Ora Pietro Bartolomeo era diventato, per alcuni, un po’ come Pietro d’Amiens ai suoi bei giorni: non aveva il seguito delle mulierculae, ma c’erano molti che gli strappavano le vesti di dosso per conservarle come reliquie, che gli porgevano i bambini da baciare, che lo seguivano portando croci e rami di palma.

Non tutti, però. Queste manifestazioni devote gli erano tributate quasi esclusivamente tra i provenzali: che venivano a causa di ciò derisi dagli altri pellegrini. E non mancava – specie tra i normanni – chi lo assaliva col lancio di sassi o d’immondizie ogni volta che appariva. Rischiò addirittura la pelle, quando – un paio di giorni dopo la morte di Ademaro – annunziò che sant’Andrea gli era apparso di nuovo, stavolta in compagnia del vescovo di Le Puy che aveva aspetto squallido, vesti stracciate e bruciacchiate, corpo cosparso di ustioni: perché, spiegò, gli era capitato di dover passare qualche ora all’Inferno a causa della sua incredulità nei confronti della reliquia della Santa Lancia. Solo le preghiere di alcuni devoti e certe elemosine fatte per il culto della reliquia lo avevano tirato fuori di là.

Era un altro tratto, questo, della finta ignoranza dell’impostore. Il furbo Pietro doveva sapere che proprio in quegli anni tra i dotti, e specie a Cluny, si stava discutendo sull’esistenza di una speciale area dell’Aldilà, detta Locus Purgatorius, dimorando un certo tempo nella quale le anime si purificavano di colpe relativamente poco gravi, tali comunque da impedir loro di venir ammesse alla Visione Beatifica. Dal Purgatorius, dicevano alcuni, si poteva uscir presto grazie alle preghiere e alle elemosine che i viventi offrivano in suffragio delle anime.

Secondo Fulcherio, e soprattutto secondo il dotto cappellano normanno Arnoldo di Rohes, questa calunniosa invenzione del provenzale a proposito del vescovo Ademaro era una prova in più – oltre al fatto ch’egli conoscesse bene la liturgia e sapesse leggere – che egli doveva appartenere alla miserabile categoria degli spretati o dei chierici eretici che nascondevano la tonsura, si mischiavano al popolo e vi spargevano le loro detestabili menzogne. Da allora, Pietro si rese conto di doversi preoccupare per la sua stessa vita: e i provenzali lo fornirono d’una scorta armata che lo accompagnava dappertutto.

Sant’Andrea, comunque, era un buon diplomatico. Difatti si affrettò a comparire di nuovo a Pietro, precisando ch’era soprattutto grazie alle preghiere di Boemondo che Ademaro era stato liberato dall’Inferno; e che si doveva al più presto chiudere la questione antiochena anche a costo di attribuirne la signoria al normanno, se questi si fosse dimostrato un uomo giusto; l’importante era fondarvi un patriarcato di rito latino, dopo di che i crociati avrebbero dovuto riprendere la marcia su Gerusalemme, che non distava più di una decina di giorni di cammino.

Pareva quasi che l’apostolo avesse ascoltato in qualche modo i consigli del prete Arnoldo: difatti non solo aveva preso a patteggiare per Boemondo, ma addirittura stava proponendo una soluzione che sarebbe forse stata gradita al pontefice romano ma che avrebbe del tutto alienato dai pellegrini la residua benevolenza di Alessio Comneno: l’introduzione della liturgia e della gerarchia ecclesiastica latine in una città ch’era sempre rimasta fedele alla Chiesa greca. A meno che egli non avesse deciso di dar voce a un accordo tra chierici normanni fautori della signoria del principe di Taranto su Antiochia e della latinizzazione della Chiesa locale e chierici provenzali disposti ormai a tali soluzioni ma che stavano puntando su un risultato più alto: far del conte di Tolosa – ora che Ademaro non era più – il capo indiscusso anche morale e perfino, sotto un certo profilo, spirituale della crociata inducendolo ad abbracciare con fervore la causa dell’immediata marcia su Gerusalemme e guadagnandogli così il favore delle folle dei pellegrini.

Raimondo, in un primo tempo, non colse la sostanza di questo patto fra sant’Andrea, i chierici normanni e quelli provenzali: gli bruciava cedere a Boemondo riguardo ad Antiochia; era devoto alla memoria di Ademaro e non gli era piaciuto affatto che la s’infangasse con una bugia o con la divulgazione di quello che – egli ne era certo – non poteva esser che un sogno d’origine diabolica; infine era sinceramente convinto dell’autenticità della Santa Lancia e del fatto ch’era stato grazie ad essa, e non all’abilità strategica del principe italo-normanno, se Kerbogha era stato battuto in campo aperto. Per questo non apprezzava che un qualche sospetto potesse sfiorare l’umile provenzale che sant’Andrea e il Cristo stesso avevano scelto per la rivelazione.

Quanto all’umore dei principi e dei cavalieri, la piega assunta dalla situazione era tutto sommato loro abbastanza gradita. Gli indugi e le polemiche riguardo il possesso di Antiochia avevano stancato tutti; e, per quanto la memoria di Ademaro fosse quasi universalmente amata e rispettata, un suo ridimensionamento non era politicamente inopportuno nella misura in cui gettava l’ombra del dubbio quanto meno su uno dei costanti aspetti delle sue scelte, la concordia d’intenti con il conte di Tolosa. In questo modo, però, si rimandava ma anche si aggravava un futuro attrito tra guerrieri e chierici da una parte, pellegrini dall’altra: quello riguardante l’autenticità della reliquia della Lancia, tema quasi indifferente per i primi – a eccezione di Raimondo –, pressoché inaccettabile per i secondi e inviolabile invece per gli ultimi.

Intanto, l’epidemia continuava a infierire e la gente del posto sosteneva che se ne sarebbe andata solo insieme con i calori estivi: il che significava non prima dell’inizio di ottobre. I capi pensarono bene di proteggersi allontanandosi dalla città, e d’approfittare dell’occasione per migliorare o rafforzare certe loro magari secondarie posizioni. Boemondo passò di nuovo l’Amano – in estate era facile, quasi piacevole – e si mostrò in Cilicia, dove le guarnigioni che suo nipote Tancredi aveva lasciato gli resero volentieri omaggio; Goffredo si recò in Armenia, dove il fratello Baldovino gli aveva ceduto a titolo di riconciliazione le città di Turbessel e di Ravendel; Roberto di Normandia si diresse verso sud occupando il porto che i greci chiamavano Laodicea e gli infedeli Lattakieh o al-Ladhiqiya. Quella città aveva avuto una storia particolarmente tormentata: fino al 1084 vi erano rimasti i bizantini, poi l’aveva occupata l’emiro arabo di Shaizar; durante l’autunno vi era sbarcato, impadronendosene, Guinemero di Boulogne, cacciato a sua volta poco dopo dai corsari del sassone Edgardo Aetheling che, non potendo però mantenerla sotto il suo controllo, si era rivolto ai franchi che occupavano Antiochia. Roberto di Normandia si era incaricato di difendere Laodicea, ribadendo che l’avrebbe tenuta nel nome del basileus: ma il suo breve governo fu talmente rapace da provocare un’insurrezione. Il duca dovette sgombrare rapidamente, mentre gli abitanti di Laodicea si rivolgevano al governatore bizantino di Cipro per ottenere una guarnigione che li difendesse contro gli infedeli e contro i franchi.

L’epidemia cessò un po’ prima del previsto, cioè all’inizio di settembre. I capi tornarono ad Antiochia, da dove redassero una lunga lettera diretta a Urbano II: gli narravano della conquista di Antiochia e della morte del legato che li aveva lasciati privi d’una sicura autorità spirituale, gli ricordavano che la città siriaca era stata la prima diocesi del Principe degli Apostoli del quale egli era il successore e lo esortavano a venirvi personalmente per riconsacrare con un gesto solenne la Chiesa antiochena e procedere poi, insieme con loro, verso la Terrasanta.

Quella lettera era un documento ambiguo. Sapevano già, i principi franchi che l’avevano dettata, che il basileus aveva ormai rinunziato ad avanzare dall’Anatolia verso la Siria, contrariamente a quel che essi stessi, attraverso l’ambasciata di Ugo di Vermandois, lo avevano supplicato di fare? E perché mai, se non lo sapevano, avevano commesso nei suoi confronti l’atto gravissimo dell’esautoramento del patriarca greco? E, se lo sapevano, era al fine di giungere a uno scontro definitivo tra Roma e Bisanzio (opposto ai voleri di Urbano e alla politica di Ademaro) che invitavano il papa in Antiochia? Oppure, consci che questi aveva ben altro da fare in Occidente e intendeva appunto evitare contrasti col basileus, avevano compiuto il gesto formale d’un invito a puro titolo demagogico, pensando ai pellegrini e, magari, ai principi d’Europa che – ormai se ne era certi – avevano già rivolto la loro attenzione alle faccende siriane? O miravano semplicemente a legittimare le loro azioni ottenendo dal papa l’invio di un nuovo legato pontificio?

Intanto, un certo malumore cominciava a serpeggiare tra i pellegrini. L’epidemia era finita, il tempo andava raffrescandosi e, con l’autunno, si profilava una nuova carestia. Perché quell’ostinarsi, da parte dei principi, in una politica di razzie di vettovaglie sempre più lontano, verso l’Armenia e la Jezireh – una politica che ormai si perseguiva fin da quasi un anno, da quando si era arrivati cioè sotto Antiochia per assediarla; e che aveva sempre dato magri risultati –, invece di prender con sicurezza la strada di Gerusalemme costeggiando il litorale ricco di belle città musulmane che sarebbero cadute come pere mature; tanto più che le flottiglie sassoni, normanne e genovesi incrociavano in continuazione lungo il litorale e si diceva in giro che il potente arcivescovo di Pisa, Daiberto, stava preparando una spedizione navale di proporzioni mai viste nella Cristianità latina?

La risposta appariva semplice. L’area compresa tra Armenia e Siria, quella grande fascia tra l’Antitauro, la costa mediterranea tra Alessandretta e Laodicea e i corsi dell’Oronte e dell’Eufrate, era una specie di «terra di nessuno»: il basileus non era in grado di rientrar in suo controllo nonostante se ne ritenesse ancora giuridicamente signore; i principi-briganti armeni erano troppo occupati a farsi reciproca guerra per poter pensare ad altro; il più potente signore musulmano di tutta l’area, l’atabeg di Mosul, dopo il disastro antiocheno non aveva più nessuna voglia di occuparsi di quei pazzi di franchi e si diceva sicuro (gliel’aveva confermato, a quel che si diceva, una maga) che avrebbero preso Gerusalemme; quanto all’unico che aveva qualche disperata velleità di resistenza, l’emiro di Aleppo, per neutralizzarlo sarebbe bastato allearsi col suo fratello-rivale, quello di Damasco. E ormai era chiaro non solo che i musulmani non avevano alcuno scrupolo ad accordarsi con i cristiani – lo provava il disinvolto passaggio di Ahmed, il governatore della cittadella di Antiochia, da Kerbogha a Boemondo –, ma ch’era vero anche il reciproco. Il che non scandalizzava per nulla né i principi né i cavalieri – specialmente quelli che avevano al loro attivo precedenti guerre con i musulmani: dalla Spagna alla Sicilia avevano visto ben altro –, ma indignava moltissimo i poveri cristiani, il fedele popolo di Dio convinto che i pagani d’Asia andassero trattati in blocco alla stessa maniera degli ebrei del Reno e del Danubio di un paio di anni prima.

Se il pio popolo dei pellegrini avesse conosciuto tutti i particolari dei giochi di potere che allora si stavano tessendo, ne sarebbe rimasto ancor più sconvolto. Principi e cavalieri amavano indugiare in quella regione dove ritagliarsi città e vallate, insomma grasse fette di potere, appariva facile: e i loro disegni passavano attraverso il filo della spada non meno che la coppa di veleno o l’alcova. I milites la spalla dei quali era segnata dalla croce non retrocedevano dinanzi a nessuna forma di spergiuro, di tradimento, d’intrigo: del resto, gli emiri saraceni non erano da meno.

Lo si vide bene a proposito di Azaz, una città a metà strada fra Antiochia e l’armena Turbessel il dominio della quale era stato da poco assunto da Goffredo di Lorena. L’emiro di Azaz, Umar, avrebbe dovuto dipendere da Ridwan di Aleppo: ma ambiva condurre una politica propria, destreggiandosi tra gli armeni e il rivale di Ridwan, cioè il solito Duqaq di Damasco. Era però accaduto che un fedele sceicco di Umar, durante una delle tante razzie che franchi e musulmani s’infliggevano a vicenda, avesse catturato la dama d’un cavaliere lorenese. Goffredo, sire dell’offeso, aveva fatto il possibile per riscattarla: ma era divenuto presto ben chiaro – nonostante lo stesso emiro di Azaz fosse entrato nella vicenda interponendo i suoi buoni uffici – non solo che il rapitore della dama, invaghitosene, non intendeva restituirla, ma che neppure la signora aveva granché voglia di tornare al casto e legittimo affetto del marito.

Il lorenese formalmente privato dell’affetto della consorte dalla violenza degli infedeli, ma nella sostanza abbandonato e tradito – e che aveva perfettamente compreso come stessero le cose –, non sopravvisse al dolore e all’onta: cercò la morte onorevole in battaglia e, come suole accadere a quanti davvero la cercano, la incontrò. Ora la dama, divenuta vedova, poteva riposar un po’ più tranquilla fra le braccia del suo sceicco. Ma Conone di Montaigu, amico fraterno dello sciagurato cavaliere (e, del resto, buon conoscente della fedifraga signora), aveva giurato di vendicarlo. Fu Goffredo, sempre al corrente di quel che accadeva nella trustis dei suoi fidi, a liberarlo dal giuramento e ad affidargli anzi una delicata missione ch’egli avrebbe dovuto compiere ad Azaz.

Fu così che un bel mattino Conone disse a un pugno di suoi intimi sui quali contava ciecamente, e tra cui c’era lo scudiero Astolfo: «Muoviamoci: si va ad Azaz a conferire con la puttana»; «L’ammazzi?», si era informato con tranquilla noncuranza il cinico Tagliaferro, che già contava di tirar fuori dagli amori tra la dama e lo sceicco siriano una bella canzone di gesta; «Macché», aveva risposto il lorenese stringendosi nelle larghe spalle magre: «la persuado a consigliare all’emiro di allearsi con noi». Tagliaferro rinunziò alla sua canzone di gesta (ma continuò a lungo a cullar l’idea di scriverne una che seguisse fedelmente la verità storica, salvo un ben più morale e affascinante epilogo: la morte dei due amanti traditori per mano del fratello di sangue del tradito) e la bella signora convinse, tramite il suo uomo, l’emiro Umar a diventar vassallo di Goffredo di Lorena sire di Turbessel. Baldovino mandò da Edessa qualche rinforzo ad Azaz per scoraggiare eventuali iniziative dell’emiro di Aleppo, mentre quello di Damasco inviava a Edessa, a Turbessel, ad Antiochia e ad Azaz ambascerie con le sue congratulazioni e preziosi doni per tutti. A Conone toccarono alcune pezze di prezioso sciamito color vino e un giovane ghepardo, che Astolfo dovette amorosamente allattare per alcune settimane alle mammelle d’una povera recalcitrante capretta e che divenne, pochi mesi dopo, uno splendido e dolcissimo compagno di caccia alla gazzella. Lo chiamarono Umar, in omaggio all’emiro di Azaz.

Raimondo di Tolosa avrebbe invece voluto procedere in maniera più dura: proclamando che gli arabi sono più infidi dei greci, avanzò la pretesa che il figlio dell’emiro Umar gli fosse consegnato quale ostaggio a garanzia di fedeltà all’alleanza. Il signore di Azaz rispose con buona grazia, mandò al conte di Tolosa altri bei doni ma lo informò che malauguratamente egli aveva già inviato il giovane ostaggio presso il sire cristiano di Edessa, dove certamente egli avrebbe appreso le regole della cavalleria non meno bene che nell’accampamento provenzale. Il ragazzo infatti, ospite di Baldovino, ebbe modo di apprendere magnificamente il tiro con la balestra, l’arte d’intrattenersi piacevolmente con le ancelle armene e, nonostante il divieto coranico, il segreto della dolcezza dei vini prodotti da quegli splendidi vignaioli dal naso adunco e dagli occhi profondi.

In ottobre sant’Andrea decise di averne davvero abbastanza dei giochi di potere dei signori franchi e inviò a Pietro Bartolomeo un’altra delle sue adirate visioni: partissero subito verso sud, marciassero immediatamente su Gerusalemme – Dio lo vuole! – o si preparassero a sostenere l’ira divina. L’apostolo prometteva piogge, carestie, febbri e terremoti; Pietro d’Amiens, del tutto guadagnato alla causa del nuovo profeta provenzale, sembrava tornato quello dei bei giorni feroci della primavera del 1096; gli accampamenti dei pellegrini erano tutti percorsi da notizie di visioni e di prodigi. Ma il conte di Tolosa, su cui si appuntavano le speranze del popolo di Dio, appariva sempre più contrariato e ombroso. Sembrava che tutti, anche i cavalieri di modesto rango, fossero capaci di conquistar città e regioni: mentre lui, il più potente signore tra le Alpi, la Loira e i Pirenei, restava regolarmente a bocca asciutta. Poteva davvero consolarsi ritenendosi l’eletto del Signore, il più pio e leale tra i principi che avevano preso la croce? Non era un alibi, questa sua dichiarazione di disinteresse? Non era un pretesto dietro il quale nascondere – agli altri, ma ohimè soprattutto a se stesso – la sua debolezza e la sua incapacità? Questo era il sospetto, anzi la certezza, che egli leggeva ogni giorno negli occhi alteri della contessa Elvira: che taceva, lo sguardo chino in preghiera o dritto dinanzi a sé, ma che tacitamente lo disprezzava. Da anni vivevano sotto il vincolo della castità coniugale, ed erano del resto entrambi troppo anziani per poter considerar dignitoso concedersi qualche sia pur misurato trasporto: ma quel ch’era chiaro era che ormai la dama catalana non aveva più nulla da dirgli. I suoi pensieri volavano, gelidi, al di sopra della testa del consorte che cominciava inesorabilmente a incanutire.

In pieno ottobre, il conte di Tolosa partì quindi per la solita scorreria in cerca di rifornimenti: secondo il consueto pretesto. Si addentrò risalendo a monte l’alveo dell’Oronte: occupò Rugia e quindi Albara i cui abitanti musulmani, che pur gli si erano arresi, furono tutti massacrati. Una crudeltà stupida e inutile, un modo per impoverire quelle stesse terre che bramava di governare e dunque di sfruttare. I cristiani siriani delle vicinanze ripopolarono comunque il centro urbano, la moschea divenne la cattedrale e un prete narbonese, Pietro, fu dal conte nominato vescovo: il che implicò la creazione per volontà signorile di una diocesi, che nella struttura della Chiesa greca non esisteva. Il conte non tardò a comprendere che la nuova diocesi sarebbe apparsa come un ulteriore affronto al basileus: chiese quindi al patriarca greco di Antiochia di riconoscerla e di consacrare il nuovo vescovo. Ma l’evento andava comunque nella direzione auspicata fermamente dai pellegrini, dai loro prophetae e, nell’esercito, dai normanni: una direzione sulla quale – ancora una volta – l’ispirato (o furbastro) Pietro Bartolomeo e l’intrigante Arnoldo di Rohes si trovavano d’accordo. Bisognava creare una Chiesa latina di Siria, con un alto clero scelto tra i chierici che avevano accompagnato i principi nella spedizione.

Albara era un piccolo centro: ma costituiva la base sulla quale il conte di Tolosa giocava – di fronte all’esercito, alla folla dei pellegrini e alla contessa Elvira – il suo onore e il suo prestigio. Intanto, però, si avvicinava la data di Ognissanti, fissata per un grande parlamento antiocheno dei capi e per decidere definitivamente la sorte della metropoli di Siria.

I principi giunsero all’appuntamento alla spicciolata, un po’ svogliati, con dipinta sui volti una palese contrarietà: il popolo dei pellegrini li tallonava, assediava la chiesa di San Pietro – dove, dinanzi al venerato sepolcro di Ademaro, si teneva il parlamento –, li chiamava per nome, sollecitava donativi, incitava a partire. Nel gran rumore, partivano anche alla volta dei signori improperi e sassate.

Dopo le celebrazioni liturgiche e i preliminari conditi da qualche scusa per ulteriori ritardi, l’assemblea cominciò. Era il 5 novembre. Ci s’impantanò subito nell’eterna, inutile discussione relativa ai diritti dell’imperatore su Antiochia: e fu chiaro che, tra le due inconciliabili posizioni di Raimondo e di Boemondo, la vera decisione sarebbe dovuta andare ai saggi e moderati Goffredo di Lorena e Roberto di Fiandra; i quali però, come spesso accade ai saggi e ai moderati, erano anche degli indecisi timorosi di dispiacere all’uno o all’altro dei contendenti. A un certo punto, la situazione giunse alla rottura: per un istante sembrò che tra provenzali e normanni si ponesse mano alle armi.

Furono stavolta i Poveri di Dio a risolver davvero la situazione. Furono i reietti e ambigui personaggi come Pietro d’Amiens e Pietro Bartolomeo a imporsi con forza ai principi: a far valere al loro cospetto un coraggio, una coerenza, una dignità che sonarono ai grandi della terra come una dura lezione. I messi dei pellegrini si presentarono armati d’una fredda indignazione all’assemblea dei capi e annunziarono le loro intenzioni col tono di chi ha deciso sul serio. Restassero pure a godersi Antiochia, i signori; ma avrebbero occupato un cumulo di rovine fumanti, perché il popolo di Dio aveva stabilito di partire al più presto alla volta di Gerusalemme dopo aver distrutto le mura e incendiato la città osceno oggetto di contesa, la meretrice siriaca che pretendeva d’ostacolare la Provvidenza divina e che, come l’occhio che dà scandalo, doveva essere strappata dall’orbita e gettata lontano dal corpo vivente del Cristo.

Tra tutti i capi, il più direttamente ferito da quel discorso fu Raimondo. I suoi consiglieri ecclesiastici, i chierici provenzali – a partire dal suo cappellano e custode della Santa Lancia, Raimondo di Aguilers –, lo consigliarono di gettar a mare qualunque indugio: egli avrebbe potuto essere il capo profetizzato e profetico dell’armata dei veri poveri in marcia verso la città dove si sarebbe realizzato il Regno dei Cieli. Non perdesse questo diritto di primogenitura al cospetto di Dio in cambio del piatto di lenticchie d’una miserabile porzione di Antiochia: tralasciasse di far la parte di Esaù, lui che poteva esser Mosè. Lasciasse ai morti il seppellire i loro morti, ai normanni di Francia avidi e crudeli il seppellire in Antiochia l’astuto normanno d’Italia ch’era già morto allo spirito. Dio gli aveva concesso uno scettro senza pari, la Santa Lancia: la brandisse con forza, l’elevasse al cielo affinché tutti la vedessero e i pagani ne tremassero, e avanti, alla guida dei veri poveri, verso Gerusalemme!

Era quasi vecchio, il conte di Tolosa. Eppure – come tante volte gli aveva ripetuto Elvira mordicchiandogli un orecchio, al tempo in cui anche per loro fiorivano le rose – non sarebbe mai riuscito a crescere: sarebbe solo, forse, riuscito a invecchiare. E ora la neve gli era caduta sui capelli, il volto gli si era riempito di rughe: eppure egli restava il cavaliere di maggio delle poesie della sua terra, con un corpo quasi da vegliardo e l’anima d’oro e d’azzurro, da trovatore. Ora che le rose avevano perduto i loro petali e gli steli giacevano disseccati per terra, il vecchio ragazzo non poteva permettersi di mostrar a tutti i suoi sogni. Quindi non si alzò dal suo scranno, non dichiarò che se non volevano dargli Antiochia egli avrebbe regalato loro fino al suo ultimo denaro di Tours, fino al suo ultimo mantello, perfino la sua spada di cavaliere dal cinturone guarnito d’argento: e sarebbe partito a piedi scalzi, alla testa dei poveri, verso Gerusalemme dove lo aspettava il suo dolce Gesù che per gli uomini si era spogliato della Sua infinita potenza e chiedeva a chi Lo amava d’imitar-Lo. Antiochia era polvere del deserto con qualche granello d’oro mischiato, come la sabbia dei freddi fiumi d’Anatolia che avevano attraversato: se la tenesse il pitocco normanno. Lui, il sire di Tolosa la bella, non si degnava di raccoglier le briciole di cui vivono i cuccioli: lui pretendeva la preda vera, la Sposa agghindata, colei che sale dal Libano come una colonna di fumo d’incenso. Il Regno dei Cieli, quello che solo i violenti sanno rapire.

Non disse nulla di ciò, il sire di Tolosa. Ben conosceva lo sguardo di commiserazione con cui l’altera contessa catalana avrebbe accolto la sua ennesima prova di magnanimità. Si alzò invece grave e pacato, chiese perdono ai fratelli d’armi della sua ostinazione e annunziò di aver da parte sua elargito il perdono a tutti; accettò che Boemondo tenesse i tre quarti della città e la cittadella, riservandosi solo il controllo di un ponte fortificato e di quello ch’era stato il palazzo dell’emiro. Aggiunse che, dinanzi al silenzio dell’imperatore i diritti del quale egli aveva fedelmente difeso pur senza averli giurati, non restava che ascoltare la voce del popolo ch’era forse quella di Dio: e dirigersi verso Gerusalemme. I principi convennero allora che, tra Antiochia e la Città Santa, era inutile fermarsi ulteriormente a far nuove conquiste sulla base del principio tattico che vietava di lasciarsi nemici forti alle spalle. In realtà si sapeva che né il sultano selgiuchide di Baghdad, né il califfo fatimide del Cairo, avrebbero più intrapreso vere campagne per ostacolarli lungo la costa libano-palestinese. Con gli altri – gli emiri di Damasco, di Shaizar, di Homs – si poteva venir agevolmente a patti o concedersi il lusso di trascurarli. La prova, ultima e suprema, era Gerusalemme. Restava semmai da superare un ostacolo: la temibile piazzaforte di Maarat an-Numan sulla destra del corso dell’Oronte, ai margini del deserto che si stendeva tra le montagne Nosairi e il grande Eufrate. La città era sita lungo la strada interna diretta a sud, tra Albara – possesso di Raimondo – e Tell Mannas: andava conquistata perché altrimenti sarebbe restata una spina nel fianco, incuneata tra possessi cristiani.

Si decise quindi, per meglio distribuire le forze e ridurre l’evenienza d’imbattersi di nuovo nella fame – l’inverno era alle porte – di dividersi in due schiere: anche i pellegrini avrebbero ripartito i loro gruppi in modo da equilibrare il peso numerico dei singoli contingenti. Da Antiochia due strade correvano verso sud, alla volta della Città Santa: esse erano divise dall’alto massiccio dei Nosairi, propaggine settentrionale del Libano dal quale lo separava una grande, bella, fertile vallata detta in arabo, per la sua forma, Beqaah, «il Bacile». A ovest dei Nosairi, la via costiera partiva da Laodicea e toccava le belle e prospere Jabala, Banyas e Tortosa; a est, costeggiando il deserto e incrociando due volte l’Oronte, la strada già nota a Raimondo per le sue incursioni attraversava Rugia, Albara, passava sotto le mura di quella Maarat che bisognava assoggettare e quindi scendeva tra Shaizar e Hama verso Masyaf, Rafaniya e il formidabile Hosn al-Akrad.53 Le due strade si riunivano infine ad Arqa nella Beqaah, qualche miglio a nord-est di Tripoli.

Il 23 novembre Raimondo di Tolosa abbandonò Antiochia alla volta di Maarat, dove giunse quattro giorni più tardi sottoponendola immediatamente a un assalto – fallito – e quindi a un assedio al quale si unì qualche giorno più tardi anche Boemondo. Intanto Goffredo di Lorena e Roberto di Fiandra intraprendevano la più comoda e breve strada costiera: l’appuntamento era alla città di Arqa, dove si contava di passare tutti insieme le feste di Natale. Si era rinunziato a Betlemme, ancora un po’ troppo lontana.