«Allora, lo vuoi capire una buona volta, testone tu e tutti quelli di Evreux, razzaccia di contadini affogati nel sidro! Turchi, si chiamano. Turci li chiamano i preti, e qualche volta Teucri: ma questo, come t’ho detto, è un grande pasticcio. Io li ho combattuti per quasi trent’anni e continuo a combatterli ma, per tutte le reliquie di Fécamp!, te lo ripeto: sono dei veri cavalieri, i più coraggiosi guerrieri del mondo insieme con noialtri normanni»; «Macché turchi e teucri della malora, a te e a tutta la gente di Coutances, stupidi mangiatori di pesce salato! Persiani li ha chiamati il papa e persiani devono essere. Io lo so per certo, che a Clermont lui ha detto proprio così: questa è gente che viene dalla Persia. I persiani sono maghi e astrologi, anche i re magi venivano di là; ma quelli avevano ricevuto una grazia particolare, gli altri son tutti nemici di Dio come Simon Mago. I persiani hanno sempre combattuto i cristiani, fino dai tempi del grande Alessandro»; «Eh, già, perché secondo te, pidocchioso d’un giullare, Alessandro era cristiano?»; «No, ma prediletto da Dio e figura del Cristo. Altrimenti non gli sarebbe stato permesso di ascendere al cielo su un carro tirato da grifoni, che con la loro doppia natura di leone e d’aquila sono il simbolo di Gesù, vero Dio e vero Uomo»; «Lo vedi che sei una stupida bestia? Nemmeno il tuo mestiere di cantastorie sai fare! Alessandro era superbo e orgoglioso, era un pagano maledetto e per questo brucia nell’Inferno...»

Rollone di Coutances era alto quasi cinque piedi fiorentini e pesava, sempre alla moda di Firenze, circa trecento libbre.26 Mangiatore e bevitore gagliardo, era provvisto d’un buon umore normanno che soltanto il suo conterraneo Tagliaferro riusciva a scalfire. Era arrivato quasi ragazzo in Anatolia, dove aveva combattuto al servizio del basileus Romano Diogene e del leggendario capo normanno Roussel di Bailleul; aveva partecipato alla battaglia di Manzikert nel 1071 ch’era appena sedicenne, ricordava i sanguinosi mucchi di cadaveri dei cavalieri frigi, della guardia imperiale sassone e variaga, degli arcieri peceneghi, e i turchi che correvano all’impazzata per il campo di battaglia decapitando i nemici e gettandosi a gara le loro teste mozzate, oppure servendosene come di una palla per un loro gioco che facevano a cavallo e che consisteva nel colpirle con l’asta delle lance.

Rollone portava il nome del grande capo vichingo che aveva fondato la dinastia dei duchi di Normandia, ma non aveva più rivisto, da trent’anni, le bianche costiere del suo paese: e solo grazie alla frequentazione dei suoi fratelli d’arme e conterranei mercenari aveva mantenuto l’uso del suo dialetto. Portava una gran barba rossa arruffata, che lasciava crescere fluente all’uso greco, e il volto e le braccia erano coperti di efelidi. L’arrivo del «suo» duca Roberto – nonostante egli appartenesse a un lignaggio che il nonno del Cortacoscia, Roberto detto appunto «il Diavolo», aveva fieramente perseguitato – era stato per lui come un richiamo lontano, una folata di quel vento normanno che sa d’alghe e di sale. Aveva implorato dal suo senior Hervé di Lisieux, capo dei mercenari normanni del basileus dopo l’eroico ma infido Roussel, di lasciarlo partire con i pellegrini. Parlava bene il greco, discretamente il turco e un po’ d’armeno. Il duca Roberto lo aveva accolto a braccia aperte nella sua trustis, il gruppo delle guardie del corpo più fidate. E ora, in realtà, quel che voleva da Tagliaferro era che il giullare gli insegnasse la canzone di gesta di un tale Waltarius, cavaliere alla corte di Attila e gran cacciatore di teste, che il giullare diceva di aver sentito recitare da un collega nei pressi dell’abbazia di San Gallo; in cambio, egli aveva promesso d’insegnare all’amico un bellissimo poema georgiano, Il cavaliere dalla pelle di tigre. Ma sui turchi, suoi vecchi – e cari – nemici, non accettava lezioni da nessuno.

«Dovete dunque sapere» diceva rivolto a tutti, perché il suo litigio con Tagliaferro aveva richiamato un buon gruppo di spettatori «che questi turchi non hanno proprio un bel niente a che vedere con i persiani. È inutile che mi guardiate così: lo so che il papa a Clermont ha affermato che qui in Anatolia troverete dei persiani, ma lo hanno informato male; o siete voialtri ad aver capito male lui. La confusione è nata tutta dal fatto che, in effetti, questi invasori provengono dalla Persia e sono giunti qui attraverso l’Armenia, ma dopo aver occupato anche la Siria. I persiani antichi, quelli di cui parlavano tanto spesso gli antichi romani e dei quali avete veduto preziose vestigia a Costantinopoli, avevano anzi dei nemici acerrimi, che provenivano dai deserti a nord-est della Persia e che si chiamavano turani. Le parole sono importanti, sapete? Non sentite come turani e turci si somigliano? Oggi alcuni capi turchi si chiamano Turanshah: e vien da ridere, perché Turan è un nome che richiama un gran nemico dei persiani, mentre Shah è una parola persiana che viene da Caesar, e vuol dire imperatore...»

«Smettila di chiacchierar di tutto e vieni al punto» interloquì Tagliaferro, seccato perché l’amico gli aveva così brutalmente sottratto l’attenzione dell’uditorio che egli amava tener per sé solo; «dicci chi sarebbero secondo te questi turchi e che cosa c’entrano con la Persia. Sentiamo come fai a saperne più del papa!»

«Se riesci a non interrompermi spiegherò tutto per bene. Sono trent’anni che sto in questo paese: i turchi li ho visti quasi arrivare. L’origine, allora. I dotti di Bisanzio sostengono che i turchi sono imparentati con l’antica gente scita, altri barbari che hanno vissuto in età antica tra il Ponto Eusino e il Caucaso. Gli sciti erano dei nomadi ferocissimi e hanno insegnato ai turchi o ai loro antenati molte cose, a cominciar dal tirare con l’arco, arte nella quale gli stessi persiani eccellevano. Ma anche questa storia degli sciti è un errore. Conosco bene la gente del Caucaso e so che gli sciti stessi erano imparentati semmai con i persiani. Altri, sempre a Bisanzio, sostengono che i turchi sono teucri: si tratterebbe cioè dei troiani, quelli che molto tempo fa hanno combattuto contro i greci per il possesso della bella principessa Elena e della città stessa di Troia, che pare sorgesse da queste parti, sulle rive della Propontide. Ora, il bello è che se davvero i turchi fossero discendenti dei troiani essi sarebbero nostri cugini: difatti i franchi sono imparentati con i romani che discendono dai troiani, e questo lo spiega bene anche il poeta e mago Virgilio, quello che è disceso agli Inferi e ha profetato ai tempi di Augusto la nascita di Gesù dalla Vergine...»

«Sappiamo anche questo», sbuffava Tagliaferro. «La canzone di gesta che parla della guerra di Troia io non l’ho letta, è in greco, ma so che esiste e me l’hanno riassunta...»; «...fammi finire, dico, per le piaghe... vedi che mi fai anche bestemmiare! Ma che cosa credete, che i franchi siano roba così, da poco? Le avete viste le mura di Costantinopoli, no? Ve l’hanno spiegato o no che le fece costruire l’imperatore Teodosio II, più o meno ai tempi in cui Attila arrivò quasi a Roma? Questo Teodosio era figlio dell’imperatore Arcadio, a sua volta figlio di Teodosio I, ma anche di una principessa franca. E che i franchi discendano dai troiani lo si dà per certo da sempre. In questo caso, i romani, i franchi e i turchi sarebbero fratelli, e ciò spiegherebbe perché diffidino tanto dei greci, ostili a tutti loro! Ma io non ci credo...»

«...Tu, tu e tu! E dàgli con questo tu! Che cosa vorresti sapere tu, anche più dei dotti di Costantinopoli, sentiamo?»

«Vorrei sapere, bestia di Evreux, parecchie cose perché conosco parecchie lingue. Ho combattuto contro i turchi e al fianco dei peceneghi; poi ho conosciuto in Tracia degli ungari anch’essi mercenari del basileus e dei contadini bulgari discendenti di quegli sventurati che Basilio II il Bulgaroctono aveva fatto accecare. Ebbene, ti assicuro che se un turco, un ungaro, un pecenego e un bulgaro si mettono seduti in cerchio a parlare come noi stiamo facendo ora, e parlano piano scandendo bene le sillabe, si capiscono; mentre se un franco, un greco e un turco che non sappiano niente l’uno dell’idioma dell’altro parlano una settimana non riescono a intendersi...»

«E con questo?»

«Con questo voglio dimostrarti, stupido boccale di sidro rancido, che i turchi, i peceneghi, gli ungari, i bulgari e io credo anche gli antichi unni di Attila erano e sono gente della medesima stirpe, gente che viene dall’Asia profonda, da quelle solitudini oltre il Muro di Ferro eretto da Alessandro. Io credo siano parenti dei popoli di Gog e Magog che dilagheranno per il mondo alla Fine dei Tempi; sono i veri araldi dell’Anticristo, ecco quello che sono! Ma quanto a coraggio, ve lo dico io, nemmeno i franchi li battono: se l’esercito dell’Anticristo è fatto di gente brutta, cattiva e coraggiosa come loro, ci sarà parecchio da fare, parola mia!»

«Pensi dunque che l’Ultima Battaglia sia così vicina, che sia già cominciata, che si combatterà a partire da questa nostra campagna in Anatolia? Lo sai che gli eremiti che stanno con i pellegrini più poveri dicono la stessa cosa?»: a parlare era ora il chierico Germano, che non condivideva lo scetticismo del suo signore Fulcherio di Chartres nei confronti delle profezie che circolavano per gli accampamenti.

«Non lo so: quel che so di sicuro è che ormai i turchi hanno conquistato l’intera Anatolia e che sono il popolo più potente di tutta la paganìa. Però hanno dei nemici anche fra i pagani...»

«Spiegaci prima» tornò implacabile a incalzare Tagliaferro «che cosa c’entrano i turchi con la Persia, se è vero che hai ragione tu e il papa si sbaglia.»

«...il papa si sbaglia, sissignore. Ma solo in un certo senso. Lo hai sentito tu affermare che i turchi siano persiani? Io dico di no: il papa deve aver semplicemente detto che i turchi provengono dalla Persia, che è già un altro discorso. Senza dubbio essi sono arrivati qui dalla Persia: ma venivano da più lontano, dai grandi deserti che stanno oltre il Muro di Ferro, dove noialtri franchi non siamo mai giunti ma da dove arrivano a Bisanzio molte merci preziose come la seta e una specie d’ambra fragile e verde che si chiama giada e che dicono possa dar l’immortalità se liquefatta e bevuta in decotto. Là sorge un grande impero, con palazzi e templi dai tetti d’oro...»

«L’India? Lì ci sono arrivati prima Alessandro, e poi anche l’apostolo Tommaso che anzi ha convertito alcuni principi...»

«No, lascia perdere l’India e stammi a sentire. Torniamo ai turchi. Sapete dov’è Baghdad?»

«In Persia.»

«Finalmente. A Baghdad sta il califfo, che sarebbe il capo di tutti i pagani per le cose spirituali, un po’ come il papa per noialtri cristiani latini. Questo califfo sa molte cose di noi: è entrato perfino in rapporto con l’imperatore Carlo di buona memoria e gli ha regalato un elefante...»

«Ma Carlo i pagani li ha combattuti, in Spagna.»

«È vero: però, a quel tempo, quei pagani là riconoscevano un altro califfo, diverso da quello di Baghdad, che aveva la sua corte nella città di Córdoba. Ora quel califfo non c’è più, mentre ce n’è uno che sta a Babilonia,27 in Egitto, e odia quello di Baghdad.»

«Sarebbe come dire che anche i pagani si combattono fra loro, come i cristiani?»

«Lo vedi, Tagliaferro, che cominci a capire perfino tu? Allora: il califfo di Baghdad, siccome si sente debole contro quello di Babilonia che ha dalla sua molti arabi...»

«Arabi?»

«Arabi, certo. Gli arabi sono importantissimi in questa storia. Il capo della religione pagana che i turchi, i persiani e gli africani di Spagna seguono non era né turco, né persiano, né africano. Era un prete arabo, che avrebbe voluto diventar vescovo o abate; ma siccome era un vizioso, e forse perfino indemoniato, nessuno lo volle come capo spirituale. Allora s’inventò una religione pagana...»

«Questo lo sappiamo anche noi. Era il falso profeta Maometto, che si fa adorare come Dio e che sostiene di esser capo di una Trinità diabolica con gli dèi Apollo e Tervagante; a Cadice esiste un idolo d’oro di Maometto, che parla e cammina esattamente come i leoni d’oro che stanno ai piedi del trono del basileus, che ruggiscono e sbattono la coda. È vero, idioti, non c’è nulla da ridere! Diglielo tu, Germano: il tuo signore Fulcherio li ha visti!»

«Quelli sono giocattoli», ribatté Rollone stringendosi nelle spalle. «Di Maometto si raccontano un sacco di sciocchezze, credete a me. C’è una città in Arabia, che si chiama Medina. Là è sepolto Maometto, e sostengono che la sua tomba è sospesa in aria per arte diabolica. Ma il diavolo non c’entra: la tomba è di ferro, e nella cappella funebre di Maometto sono incastrati nel pavimento, sul soffitto e al centro delle pareti dei magneti, che sono pietre portentose che attirano il ferro. In questo modo la bara del profeta, attratta con pari forza da tutti i magneti contemporaneamente, non può lasciarsi attrarre definitivamente da nessuno di essi e resta per aria...»

«Perché lo chiami profeta?»

«Ah, io non c’entro. Sono tutti i fedeli della sua legge, quella che lui ha inventato, che lo chiamano così. O meglio, lo chiamano rasùl, una parola araba che significa «l’inviato»: da Dio, secondo il loro modo di vedere. Egli ha sostenuto che l’arcangelo Gabriele gli ha parlato, che gli ha consegnato un libro sacro detto Alcoran e che gli ha imposto di credere in un solo Dio, che in arabo si chiama Allah e che è venerato in un’altra città araba, La Mecca, dove c’è un santuario al quale tutti i pagani vanno in pellegrinaggio come noialtri andiamo a Santiago de Compostela...»

«...o a Gerusalemme...»

«...sì, ma a Gerusalemme ci vanno anche loro: perché questo Allah, in effetti...»

«...è un idolo demoniaco...»

«Idolo demoniaco tua sorella ubriaca, Tagliaferro: vuoi lasciarmi finir di parlare? Allah è la stessa parola che gli ebrei pronunziano come Elohim, e sta anche nella Bibbia. Elohim è Dio onnipotente, e gli ebrei lo chiamano ancora così: diglielo anche tu, Germano, che conosci la Bibbia.»

«Ti chiedo perdono, o principe degli stoccafissi di Coutances. Ma per quanto ignorante, lo so anch’io che gli ebrei adorano, sia pure con falsi riti, il vero Dio dei patriarchi e dei profeti. E allora che cosa vuoi insinuare, che questi arabi, persiani, turchi o quanti altri accidenti vuoi sarebbero cristiani come noi e come gli ebrei?»

«No, o barone di tutte le salsicce di Evreux. Gli ebrei non sono cristiani, ma adorano il vero Dio. La gente che crede nella falsa profezia di Maometto, tuttavia, crede anch’essa nel vero Dio: e inoltre venera Nostro Signor Gesù Cristo, per quanto lo ritenga solo un profeta, e anche la Vergine Maria, e gli apostoli, e i primi santi cristiani...»

«Questa sì che è una balla; l’hai detto anche tu che sono dei pagani, incendiano le chiese, disperdono le reliquie e bruciano le sante immagini!»

«Perché ritengono illecito rappresentare Dio e le figure umane. Pensano che sia una specie di sacrilegio. Per questo odiano anche la croce: dicono che è un patibolo e che il profeta Gesù non è morto crocifisso. Ma ci sono stati eretici cristiani, in passato, che hanno detto più o meno le medesime cose. Ve l’ho detto: questo Maometto era un ex cristiano. Mascalzone, omicida, fornicatore, sodomita, mago e tutto quello che volete. Ma idolatra proprio no. Questa gente ha orrore degli idoli: anzi, semmai accusa noialtri di essere idolatri, perché veneriamo le sante immagini.»

«Ma allora, se sono pagani ma non conoscono l’adorazione degli idoli, credono nel vero Dio e addirittura onorano Gesù e Maria» interloquì di nuovo Germano, «che razza di pagani sono? A me paiono più cristiani loro di Tagliaferro!»; «Ci vuol poco!», sghignazzò l’uditorio. L’interessato rispose con una smorfia abbastanza oscena, che non descriveremo.

«Qui volevo portarvi, carissimi», sentenziò il mercenario normanno lisciandosi la barbaccia color fuoco: «se volete combatterli, cercate almeno di capirli. A dir la verità, questi non sono propriamente pagani; e nemmeno gli arabi di Spagna in effetti lo sono. Essi chiamano la loro fede con una parola araba – poiché il loro profeta ha disposto che i suoi fedeli debbano pregare e leggere la parola di Dio solo in arabo – che suona Islam, e che più o meno significa “fiducia”. In Dio, naturalmente. Chi crede nell’Islam, lo chiamano muslim, un termine che significa semplicemente “fedele”. È una religione semplice, che pretende solo la fede in un unico Dio, cinque turni di preghiera al giorno, un periodo di digiuno all’anno, un pellegrinaggio almeno una volta nella vita alla loro città santa, l’elemosina ai poveri e il divieto di mangiar carne di maiale e di bere vino. Al posto del battesimo, si circoncidono come gli ebrei.»

«Beh: a parte la faccenda del maiale e del vino, e l’uso barbaro di circoncidersi, non sembra una cattiva religione, tutto sommato.»

«Che Dio mi perdoni, non pare nemmeno a me. Ho conosciuto pochi fra arabi e persiani. Qui in Anatolia non ce ne sono. I turchi, ve l’assicuro, in tempo di pace sono buoni, onesti e caritatevoli, meglio dei cristiani. Quanto meno, di quelli di Evreux. In guerra però sono terribili. Il loro profeta ha insegnato che tutta la terra dovrà sottomettersi all’Islam e che chi muore in guerra per Dio, in guerra santa, è martire e va in un bellissimo Paradiso, dove scorrono fiumi di vino e vi sono fanciulle bellissime che sanno far l’amore in modo sublime...»

«...è un Paradiso più divertente del nostro!», esclamarono alcuni; il chierico Germano gridò che non bestemmiassero e si fece un rapido segno di croce, ma gli scappava da ridere.

«Comunque, Maometto sostiene che il Paradiso è all’ombra delle spade», concluse Rollone.

«Ma insomma, allora, questi turchi?», tornò a insistere Tagliaferro.

«Beh, a questo punto ti ho detto quasi tutto quello che so. Il mondo di paganìa era sconvolto da lotte intestine quando, un’ottantina di anni fa, da nord-est sono arrivati i turchi. Erano convertiti da poco all’Islam e molto ardenti nella nuova fede; per questo anche più decisi e crudeli. Il califfo di Baghdad, in lotta contro il suo collega di Babilonia, ha chiesto loro aiuto. E difatti essi sono diventati una specie di sua fedele guardia del corpo: ma in cambio lo obbligano a far quel che vogliono loro. Questi turchi sono divisi in famiglie e in tribù: e da un loro antico capo, che aveva nome Selgiuq, si chiamano in un modo che noi cristiani traduciamo come selgiuchidi. Il capo di tutti i turchi selgiuchidi risiede a Baghdad ed è il protettore militare del califfo. I turchi lo chiamano khaghan, che vuol dire “capo dei capi”, oppure atakhan, che significa “padre dei capi”: ma, poiché la lingua comune di tutti i musulmani è l’arabo come per noi il latino e per gli scismatici il greco, tutti i pagani lo definiscono sultan, un termine arabo che significa anch’esso semplicemente “capo”. Noi diciamo sultano. Il sultano ha sotto di sé dei governatori, o beg, che in arabo si chiamano anche “emiri”, cioè principi. Ma nella pratica ogni capo arabo o turco, quando s’impadronisce di una città, assume a sua volta il titolo di sultano. Nicea, ad esempio, è stata occupata da un sultano il cui nome è molto bello: si chiama Kilij Arslan, che in turco significa “leone rosso”. È un nome che piacerebbe molto a un normanno...»: e rise. Sarebbe piaciuto molto anche a lui.

«E dov’è adesso questo sultano? A noi hanno detto ch’è facile prendere Nicea perché il principe infedele che la comanda è assente.»

«Infatti. Lo conosco bene, io, Kilij Arslan. Appartiene anche lui alla tribù selgiuchide, come il sultano di Baghdad. In questo momento è assente perché sta nel nord-est dell’Anatolia, centinaia di miglia lontano da qui. I selgiuchidi sono nemici giurati di un’altra tribù turca, che dal suo capostipite Danishmend si chiama danishmendite. Ebbene, i danishmenditi occupano tutto il nord-est della penisola anatolica, un territorio immenso scarsamente abitato e con monti altissimi. Tale territorio corrisponde alla Cappadocia, ch’è una fra le prime regioni al mondo che accolsero il cristianesimo: vi sono ancor oggi antichissimi monasteri, spesso scavati nella roccia. Il sultanato danishmendite è stretto tra la Georgia e la Cilicia, ch’è popolata dai cristiani armeni i quali però in parte sono sudditi e alleati dell’impero dei greci e in parte si sono adattati all’alleanza dei turchi. I veri avversari dei danishmenditi comunque non sono i cristiani, bensì i selgiuchidi che pure sono turchi e musulmani come loro. Kilij Arslan stava combattendo contro i danishmenditi quando ha saputo dell’assedio di Nicea. In città ci sono le sue mogli – i musulmani possono averne più d’una, come gli ebrei della Bibbia – e i suoi figli. Il sultano era preoccupato per la sua famiglia: lo hanno ben informato sul fatto che questa spedizione non è il solito giro di razzia di noialtri mercenari del basileus, ma che sono arrivati occidentali a migliaia. È piombato a marce forzate dalla Cappadocia: ma grazie a Dio i nostri lo hanno sconfitto prima che giungessimo noi col duca Roberto. Comunque, lo conosco bene: non mollerà facilmente.»

«Vedi che menti, stoccafisso di Coutances? L’hai detto tu che codesta Cappadocia è a centinaia di miglia da qui, il che vuol dire almeno dieci giorni di viaggio. Come avrebbe fatto il sultano a sapere di un assedio cominciato appena ai primi di maggio, cioè un mese fa, e arrivare così rapidamente? Per poterlo fare, avrebbe dovuto saper dell’assedio appena esso fosse stato posto, vale a dire entro poche ore. E come sarebbe accaduto, per magia?»

«Li hai visti anche tu, salsiccia di Evreux, i fuochi e gli specchi sulle mura di Costantinopoli. Poi ci sono altri mezzi, rapidi anch’essi. Ma ora sarebbe il caso di procurarsi la cena. Il resto delle meraviglie di questo paese te lo spiegherò un’altra volta.»

Il gruppo degli astanti si alzò dal suolo, dove tutti si erano seduti in cerchio, e si avviò pigramente verso gli accampamenti. «Ci credi alle cose che racconta Rollone?», chiese lo scudiero Astolfo al giullare Tagliaferro. «Quasi a tutto», rispose l’altro; «per essere uno di Coutances, non pare troppo bugiardo.»