Sul finire del mese di giugno, le colonne franche cominciarono a muoversi dai dintorni di Nicea verso sud-est. Il paesaggio della Bitinia era invitante, con i suoi boschi rigogliosi e il verde stanco delle paludi che cominciavano a disseccarsi sotto il sole estivo. Si sapeva delle gentili e sontuose accoglienze che il basileus aveva riservato alla sultana, moglie di Kilij Arslan, ch’era anche figlia dell’emiro di Smirne e che, arresasi ai bizantini, più che da prigioniera era trattata come un’ospite. Al riguardo i pareri erano differenti: perplessi i principi, i quali – nonostante le assicurazioni al riguardo di Tatikios, a sua volta sospetto dopo la faccenda di Nicea – avevano la crescente impressione che Alessio Comneno giocasse su due fronti, mandando avanti i franchi in una spedizione anatolica che aveva lo scopo di attaccare frontalmente i pagani e al tempo stesso facendo capire a questi ultimi che le truppe occidentali erano un pericolo per tutti, anche per lui, e che pertanto sarebbe stato meglio trovare una nuova piattaforma d’intesa per convivere; indignati i pauperes, i quali non riuscivano a rendersi ragione del fatto che un principe cristiano potesse trattare con tanto riguardo un’infedele. Non tutti erano comunque negativamente disposti nei confronti del bizantino: il chierico Germano riferì ai suoi amici toscani come Fulcherio di Chartres gli avesse confidato che il suo signore, il conte Stefano, gli aveva chiesto di scrivere alla consorte contessa Adele una lettera piena di entusiasmo nella quale, dopo aver descritto i ricchi doni ricevuti, egli aggiungeva che tutto faceva prevedere l’arrivo a Gerusalemme entro meno di un mese e mezzo. Stefano di Blois e il duca di Normandia erano stati gli ultimi principi franchi a conferire con il basileus: che questi avesse rivelato loro il disegno di emulare il suo predecessore Eraclio, il quale quasi cinquecento anni prima aveva riconquistato Gerusalemme che era stata strappata all’impero dai soliti persiani? Oppure era il pio Stefano che accarezzava a sua volta l’idea generosa e un po’ folle del vescovo Ademaro e del duca Goffredo di Lorena, quella di accompagnare in armi i «loro» pellegrini fino alle porte della Città Santa? Ma era, quella, una proposta appena affacciata da qualcuno: e formulata per giunta quasi per caso. Certo, se ci si fosse dovuti addentrare molto nella penisola anatolica, l’idea di trovarsi a pochi giorni di marcia da Gerusalemme e di essere costretti a tornar indietro senza aver potuto venerare la pietra del Sepolcro avrebbe potuto apparire inaccettabile a molti. Inoltre si sapeva che qualcuno – come il conte di Tolosa – aveva venduto o impegnato gran parte dei suoi beni, aveva già disposto per la sua successione ed era partito con la famiglia: era abbastanza chiaro che voleva ritagliarsi un dominio in Oriente e passarvi il resto dei suoi giorni. Ma allora perché mai non aveva seguito l’esempio di Boemondo il quale, avendo evidentemente scosso dai suoi calzari la terra di quella Puglia nella quale non vedeva per sé un futuro politico e dove non intendeva quindi far ritorno, si era premurato di giurar fedeltà al basileus e di chiedergli in cambio una qualche legittimazione della sua autorità? Ciò lo avrebbe sicuramente facilitato, se si fosse ritagliato con la spada una signoria in Anatolia o in qualche altra parte dell’impero. Invece Raimondo da una parte dava segni di non voler più tornare in Occidente, dall’altra si rifiutava di accordarsi con il sovrano greco: a che cosa mirava? Certo, il legato pontificio Ademaro lo considerava il più importante dei suoi interlocutori e il più autorevole dei principi che avevano intrapreso la campagna. C’era da domandarsi se Ademaro non fosse la cerniera d’un piano molto preciso e ambizioso, concepito per l’Asia Minore da papa Urbano II e che aveva il conte di Tolosa come protagonista.

Erano temi che si potevano ben dibattere sotto la tenda dei toscani, ma che evidentemente passavano un bel po’ sopra le loro teste. Ad ogni modo lo scudiero Astolfo, sempre molto restio ad abusare del rapporto speciale col suo signore, stavolta decise che dell’indiscrezione relativa alla lettera di Stefano di Blois alla moglie e del suo accenno a Gerusalemme fosse cosa prudente informare il conte Guido. Il quale, a quel che si seppe poi, fu grato della confidenza ma contrariato per il suo contenuto.

La partenza da Nicea avvenne all’insegna dell’incertezza e del malumore diffusi. I pellegrini rivendicavano di esser venuti in Oriente non per seguire una campagna militare o per assecondare gli indugi dei capi. Essi volevano proseguire per la Terrasanta: ma il bizantino Tatikios obiettava con calma, paziente, instancabile, alle loro continue delegazioni fatte di petulanti e ispirati eremiti e di «poveri cavalieri», di solito «alloderi», cioè liberi da vincoli vassallatici, che facevano il loro viaggio armati e magari con un piccolo seguito d’inservienti ma che non avevano e ostentavano di non voler avere alcun rapporto di subordinazione rispetto ai grandi. «Vi scorteremo finché potremo» assicurava Tatikios; «anzi, molti armati si uniranno a voi per giungere fino alla Città Santa; pazientate tuttavia finché non tornino gli esploratori che ho inviato a far da battistrada perché i cammini da seguire per attraversar l’Anatolia sono molti, ma dobbiamo scartarne alcuni per la presenza di pagani con i quali ogni accordo sarebbe impossibile e una vittoria militare improbabile, mentre altri sono troppo impervi per la presenza di passi montani oppure impraticabili durante la stagione estiva per il calore eccessivo e la mancanza d’acqua.»

Con alcune variabili, la replica del generale bizantino alle proteste dei pellegrini era sempre la stessa: monotona ma ragionevole e ben documentata. Anche i principi ne avevano coscienza. D’altro canto, Tatikios riceveva di continuo ordini e segnali da Costantinopoli, e anche messaggi per mezzo dei colombi; a sua volta, molti ne inviava. Nonostante la sua esperienza e la sua conoscenza del territorio – o forse proprio a causa di esse –, egli stesso appariva incerto sul da farsi. Era evidente che il suo signore non aveva ancora deciso con chiarezza in che direzione impiegare quei soccorsi armati europei che egli aveva sì a suo tempo invocato, ma che erano giunti in numero, qualità militare e intenzioni aggressive diversi da quel che egli avrebbe desiderato. A meno che non vi fosse perfino un dissidio tra Alessio e Tatikios sul carattere da imprimere alla spedizione anatolica.

Con uno spostamento di una ventina di miglia, quindi di poco più di un giorno di marcia – il caldo, la presenza dei pellegrini e la necessità di fare un nuovo campo non permettevano tappe più spedite –, la massa degli armati e degli inermi si spostò sui prati attorno al ponte della strada militare sul fiume Sangario, a est di Nicea.31 Lì avvenne una riunione dei capi abbastanza tumultuosa, alla presenza poco gradita di alcuni «santi uomini» e «poveri cavalieri» che i pellegrini avevano tumultuosamente indicati quali loro rappresentanti nonostante non si capisse troppo bene che funzioni e che poteri fossero in grado di esercitare. Kukupètros, «Pietro dalla cocolla», l’eremita d’Amiens responsabile di tanti guai tra il ’95 e il ’96, era fra loro; e anche il feroce visconte di Melun, quel Guglielmo detto «il Carpentiere» che si era tristemente distinto nelle stragi in Europa, mostrava di volersi ritagliare uno spazio da protagonista come capopopolo tra i pellegrini; il suo signore Ugo di Vermandois non riusciva a tenerlo a freno e in fondo, secondo il suo carattere svogliato, poco se ne curava. Ma qui si verificò qualcosa di strano. Il vescovo Ademaro guardava con sospetto e con evidente antipatia a quegli uomini che con troppa fretta i pellegrini (e soprattutto certi gruppi di pellegrine, di mulierculae use ad attorniarli) definivano «santi». Qualcuno fra i suoi chierici gli ricordava che per tanti versi essi potevano richiamare esperienze come quelle del bretone Roberto d’Arbrissel o quelle dei «patari» lombardi e toscani; e anzi numerosi fra i pellegrini erano senza dubbio stati coinvolti in quei movimenti. La cosa – che interessava molto il vallombrosano Ranieri – non sembrava per nulla invece tranquillizzare il legato pontificio.

Lo strano era che, tra i principi, all’ostentata diffidenza tinta di disprezzo del duca di Normandia nei confronti delle pretese dei populares di contribuire in qualche modo alla marcia delle colonne militari, corrispondeva invece una qualche disponibilità all’ascolto delle loro istanze proprio da parte dei due principi che Ademaro dava segno di stimare e di considerare di più, il duca di Lorena e il conte di Tolosa. La cosa si poteva spiegare – ma non del tutto – in vario modo: in effetti erano molti i pellegrini a provenire dalle regioni soggette al ducato di Lorena o alla marca di Provenza, e a guardar pertanto a Goffredo e a Raimondo come ai loro naturali signori; inoltre se Pietro, come piccardo, avrebbe dovuto volgersi semmai a Roberto di Fiandra, la cui severa religiosità gl’impediva però di simpatizzare con i gyrovagi, molti erano invece gli spiriti inquieti che dalla Provenza guardavano con ansia al travaglio della Chiesa e aspettavano la Fine dei Tempi: non c’era da meravigliarsi se il loro marchese aveva per loro un’attenzione particolare.

Ad ogni modo, da quella riunione sulle rive del Sangario apparve evidente a chi cominciava a capir qualcosa delle faccende orientali – quindi forse soprattutto a Boemondo di Taranto e a pochissimi altri – che la permanenza della sultana di Nicea presso la corte del basileus aveva dato i suoi frutti. L’emiro di Smirne, padre della principessa musulmana, avrebbe avuto poco a che temere dalle armate bizantine e da quelle dei suoi strani mercenari-alleati occidentali. Con grande disappunto di molti capi e cavalieri, i quali contavano su ricche e facili prede e magari su una tranquilla passeggiata militare tra i boschi, i frutteti e le fresche acque della costa mediterranea, si decise di non prender la strada a sud che avrebbe pur potuto condurre alla riconquista delle opulente città litoranee. Addio quindi alle pesche polpose, addio ai dolci meloni di Smirne; addio anche a Efeso, dove molti avevano sperato di poter di lì a pochi giorni render omaggio alla casa della Vergine Maria. Il basileus chiedeva un’impresa nell’interno della penisola anatolica, ed evidentemente aveva allettato i capi delle colonne guerriere con la promessa di conquiste e di bottini piuttosto facili. Quanto ai pellegrini, se la dolce Signora di Efeso poteva attrarli, i loro cuori erano ormai tesi verso Gerusalemme: essi davano segni di considerare ogni sosta e ogni deviazione come un tradimento nei confronti di quella mèta che Dio aveva loro indicata anche attraverso le parole del pontefice. Ed era sempre più difficile ristabilire la verità e far loro capire che, di Gerusalemme come mèta ultima, il papa non aveva mai propriamente parlato. Restava l’incognita del percorso: al di là del ponte sul Sangario la strada cominciava a salire verso l’altopiano: cosa attesa da tutti con impazienza perché la fatica dell’ascesa sarebbe stata compensata dal rinfrescarsi della temperatura che ormai andava facendosi quasi insopportabile. Gli ufficiali bizantini, sulla base delle notizie ricevute da esploratori e da spie, assicuravano che le strade erano buone e sgombre, il clima tollerabile, i rifornimenti d’acqua sicuri. Tuttavia, era necessario scaglionare l’armata e i pellegrini da essa scortati in differenti gruppi, che avrebbero dovuto marciare a una distanza approssimativa di tre o quattro ore l’uno dall’altro, guidati ciascuno da esperti battistrada locali forniti da Tatikios in modo da ripartirsi lungo le variabili del cammino, sfruttare anche sentieri secondari rispetto alla grande strada militare già romana e sempre tenuta in ordine da allora in poi e potersi in tal modo meglio giovare delle risorse d’acqua e di cibo che si sarebbero trovate sulla via. La guerra – si aggiungeva – aveva reso davvero desolati quei luoghi, che da lì fino a Cesarea e a Iconio (che i turchi chiamavano Konya) erano stati contesi per decenni tra turchi e bizantini, ed erano ormai una specie di «terra di nessuno». La vita stava comunque riorganizzandosi in alcune grandi e meno grandi città e in molti centri agricoli e pastorali lungo la strada: le bestie erano già state trasferite agli alti pascoli estivi e la mietitura già avvenuta o in corso. Si sarebbero incontrati villaggi cristiani, villaggi musulmani e villaggi nei quali la gente anatolica, cristiana o musulmana che fosse, aveva imparato a vivere insieme (un mormorio di stupore si era levato tra i franchi a queste notizie): ebbene, l’imperatore desiderava che il ristabilirsi della sua autorità su quelle terre avvenisse nel modo più ordinato e pacifico possibile, senza spargimento di sangue e senza razzie che avrebbero desolato il territorio compromettendone forse definitivamente la già difficile convalescenza economica. Il passaggio delle schiere franche sarebbe dovuto pertanto avvenire nel modo più ordinato: le truppe imperiali avrebbero pensato a farsi mediatrici per l’acquisto delle derrate alimentari e delle bestie da macellare a un prezzo equo, che sarebbe stato sborsato dai funzionari a ciò preposti. Il vettovagliamento sarebbe poi avvenuto giornalmente, senza imprevisti e senza sorprese, a carico dell’amministrazione del basileus che avrebbe pensato non solo agli armati, ma anche ai pellegrini. Parecchie centinaia di arcieri peceneghi a cavallo erano incaricati di percorrere a squadroni di cinquanta la strada, per assistere tanto i guerrieri quanto gli inermi occidentali e prevenire qualunque disordine. Quel che Tatikios volesse dire, con queste chiare e rassicuranti informazioni, era chiaro al di là del ponte sul Sangario: ai due lati della strada una sequenza di pali, a regolare distanza di circa cinque braccia l’uno dall’altro, recava alla sommità una testa tagliata. I corpi erano già stati sepolti con efficiente pietà. Lo spettacolo raccapricciante continuava per un mezzo miglio. Molti pellegrini non ebbero difficoltà a riconoscere, in quei volti lividi e stravolti dagli spasimi della morte e in quelle teste dalle occhiaie cave perché gli uccelli del cielo già avevano infierito su di loro, molti amici o conoscenti; e qualcuno si coprì singhiozzando il volto, perché fra quelle teste molte appartenevano a donne e a bambini. Si trattava di circa cinquecento pellegrini che, stanchi di aspettare sotto Nicea, avevano qualche giorno prima seguito il solito capo improvvisato inoltrandosi verso est; i peceneghi informarono con fredda efficienza i principi che quella gente si era data ad assassinii e a ruberie, e che l’imperatore – sollecito e generoso di pane, vino e protezione nei confronti di tutti gli ospiti franchi come se fossero stati suoi figli – aveva disposto che quel trattamento fosse invece riservato a chiunque, grande o piccolo, osasse turbare di nuovo la pace faticosamente riconquistata in quelle terre e la vita di quei buoni sudditi che già troppo avevano sofferto. Dovremo sopportare tutto questo dai servi pagani d’uno scismatico?, aveva chiesto Raimondo di Tolosa a Boemondo; questi si era stretto nelle spalle.

Fu quindi deciso che i vari scaglioni di guerrieri, ciascuno a scorta di un certo numero di pellegrini e di carriaggi (il che ritardava la marcia), si sarebbero raggruppati in due schiere distanziate tra loro di almeno un giorno di viaggio. La prima avrebbe dovuto esser guidata dai normanni d’Italia e di Francia, posti a marciare all’avanguardia, mentre i conti di Fiandra e di Blois avrebbero chiuso la colonna in modo che i pellegrini – protetti ai lati dalla guardia imperiale – avessero il massimo possibile di sicurezza; la seconda sarebbe stata invece guidata dal conte di Tolosa e dal duca di Lorena all’avanguardia, mentre alle spalle dei pellegrini Ugo di Vermandois avrebbe chiuso l’intero sfilamento. Il vescovo Ademaro, però, insieme con Tatikios e con una cinquantina di peceneghi, aveva insistito per trovarsi al centro esatto tra i due convogli, facendo la spola tra la retroguardia del primo e l’avanguardia del secondo: aveva espresso la volontà di non perder così i contatti tra l’uno e l’altro, e pretendeva il generale bizantino facesse altrettanto. Era chiaro che aveva l’intenzione di controllarlo da vicino.

La sera del giorno precedente la partenza dal ponte sul Sangario fu occupata in preparativi e in colloqui. Lo scudiero Astolfo avvertì i suoi amici che il conte Guido, in una certa segretezza, aveva avuto un incontro con il duca di Lorena. Lo sapeva parente della sua signora, Matilde di Toscana, per quanto non ignorasse che i rapporti tra i due non fossero del tutto idilliaci: certo erano migliorati da quando il duca era passato dalla parte del pontefice abbandonando la fedeltà a Enrico IV (ed era per questo che un polemista implacabile e partigiano irriducibile dell’imperatore, Benzone vescovo d’Alba, ne aveva storpiato senza pietà il nome in Merdifredus). Guido aveva probabilmente chiesto a Goffredo di poter passare nella sua colonna, abbandonando quella di Stefano di Blois con la quale il piccolo gruppo dei suoi armati aveva fin lì viaggiato. Doveva però averne ricevuto un rifiuto, forse motivato dallo squilibrio di forze che avrebbe potuto determinarsi fra le colonne: ad ogni modo l’episodio provava ancora una volta l’inquietudine e il malumore del conte toscano, che non aveva alcuna intenzione di trovarsi coinvolto in una spedizione militare che rischiasse di trasformarsi in pellegrinaggio, col rischio di allontanare di chissà quanti mesi la prospettiva d’un rientro nelle sue terre. Ranieri e Astolfo sostenevano concordi che Guido non si sarebbe mai neppur messo in marcia se avesse previsto di restar in viaggio e in campagna militare più di alcuni mesi, un anno al massimo. Viceversa, erano partiti ormai da otto mesi e la spedizione vera e propria non era ancora incominciata. Il conte non voleva assolutamente dar l’impressione di accostarsi troppo a chi – come Raimondo di Tolosa, Boemondo di Taranto e ora anche Stefano di Blois, per via di quanto aveva scritto alla moglie – desse segni di voler prolungare troppo, o addirittura per sempre, la sua permanenza in Oriente. E ora si domandava se per caso anche Goffredo, e magari il duca di Normandia, non avessero deciso di dare un addio all’Europa e tentar la fortuna in Asia. Che quella strana spedizione non fosse, in fondo, altro che un alibi per favorire il drenaggio dalla Cristianità occidentale di principi e di cavalieri in un modo o nell’altro troppo compromessi con un passato di violenza? Che il papa desiderasse, in realtà, di non trovarsi più il cammino intralciato da potentes che appartenevano ormai al vecchio mondo, quello di prima della riforma della Chiesa? Ad ogni buon conto, e con tutta la cautela del caso, Guido sarebbe rimasto col gruppo di Stefano: il che fu un bel sollievo per i suoi seguaci, che ormai si erano abituati agli amici della cerchia del conte di Blois e godevano, grazie alle loro confidenze, anche di una prospettiva privilegiata su quanto accadeva nell’armata.

Procedendo con una qualche lentezza, ma con regolarità, la massa dei viaggiatori aveva quindi preso la strada che, dirigendosi a sud, risaliva prima la valle di un affluente del Sangario e quindi s’inerpicava per un abbastanza agevole ma tuttavia tortuoso sentiero che l’avrebbe condotta a un passo montano sito non lungi dall’antica Dorileo:32 qui la strada militare si divideva in tre differenti direzioni, e sarebbe stato necessario scegliere. Tatikios aveva indicato il quadrivio come luogo per una nuova riunione dei capi. Lì si sarebbe dovuto definitivamente identificare il cammino da compiere: il che significava gli scopi effettivi della campagna di guerra e i provvedimenti da prendere per scortare o meno, e in che misura, i pellegrini che non avessero voluto – sia pur a loro rischio – seguire ulteriormente gli armati e ritardarne le tappe.

Il tratto principale dell’antica via romana, in seguito mantenuta, correva con decisione verso est per raggiungere, deviando leggermente a sud, Ancyra, e quindi biforcarsi per condurre con un ramo a Sebastea in Armenia, con un altro a Cesarea di Cappadocia33 da dove sarebbe stato possibile passare la catena montagnosa dell’Antitauro e guadagnare la valle dell’Eufrate o quella Cilicia che, a causa della sua popolazione, si denominava anche «Piccola Armenia». La seconda strada, leggermente meridionale, conduceva al passo denominato Porte Cilice, ma attraverso l’altopiano desertico e desolato della penisola, in quella stagione ardente di giorno e gelato di notte, punteggiato di desolati laghi amari d’acqua salata e di sinistre paludi: era un cammino folle, specie d’estate, e lo avrebbe intrapreso soltanto chi avesse avuto voglia o bisogno di procedere a marce forzate verso le città della costa cilicia. La terza, infine, ancor più meridionale, portava anch’essa ai passi montani del Tauro, ma tenendosi a sud del deserto salato e toccando le belle città di Filomelio, Iconio, Eraclea:34 da lì, si poteva raggiungere anche l’importante città portuale di Attalia. Quest’ultima era una strada che sarebbe stata imboccata solo da chi fosse ben deciso a riconquistare all’obbedienza imperiale il meridione anatolico. Era questo che Alessio Comneno voleva da Tatikios e dai franchi?

La sera del 30 giugno il primo scaglione dell’armata, con i suoi pellegrini e i rispettivi carriaggi, giunse in una valle concava e ospitale, percorsa da abbondanti acque, presso Dorileo: lì Boemondo e Roberto di Normandia decisero di mettere il campo e aspettare il resto dei pellegrini e la retroguardia. Si approntò rapidamente un terrapieno e si sistemarono i carri in cerchio; un ulteriore anello circolare fu occupato dalle tende dei guerrieri e dai padiglioni dei principi, un po’ più riparati; gli inermi furono collocati al centro, dov’erano le cisterne dell’acqua. I mercenari normanni del basileus e gli arcieri peceneghi andarono a prender posto sulle alture circostanti, per far buona guardia. Al mattino, secondo l’ordine di marcia, avrebbe dovuto giungere il drappello con il vescovo di Le Puy e il comandante bizantino, e verso sera lo scaglione dei provenzali e dei lorenesi. La notte passò tranquilla, in un riposo ristoratore.

Quando l’aria cominciò a schiarirsi, l’ultimo turno della guardia notturna raccolse frecce e archi da terra e si avviò verso il basso, dove ciotole di latte caldo e buone coperte aspettavano le sentinelle per un po’ di riposo. Fu allora, proprio mentre il primo raggio del sole colpiva rosso l’accampamento inondando le cime orientali della conca, che esplose un urlo bestiale, furioso: una specie di frinire di mostruose cavallette giganti. Una pioggia di dardi infocati si riversò sull’accampamento come un serpente di fiamma, e dai fianchi della collina orientale, controsole, rotolò a valle sull’accampamento una valanga di cavalieri. Accecati dai raggi purpurei dell’aurora i franchi non riuscivano a individuare i nemici; intorpiditi dal sonno, non erano capaci di reagire. Per fortuna erano frattanto giunti Roberto di Fiandra e Stefano di Blois che, avendo ritardato nella loro marcia, avevano fatto una sosta all’addiaccio qualche miglio a est e si erano rimessi in marcia in piena notte. Boemondo fece giungere ai nuovi arrivati il concitato ordine di smontar da cavallo e prepararsi a una difesa appiedata; solo un piccolo contingente di cavalieri disobbedì e caricò al galoppo: ma la carica in salita, col sole negli occhi, fu disastrosa. I turchi tiravano ai cavalli: una volta stramazzati quelli, si gettavano sui cavalieri il cui armamento pesante impediva loro di balzar rapidamente in piedi (ed era l’unica cosa che avrebbe potuto salvarli) e miseramente li sgozzavano.

I pagani circondarono l’anello di carri e di tende e, secondo la tattica abituale dei guerrieri delle steppe che gli occidentali avrebbero ben imparato a conoscere, si susseguirono a ondate di cavalieri che scoccavano rapidi le loro frecce e si ritiravano quindi sostituiti da altri. Ma Boemondo ebbe modo di dimostrare di aver saputo metter bene a frutto sia la sua ventennale esperienza di guerriero, sia le sue buone letture di Cesare e di Vegezio: aveva dato ordine ai cavalieri e agli inservienti di disporsi con i loro grandi scudi a mandorla in maniera da formare una sorta di siepe da cui fuoruscivano le lunghe aste delle lance; dietro questa difesa i peceneghi e i pellegrini tiravano con i loro archi, per quanto le piccole armi di làmine d’osso dei primi fossero ben più micidiali degli archi di frassino dei secondi. Intanto, una buona trentina di messaggeri erano partiti pancia a terra dall’accampamento, disarmati e vestiti d’una sola tunica per esser più veloci, per avvertire la seconda colonna e incitarla a sopraggiungere a marce forzate. Quasi tutti questi messaggeri furono abbattuti dalle frecce o inseguiti, catturati e passati per le armi; di lì a qualche minuto, le loro teste piovvero all’interno dell’anello difensivo cristiano. Ma Boemondo calcolò rapidamente che almeno una decina erano sfuggiti all’inseguimento.

Verso mezzogiorno, la situazione era diventata insostenibile: la sete bruciava la gola, e le donne dei pellegrini erano esauste perché il loro andirivieni dalle fonti alla linea dei combattenti con gli otri pieni d’acqua era stato incessante. Ma a quel punto un rumore di tuono sorprese gli infedeli, i quali non si erano evidentemente resi conto di aver intrappolato nella valle solo una parte dell’esercito. Erano Goffredo, Ugo e Raimondo che piombavano da ovest caricando con l’impeto di una siepe irta di lance. La carica bastò a scompaginare gli assedianti e a ottenere che i due contingenti si saldassero.

Il disorientamento causato dall’arrivo del secondo contingente fu fatale per i turchi. Ora, il sole meridiano giocava contro di loro. Le alture meridionali, controsole, si riempirono di armati: era il vescovo Ademaro che piombava alle spalle dei pagani alla testa di pochi cavalieri occidentali, della guardia imperiale bizantina e dei peceneghi incaricati di far da staffetta lungo la strada. Informato dai messaggeri di Boemondo del punto e delle circostanze dell’attacco e consigliato dai bizantini che conoscevano bene il luogo descritto e le caratteristiche del terreno, aveva febbrilmente riunito una piccola schiera di fortuna e, galoppando verso il luogo della battaglia, aveva comunicato il suo piano a Tatikios che gli arrancava dietro. Il generale bizantino era rimasto ammirato per la tempestività e l’energia del prelato franco; meno di lui avevano apprezzato la cosa i sacerdoti greci che seguivano il corpo di spedizione imperiale, e che dai loro vescovi erano abituati ad aspettarsi maggior perizia nelle lotte contro il peccato e il demonio ma nessuna esperienza nella tattica e nella strategia contro nemici materiali.

Il combattimento continuò per qualcosa meno di un paio d’ore: i turchi erano ormai stremati e disorientati. Volsero disordinatamente i cavalli verso est e si dettero alla fuga lasciando sul terreno morti e feriti che i fanti e i pellegrini cristiani, ormai lanciati all’inseguimento, massacrarono senza pietà. Inutilmente i principi cercarono di trattenerli, ben sapendo come l’inseguimento imprudente alla fine di una battaglia possa condurre l’esercito inseguitore in trappole suscettibili addirittura di rovesciar le sorti dello scontro. In quel caso, però, i turchi erano davvero in rotta: e al di là delle colline orientali si scoprì con gioia che essi avevano lasciato un ricco accampamento quasi intatto, pieno di vettovaglie, di armi e di ricchezze. Graditissima era giunta, in particolare, l’incetta di cavalli, muli e cammelli. L’unico problema stava semmai nei cavalli da guerra: il destriero occidentale era d’una razza forte, alta, che sapeva esser anche tanto paziente e tanto veloce da poter sostenere una carica di parecchie decine di braccia di lunghezza con addosso un peso che, tra cavaliere e armi di ferro, raggiungeva anche le trecento libbre; cavalli così arrivavano talvolta a pesare fino a circa duemila libbre e più.35 Ora, molti guerrieri avevano perduto i loro bei cavalli: avrebbero dovuto accontentarsi di quelli presi nel bottino dell’accampamento, che erano splendidi esemplari di cavallo arabo, veloce e nervoso, vivacissimo ma non troppo grande; oppure del cavallo tipico dei turchi e dei peceneghi, abbastanza basso, tozzo, il collo corto e il ventre prominente, robustissimo e docile, coraggioso e tranquillo, ma inadatto alle cariche «a siepe» o «a cuneo» caratteristiche della cavalleria pesante franca. Il cavaliere occidentale era il risultato d’un lungo addestramento e del rapporto fra un guerriero, delle armi molto pesanti e un cavallo grande e robusto: se una di queste tre cose fosse venuta a mancare, la sua proverbiale invincibilità sarebbe svanita, e con essa anche la ragione per la quale tutti, dal basileus di Costantinopoli agli emiri di Spagna, ambivano a ingaggiar cavalieri franchi come mercenari. Risultato di ciò fu che, venendo gradualmente meno le cavalcature portate dall’Occidente – anche durante la marcia, e poi sotto le mura di Nicea, molti cavalli erano periti –, i franchi dovettero alleggerire il loro armamento e mutar in parte tattica. Ma a Dorileo era presto per accorgersi di tutto ciò: se i cavalieri lo avessero capito, lo avrebbero senza dubbio reputato inaccettabile.

Si riuscì finalmente a comprendere, dalle insegne a campanelli dorati e a code nere di cavallo e dai documenti abbandonati nei padiglioni, con chi si era avuto a che fare: si trattava del sultano di Nicea in persona, il «Leone Spada», che dopo la presa della sua città era tornato a marce forzate verso oriente, aveva riunito gli emiri della Cappadocia e i suoi stessi avversari danishmenditi e li aveva guidati in quella che egli aveva concepito come una specie di spedizione punitiva che, una volta per tutte, avrebbe annientato quei barbari briganti ch’erano arrivati dal Bosforo in quantità, stavolta, fuori del previsto e dell’ordinario.

I bizantini avevano fatto qualche prigioniero, compresi alcuni turchi d’un certo rango. Rassicurati e ben trattati, non ebbero difficoltà a confermare quello che Tatikios aveva perfettamente inteso e già spiegato ai capi franchi. Il sultano di Nicea aveva in un primo tempo sottovalutato la nuova spedizione, scambiandola con una di quelle colonne di saggiatori del terreno anatolico che di tanto in tanto il basileus spediva nell’interno e che erano in effetti formate sovente da guerrieri occidentali. Che essi stessero scortando anche dei pellegrini non era poi così straordinario, per quanto anche il numero di questi ultimi apparisse insolitamente elevato. Ma dopo l’episodio della presa di Nicea, Kilij Arslan si era infuriato e aveva deciso di farla finita: quella truppa d’importuni andava sbaragliata, quel folle tentativo di destabilizzare un equilibrio anatolico ormai raggiunto da oltre mezzo secolo andava stroncato. Del resto – aggiungevano concordemente le guide – il sultano era incredulo dinanzi alla prospettiva che fosse stato davvero il basileus a ordire un piano di aggressione così rozzo alla compagine selgiuchide: anche ammettendo che avesse voluto sfruttare la rivalità fra selgiuchidi e danishmenditi, la scelta appariva militarmente imprudente e politicamente incomprensibile.

Non tutto quel che i prigionieri dissero fu da Tatikios riferito ai principi franchi. Il comandante bizantino si rendeva perfettamente conto che i dubbi del sultano di Nicea erano più o meno gli stessi degli occidentali: davvero il sovrano di Costantinopoli era deciso a rischiare un riaccendersi generale del conflitto contro i turchi per assecondare le voglie di conquista e di bottino d’un pugno di barbari occidentali? Non sperava egli stesso che essi finissero massacrati, in maniera di poter intanto approfittare di qualche loro eventuale sconfitta e dichiararsi quindi presso gli emiri d’Anatolia estraneo a quell’improvvisa incursione di armati dall’Europa che aveva sorpreso anche lui? Il conte di Tolosa andava addirittura oltre: e si chiedeva che cosa con precisione si fossero detti, sulle luminose rive del Corno d’Oro, l’imperatore e la sultana di Nicea, sua ospite-ostaggio. Quali colombi messaggeri erano partiti dal Sacro Palazzo verso l’Anatolia? Che cosa portavano legato alla zampa? Non per caso la notizia che l’autocrate «amico del Cristo e pari agli apostoli» non avrebbe sgradito di saper che le ossa dei barbari franchi biancheggiavano ormai al sole d’estate, sulla strada tra Dorileo e Ancyra, e che il cielo era nero dei corvi e degli avvoltoi che se n’erano fatti pasto? In modo più oscuro e tumultuoso, i pauperes pensavano cose analoghe rispetto al conte di Tolosa: e i loro portavoce, alcuni dei quali erano ormai convinti di giocar un ruolo simile a quello dei profeti presso i re d’Israele secondo il Vecchio Testamento, tempestavano con petulanza i principi di proteste e di domande. Perché quell’eunuco perfido e scismatico, quella donnicciola profumata che si pavoneggiava nella sua corazza a piastre dorate e nel suo mantello color indaco, stava trattando così bene quei pagani dalla testa avvolta in ridicole fasce? Erano questi i fratelli in Cristo greci, quelli che a Clermont il papa aveva raccomandato di venir a soccorrere contro i barbari di Persia? Questi, che lungo la valle del Sangario avevano piantato sui pali le testoline mozzate dei loro figli e che ora riempivano degli infedeli di parole melliflue e di bevande fresche? Genti di Sodoma, carnefici al servizio di Erode! Qualche chierico rammentava il padre Virgilio: timeo Danaos, et dona ferentes.36 Era chiaro che l’imperatore scismatico avrebbe preferito la vicinanza degli infedeli all’aiuto dei valorosi franchi, che l’obbligavano ad adempiere ai suoi doveri di guerra ai pagani, come un sovrano cristiano ha l’obbligo di fare. Qualcuno giungeva addirittura a sostenere che il basileus avesse chiesto aiuto agli occidentali per poterli poi sterminare con l’aiuto dei turchi.

Gli effetti di questo malumore non tardarono a mostrarsi. Alcuni pellegrini, ormai abbastanza ben armati – i saccheggi di Nicea e del campo turco di Dorileo avevano procurato armi per tutti – circondarono il padiglione di Tatikios reclamando che i prigionieri turchi venissero consegnati loro; la guardia imperiale oppose tra la folla e la tenda del suo comandante il muro verde-azzurro dei suoi grandi scudi ovali fregiati del monogramma del Cristo; volarono sassi e insulti finché un drappello di peceneghi, i volti crudeli e impassibili e gli occhi sottili, obliqui, tagliati come ferite, intervenne disperdendo la folla a colpi di flagello. L’incidente procurò a Tatikios le rimostranze di alcuni principi.

I capi, però, erano troppo raggianti per lasciarsi rovinare la loro giornata da un piccolo tumulto. La giornata era stata tuttavia attristata da molte perdite: tra gli altri era caduto Guglielmo d’Altavilla, fratello di Tancredi e nipote di Boemondo. I suoi funerali furono solenni e commossi: ma da essi, e dalla durezza dello scontro di quel giorno, s’imparò a rispettare ancora di più i turchi, pagani certo, ma guerrieri di grande valore. Non discendevano forse essi stessi, al pari dei romani e dei franchi – e non dei greci... –, dai troiani?

Fu deciso frattanto di scrivere sia all’imperatore Alessio Comneno, sia a papa Urbano II, per informarli della grande vittoria. Adesso si doveva proseguire: e fu chiaro che il basileus non gradiva colpi di testa né marce disperate. L’unica strada praticabile era quella meridionale, il che significava puntare sulla conquista di Iconio e della Cilicia per immettere poi i pellegrini sulla via della Siria – una volta in territorio arabo, essi sarebbero stati molto più sicuri che non fra i turchi – e decidere lì se terminare la spedizione o no; senza dubbio molti avrebbero desiderato proseguire fino ad Antiochia e a Gerusalemme, ma il farlo in armi sembrava folle; e qualcuno intendeva restare in Oriente. Tatikios non era comunque tranquillo, per quanto non lo si potesse dir pessimista. Tutta quell’area era stata resa desolata da circa un ventennio di guerre ininterrotte: si sarebbero trovati ponti franati, villaggi abbandonati e distrutti, pozzi inquinati o anche deliberatamente avvelenati (o semplicemente secchi per via dell’estate), popolazioni stremate, impaurite e ostili.

Nella piana presso Dorileo ci si sarebbe fermati un paio di giorni: il tempo per le solite pratiche di pietà (s’impiegarono anche i contadini circostanti per scavare una grande fossa comune nella quale seppellire i turchi) e per riprendersi dalle fatiche della strada e della guerra.

Il successo dette al vescovo di Le Puy e al principe di Taranto l’occasione per riprendere, con maggior cordialità, il loro dialogo. «Ho l’impressione, signor vescovo» attaccò Boemondo «che le Sacre Scritture e i libri di Gerolamo e di Agostino non siano i soli compagni delle vostre notti insonni, in Alvernia. A giudicare dalla vostra geniale manovra in battaglia si direbbe che il vescovo Ademaro non riesca ancora a far tacere del tutto il cavaliere Ademaro, e consentite che di ciò io mi rallegri. Mi sbaglierò, ma sul vostro scrittoio deve aver soggiornato a lungo un Vegezio». «Vi sbagliate», replicò ridendo il vescovo, «le mie vittorie sono tutte ispirate dalla Vergine Maria, la patrona della mia città e del suo santuario. O avete dimenticato che la Scrittura la definisce bella e terribile come un esercito schierato in battaglia?»