«Non so se hanno fatto bene.» Astolfo covava un po’ d’invidia per il cavaliere Rollone di Coutances e per il giullare Tagliaferro di Evreux, che avevano entrambi domandato e ottenuto dal loro sire il duca Roberto licenza di accompagnare Tancredi nella sua diversione cilicia. A rigore, Rollone avrebbe dovuto chieder anche il permesso di Tatikios, rappresentante nell’armata di quel basileus che il normanno serviva da molti anni come mercenario. Ma il generale greco aveva perfettamente compreso la situazione e aveva prevenuto il desiderio del cavaliere: chiedesse pure licenza al suo «naturale» signore, che ne sarebbe stato lusingato. In effetti, era stato appunto così: il Cortacoscia aveva lodato la prouesse dei due, anche se li aveva ammoniti a non abbandonare anche quella sagesse che, insieme con essa, formava il quadro morale della mesure, la virtù del perfetto cavaliere.40 Tancredi, aveva aggiunto sentenzioso Barile di Sidro, aveva molta della prima, poca però della seconda. Il giullare aveva risposto lodando l’ineccepibile conoscenza che il duca dimostrava a proposito delle virtù della cavalleria; il che gli era valso anche il dono d’un prezioso abito da viaggio provvisto di lungo cappuccio ricamato; a Rollone, che non lo aveva lodato ma gli aveva chiesto un permesso che non era strettamente tenuto a chiedere, Roberto aveva donato una cintura con una bella fibbia d’argento.

Era passato più di un mese da quando Tancredi e Baldovino avevano abbandonato il grosso dell’armata per dirigersi alle Porte Cilice: e non se ne sapeva più nulla. Ma nel drappello dei toscani, il quale stava ora un po’ criticando un po’ rimpiangendo i due avventurosi normanni che avevano scelto l’impervia strada del Tauro al seguito di due ambiziosi, ci si chiedeva anche – senza aver il coraggio di formulare ad alta voce i suoi dubbi – se fosse stato davvero prudente, da parte della maggioranza dei principi e di tutti i pellegrini, l’aver con tanta fiducia ubbidito ai suggerimenti delle guide bizantine.

Dopo Comana, difatti, si era proceduti sempre a sud-est fino a Coxon,41 un piccolo e piacevole centro di cristiani armeni posto al centro d’una valle ubertosa. Lì i principi avevano proposto di far campo per almeno tre giorni, attendendo Boemondo ch’era partito con una numerosa pattuglia di cavalieri per inseguire un gruppo di turchi danishmenditi i quali – secondo la loro tattica abituale – non aspettavano la carica della cavalleria pesante ma, scaricati i loro archi, fuggivano al galoppo mostrando peraltro una straordinaria abilità nel volgersi indietro e, senza far rallentare il cavallo e senza tenergli le redini, scoccare ancora altre frecce sull’inseguitore. I guerrieri franchi, nonostante la loro considerazione per i colleghi turchi, erano scandalizzati per quella tattica che giudicavano sleale: molte volte era loro capitato di lanciarsi contro il muro dei nemici e vederlo cedere come d’incanto al primo urto; gli infedeli, però, abbandonavano il centro, si disponevano alle ali del loro schieramento e da lì si richiudevano a tenaglia sui cavalieri occidentali assalendoli di fianco e alle spalle. Altre volte, le colonne occidentali in marcia venivano assalite proditoriamente, specie mentre passavano dei guadi o attraversavano le rocciose gole di montagna, da infedeli che li bersagliavano di frecce o facevano rotolare su di loro enormi massi: questi attacchi micidiali duravano pochi minuti: poi i turchi si ritiravano senza perdite, mentre i franchi contavano ogni volta decine di morti e di feriti.

Boemondo era partito, esasperato e senza consigliarsi prima con gli altri principi, giurando che avrebbe ripulito la regione da quei traditori; dopo allora, non se ne aveva avuta però notizia ed era già più di una settimana che la sua colonna si era staccata dal grosso dell’armata. Il vescovo Ademaro cominciava a preoccuparsi: era chiaro che i capi e i cavalieri erano stanchi di quell’interminabile spedizione e chi tra loro poteva stava cercando di ottenerne qualche concreto, immediato vantaggio in termini territoriali: per fondarvi una signoria o per usare le sue conquiste di lì a qualche mese come merce di scambio, con l’imperatore o magari anche con i turchi. Tancredi, Baldovino, ora Boemondo: l’emorragia era continua, anche perché ogni capo si portava dietro parecchie decine tra cavalieri e abili serventi; e l’armata non era affatto così numerosa come forse i turchi credevano. Intanto, portata da alcuni cristiani anatolici, era giunta la voce che la chiave della Siria, Antiochia, era stata abbandonata dai turchi. Ad essa si aggiunse più tardi un’altra notizia, che proveniva stavolta da fonti armene: pareva che l’eco delle straordinarie gesta dei guerrieri e dei pellegrini franchi in Anatolia avesse raggiunto anche la città egiziana di Babilonia il cui califfo era nemico sia del suo collega di Baghdad sia del capo di tutti i principi turchi d’Asia, il sultano,42 il quale teneva il califfo di Baghdad in una specie di prigione dorata ed era il vero padrone della sterminata regione che dalla Persia va a Gerusalemme e dal Caucaso giunge al Mar Rosso e al Sinai. Alcuni informatori che lasciavano perplesso Tatikios, il quale peraltro ammetteva che la cosa non era inverosimile, si dicevano certi che il signore di Babilonia fosse sul punto di approfittare della situazione per attaccare il suo rivale e al tempo stesso offrire alleanza ai sopraggiunti franchi. Se il sultano d’Egitto si fosse mosso – aggiungevano gli informatori – tutto l’Oriente sarebbe andato a ferro e a fuoco: gli arabi, che vi erano insediati dalla Siria fino agli antichi paesi della regina di Saba, odiavano i turchi almeno quanto li odiavano gli armeni: un blocco di arabi, armeni, greci e franchi avrebbe costituito un’alleanza formidabile dinanzi alla quale le forze del sultano selgiuchide si sarebbero squagliate come neve al sole d’estate.

Il Consiglio dei principi, immobilizzato presso Coxon, non aveva parlato d’altro. I due califfi sono entrambi musulmani, osservavano alcuni; sono, anzi, i due «papi» dei musulmani. È possibile che preferiscano dividere la paganìa anziché unirla contro i cristiani? Ademaro di Le Puy e Raimondo di Tolosa, una volta di più concordi, rispondevano che non solo la cosa era probabile, ma che non c’era anzi assolutamente nulla di strano. Il marchese di Provenza, combattendo in Spagna al fianco del re di Castiglia e del Cid Campeador, ne aveva viste di tutte: lo spettacolo di cristiani alleati di musulmani e impegnati contro coalizioni rivali cristiano-musulmane era per lui del tutto ovvio. Quanto poi alla rivalità tra i due «papi» dell’Islam, il vescovo Ademaro conosceva troppo bene i reciproci sentimenti di Urbano II e di Ghiberto di Parma, entrambi papi della Cristianità, per meravigliarsene. Anzi, dinanzi ai principi cominciava a delinearsi uno scenario politico coerente dei rapporti tra cristiani e infedeli in tutto il mondo, dalla Spagna attraverso il Mediterraneo fino alla Siria: e la sua coerenza non risiedeva affatto in un inesistente compatto blocco di forze cristiane contro forze musulmane. D’altronde, se il califfo di Baghdad non poteva contare sull’appoggio di quello di Babilonia, fino a che punto i guerrieri franchi potevano dal canto loro contare su quello del basileus?

A quel punto era però accaduto qualcosa di grave per quanto prevedibile. Preoccupato dinanzi alla prospettiva che gli altri capi cominciassero ad arraffare il meglio delle città orientali, Raimondo di Tolosa aveva deciso di agire a sua volta per conto proprio. Egli teneva d’altronde anche ad atteggiarsi a capo supremo dell’armata per quanto riguardava le cose temporali, lasciando al legato Ademaro il compito di occuparsi delle spirituali: ed era senza dubbio il più ricco, il più potente e il più famoso dei principi partiti in seguito all’appello di Clermont. Anche la sua decisione di non tornar mai più in patria era nota. Ciò gl’impediva di lasciar l’armata: ma egli era ben deciso a far sì che il ruolo al quale peraltro teneva non lo impacciasse nel procurarsi una signoria pari o superiore a quella che possedeva in Occidente. Antiochia, la seconda città dell’impero, la terza piazza mercantile del Mediterraneo dopo Costantinopoli e Alessandria, l’originaria sede apostolica di Pietro prima che questi passasse a Roma, era un fine degno d’essere ambìto, una preda onorevole. Raimondo v’inviò subito un contingente ragguardevole, circa cinquecento cavalieri agli ordini d’un suo abilissimo fidelis, Pietro di Castillon, affinché prendessero possesso in suo nome della perla di Siria.

Furono molto bravi, i cavalieri provenzali. In pochi giorni, sia pur in mezzo a difficoltà ch’essi si guardarono bene peraltro dal comunicare al resto dell’armata (forse per non scoraggiarlo...), passarono le montagne e giunsero a sud, nella valle del fiume Oronte. Là appresero però con certezza che le notizie intorno all’evacuazione turca di Antiochia erano del tutto infondate. Pietro di Castillon tornò indietro di gran carriera per avvertire di questo il suo signore e gli altri capi: il fatto che i turchi tenessero con sicurezza Antiochia mutava l’intero quadro di riferimento strategico della zona e avrebbe potuto rimettere in discussione anche la scelta del cammino da prendere. Ma durante il viaggio di ritorno perse parte dei suoi: non in battaglia, ma semplicemente in quanto essi, fidando nella forza del loro numero e nell’appoggio che le popolazioni armene della valle dell’Oronte promettevano loro, decisero a loro volta di correr l’avventura. Si scelsero un capo valoroso nella persona d’un cavaliere, Pietro di Roaix, il quale dichiarava addirittura di voler puntare su una delle più grandi e potenti città siriache, Aleppo. Al Castillon che gli rimproverava la fellonia nei confronti del loro comune sire Raimondo, il Roaix aveva risposto che i quaranta giorni previsti di consueto per il normale servitium debitum vassallatico erano scaduti da un pezzo, e che se il conte di Tolosa avesse tenuto al suo braccio avrebbe già da tempo dovuto comprarsene la forza fissandone un adeguato soldo mercenario. Non lo aveva fatto, e allora egli e i suoi compagni erano liberi di cercar fortuna in altro modo.

Pietro di Castillon rientrò negli accampamenti franchi con il cuore pesante: recava cattive notizie a tutti circa Antiochia e pessime al suo principe per la defezione del Roaix e di altri valorosi guerrieri. Il numero di buone spade al servizio della causa orientale voluta da Urbano si andava assottigliando a vista d’occhio. Intanto Boemondo aveva a sua volta fatto ritorno agli accampamenti,43 recando un ricco bottino in armi e in cavalli che aveva immediatamente spartito, con generosità, fra tutti i principi; ma Raimondo gli aveva rinfacciato l’imprudenza della sua diversione che avrebbe potuto richiamare dal nord sull’armata la vendetta dei danishmenditi, e si era da lui sentito a sua volta rinfacciare la maldestra fellonia d’una mancata conquista d’Antiochia che però, ove fosse riuscita, avrebbe messo dinanzi al fatto compiuto tanto il basileus che i principi franchi.

Si era ormai, intanto, arrivati ai primi d’ottobre: stavano cominciando le piogge d’autunno e i corsi d’acqua che scendevano dai monti gonfiavano in modo pauroso. Com’erano lontani i giorni della sete e del deserto di sale! Ma tra i guerrieri e tra i pellegrini prendevano a circolare misteriose febbri che colpivano repentinamente e causavano penose dissenterie. Molti ne davano la colpa alle acque, abbondanti ma non pure, o ai frutti della zona ai quali gli organismi non erano abituati; inevitabilmente circolavano però notizie incontrollabili che parlavano di emissari dei turchi che avevano avvelenato le acque; di malìe gettate magari da una di quelle tenebrose ragazze armene dai lunghi capelli, dagli occhi neri e dal naso adunco su qualche membro della spedizione che l’aveva sedotta e stava ora per abbandonarla (si conoscevano parecchi casi del genere), e gli effetti delle quali si stavano allargando come un contagio; perfino di complicità dei greci di Tatikios, i quali in effetti non apparivano colpiti dal morbo: ma il generale greco faceva osservare come i suoi fossero molto più disciplinati, più attenti a quel che mangiavano e bevevano, più assuefatti all’ambiente e anche meno attratti dagli occhi profondi e dai capelli corvini delle armene.

A questo punto, non v’era più tempo da perdere. Le febbri autunnali sarebbero svanite da sole con i primi freddi, ma allora sarebbe stato impossibile attraversare l’Antitauro e l’Amano innevati: anzi, le guide dichiaravano che ormai cominciava a esser tardi e le piogge rendevano insicuri e poco riconoscibili i sentieri di montagna. E la strada militare romana e greca?, chiedevano i cavalieri ben memori di quanto era stato loro promesso quando si era trattato di scegliere tra quell’itinerario e quello cilicio. C’era, rispondevano quelle, ma le truppe imperiali non la praticavano più da un quarto di secolo e nessuno sapeva con certezza in che stato fosse ridotta: certo molti ponti dovevano esser franati, e qualcuno di essi collegava le sponde di profondi crepacci: sostituirli con passerelle avrebbe comportato un lavoro lungo e laborioso. L’alternativa a tutto questo sarebbe stata lo svernare tra Comana e Coxon, collegandosi intanto con i principi armeni al di là dell’Antitauro e muovere verso sud solo nell’aprile successivo. Ma tale prospettiva fu, una volta tanto concordemente, respinta sia dai principi sia dai capi dei pellegrini i quali parlavano ormai apertamente di volersi trovare a Betlemme per le feste di Natale.

La traversata dei monti verso Marash non durò più d’una settimana: ma fu una delle più dure che i franchi avessero affrontate. La strada militare non esisteva più: era ridotta a un sentiero fangoso, esposto di continuo a frane di pietrisco bagnato su un terreno semibrullo che le piogge insistenti dilavavano. Il sentiero s’inerpicava talvolta lungo costoni resi insidiosi dagli spigoli taglienti di grige rocce scistiche, talaltra costeggiava pareti lisce, quasi a picco, percorrendo una cornice stretta poche braccia che dava direttamente su abissi vertiginosi sul fondo dei quali, dove raramente giungeva una fioca luce, rombavano fiumi gonfi d’acqua limacciosa. A volte si percorrevano invece strette gole dal fondo impervio, che obbligava a saltare di roccia in roccia; si era di continuo minacciati da cascate scroscianti e spesso si dovevano superare profondi crepacci passando su malsicuri ponti di legno e di corda. Poiché tali passerelle erano spesso interrotte, si era costretti a lunghe soste in attesa di poterle riattivare: intanto armati e pellegrini si accalcavano sul ciglio dei burroni, esposti alla pioggia e minacciati dal terreno scivoloso e cedevole. I cavalieri, che non osavano procedere montando i loro animali, cercavano disperatamente di disfarsene: giunsero a cederli a certi avidi pellegrini per poche monete oppure ad abbandonarli incuranti della loro sorte. Cavalli e muli mettevano spesso il piede in fallo e rotolavano a valle o precipitavano negli strapiombi lanciando nitriti orribili come grida umane disperate. Gli asini, che come si usa con gli animali da soma procedevano legati insieme, sdrucciolavano sovente a loro volta scalciando e movendo le zampe in un grottesco ballo nel vuoto, cercando di riprendersi dopo essere scivolati per decine di braccia lungo la scarpata ghiaiosa. Così andò perduta gran parte del bagaglio dell’armata, compresi i padiglioni dei capi e molte delle ricchezze ammassate in seguito ai frequenti per quanto mai ricchissimi bottini di guerra. Ma non sembrava che ormai nessuno se ne curasse più: i cavalieri gettavano nei burroni i loro preziosi ma pesanti usberghi di maglia di ferro, i begli elmi a tronco di cono, i lunghi e pesanti scudi a mandorla; e procedevano incespicando, appoggiati all’asta delle lance, gli occhi come perduti e fissi dinanzi a sé; i pellegrini si trascinavano per le sottili cornici e le ardue strettoie del cammino incuranti delle urla, dei pianti, delle invocazioni d’aiuto degli anziani, delle donne e dei bambini. Talvolta, una luce abbagliante e un rombo tremendo squassavano quella colonna d’infelici: un fulmine si abbatteva sul cammino, incendiando gli sterpi tutt’intorno e facendo imbizzarrire e impennarsi di terrore i pochi animali superstiti. Il volteggiar di stormi di corvi e d’avvoltoi al di sopra delle gole indicava i punti nei quali giacevano le carogne degli animali e i cadaveri degli esseri umani travolti.

Il cammino su quella che i nativi chiamavano la «montagna del diavolo» aveva obbligato i differenti gruppi a distanziarsi tra loro e a perdersi di vista: non era neppure raro il caso che i sentieri si biforcassero e che molti prendessero la strada sbagliata, magari ingannati dall’apparente facilità di un sentiero rispetto a un altro che appariva un po’ più impervio. La necessità di riposare di notte lungo una strada così stretta aveva obbligato l’armata ad assumere l’aspetto di un lunghissimo serpente, interrotto in più punti; le nubi cariche di pioggia che s’infrangevano contro i monti obbligavano a camminare per ore immersi in un’oscurità così umida da render difficile il respiro. Capitava talvolta di immergersi in uno di questi banchi di tenebra in compagnia di animali e di esseri umani e di trovarsi a un tratto soli: allora bisognava gridare, ma spesso l’eco dei picchi circostanti restituiva beffarda, più volte, una voce disperata e solitaria che nessun altro udiva se non colui che l’aveva emessa e che, pur riconoscendola come sua, se ne spaventava. Tutti sapevano del resto che le montagne sono abitate da spiriti malvagi i quali amano far perdere la strada al viandante e fargli mancare il terreno sotto i piedi.

Stava calando la sera tra le guglie della «montagna del diavolo», un’altra di quelle sere che ormai sembravano infinite: quando il conte Guido, che marciava dietro al suo scudiero tenendolo per la falda della veste in modo da non smarrirlo nonostante l’oscurità, urtò col piede una pietra sporgente, perse l’equilibrio e fu inghiottito dall’abisso nero che gli si spalancava sulla destra. Astolfo, sconvolto, fece a tempo ad afferrargli la mano: ma quella del suo signore, sudata e bagnata, gli scivolò dalla presa. Si udì un lamento soffocato; poi un tonfo sordo e il rumore di alcuni rami che si spezzavano. Rimondino, che marciava subito dietro il conte, si lanciò nel precipizio che in quel punto non era un abisso verticale di parete rocciosa bensì una scivolosa scarpata interrotta da cespugli: ma dovette presto risalire aggrappandosi disperatamente a qualche sasso e a qualche radice che gli offrivano modesti appigli perché sentì il terreno cedergli sotto i piedi e franare a valle in una vischiosa colata di fango. Astolfo e Rimondino provarono a gridare a lungo, sia nella speranza che il signore rispondesse sia per richiamare l’attenzione degli altri toscani, che non potevano esser lontani, o di qualche altro compagno di viaggio e di sventura. Ma si resero presto conto che dovevano essersi smarriti, perché nessuno rispose. Quanto al conte, pensava il ragazzo, ormai doveva essersi sfracellato sulle pietre del torrente in fondo all’abisso.

Ma Astolfo non era dello stesso parere. Per fortuna ciascuno di loro aveva salvato, del corredo con cui avevano iniziato l’attraversamento delle montagne, un buon coltello da caccia; lo scudiero portava inoltre a bandoliera una matassa di robusta corda lunga parecchie braccia e grossa un dito. Nonostante il vento urlasse furiosamente e la pioggia non cessasse di sferzarli, ai due pareva di non aver udito il tonfo del corpo del conte nell’abisso. Nessun rumore aveva fatto seguito a quello dei rami spezzati: o, almeno, Astolfo era ben deciso a fingersene convinto. Aspettarono quindi l’alba, stretti l’uno contro l’altro, con i panni inzuppati di pioggia che fumavano loro indosso.

L’alba li trovò intirizziti, tremanti, le membra anchilosate, soffocati dalla tosse; ma era un’alba clemente, che tingeva delicatamente di rosa i paurosi picchi all’intorno. Nell’incerta luce del mattino, il paesaggio si fece alfine distinguibile: e i due poterono rendersi conto che il sentiero sul quale si trovavano costeggiava una scarpata scoscesa alla fine della quale correva una spessa siepe di rovi spinosi; solo al di là di essa s’indovinava l’inizio della roccia a picco. Le tracce della caduta del corpo del signore erano evidenti, nonostante la pioggia le avesse dilavate per tutta la notte. Poiché Astolfo era troppo pesante per esplorare quel terreno incerto, spettò a Rimondino il calarsi, i fianchi ben assicurati alla corda che lo scudiero teneva saldamente.

Bastarono pochi minuti per trovare il conte, che una spietata ma provvida culla di rovi irti di spine aveva sfigurato ma sostenuto per tutta la notte, impedendogli di cadere nell’abisso. Era in uno stato di dormiveglia come chi, dopo aver perduto a lungo i sensi, abbia recuperato un qualche spirito vitale ma sia troppo debole e sconvolto per ragionare. Rimondino gli toccò timidamente, con reverenza, la fronte che scottava: un segno di sofferenza, ma anche una prova inequivocabile di vita. Provò ad afferrarlo per una spalla, poi per una gamba: ma in entrambi i casi un grido lancinante lo arrestò. Al terzo tentativo, il dolore provocato dalle mani incerte del ragazzo dovette esser tale che il conte perse i sensi. Fu, quello, un incidente provvidenziale: guidato dalle concitate ma efficaci e precise indicazioni di Astolfo che teneva la corda dall’alto, Rimondino assicurò bene la corda sotto le ascelle del conte; quindi, ferendosi le mani e le braccia, sgombrò lo stretto spazio circostante dai rovi e accompagnò poi lo sforzo dello scudiero il quale dolcemente, lentamente, aveva cominciato a tirar il peso del suo signore in alto verso di sé. Erano poche braccia di terreno ripido, in fondo: ma il superarle richiese oltre un paio d’ore. Astolfo tirava con l’attenzione di un miniatore di codici, pollice dietro pollice: Rimondino non avrebbe mai sospettato tanta delicatezza in quell’ossuto colosso dalle mani come badili. Il ragazzo spingeva il corpo del conte togliendogli da sotto l’impaccio delle pietre e delle radici sporgenti. A metà lavoro, Guido si riebbe e, per quanto non desse chiari segni di aver recuperato conoscenza, dava l’impressione di far di tutto per non gridar di dolore a ogni strattone della corda; era però evidente che soffriva in modo insostenibile. Svenne forse altre due volte prima di raggiunger con le spalle il ciglio del sentiero e poter esser tratto definitivamente in salvo a forza di braccia da Astolfo. Rimondino guadagnò a sua volta il bordo della scarpata, si trascinò su una breve porzione di terreno pianeggiante e giacque lì esausto per un tempo che ad Astolfo parve lunghissimo. Forse era svenuto, forse si era addormentato esausto dallo sforzo. Lo scudiero si dette ad esaminare attentamente e con occhio esperto il corpo del suo signore, palpandolo con mani che sapevano essere al tempo stesso ferme e amorose. Infine, con l’aiuto di alcuni rami secchi e di porzioni della sua corda, gli legò strette la spalla sinistra e la coscia destra, dove aveva individuato altrettante fratture. I tre si fermarono per tutto quel giorno sul luogo stesso della caduta del conte, per riprender forze: corvi e avvoltoi giravano in cerchio sulla loro testa. Non avevano niente da mangiare, ma le pozze d’acqua lasciate dalla pioggia bastarono a sostenerli. La mattina seguente il conte sopportò quasi senza un lamento che, prima a forza di braccia e poi – non appena fu possibile rintracciare due rami abbastanza dritti e forti – su una lettiga di fortuna, i suoi due fideles riprendessero il viaggio, portandolo verso la salvezza.

Marciarono così due giorni e una notte, a piccole tappe, fermandosi spesso non solo per riprender forze ma anche per alleviare le sofferenze del loro signore al quale ogni passo, ogni ondeggiar della lettiga, provocava fitte di dolore che egli non sempre riusciva a nascondere. Il conte delirava e pronunziava parole sconnesse; era necessario tenergli di continuo bagnati la fronte e i polsi, ma nonostante il suo corpo scottasse per l’alta febbre egli rabbrividiva di freddo, né c’era possibilità di cambiargli le vesti lacere e inzuppate d’acqua o di confortarlo anche con una semplice coperta.

Regolandosi di giorno alla luce del sole che talvolta si lasciava scorgere tra le nubi basse, di notte a quella delle stelle, lo scudiero e il luparo procedevano abbastanza spediti verso sud-est, e Marash non poteva più esser troppo lontana. Ma dietro alle vette impervie e ai picchi aguzzi c’erano sempre, a ogni svolta del sentiero appena segnato, altre vette e altri picchi; le gole e i dirupi sembravano non finir mai, l’urlo del vento e lo scrosciar delle acque erano gli unici suoni che si avvertivano; e Astolfo non osava emettere richiami, per paura di suscitar valanghe di pietrisco o di attirare qualche magari isolato nemico.

Era il tramonto del secondo giorno quando giunsero finalmente a un prato incastrato fra due alte pareti rocciose. A un lato di esso v’era una capanna da cui si elevava un filo sottile di fumo e un piccolo gregge di capre brucava lì presso. Passarono la notte ospiti del pastore, un uomo dai lineamenti grifagni e dalla pelle quasi nera che offrì loro quel che poteva, del latte caldo e una coperta per il ferito. Al mattino, prendendo congedo, Astolfo lo ricompensò regalandogli il suo forte coltello da caccia, senza dubbio l’oggetto più prezioso che quel selvaggio avesse mai visto.

Più tardi, ripensando a quell’episodio, sia Astolfo sia Rimondino si chiesero spesso se fosse stato il pastore a tradirli o se tutto quel che accadde poi fosse dipeso da un fato inclemente. Verso il tramonto, quando pareva che il sentiero cominciasse a scendere verso il fondovalle e a farsi più largo, la strada fu loro sbarrata da gente con le sembianze di pastori. Per fortuna non avevano vere e proprie armi: ma le fionde e i bastoni di cui erano provvisti e il loro stesso numero, una dozzina, sarebbero stati più che sufficienti ad aver ragione di tre uomini stanchi di cui uno gravemente ferito che avevano, come unica difesa, un coltello e una matassa di corda.

Astolfo non perse né il sangue freddo, né il colpo d’occhio dell’uomo d’arme. Individuò subito una roccia addossata a un anfratto, un po’ al di sopra del sentiero, e fece cenno a Rimondino di correre a quella volta e ripararsi. Le poche braccia di corsa dovettero essere un indicibile tormento per il conte che, sballottato nella lettiga, perse di nuovo i sensi. Il rifugio era tatticamente ineccepibile: riparati dietro la roccia, i due potevano controllare il gruppo dei pastori che aveva il sole negli occhi e che, per attaccarli, sarebbe stato costretto a percorrer di corsa un tratto in salita esponendosi ai loro colpi di pietra: buoni proiettili, provvidenzialmente sparsi al suolo, non mancavano. Astolfo si fece consegnare da Rimondino il coltello da caccia, rimpiangendo di aver donato il suo a uno zotico che forse li aveva perfino traditi; ed ebbe cura di farne brillar la lama al sole, come avvertimento per gli zotici suoi pari.

A questo punto accadde una cosa dinanzi alla quale Astolfo si sentì perduto; e che fu invece la rovina dei nemici. Un pastore si voltò alle sue spalle, dove il sentiero si perdeva in un’altra gola: ed emise un lungo fischio. Subito si udì un rapido scalpicciare seguito da un mugolio indistinto: e una muta di cinque o sei cani neri, enormi, le gole rosse e i denti aguzzi apparve accanto ai selvaggi che visibilmente li incitavano indicando le rocce. Astolfo uscì allo scoperto, il coltello ben proteso dinanzi a sé e la mano che lo reggeva ben ferma: avrebbe venduto cara la pelle. Non disse nulla a Rimondino: gli parve chiaro che il ragazzo era fuori di sé dal terrore; era diventato pallido, rantolava raggomitolato dietro la roccia e una spuma bianca gli usciva dalla bocca semiaperta; gli occhi rossi, iniettati di sangue, erano quasi rovesciati all’indietro; lo sguardo era vuoto, il respiro irregolare.

I cani si erano lanciati all’assalto; ma a pochi passi dalla roccia s’arrestarono di colpo; quasi tutti fecero un rapido mezzo giro su se stessi e si dettero a una pazza fuga che travolse i loro padroni; i quali, riavutisi dallo stupore, furono rapidi nel seguirli. Solo una delle bestie si era acquattata a terra e uggiolava tremando come un cucciolo. Il conte si riebbe di soprassalto dal suo torpore, lanciò un grido atterrito e cadde di nuovo sulla lettiga lasciando a metà un’invocazione alla Vergine. La belva furiosa, irsuta, tutta zanne, pelo e artigli balzata da dietro la roccia come dal nulla si avventò con un ringhio sul cane e gli lacerò la gola; quindi a lunghi balzi, ululando, continuò la sua corsa in linea retta finché stramazzò al suolo.

Rimondino non aveva visto nulla di quella scena. Sfinito dal freddo e dalla paura, còlto da brividi violenti come quelli della febbre che si prende nelle paludi, si era ricordato delle ultime parole di Gesù sulla croce. Era dunque lì, sbranati da quei cani rognosi, ammazzati a sassate da quei selvaggi, che dovevano morire? Per questo avevano lasciato la loro dolce Toscana, dietro a quei pazzi che gridavano «Dio lo vuole»? Questo voleva Iddio? O Signore, Signore, perché mi hai abbandonato? Gridò allora, alzando la gola e il mento verso il cielo nero: gridò a lungo, e gli parve di sentir un ululato che gli percoteva le orecchie. Si sentì perdere i sensi; e nello stesso tempo si sentì trascinato.

Si riebbe leccandosi via dalle labbra un umore caldo e salato, troppo viscoso per esser sudore o catarro. Anche le mani erano sporche di sangue fino all’avambraccio. Si toccò, cercando intorno a sé il bastone o la pietra che lo avevano ferito. Ma quel sangue non era suo. Doveva provenire da un altro corpo. Forse da quello di quel mucchio di pelo che giaceva a poche braccia da lui, il cane sbranato. Chiamò Astolfo che, dritto contro gli ultimi raggi del sole, aveva lasciato cadere a terra il coltello e sembrava scosso anche lui da un tremito intenso, come di quartana.

Lo scudiero si riebbe comunque presto. Riacquistò il controllo di sé, raccolse il coltello e si chinò su Rimondino ch’era ancora sdraiato per terra e si detergeva dal sangue usando zolle e foglie secche. «Inginocchiati, preghiamo», gli disse piano. Recitarono la preghiera di compieta, quella che invoca soccorso contro le potenze della notte, le cose oscure che strisciano nelle tenebre, il buio pieno d’occhi di lupi. Poi riguadagnarono la roccia dietro la quale il conte, steso nella lettiga, dormiva un sonno agitato. E s’addormentarono anch’essi, tutti e due, incuranti di quell’imprudenza che li lasciava in balìa di qualunque pericolo. Erano troppo stanchi per riflettere.

Dormirono del resto ben poco. Li risvegliò il fresco dell’aurora. Ripresero lenti il cammino, senza parlare, curando di scuotere il meno possibile la lettiga. Si sentivano entrambi la febbre addosso mentre il conte, invece, sembrava più fresco.

Giunsero a Marash verso mezzogiorno, acclamati da tutto l’accampamento che li piangeva ormai come perduti. Il duca di Normandia li ospitò nella sua tenda, il duca di Lorena con suo fratello Eustachio venne a incontrarli e si congratulò con loro, Tatikios inviò al conte Guido il suo medico Agatocle che bendò accuratamente i punti corrispondenti alle fratture, riscontrò esaminando il suo sputo sanguigno un’infezione polmonare dovuta al freddo e all’umido, rilevò un grave stato di agitazione generale nel paziente che parlava in modo sconnesso di belve e di demoni e gli prescrisse immobilità assoluta per almeno due settimane. I monaci armeni di Marash avrebbero pensato a curarlo: tra loro ve n’erano alcuni esperti in erbe salutari e non dimentichi dell’insegnamento del grande Galeno riguardo a bende e fasciature. Boemondo di Taranto, dal canto suo, commentò che a Salerno i medici lo avrebbero rimesso in piedi in una settimana; e che sua madre Alberada, e perfino quella maga puttana della sua matrigna Sikelgaita, dai medici salernitani avevano imparato rimedi da far invidia a tutti i ciarlatani greci. Forse non a quelli ebrei o a quelli saraceni; ai greci però sì. Agatocle sorrise e si strinse nelle spalle.

Rimondino seguiva Astolfo come un cagnolino che il padrone abbia rimproverato. Lo scudiero non parlava. Il ragazzo gli disse piano: «Forse dovrebbero esorcizzarmi». Astolfo gli carezzò i capelli ispidi e gli chiese: «Ti ricordi di Elena, la ragazza di Bari? Pensa a lei, lascia perdere il resto. Sono tutti sogni. Io e il conte ti dobbiamo la vita: di altro nessuno sa nulla, nessuno parlerà mai. Tu appartieni al Pratomagno: pensa a tornarci».

Quella notte Rimondino sognò a lungo i teneri occhi liquidi dei cuccioli di lupo che tante volte aveva liberato dalle tagliole e allattato nella sua capanna, trasgredendo i capitolari dell’imperatore Carlo e tradendo il suo dovere di luparo. Dormendo piangeva quietamente e non aveva più paura.