Stava accadendo qualcosa di strano e d’impensato. I pellegrini, da inermi pauperes o magari da energumeni violenti che agivano però in modo quasi irriflesso e sulla base d’un entusiasmo ispirato all’Apocalisse, com’era avvenuto quando avevano massacrato gli ebrei sul Reno e sul Danubio, andavano divenendo consapevoli fautori duri e puri di una peregrinatio che si era trasformata in vera e propria guerra; e in qualcosa di più del bellum iustum, la «guerra giusta» che, come i sapienti e i teologi ben sapevano, era stata vista da sant’Agostino come il risultato di un convergere di situazioni che consentivano al cristiano di prender le armi senza commetter peccato: in guerra difensiva, quand’erano minacciati arae e foci, vale a dire luoghi di culto e centri della vita intima e familiare – come dicevano insomma i latini, la patria –, o quando un principe legittimo l’avesse ordinato.

La peregrinatio avviata nel 1096, cui si era aggiunta la spedizione militare, l’iter dei principi e dei guerrieri, non corrispondeva a questa «guerra giusta»: anzi, in fondo non era nemmeno una guerra. Era qualcosa di meno e molto di più: era il Nuovo Esodo, che senza dubbio possedeva – non meno di quello guidato da Mosè – una dimensione guerriera; restava un pellegrinaggio, era un esercizio di penitenza e manteneva quindi il suo carattere purificatore e santificante, ma in esso gli atti di guerra stavano progressivamente divenendo primari. E qualcuno – qualche poeta perduto dietro alle gesta di Rolando delle chansons, qualche chierico infatuato d’eroismo – già azzardava una nuova, inusitata, paradossale, paurosa e fascinosa espressione: guerra santa.

Non sapendo come chiamare una spedizione così strana e imbarazzante, si era cominciato col trovare un modo per indicare tutti i partecipanti ad essa, aristocratici o no, guerrieri di professione o inermi quanto meno per iniziale vocazione, chierici o laici, uomini o donne: tutti quelli che, sull’esempio alverniate fornito da Urbano II, si erano appuntati sul petto o sulla spalla una croce ed erano quindi i segnati da essa, cruce signati, così come nell’Apocalisse si legge che l’Agnello segna del suo sigillo fronte e mano destra degli Eletti. E difatti qualcuno, le croci, se l’era anche impresse nella carne con la punta del coltello o col marchio a fuoco.

Quest’entusiasmo devoto, un po’ apocalittico e un po’ sanguinario, interessava moderatamente ai cavalieri: che facevano il loro mestiere, attenti al bottino da portar a casa o alle prospettive d’una signoria da guadagnarsi e naturalmente non dispiaciuti se stavolta il rubare e l’ammazzare, contrariamente a quel che fino ad allora era accaduto, potevano addirittura aiutarli a salire in cielo. E non interessava quasi niente ai principi e ai vescovi e sacerdoti, pensosi semmai di come inquadrare la piega che ormai gli avvenimenti avevano preso nei loro rapporti con papa Urbano e col basileus.

Intanto, all’insaputa dei pellegrini o con scandalo di quelli tra loro che se n’erano resi conto, i capi della spedizione e lo stesso vescovo Ademaro avevano imparato la lezione che alcuni di loro – quelli che avevano esperienza di campagne contro i mori in Spagna o contro i saraceni nel Mediterraneo – già sapevano: che cioè le guerre con i musulmani erano punteggiate da continue, complesse, sottili trattative diplomatiche. Ormai la geografia politica della Siria si andava facendo sempre più chiara agli occhi dei principi: i due fratelli emiri di Damasco e di Aleppo si odiavano tra loro, ma avevano entrambi una gran paura dell’atabeg di Mosul che cordialmente li disprezzava; gli arabi di Siria, d’altronde, in quanto musulmani sunniti fedeli al califfo di Baghdad, si vedevano obbligati a tenersi ben stretti all’alleanza con il braccio militare di questi, il sultano turco selgiuchide e i suoi funzionari: ma detestavano i turchi non meno di quanto detestassero gli arabi sciiti fedeli al califfo di Babilonia.

Dopo mesi d’inutile assedio e di non meno inutili trattative, qualcuno cominciava a pensare che sarebbe stato meglio toglier l’assedio da Antiochia e procedere a sud; ma altri obiettavano che sarebbe stato suicida lasciarsi alle spalle una tanto formidabile piazzaforte, ora che siriani e turchi erano allarmati per i successi della spedizione e avrebbero fatto di tutto per schiacciarla. Una soluzione avrebbe potuto esser quella di accordarsi con l’emiro Duqaq di Damasco chiedendogli di poter transitare attraverso i suoi territori per procedere a sud, assicurandolo di non aver alcuna mira di conquista che avrebbe potuto nuocergli e che rifornimenti e vettovaglie sarebbero stati pagati alle genti del posto, nessun villaggio incendiato, nessuna violenza perpetrata verso i suoi sudditi. Il damasceno, però, non se la sentiva di assumersi la responsabilità di dar via libera a quei barbari verso la Città Santa: poiché era chiaro che, se essi intendevano marciare verso sud, la mèta non poteva essere altra. E poi, perché consentire così facilmente che quella pericolosa gente sgombrasse presto i territori del suo fratello e rivale emiro di Aleppo? Meglio che vi permanessero: e che arrivasse anche l’atabeg di Mosul a combatterli in quell’area, per accrescerne il disagio.

A sud, la strada di Damasco era quindi preclusa e quella costiera troppo pericolosa: ma se si restava sotto Antiochia bisognava far presto a conquistarla, perché con la primavera inoltrata si venne a sapere che una possente armata agli ordini di Kerbogha era in marcia. L’atabeg aveva ricevuto rinforzi da tutta la Siria, dalla Mesopotamia, dalla Persia: grida di giubilo, bandiere sulle mura e fuochi di gioia in Antiochia dimostravano che anche gli assediati avevano saputo dell’arrivo dell’armata da est.

Si aspettava anche Baldovino, che dalla sua signoria di Edessa, ch’egli aveva eretto in contea – ma contea dipendente da chi?, ci si chiedeva – aveva fatto conoscere la sua intenzione di partecipare con una forte schiera all’assedio. Era giunto invece un modesto contingente di lorenesi volontari insieme con una buona squadra di cavalieri e di arcieri armeni: li guidava Baldovino di Le Bourg, cugino di Goffredo e di Baldovino, che mai si era lasciato sfuggire una parola contro il nuovo conte di Edessa ma che aveva chiesto al duca di Lorena di poter unirsi alle sue truppe in modo da continuare la spedizione: e anche lui aveva parlato di voler arrivare a Gerusalemme. Quello era l’ultimo scontro, gridavano i prophetae negli accampamenti dei pellegrini: l’Anticristo attendeva nella Città Santa, si sarebbe svolta in quel luogo la battaglia dell’Apocalisse, quindi il giudizio nella Valle di Giosafat e il cielo nuovo e la terra nuova promessi, il Regno di Dio, la Gerusalemme Celeste fondata su rocce gemmate che scende dal cielo adorna come una sposa e impone pace con giustizia.

Con Baldovino di Le Bourg era giunto il prete Fulcherio di Chartres, tenendo ben stretta la sua bisaccia di cuoio con gli stili, le penne d’oca, gli inchiostri, le tavole cerate, le pergamene, i rotoli di papiro e i quadernetti fittamente coperti di scrittura. Aveva raccontato agli amici di come Baldovino di Boulogne, partito da Marash dopo il fugace incontro con la contessa morente, avesse puntato verso Aintab e quindi verso Edessa, raccordandosi con i principi armeni della zona e soprattutto con Vasil e con Gabriele di Melitene, minacciato dai turchi danishmenditi. Guardandosi attorno, aveva scelto la sua preda: la bella Edessa, la città dell’apostolo Tommaso e della reliquia detta Mandylion, la più preziosa e venerata della Cristianità, il drappo di stoffa sul quale Gesù aveva impresso il Suo volto.

Il Mandylion non era più custodito a Edessa da oltre un secolo e mezzo: gli infedeli infestavano la regione, il che aveva suggerito agli imperatori di Bisanzio l’opportunità di portare la miracolosa reliquia a Costantinopoli, al sicuro. Edessa era tuttavia rimasta una specie di città santa, non soltanto per gli armeni. La governava un anziano principe-sacerdote, Presbyteros Theodoros per i greci, Abba Thoros per gli armeni. Baldovino era entrato in contatto con il vecchio, gli aveva promesso l’appoggio del suo braccio, si era fatto benedire e adottare come figlio: piegandosi perfino, e non senza qualche riluttanza, alla cerimonia della «nascita simbolica» dal seno, altrettanto simbolico, del padre adottivo, ch’era poi un ampio camicione indossato da Thoros e nel quale Baldovino era prima entrato per uscirne poi come il bimbo esce dal grembo della madre.

Ma la pietà filiale non era il pezzo forte di colui che già poco affetto aveva dimostrato per la moglie, per il fratello, per i suoi stessi figli. In un primo tempo, tutto parve andar per il meglio: alla testa di truppe armene ormai vittoriose dopo decenni di umiliazioni e di sconfitte, attorniato dal pugno di cavalieri lorenesi che facevano miracoli, il conte di Boulogne ripulì le strade tra Edessa e Melitene e si gettò sulla valle dell’Eufrate. Tra le guarnigioni turche, solo quella di Samosata gli aveva opposto una certa resistenza. Ma nel corso dell’inverno tra 1097 e 1098 tutto il territorio tra Armenia e grande Eufrate, con le fortezze di Ravendel e di Turbessel, era suo. Compensò gli amici e alleati armeni com’era suo costume: Bagrat, che lo aveva iniziato agli infidi segreti delle lotte per il potere tra i principi del suo popolo, fu torturato e imprigionato; riuscito a liberarsi, raggiunse il fratello Kogh Vasil, il «Brigante Basilio», che anche nei confronti di Baldovino dovette adattarsi a coprire il ruolo attribuitogli da sempre, quello del marginale braccato da tutti.

Nonostante i ripetuti smacchi nei confronti dei turchi di Samosata, che non cedevano, Baldovino era ormai l’eroe della libertà armena: o, quanto meno, agli armeni pareva fosse così. Gli fu quindi facile raccogliere l’eredità del vecchio imbelle Thoros, detronizzato da una rivolta di palazzo e fatto quindi a pezzi dalla folla, che non gli perdonava di aderire alla Chiesa greca anziché a quella nazionale armena e di ritenersi un fedele funzionario del basileus: con Baldovino, si era certi di non correre pericoli del genere.

Non sapremo mai se davvero la rivolta degli edessani contro Thoros fu spontanea, o se non fu invece proprio una congiura o un colpo di mano del lorenese a provocarla: ai primi di marzo, Baldovino si trovava comunque padrone della città e non manifestava alcuna intenzione di cederla neppur formalmente all’imperatore bizantino, al quale essa sarebbe stata giuridicamente soggetta. Perché si era dichiarato «conte» di Edessa? Perché voleva sostenere, un po’ grossolanamente, che i diritti pubblici d’origine regia nel nome dei quali governava Boulogne valevano anche in Armenia? Perché, formalmente non dimentico del suo giuramento di fedeltà al basileus, proponeva di governare in suo nome mantenendo tuttavia il suo vecchio titolo? Perché ormai pretendeva che la sua qualifica comitale fosse una specie di bandiera, il suo vessillo di nobiltà e di legittimità nell’esercizio del potere: e che in realtà quel che importava era il governare, nel nome esclusivo di se stesso e grazie alla forza di cui disponeva?

Un altro suo colpo da maestro fu l’accordo con l’emiro turco di Samosata, Balduk, un personaggio non meno valoroso e non meno disinvolto di lui. Visto che ormai la difesa d’una piazzaforte musulmana circondata da cristiani era insostenibile, Balduk vendette Samosata a Baldovino per diecimila bisanti e venne a risiedere in Edessa, dove servì il nuovo signore quale mercenario. Nessuno gli chiese di convertirsi al cristianesimo; né egli manifestò alcuno scrupolo nel combattere i suoi correligionari. Quel che naturalmente da secoli accadeva in Spagna, si ripeteva ora sulle montagne al confine tra Anatolia e Siria.

Qualche guerriero dal cuore più tenero o dai più sensibili scrupoli, come Baldovino di Le Bourg, si era chiesto a questo punto che senso avesse la croce cucita ancora sulla sua spalla e che cosa facessero i suoi compagni d’armi inguaiati sulla via del meridione. Ma ben più numerosi erano invece i cavalieri in cerca d’avventura che, affascinati dalla fama che il successo di Baldovino aveva creato attorno alla sua figura e dall’alone di leggenda che lo circondava, si staccavano dall’esercito immobilizzato sotto Antiochia per raggiungerlo. Il conte, intanto, aveva sostituito la bionda, soave, un po’ noiosa – e tutto sommato, pensava lui, una puttana della specie peggiore e più insidiosa, di quelle che ti mettono le corna spirituali... – con una forte e prospera armena dalle lunghe chiome corvine, il naso delicatamente incurvato, gli occhi profondi, un po’ di leggera peluria sul labbro, petto forte e ampi fianchi che promettevano messe d’eredi. La propensione alle congiure degli armeni trovò in Baldovino un sovrano che non scherzava: il suo stesso suocero ne fece le spese e dovette ritirarsi, secondo il costume del luogo, sui monti più inaccessibili. Fulcherio manteneva intatta l’ammirazione per il suo inflessibile e spregiudicato signore, ma sembrava molto felice di aver seguito il più mite sire di Le Bourg e di trovarsi ora di nuovo col grosso dell’armata, davanti a un bel fuoco a parlar con gli amici di quell’Armenia misteriosa dai grandi picchi innevati, dalle belle chiese di pietra dorata e dai signori per metà preti e per metà briganti.

Tutto, ormai, sembrava intanto giocarsi sul filo del tempo. Si erano inviati messaggeri al basileus, ancor impegnato nella campagna di riconquista della Lidia e della Frigia, per scongiurarlo di marciare su Antiochia: ma sembrava difficile che l’autocrate si sarebbe fatto indurre a inoltrarsi fin al di là del Tauro. Tra l’altro, gli giungevano continue cattive notizie sull’armata franca, minata dalle discordie dei capi, dall’indisciplina dei pellegrini, dall’insipienza tattica e dall’inadeguatezza tecnologica sul piano degli assedi; e il califfo di Babilonia gli aveva dal canto suo fatto sapere quel che egli già sapeva dalle sue spie: che a parere dell’esperto e intelligente Jafar Abd an-Nasr quegli straccioni non avrebbero mai preso Antiochia né sarebbero mai giunti in Terrasanta.

Se Kerbogha fosse avanzato da Mosul a marce forzate puntando dritto su Antiochia, come saggiamente gli emiri siriani gli consigliavano di fare, avrebbe schiacciato come una blatta l’intera compagine franca tra i suoi uomini e le mura cittadine. Ma egli commise a quel punto un imperdonabile errore: stimando di non potersi lasciar sul fianco nord una piazzaforte nemica come Edessa, perse quasi tutto il mese di maggio in un inutile assedio. Se avesse proceduto oltre, Baldovino si sarebbe guardato dall’infastidirlo: non ne aveva le forze, e forse nemmeno gli dispiaceva che i suoi vecchi compagni d’armi fossero messi in difficoltà. Edessa, invece, era praticamente imprendibile.

Svanita la prospettiva dell’arrivo del basileus, i franchi si resero conto che solo se fossero riusciti a conquistar Antiochia prima dell’arrivo di Kerbogha avrebbero avuto una speranza di salvezza.

A questo punto Boemondo cominciò, con cautela, a scoprire il suo gioco. Nell’assemblea dei capi propose che la città, una volta conquistata, venisse non già restituita al basileus bensì aggiudicata a chi avesse fornito il contributo decisivo alla sua presa. Il lealismo dei principi nei confronti dell’imperatore cui avevano giurato fedeltà, ma soprattutto il sospetto che l’Altavilla facesse una proposta del genere perché aveva in serbo la carta decisiva e volesse impadronirsi della perla di Siria, fecero sì che la risposta fosse un indignato rifiuto.

Ma i giorni passavano: dal basileus non giungeva alcun segnale e il pericolo che i turchi abbandonassero l’inutile assedio di Edessa si faceva di giorno in giorno più concreto. Alla fine arrivò la paventata notizia: l’atabeg di Mosul ne aveva abbastanza di perder tempo sotto le mura della città armena e stava ripiegando le tende per riprender la marcia alla volta di Antiochia. Allora, in consiglio si parlò chiaro: se Boemondo aveva un modo per far cadere la città lo usasse, e Antiochia sarebbe stata sua. Solo Raimondo, il solo che non avesse giurato fedeltà al basileus, protestò contro il tradimento obiettivo che in questo modo si perpetrava ai danni dello spirito del pellegrinaggio armato e degli interessi di quel sovrano ai quali tutti, con l’eccezione di lui stesso e di Tancredi, avevano giurato fedeltà: e per giunta da parte di colui che avrebbe voluto esser investito della carica di Gran Domestico d’Oriente.

Dal canto suo, Boemondo aveva da tempo gettato le sue reti. Allacciando amicizie negli ambienti siriani e armeni delle città attraversate, era riuscito a mettersi infine in contatto con un personaggio enigmatico: pare si chiamasse Firuz, e le cronache lo descrivono in modo contraddittorio. Per alcuni era armeno, per altri turco; taluni lo presentano come un cristiano rinnegato e passato all’Islam, altri al contrario come un musulmano da tempo attratto dalla fede in Gesù Cristo che non aveva mai osato palesare le sue simpatie per paura di perdere la vita; ma tutti lasciano intendere ch’era bisognoso di denaro e pronto a vendersi. Se era davvero un cristiano rinnegato ma intimamente desideroso di tornare alla fede natia, va aggiunto che nessuno come lui incarnava meglio l’antico proverbio secondo il quale chi ha tradito una volta tornerà di nuovo e sempre a farlo. Traditori non si diventa: si nasce.

Firuz aveva ricevuto qualche sgarbo dall’emiro antiocheno, che lo aveva sorpreso con le mani nel sacco intento ad alcune piccole ruberie: egli era, difatti, un suo funzionario. Desideroso di vendicarsi – pare che chi viene punito con ragione sia di solito più vendicativo di chi lo è a torto –, si teneva in contatto con i cristiani della città: gli era stata affidata la custodia d’una torre, detta «delle due sorelle», che era pronto a consegnare ai franchi.

Ma il tempo stringeva davvero, perché Kerbogha stava avanzando: Firuz cominciò a inviare a Boemondo messaggi ambigui; mirava forse a tenerlo sulla corda, per alzare il prezzo; o magari, nella misura in cui l’atabeg si approssimava, stimava sempre più opportuno restare un fedele musulmano.

Il 2 giugno accadde poi qualcosa d’una gravità inaudita. Il saggio conte Stefano di Blois non ce la fece più: rotti gli indugi, fece quel che tramava e bramava di fare da parecchi mesi. Con un discreto seguito di guerrieri e alcuni pellegrini prese la strada di Alessandretta, dove sapeva che avrebbe trovato buone navi pronte a portarlo a Costantinopoli e, di lì, in Francia. Si allontanò in gran fretta, temendo che le avanguardie delle truppe di Kerbogha gli tagliassero la via della ritirata verso il mare.

Fu un bel giorno, quello, per Boemondo: con Stefano se ne andava, coperto di vergogna, uno dei capi che costantemente e coerentemente avevano insistito affinché i diritti dell’imperatore di Bisanzio fossero rispettati. Quasi nello stesso tempo, Firuz rompeva gli indugi e faceva sapere al normanno che il colpo di mano sulla città si sarebbe potuto organizzare per quella stessa notte. Finalmente, con Kerbogha alle porte, aveva deciso da che parte stare.

Si organizzò una finta, per ingannare i difensori. A giorno fatto un buon distaccamento di cavalieri partì, lance adorne di pennoncelli, scudi al collo e insegne al vento, come per andar incontro alla gente di Mosul e intercettarla sfidandola a battaglia campale. Nella notte, un modesto gruppo di armati guidati da Boemondo stesso si avvicinò invece alla torre custodita da Firuz, che sorgeva nel tratto occidentale delle mura, di fronte al fortilizio presidiato da Tancredi. Una corda fu gettata dall’alto: vi si legò una scala, sulla quale rapidamente si arrampicarono una sessantina di guerrieri. Firuz aspettava Boemondo, che però non fece l’imprudenza di salire subito: non intendeva correre il rischio di un agguato.

Invece, non accadde nulla di ciò. La sessantina di armati che varcarono la merlatura della torre si sparsero lungo il camminamento di ronda, occuparono silenziosamente le due torri vicine dove – d’accordo con gli uomini di Firuz – sgozzarono le guardie e da lì eseguirono il segnale pattuito: il fuoco d’una torcia agitato dalla sommità della prima torre occupata. A quel punto Boemondo ascese le mura sulle scale approntate già da tempo, insieme con un paio di centinaia di altri armati; essi discesero dall’altra parte, in città, e si precipitarono ad aprire le postierle prossime alla torre «delle due sorelle» e le due grandi porte cittadine di sud-ovest, quella «degli Olivi» (Bab az-Zaitun, in arabo) e quella «di san Giorgio».

Intanto, su ordine di Boemondo, il suo amico Arnoldo di Rohes cappellano del duca di Normandia aveva invitato i principi a un inatteso consiglio notturno, annunziando da parte del suo signore un’importante novità. Li aveva rapidamente ragguagliati dell’azione in corso, appena ricevuto conferma che essa si era avviata. I capi ebbero appena il tempo di allertare i loro uomini e dirigersi affannosamente verso le due porte. L’azione si svolse in maniera concitata: i tempi erano stati mal calcolati e pochi furono gli armati che penetrarono tempestivamente tra i battenti delle porte, appena spalancate dall’interno. Ma quei pochi furono sufficienti per spargere il terrore tra gli abitanti addormentati irrompendo per le strade cittadine con alte grida, gettando fiaccole accese nelle case e passando a fil di spada tutti quelli che incontravano. La città era immersa nel sonno: la guarnigione, tranquilla perché tutti sapevano che Kerbogha stava per giungere, aveva allentato la sorveglianza. Molti cristiani orientali, abitanti nella città, erano stati avvertiti e vegliavano: appena udirono il clamore e scorsero le prime lingue di fuoco levarsi dai quartieri di sud-ovest scesero per strada, segnarono le loro porte e le loro case con grandi croci tinte di rosso – allo stesso modo i figli d’Israele si erano protetti in Egitto, la notte del passaggio dell’Angelo Sterminatore – e si unirono ai franchi. Ciò non valse tuttavia a evitare che molti cristiani siriani e armeni restassero uccisi, insieme con i musulmani e gli ebrei, perché gli occidentali erano incapaci di distinguere bene, specie di notte, i segni che indicavano i differenti gruppi religiosi. Ai loro occhi, tutti parevano infedeli.

L’emiro Yaghi-Siyan, svegliato di soprassalto, perse la testa: incurante di tutto, semisvestito, accompagnato solo da un paio di fidi eunuchi, balzò a cavallo e guadagnò la porta che dava sul ponte fortificato varcandola e sparendo sulle colline circostanti. La sua fuga finì miseramente: sbalzato da cavallo, abbandonato dalla scorta, vagò per le gole immerse nella notte finché, riconosciuto da alcuni contadini armeni, fu ucciso. La sua testa fu portata a Boemondo, che sapeva bene come Alessandro avesse pianto su quella di Dario, e Cesare – imitandolo – su quella di Pompeo. Ma non aveva tempo per simili atti di magnanimità: ringraziò gli assassini con un lauto compenso e ordinò che il macabro trofeo fosse issato sul più alto minareto della città, accanto alla sua bandiera. Il figlio dell’emiro, Shams ad-Dawlah, che aveva fatto in tempo a riparare con un buon manipolo dei suoi sulla cittadella in cima al Silpio, lo scorse e capì: ma era un giovane dal sangue freddo e si rese conto che, se avesse tenuto con coraggio la sua posizione, i franchi, padroni della città, si sarebbero trovati a mal partito entro poche ore. Kerbogha li avrebbe difatti cinti d’assedio.

Le cose non andarono subito proprio come il valoroso principe aveva pensato. La cittadella, alta sul monte, formidabile per armamento (contava anche mangani, catapulte, fuoco greco), ben fornita di viveri, provvista d’una cisterna vasta come un lago, era imprendibile: ma l’atabeg di Mosul stava tardando. Fremente di rabbia e d’impotenza, piangendo lacrime che gli rigavano il volto livido, Shams ad-Dawlah assisté dalle mura della sua fortezza al macello che si consumava poche decine di metri sotto di lui senza ch’egli potesse far nulla per impedirlo. I turchi e gli arabi musulmani presenti in città furono tutti uccisi; i cadaveri restarono due giorni a imputridire al sole della tarda primavera – un sole capace di cuocere e far verminare in poche ore tutta quella misera carnaccia, tra nugoli di mosche – mentre le case (anche quelle dei cristiani) venivano saccheggiate. La città che serrava nello splendido abbraccio delle sue ampie mura prati, giardini, addirittura irrigui boschetti, divenne in un paio di giorni un carnaio fetido e orrendo: le acque, inquinate dai corpi degli uccisi e dalle carogne di molte bestie massacrate anch’esse, erano divenute imbevibili; ruderi anneriti e macerie fumanti si drizzavano in cumuli immondi là dove, poco prima, si ergevano palazzi e moschee. I vincitori banchettavano spensierati distruggendo le riserve di cibo rinvenute e persuasi che Antiochia scoppiasse di granai e di magazzini: ma avevano sopravvalutato le risorse di una città che sopportava l’assedio da oltre sette mesi e avevano sottovalutato invece Shams ad-Dawlah, che rinchiudendosi nella cittadella aveva ordinato ai suoi di trasportar con sé più cibo possibile e dare alle fiamme le scorte che fossero stati costretti ad abbandonare.

Si perse un giorno intero in gozzoviglie e in litigi per la spartizione delle prede. Boemondo fremeva: considerava tutto quel che vedeva attorno a lui come già suo e non sopportava che quei barbari stessero facendo strame della sua splendida città. I provenzali perseveravano, invece, nell’uccidere, nel distruggere, nell’incendiare: sembrava che il loro signore, nella consapevolezza che Antiochia non avrebbe potuto non esser consegnata all’avversario, facesse di tutto per lasciargli nelle mani solo uno scheletro bruciacchiato.

Il vescovo Ademaro, alfine, s’impose una volta di più con energia: basta violenza! Bisognava ripulire strade e piazze, dar degna sepoltura ai cadaveri oppure bruciarli come si era fatto a Nicea per scongiurar l’insorgere d’una qualche pestilenza, rassicurare i cristiani orientali che – visto il modo con cui i loro «liberatori» li trattavano – erano a loro volta fuggiti.

Si provvide anche a ristabilire la Chiesa orientale. Il patriarca, che l’emiro aveva incarcerato perché non si fidava di lui, fu reintegrato; la cattedrale di San Pietro venne ripulita e restituita al culto. Ademaro assicurò il clero di rito orientale che niente sarebbe stato fatto per imporre il rito latino.

Kerbogha giunse ai ponti sull’Oronte che conducevano in città solo un paio di giorni dopo, il 5 giugno; ne impiegò altri due circa a organizzarsi e a convincere Shams ad-Dawlah (che obbedì malvolentieri) a lasciar il comando della cittadella a un suo luogotenente.

L’atabeg era molto di malumore. La resistenza di Edessa gli bruciava; era preoccupato per l’arrivo della calura, che non avrebbe facilitato l’assedio; sua madre – una cristiana nestoriana che godeva fama di maga e d’incantatrice – aveva soffiato per lui su un bacile pieno d’acqua di rose, prima ch’egli partisse, e aveva letto cose che avevano riempito di altre rughe il suo vecchio viso vizzo come una mela acida: e gli aveva raccomandato una cosa strana. Guardati da un’antica lancia, gli aveva detto. Erano ridotti così male, i franchi, da combatter con dei ferrivecchi?

Kerbogha era a disagio e aveva fretta. Inviò a Baghdad, al sultano, una falsa notizia ch’egli contava di trasformar in vera nel giro di pochi giorni: scrisse che Antiochia era presa e i franchi sgominati, squartati, venduti schiavi. Sfidò così il destino, poiché si dice che i trionfi annunziati prima del tempo siano causa di sventura.

Il primo, tumultuoso attacco, fu dai turchi sferrato partendo dall’alto, cioè dalla cittadella. Era temibile, ma fin troppo prevedibile: i franchi avevano febbrilmente cinto la fortezza con una muraglia di fortuna. Era tragico per loro dover difendere le mura cittadine e al tempo stesso impedire al nemico di penetrare nel nucleo urbano dalla cittadella: erano costretti a coprire il ruolo degli assedianti e degli assediati al tempo stesso. Ma Kerbogha comprese che lo scendere dal Silpio in città gli sarebbe stato impossibile: e si limitò a disporre che, da lì, il nucleo urbano venisse incessantemente bombardato. In cambio, aveva forze fresche sufficienti a circondare del tutto le mura: una sortita dei franchi, tesa a infrangere il blocco, venne rintuzzata con perdite molto dure da entrambe le parti. E cominciarono – era il 10 giugno – tre settimane orribili, in una carestia che faceva di nuovo morir di fame, con penuria perfino d’acqua perché pozzi e cisterne erano stati inquinati dalle lordure dell’assedio o avvelenati dai turchi (quanto meno, così si diceva in giro...). Quella notte era accaduto un altro fatto gravissimo: calandosi con delle funi (per questo furono detti, con dileggio, «funamboli») alcuni cavalieri e parecchi tra guerrieri e pellegrini erano fuggiti dalla città riparando nel porto di San Simeone dove c’erano ancora le navi di Guinemero. Tra loro v’era perfino un aristocratico normanno di alto lignaggio, Guglielmo di Grand-Mesnil, cognato di Boemondo perché in Puglia, prima di partire, ne aveva sposato la sorella Mabilla.

Vergognosi della loro codardia i fuggiaschi, per salvar la faccia, avevano raccontato che Antiochia era caduta nottetempo: una notizia stranamente coerente con il messaggio, altrettanto falso, che l’atabeg aveva spedito al suo signore di Baghdad. Con alcune navi poste a disposizione di quelli che i marinai cristiani credettero gli unici superstiti di una tragedia, essi giunsero a Tarso dove, eternamente indeciso, il conte di Blois aveva saputo della conquista di Antiochia e si stava chiedendo se non fosse il caso di tornare al suo posto. Ma i nuovi arrivati lo persuasero senza difficoltà che tutto era finito: e insieme, con onta ma con un certo qual senso di turpe sollievo, tutti procedettero via mare verso Costantinopoli. Sbarcati ad Attalia per riposarsi e rifornirsi, furono informati però che Alessio Comneno, in marcia attraverso l’Anatolia centro-occidentale, era già pervenuto a Filomelio. Il conte di Blois e il sire di Grand-Mesnil cavalcarono ventre a terra per raggiungerlo e prevenirlo: era inutile procedere oltre, Antiochia era stata presa ed era subito caduta, l’orgogliosa spedizione franca annientata. Era frattanto giunto presso l’imperatore anche Pietro di Aulps, anche lui transfuga dalla piazzaforte di Comana, e aveva aggiunto alla loro la sua fallace testimonianza: i turchi si stavano dirigendo a ovest, alla volta dell’esercito imperiale; erano in forze ingenti; badasse l’imperatore grato al Cristo e pari in dignità agli apostoli di non tentare Iddio, di non ripetere un quarto di secolo dopo il disastro di Manzikert. Inutilmente i mercenari normanni che Alessio aveva con sé (pare che tra loro vi fosse perfino un fratellastro di Boemondo) implorarono il loro signore di correre almeno in soccorso di eventuali superstiti. La posta era troppo alta, il rischio troppo forte. Il grande esercito imperiale si ritirò lentamente verso settentrione, mentre le spie al servizio del basileus che si trovavano alla corte di Baghdad inviavano messaggi che confermavano la triste notizia: la trionfale menzogna di Kerbogha veniva a confermare, da molte centinaia di miglia di distanza, la misera bugia dei codardi fuggiaschi.

Quella sera, l’atabeg si era concesso un festino ricco di kumis, il latte fermentato di cammella che dà l’ebbrezza senza infrangere il divieto sancito dal Profeta. Ebbe un sonno agitato: si svegliò madido di sudore, oppresso da un’emicrania lancinante e da brividi alterni di calore e di ghiaccio. Raggrinzita sul bordo del ricco tappeto che faceva da giaciglio all’emiro una vecchia vestita d’un velo nero, i fianchi stretti dalla cintura azzurra che i cristiani evangelizzati dall’apostolo Tommaso erano obbligati a cingere in terra d’Islam come segno di riconoscimento, lo fissava con gelidi occhi verdi. «Bissi, bissi», sussurrò piano Kerbogha. Era così che fin da piccolo chiamava la madre quand’essa giungeva al suo capezzale per raccontargli delle fiabe o per confortarlo se era una notte di tempesta. È così che gli arabi chiamano i gatti. Fin da bambino, l’emiro amava e temeva quegli occhi di smeraldo freddo che splendevano nel buio. «Che mi porti in regalo, gattino?», aveva chiesto con voce tremante: era una loro vecchia cantilena d’infanzia. «Ti porto, bambino mio, nella destra un frutto d’albicocca perché tu festeggi con me la vittoria del Messia», gli aveva risposto la madre: «e nella sinistra questo velo di Mosul trapunto d’oro perché tu possa asciugarti le lacrime»; «Va’ via, maga infedele! Via, indovina pagana! Tu non puoi stare qui! Tu sei nel nostro palazzo di Mosul, preghi il profeta Issa e la grande Mariam ed essi non ti ascoltano perché non vuoi riconoscere il Profeta! Sparisci, jinn nazareno, sharmuda, va’ via! Aizu bi’llah minà Shaitan ar-rajib!»52

Il suo fido servo, svegliato da quelle grida, irruppe sconvolto nella tenda. «Un brutto sogno, signore? Vuoi dell’acqua d’aranci?»; «Ibrahim, amico mio, che Allah – sia sempre benedetto il Suo nome – ci perdoni! Perderemo Antiochia, perderemo Gerusalemme. Dio vuol provare i suoi fedeli. La gente della croce profanerà il Santuario della Roccia di Abramo. Mia madre era qui: me l’ha detto.»

«Aizu bi’llah...», recitò sottovoce Ibrahim.