentimento qualunque in un par suo. Aveva da tempo desiderato visitare quel monastero pugliese del quale tanti dei suoi fedeli vassalli gli avevano parlato; non c’era difatti cavaliere normanno che, scendendo in Italia per mettere la sua spada al servizio di un principe non importava se longobardo o greco, per combattere non importava se in Calabria o in Sicilia o in Epiro o in Anatolia, per sgozzare non importava se un lucano o un illirico, un saraceno o un cappadoce, non ascendesse prima la montagna garganica per impetrare la protezione del Gran Guerriero dei Cieli.

Si svernò dunque bene, tra la Capitanata e il Gargano, in quei lunghi e non troppo freddi mesi tra 1096 e 1097. O meglio, in quei mesi dell’inverno del 1096, se vogliam vedere le cose con gli occhi di alcuni dei nostri toscani per i quali l’anno cominciava alla fiorentina o alla lucchese con l’Annunciazione, cioè il 25 marzo (ma anche i pisani facevano lo stesso, solo che anticipavano il còmputo d’un anno; mentre chi contava all’aretina cominciava l’anno per Natale. Insomma, era un bel pasticcio mettersi d’accordo sulle date).

Ci si mosse poi con calma, quasi di malavoglia, per riprendere alla fine dell’inverno la Via Traiana e trasferirsi a meridione, verso i porti di Bari, di Brindisi e di Otranto dove si sapeva ch’erano pronte, numerose e tutte ben reimpeciate e messe in ordine nei cantieri durante la pausa invernale della navigazione, le imbarcazioni che avrebbero trasportato al di là dell’Adriatico, in Epiro, quella che ormai era l’ultima colonna dei pellegrini in armi partiti in seguito all’appello di Clermont. Il duca Roberto sapeva di potersi fidare dei buoni uffici e della premurosa assistenza di Ruggero d’Altavilla: anche se, anzi proprio perché, non ignorava affatto che tanto questi quanto il suo prediletto, omonimo nipote non vedevano l’ora che quelle centinaia di armati voraci ed esigenti abbandonassero il benedetto e opulento suolo pugliese insieme con le migliaia d’importune cavallette, i pidocchiosi pellegrini che essi scortavano.

I vari contingenti si erano dati convegno il giorno dell’Annunciazione in riva all’Ofanto, presso la prospera città di Canosa. I messi delle città portuali avevano avvertito che si sarebbe potuti salpare ai primi d’aprile: e la Pasqua cadeva quell’anno il 5 di tale mese. Da Canosa a Brindisi occorrevano cinque giorni di marcia: si doveva infatti ripiegare, per imbarcarsi, sul porto meridionale perché quello di Bari, già in gran parte impegnato, non sarebbe stato sufficiente.

Non tutti però si erano concentrati a Canosa. Alcuni avevano insistito per prendere la via costiera, che abbandonava il tracciato ritenuto più sicuro dell’antica Via Traiana per scendere a meridione seguendo la costa. L’appuntamento era ad ogni modo per tutti il 29 marzo, Domenica delle Palme, a Bari: là, presso il sepolcro miracoloso del santo vescovo Nicola, i pellegrini avrebbero preso la palma del perdono e del martirio per procedere quindi, dopo aver fissato quel simbolo di gloria sui loro bordoni, verso Brindisi dove li attendevano le navi che li avrebbero traghettati in Epiro. Tagliaferro era estasiato dalle molte tracce del passaggio dei paladini per la Puglia che egli andava rilevando o che la gente del luogo gli indicava: ciò costituiva a suo dire una prova certa dei molti viaggi di Rolando in Oriente e del fatto che lo stesso Carlomagno si fosse recato a Costantinopoli. Gli avevano difatti mostrato sul Gargano un «Monte d’Orlando» e, vicino al santuario, un luogo detto Stampurlando, celebre perché su una roccia era impressa l’impronta del cavallo dell’eroe. Ma i normanni vassalli del Gran Conte ch’erano venuti a onorare il duca di Normandia e che lo avrebbero scortato fino a Brindisi assicuravano che l’intero territorio pugliese era disseminato di memorie e di testimonianze del genere.

Roberto aveva preferito non discostarsi dalla Traiana; altri però, a cominciare dal conte Stefano di Blois, avevano insistito dal canto loro per l’itinerario costiero: la bella stagione sembrava invitarli, ed essi volevano inoltre render breve omaggio, per strada, a un altro sepolcro. A Trani era difatti sepolto un Nicola che non era quello barese, e pareva che vi si stesse costruendo una chiesa che gareggiava con quella di Bari – anch’essa incompiuta perché iniziata pochi anni prima, e a detta di tutti immensa – e che al pari di essa sarebbe stata più grande e più bella, una volta finita, delle cattedrali di Francia o della regione padana.

La storia di questo Nicola, venerato in Trani, è mirabile.

Era poco più di un bambino e veniva dall’Oltremare, forse dalla Grecia. Era approdato non si sa come in Puglia e aveva iniziato lì una vita di anacoreta, di predicatore, di taumaturgo. Sembra che il suo arrivo, la sua permanenza presso Trani, la sua morte fossero collegati a quelle misteriose piogge di stelle che avevano fatto sì che, già prima della predicazione di Urbano a Clermont, alcune genti di Puglia si fossero mosse alla volta di Costantinopoli, forse con l’intenzione di proseguire il pellegrinaggio fino a Gerusalemme.

Le differenti schiere di armati e di pellegrini cominciarono a confluire intorno a Bari la sera del sabato: il duca Roberto – si sapeva – desiderava entrar trionfalmente in città il giorno successivo, proprio come Gesù in Gerusalemme.

All’alba della domenica, difatti, ad attendere l’arrivo del figlio di Guglielmo il Conquistatore presso l’ingresso nella cinta urbana chiamato Porta Vetus c’erano i rappresentanti del Gran Conte e del ceto dirigente cittadino – in cui i membri delle vecchie famiglie bizantine stavano ormai gomito a gomito con quelli delle famiglie normanne –, l’arcivescovo Elia, il clero della cattedrale e quello della nuova basilica di San Nicola ch’era stata costruita in tempi davvero brevissimi, per quanto la si stesse ancora completando. Una folla osannante di chierici e di gente del popolo, agitando rami di palma e d’olivo, acclamava colui che non faceva mistero di presentarsi come il sire feudale del Gran Conte e del duca di Puglia; e, per quanto si sapesse bene che gli Altavilla e gli altri milites normanni che nel corso del secolo erano scesi nel meridione della penisola italica per cercarvi fortuna fossero semmai, tradizionalmente, degli avversari della famiglia ducale che li aveva inviati esuli in aventure e in pellegrinaggio, era adesso evidente che tutti stavano al gioco. Anche perché il vescovo Elia, fermo sostenitore di quell’Urbano II al quale gli Altavilla avevano prestato davvero omaggio, aveva con polso di ferro gestito l’organizzazione della cerimonia.

Le mura e, all’interno della città, le case della strada che portava al sagrato della cattedrale erano ornate di stoffe preziose dalle tinte brillanti e festose; all’ingresso, un tappeto di rami freschi d’olivo e di mantelli di lana colorata attendeva gli zoccoli del cavallo del duca, come già aveva atteso quelli dell’asino che aveva portato sul suo dorso Gesù quand’egli era entrato come re nella Città Santa. Lungo tutta la strada, sovrastando il clamore del popolo, un coro di fanciulli aveva preceduto Roberto spargendo fiori e cantando Hosanna, benedictus qui venit in nomine Domini, benedictum quod venit regnum patris nostri David, Hosanna in excelsis!20 Sul sagrato della cattedrale il duca discese, accettò dai chierici l’offerta del pane, del sale e del vino, fu spogliato delle armi e rivestì la rozza tunica del pellegrino segnata, sulla spalla destra, della croce: e a piedi scalzi, bordone nella mano destra, entrò nella cattedrale per assistere alla messa celebrata dall’arcivescovo Elia. Dietro di lui tutti i principi e i cavalieri, svestite sul suo esempio le armi e indossati gli umili panni di penitenza, lo seguirono, mentre il popolo dei pellegrini che aveva viaggiato con loro e quello barese si accalcavano dentro e attorno alla cattedrale. Gli scudieri e i serventi dei capi e dei cavalieri preferirono trasferirsi dietro l’abside della grande chiesa, inondata dal tiepido sole del mattino di fine marzo: lì alcuni sacerdoti dissero messa anche per loro e distribuirono palme e rami d’olivo.

Quindi si attese, custodendo le armi, gli scudi e le vesti dei grandi, che la cerimonia in cattedrale avesse termine. Ma essa si protraeva a lungo; un po’ dopo l’ora terza21 dalla chiesa uscì un accolito che parlottò a lungo con il primo scudiero del duca il quale, alla fine del colloquio, salì a cavallo per esser visto da tutti e, portandosi le mani aperte agli angoli della bocca in modo che tutti lo intendessero, comunicò ai colleghi la volontà del signore. Si sarebbe dovuto attraversare la città e recarsi tutti nella grande area della «corte del catapano», cioè del vecchio governatore imperiale che reggeva Bari prima che il Guiscardo la conquistasse – il che era accaduto ventisei anni prima –: lì, infatti, si stava erigendo la basilica in onore del taumaturgo benedetto, il vescovo Nicola. Al lato meridionale della basilica v’era una grande piazza lastricata: lì si sarebbero dovuti attendere i signori, che desideravano percorrere la città e presentarsi a render omaggio al sepolcro del santo in veste di pellegrini, come avevano fatto a Roma dinanzi all’apostolo Pietro e a Monte Gargano al cospetto dell’arcangelo Michele.

La messa in cattedrale durò a lungo; quindi principi e cavalieri, confusi nella massa dei pellegrini e del popolo, attraversarono la grande città sotto una pioggia di fiori, i primi petali d’arancio e di mandorlo di primavera che volteggiavano nel cielo come una leggera neve candida e rosata. I pellegrini d’Oltralpe ammiravano senza parole: in quella terra benedetta gli alberi fiorivano rigogliosi già in marzo, talora in febbraio, mentre sulle pur dolci sponde della Loira e del Reno le prime gemme spuntavano solo nell’aprile inoltrato. A meno che quello non fosse uno dei tanti miracoli del potente e pietoso vescovo Nicola.

Nella basilica del santo fu il vescovo Oddone di Bayeux, decano dei prelati normanni che seguivano l’armata e zio del duca Roberto, a celebrar la messa e a officiare la cerimonia d’ossequio al sepolcro di Nicola, nella cripta. Il duca e i principi offrirono alla chiesa ricchi doni e ne ebbero in cambio preziose reliquie racchiuse in piccoli cofani di rame o d’osso. Fu poi la volta dei cavalieri e dei pellegrini, che si affollarono attorno alla tomba del taumaturgo con i loro brandea, strette strisce di stoffa, per attingervi un po’ della «manna» che trasudava dal corpo incorrotto del santo.

Si restò accampati attorno a Bari solo un paio di giorni: poco, certo, ma le navi per il trasbordo in Epiro erano già in attesa a Brindisi e trasferir tanta gente sarebbe stata cosa lunga. Il braccio di mare da percorrere era difatti infido, ma breve: in cambio non c’erano abbastanza navi per compiere il traghettamento in una sola volta, per cui la medesima imbarcazione avrebbe dovuto compiere il viaggio almeno due volte e forse perfino tre.

Vi fu comunque per tutti il tempo di visitare il sepolcro di Nicola e d’imparare qualcosa della storia meravigliosa della sua vita e di come le sue reliquie fossero giunte a Bari.

Questo Nicola era dunque originario della città di Patara in Licia, nel meridione della grande penisola anatolica. Erede di ricchi genitori, fin dalla giovinezza si era distinto per la generosità: si narra che, ad esempio, avesse gettato non visto tre grossi globi d’oro nella casa di un pover’uomo che, non avendo di che dotare le tre belle figlie, aveva deciso di avviarle alla prostituzione; con quell’oro, esse avevano potuto costituirsi una dote adeguata a onorevoli nozze. Poiché in quei tempi – si era nell’età delle ultime persecuzioni: ma Costantino era prossimo a salire al trono – mancava il vescovo nella vicina città di Myra, indubitabili segnali celesti disposero che si scegliesse Nicola per quanto non fosse neppure prete. Cosa che difatti avvenne, ma che non mutò in nulla i suoi costumi umili e la sua abitudine di far quotidiana penitenza. La fama della sua santità era tanto nota già durante la sua vita, che pare salvasse una nave di marinai che durante la tempesta l’avevano semplicemente invocato apparendo loro e sedando le acque. Di lui si narravano storie ancor più mirabili; una volta liberò l’intera sua diocesi da una carestia acquistando da marinai che recavano grano in Alessandria poche moggia di cereale, che bastò miracolosamente a sfamare la regione, mentre ai controlli al porto d’arrivo il carico del quale al santo era stata ceduta una parte risultò invece intatto; un’altra volta smascherò il demone Diana, che prima dell’avvento del cristianesimo era stato fervidamente adorato in Licia e che non perdonava al santo di aver abbattuto un albero a lei consacrato. Il demone assunse quindi l’aspetto di una devota pellegrina – ecco perché non ci si deve mai fidare delle pellegrine, specie se avvenenti!... – e consegnò ai marinai un recipiente pieno d’un olio maledetto che, per magia, ardeva anche sull’acqua. La falsa pellegrina aveva raccomandato ai marinai, diretti a Myra, di aspergere per devozione quell’olio sulle mura della casa di Nicola: ma egli, conoscendo l’inganno diabolico, lo rivelò a coloro che in buona fede gli recavano il dono mostrandone i tremendi effetti. Altri e più mirabili prodigi Nicola aveva compiuto, addirittura comparendo in sogno all’imperatore Costantino e minacciandolo di terribili punizioni se egli non avesse subito liberato tre suoi fedeli funzionari, da lui imprigionati a torto.

Quando il Signore volle, il santo vescovo concluse la sua vita terrena. Fu deposto in un’arca marmorea e presto dal suo corpo cominciò a sgorgare del prezioso liquido, che fu detto «manna» e che aveva il potere di curare numerose malattie. I suoi miracoli, dopo la morte, furono ancor più straordinari di quelli che già aveva compiuto in vita. Aiutò anche alcuni poveri ebrei, che in certe occasioni erano stati vittime d’ingiustizia, e ne ottenne per questo la conversione: perciò alcuni sostengono che gli ebrei osservanti lo guardino con particolare sospetto, come colui che induce i loro correligionari a quella che per loro è un’apostasia, mentre altri affermano che al contrario il popolo d’Israele gli è grato per l’assistenza da lui prestata a qualche suo figlio e lo considera tra i goim un giusto al cospetto dell’Altissimo.

Particolarmente noti sono i miracoli di Nicola in favore o in difesa dei fanciulli: resuscitò un bambino che il diavolo, travestito da pellegrino, aveva strangolato (e anche questo miracolo dovrebbe indurre a diffidare dei pellegrini); restituì la vita a tre giovinetti che un oste criminale, dopo aver loro offerto ospitalità, aveva ucciso e ridotto in salamoia (il che dovrebbe suggerire che gli osti non sono meno temibili dei viandanti); salvò fanciulli che stavano per annegare, ch’erano stati ridotti in schiavitù e altro ancora. Non c’è pertanto da meravigliarsi se egli è ritenuto protettore dell’infanzia: alcuni pellegrini che venivano dal settentrione della Francia raccontavano che al loro paese, nel giorno della festa del santo ch’era il 6 dicembre, un fanciullo veniva abbigliato da vescovo – lo si chiamava, difatti, episcopus puerorum – e portato in giro a distribuir doni ai bambini.

Certo è che Nicola era uno dei santi più venerati nell’intera Cristianità. Dalla sua tomba di Myra il suo culto si era impiantato nella stessa Roma, dove numerosi erano i monaci orientali, e da lì grazie ai pellegrini era passato in tutto l’Occidente. Da Myra le reliquie del vescovo erano state traslate a Bari da alcuni marinai baresi che, di ritorno pochi anni prima da Antiochia, avevano saputo (pare da alcuni veneziani) come ormai il santuario di Nicola fosse miseramente abbandonato e quei barbari infedeli che stavano conquistando, provenienti dalla Persia, l’intera Anatolia avessero sparso dovunque la desolazione. I baresi prevennero quindi i veneziani (per quanto questi non volessero ammetterlo: anzi, pretendessero di esser loro i custodi delle autentiche reliquie), saccheggiarono il sepolcro del santo e con il loro prezioso carico approdarono a Bari il 9 maggio del 1087, esattamente il giorno successivo – un altro segno celeste? – alla festa dell’apparizione dell’Arcangelo sul Gargano. Nicola tanto gradì e approvò la traslazione del suo corpo e la nuova sistemazione in Bari – non sempre i santi mostrano di apprezzare gli spostamenti delle loro effigi o delle loro reliquie – che la vigilia della consacrazione dell’altar maggiore della cripta della nuova basilica, che Urbano II stesso avrebbe dovuto compiere l’ultimo giorno di settembre del 1089, si degnò di comparire nella sua nuova dimora recandovi un dono straordinario, una bella colonna di marmo alla quale egli teneva in modo speciale: l’aveva difatti miracolosamente fatta navigare da Roma a Myra, dov’era restata fino ad allora, e personalmente aveva voluto recarla a Bari. Quella colonna è nota per il suo straordinario potere: molti infelici sono stati sanati da gravi malattie solo per averla abbracciata.

Peccato che molti pellegrini cercassero di scheggiare quel prezioso marmo per farsene reliquie; d’altronde, vero è che tutta Bari fioriva di un commercio clandestino di reliquie della manna e della colonna: l’olio d’oliva pugliese e pezzetti di marmo raccolti qua e là servivano bene per abbindolare gli ingenui. Del resto, la città offriva ai visitatori anche ben diverse attrattive.

Dio, com’era bella la città di Bari! Molti pellegrini che avevano già fatto il Santo Viaggio giuravano che somigliasse in modo speciale a Gerusalemme, specie quando il sole la invadeva, e in parte anche alla città che di Gerusalemme era il porto, Giaffa: soprattutto a causa di quella splendida pietra bianca di cui i pugliesi si servono per le loro chiese e i loro palazzi, che si chiama appunto «pietra di Puglia» e che somiglia in modo impressionante, per compattezza e candore, a quella delle cave di Giudea. Ma i pellegrini che venivano dal nord e ch’erano abituati ai cieli bigi e brumosi, alle acque color ferro delle loro parti, giuravano che la somiglianza non stava nella pietra bianca – ce n’era anche al settentrione, di pietra di quel genere: da alcuni decenni l’Europa andava rivestendosi di un bianco mantello di chiese nuove! – bensì nella purezza dell’aria, in quel cielo d’un azzurro profondo come lo zaffiro d’Oriente, in quel mare color turchese.

Bari, con le sue case bianche di pietra, le sue strade ben lastricate, i suoi mercati ricchi di vita e di colore, le sue piazze ampie, i suoi giardini profumati, i suoi fiori precoci, il suo grande porto ricco di vele e, al mattino, rifulgente delle scaglie del pesce appena pescato, non era bella soltanto per gli occhi. I pellegrini trovavano che essa era una festa per tutti i sensi del corpo: soprattutto per l’olfatto e il gusto. Ne avevano viste, di belle città, nei mesi di viaggio. Era senza dubbio splendida l’austera Lucca; Roma era bellissima e feroce, splendida e torva, ma indimenticabile; e ci si ricordava con piacere anche di Capua e di Benevento. Eppure, tra tutte, Bari restava qualcosa di speciale.

Erano i suoi odori mai sentiti, i suoi profumi intensi e inebrianti. Quelli dei fiori primaverili, ma anche delle spezie che inondavano i mercati disposte in mucchi conici di scaglie, di pietruzze, di fili, di grani, di globuli, di polvere dai colori giallo, arancione, verderame, violetto, paonazzo, porporino; della frutta fresca e seccata che attendeva i compratori in ceste e in sacchi; dei vini e di bevande fredde o calde, colorate e speziate, vendute per strada; dei cibi, dalle olive verdi e nere ai formaggi di vacca e di pecora o di capra, alle carni e ai pesci freschi, secchi, affumicati; delle montagne di dolci di mandorle e di miele che i venditori si affannavano a difendere da nugoli famelici di mosche e di ladruncoli. E piaceva poi ai pellegrini soprattutto l’aroma forte e aspro dell’olio di oliva, che al settentrione – dove per cucinare si usavano il lardo e i grassi animali – serviva per le necessità liturgiche della Chiesa e per curare certe ferite e certe affezioni della cute, mentre quella bella gente bruna che parlava sempre a voce alta e festosa col suo accento sonoro se ne serviva, dopo averne generosamente versato dosi dorate in ampie padelle, per cucinarvi ogni sorta di carne, di pesce, di verdura, di ciambelle dolci. Rimondino avrebbe conservato gelosamente a lungo, nel palato, il sapore di quei cibi che scottavano le fauci e riempivano la gola di gusto morbido e piccante.

Ma avrebbe ricordato anche altre cose, della bella Bari. Era una vera, grande città: si diceva contasse circa 10.000 abitanti e forse arrivava ai 12.000, il che significava ch’era grande circa tre volte Lucca. Costruita su un promontorio allungato nel mare, era circondata per tre lati dalle acque: a meridione, dove il promontorio comunicava con l’entroterra, era difesa da una cinta muraria lunga circa 650 braccia parmensi;22 il centro urbano si presentava abbastanza strano per chi venisse dalla Toscana o dalla Lombardia, perché era costituito da una serie di isolati che si assiepavano attorno a una chiesa e che erano separati fra loro da orti e giardini. Le guide spiegarono ai pellegrini che ciò dipendeva dalla straordinaria varietà di genti che abitavano la città. La maggioranza si sentiva difatti longobarda (il che stupì Rimondino, abituato a considerarsi tale), seguiva il rito romano ed era molto favorevole ai normanni; c’erano però anche parecchi greci, che osservavano le loro tradizioni liturgiche e che in un modo o nell’altro avevano nostalgia del tempo in cui l’Italia meridionale era ancor soggetta all’imperatore di Bisanzio; infine erano presenti anche consistenti comunità d’illirici, di epiroti, di armeni e perfino di arabi e di africani che peraltro erano tenuti come schiavi anche se trattati umanamente e spesso con affetto. I toscani, che ricordavano come i buoni monaci che attorniavano la contessa Matilde biasimassero i pisani, i quali nel loro porto ospitavano spesso la gente della Mauritania dalla pelle scura e dallo sguardo fosco, si stupivano che schiatte tanto diverse potessero convivere: per quanto le guide rispondessero che tale convivenza non era facile, che scoppiavano spesso delle risse e che – anche quando il Guiscardo si era impadronito della città – ciò era potuto avvenire con il consenso degli uni e nonostante la resistenza degli altri.

Ma Rimondino fu attratto soprattutto dagli ebrei. Fu un aspetto delle sue caratteristiche fisiche – un altro delle cose che, come dicevano quelli che volevano canzonarlo, l’avvicinavano ai lupi – a interessarlo a loro: l’olfatto, che egli aveva sviluppato e finissimo e che spesso gli rendeva difficile il rapporto con gli umani dei quali non sopportava l’afrore (ma quelli avevano spesso notato, a loro volta, che egli «sapeva di lupo»). Gli ebrei erano in Bari una comunità numerosa, che contava molte decine di famiglie le quali vivevano soprattutto in un loro quartiere, la «giudecca», addossato alla parte sud-occidentale dell’episcopio. Il loro quartiere emanava aromi che il ragazzo del Pratomagno non aveva sentito mai – salvo talvolta, e non proprio così, nelle cerimonie ecclesiastiche – e che solo più tardi, in Oriente, gli sarebbero diventati più familiari: la cannella, la noce moscata, il benzoino, la canfora, il gelsomino, l’aloe. Accanto ai profumi aspri ed acuti, Rimondino aspirava con piacere l’odore delle cucine e dei molti piccoli fornelli sui quali si preparava all’aperto il cibo: la scorza d’arancia e di limone appena sbucciati, l’afrore dolce delle olive messe a macerare nell’acqua salata o nell’aceto e coperte di erba finemente tritata, il tanfo umido e soave del vino e dell’olio che saliva dalle giare. Rimondino si fermava incantato a osservare il lavoro dei fabbri e degli orafi che scaldavano e battevano con perizia i loro metalli: gli piaceva quella gente dalle vesti a grandi righe colorate rosse, nere, verdi e dorate, dalle mani brune agili e sottili, dai capelli intrecciati; soprattutto gli piacevano le ragazze che trovava a un tempo molto più ritrose eppur sottilmente più sfrontate delle cristiane: ragazze che t’indagavano di nascosto e fuggivano il tuo sguardo se tu ricambiavi il loro, che parlottavano alle orecchie delle amiche tenendoti d’occhio e poi scoppiavano in risate tintinnanti prima di sfuggirti in un balenar di denti candidi e di capelli sciolti. Gli ebrei erano anche molto bravi e onesti come cambiavalute: e, visto che approssimandosi a Costantinopoli era necessario provvedersi di moneta, l’arcivescovo Elia li aveva con calore raccomandati ai pellegrini. Sui loro banchi scintillavano le belle monete d’oro bizantine e musulmane, naturalmente inavvicinabili per la maggior parte dei pellegrini che del resto non avrebbe saputo che cosa farsene dal momento che ciascuna di esse valeva una libbra e più d’argento.23 Ma essi trattavano anche le piccole, brutte monete degli occidentali: accettavano sorridendo i poveri denari pavesi, lucchesi e piacentini, offrendo in cambio quantità molto minori di monete bizantine però più pesanti e più belle, d’argento chiaro e lucido e di solido bronzo.

Molti pellegrini si chiedevano com’era stato possibile che gente così amabile e simpatica fosse stata oggetto, circa un anno prima, di quegli orribili massacri lungo il Reno e il Danubio; e proprio da parte di quei fratelli in Cristo molti dei quali, magari gli stessi che si erano resi responsabili di tali atrocità, stavano adesso aspettandoli a Costantinopoli per continuare in Asia il viaggio con loro. Certo – spiegavano il monaco Ranieri e il chierico Germano agli amici che ormai si rivolgevano abitualmente a loro per risolvere i loro dubbi –, le responsabilità del popolo ebraico nella morte di Gesù sono pesanti: eppure anche Gesù, Maria, gli apostoli, le prime comunità cristiane, tutti erano ebrei. Avrebbero senza dubbio dovuto riconoscere il Messia, dopo averlo per tanti secoli atteso: ma quello del popolo ebraico restava uno dei misteri insondabili della Storia, e la loro conversione totale si aspettava come segno della maturità dei tempi. Questo significa che essi avrebbero dovuto continuare a vivere come infedeli tra i fedeli, a monito per tutti, e scontar le loro colpe ma per essere al tempo stesso immagine nel mondo di quel Figlio di Dio ch’era uno di loro secondo la carne e che aveva accettato di portar su di sé tutti i peccati del genere umano. Molti Padri della Chiesa non avevano amato gli ebrei e avevano scritto contro di loro alcuni trattati Adversus Iudaeos: ma senza la loro Sacra Scrittura i cristiani non potrebbero avvicinarsi alla parola di Dio; e del resto era ormai vicino, nella liturgia, quel Giovedì Santo nel quale tutta la Cristianità unita avrebbe dovuto pregare et pro perfidis Iudaeis. Del resto – aggiungevano alcuni ebrei baresi presso i quali i toscani si erano recati per acquistar dolci di pasta di mandorle, scorza d’arancia e miele e con cui erano entrati in amicizia – la comunità aveva saputo pochissime cose degli orrori accaduti Oltralpe, ma anch’essa aveva avuto le sue tribolazioni. Nel 1051 alcuni maledetti guidati da Argiro figlio di Melo, per punire forse il fatto che tra gli ebrei vi fosse chi simpatizzava con i sopraggiunti normanni, avevano saccheggiato e dato alle fiamme il loro quartiere distruggendo addirittura la sinagoga. Ciò era avvenuto però, secondo altri, perché gli ebrei baresi erano ingiustamente accusati di aver indotto a convertirsi alla loro fede l’arcivescovo stesso della città, Andrea, che nel 1066 era difatti fuggito a Costantinopoli dove si era fatto circoncidere. I normanni si erano però comportati con maggior generosità dei greci: Roberto il Guiscardo aveva fatto dono alla sua seconda moglie, la principessa Sikelgaita, dei proventi fiscali della comunità, ed essa a sua volta ne aveva omaggiato l’arcivescovo il quale, come si è visto, era molto sollecito nei confronti dei «suoi» ebrei. E aveva, secondo loro, anche un buon motivo economico per farlo. A Natale e a Pasqua arrivavano all’episcopio ricchi doni: belle once d’oro, di seta e di pepe. E volete che il santo presule non amasse i suoi buoni giudei? Tutti avevano riso.

Fu invece sempre a Bari, e sempre nei colloqui con i giudei che si svolgevano all’aria aperta e dinanzi a buone brocche di vino rosso e forte, che i toscani impararono una leggenda triste, che confermava quanto padre Ranieri aveva osservato: cioè come a Israele spettasse il ruolo misterioso di testimone delle sofferenze del Cristo e di ricordarle al mondo; come se quella fosse la sua croce da portare.

Accadde, si dice, a Gerusalemme, un Venerdì Santo: quel Venerdì Santo. L’Uomo avanzava a fatica, la veste lurida appiccicata al dorso per il sangue e il sudore, curvo sotto il peso della croce; i ciottoli della strada in salita gli laceravano crudelmente i piedi scalzi. La gente urlava attorno a lui e le mosche si avventavano sui suoi capelli scarmigliati: come sempre in quei casi. Sembrava non sentir nulla. Ma a una curva della strada incespicò e fu sul punto di cadere: il legno della croce ebbe una sbandata e andò quasi a colpire il vano di una porta accanto alla quale stavano accatastate stoviglie di terracotta. Era la modesta bottega d’un vasaio. L’artigiano – si chiamava Asvero o Assuero, come il Gran Re dei persiani che tanto aveva amato la bella e forte Esther – afferrò con le mani sporche di creta quel corpo smagrito, lo scosse e, più che aiutarlo a rimettersi in piedi, lo allontanò con uno spintone sibilandogli nell’orecchio un rabbioso «...e cammina!», come si dice ai poveri asini stanchi del basto troppo pesante. L’Uomo della croce alzò un istante lo sguardo – Dio, quegli occhi che il vasaio avrebbe sognato ogni notte... – e mormorò: «Camminerai anche tu, aspettando finché io non torni».

Assuero sentì un coltello traversargli le viscere mentre l’Uomo della croce, i soldati di guarnigione, il corteggio di donnette e di ragazzini che seguiva urlando il condannato scomparivano dietro la curva della straducola in salita. Poi, un calore insopportabile e un ghiaccio febbrile gli assalirono le gambe: fece appena in tempo ad afferrare in bottega il suo misero mantello. Le mani con cui aveva toccato il Signore gli si erano coperte di pustole, gli occhi gli bruciavano, le orecchie gli ronzavano. Cammina ancora, da allora. È decrepito ma non dimostra gli anni che invece si sente tutti addosso. Di quando in quando si ferma in qualche luogo, mendicando o dandosi a piccoli lavori sotto falso nome e per una modesta mercede; poi, per non insospettire nessuno, decide di «morire», e allora scompare. Nessuno lo rimpiange perché non si fa mai amici. Trovano del tutto naturale la sua sparizione, vista la sua età: pensano sia andato a nascondersi da qualche parte per tirar in pace le cuoia, come fanno gli animali. E ricompare poi altrove, anni dopo, per ricominciar daccapo: finché un giorno Lui, tornando, lo libererà da quel fardello intollerabile ch’è una vita troppo lunga e troppo sola.

La storia era triste, ma non amareggiò il ricordo incantato di quel breve soggiorno barese, anche per un dono avvelenato e dolcissimo che la vita elargì al giovane Rimondino tra quelle strade strette e imbiancate a calce, tra quei giardini di primavera.

Era la sera del martedì: l’indomani, all’alba, la strada di Brindisi attendeva i pellegrini. Lo scudiero Astolfo cinse con un braccio la spalla del luparo e, avviandosi con lui verso la Porta Vetus, gli disse con un sorriso ambiguo, facendo tintinnare le monete di buon argento bizantino che recava nella scarsella appesa alla cintura: «Dài, ti offro un po’ di pesce arrostito e una bella bevuta di vino». Mangiarono e bevvero infatti, in vista del porto: alle loro spalle brillavano delle luci e le viuzze, abbellite da tende colorate che di giorno servivano ad attutire i raggi del sole, risonavano di canti e di risa. «Vieni», proseguì Astolfo avviandosi da quella parte: «riprendiamo il discorso avviato in quella topaia di Siena. Qui, vedi, è tutta un’altra cosa»; «...è la Settimana Santa», azzardò il ragazzo con un tremore nella voce che non seppe nascondere. «Oh, beh, le cerimonie della Settimana cominciano propriamente giovedì», osservò lo scudiero con gravità degna di un esperto liturgista; «e poi, sai, ci sarà sempre un santo del giorno che se la prenderà per questo. Che cosa vuoi!, il calendario liturgico è talmente ampio...»

Nel dir così, lo spingeva con magistrale sicurezza verso una piccola porta e un vano fiocamente illuminato, in una strada ch’era tutta un viavai di uomini che parlottavano appoggiati a piccole porte, a vani fiocamente illuminati.

Lei era semicelata in quella penombra. Del breve colloquio con Astolfo, del suo ridere rovesciando la testa all’indietro, della sua mano sottile che gli penetrava tra i capelli e glieli scompigliava, Rimondino più tardi non avrebbe ricordato quasi nulla con quel tipo di memoria con cui si rammentano le parole e i concetti; tutto, invece, istante per istante, passo per passo, gesto per gesto, sospiro per sospiro, con quell’altro tipo di memoria, quello che non si spiega e non si racconta, quello che fissa una volta per tutte i ricordi come se la cosa da ricordare fosse durata un momento solo o l’eternità intera. Ricordava il suo accento un po’ gutturale, il suo modo strano di pronunziar ridendo il suo nome – Remòndinos –, la piccola stanza coperta da una tenda a righe color ruggine e vino, l’ondeggiar della lucerna di rame brillante piena d’olio d’oliva odoroso – ancora l’olio! –, e poi la mossa rapida con cui lei aveva gettato un piccolo velo trapunto di fili d’argento su un’icona dalla quale un santo dal volto cupo sul fondo d’oro (Nicola?) li guardava. Rimondino avrebbe ricordato per sempre il suo modo rapido e morbido di muovere i fianchi e la testa, il fresco ruvido della coperta del basso lettuccio, l’odore aspro del suo corpo, l’aroma di fiori di mandorlo e il luccicar della pelle bruna sudata... Avrebbe portato per sempre con sé, fin nelle pietraie dell’Anatolia e nei deserti di Siria, il ricordo dei suoi capelli e dei suoi occhi color viola, della sua voce rauca per l’umido della notte e della piccola anfora di vino bevuta insieme; e il suono del suo nome. Elena, gli aveva detto. Era lo stesso d’una principessa antica che Tagliaferro ricordava talvolta nei suoi racconti. Forse non era il suo vero nome, ma non gl’importava. Per lui sarebbe rimasta la prima e l’unica anche dopo molto tempo, anche dopo molte donne. La porta attraverso la quale si entra nel Giardino della Vita. Elena per sempre.