Non andava bene, l’assedio di Maarat. Ci sarebbe stato bisogno di macchine, di ordigni, ma il legname disponibile era scarso e poco adatto. Finalmente, l’11 dicembre, grazie all’appoggio di una grossa torre d’assalto costruita dai provenzali, si riuscì a «minare» una parte della cortina muraria (cioè a scavare una galleria al di sotto delle sue fondamenta). Un pezzo di fortificazione crollò e dalla breccia aperta cominciarono a penetrare i guerrieri provenzali e i pellegrini che ormai erano diventati, col tempo, fanti abbastanza esperti. Durante la notte l’afflusso dei franchi nel centro urbano cessò e si aprirono molte contrattazioni: Boemondo intralciava ancora una volta la strada a Raimondo e prometteva salvi la vita e gli averi di quanti si fossero messi sotto la sua protezione, con la chiara intenzione di appropriarsi della città. Fu a causa dell’evidente discordia tra i capi che al mattino il saccheggio, e con esso il massacro, ripresero. Un cronista normanno al seguito di Boemondo, Radulfo di Caen, testimonia che in quell’occasione si sarebbero verificati nuovi episodi di antropofagia. I franchi avrebbero fatto bollire tagliati a pezzi dei musulmani adulti, mentre i bambini – più teneri – sarebbero stati arrostiti sugli spiedi. Ma non è chiaro se Radulfo sia stato o no testimone oculare di quest’orrore; o se non sia caduto vittima di una voce propagandistica creata da qualche capo dei pellegrini, com’era altre volte successo, per spargere attorno ai franchi una fama di ferocia destinata a spezzare il morale del nemico. Comunque, certo è che in quell’inverno tra 1098 e 1099 la carestia era di nuovo dura: e le riserve saccheggiate a Maarat non dovettero bastare a sfamare i vincitori.

Maarat fu trattata iniquamente. Boemondo aveva promesso salva la vita a quanti si fossero posti sotto la sua protezione: ma, per la sua slealtà o forse per l’invidia di Raimondo, il quale voleva dimostrare quanto poco autorevole – o poco affidabile – fosse il rivale, proprio quanti si erano raccolti in un edificio indicato dall’Altavilla per godere della sua protezione vi furono scannati dal primo all’ultimo. Non si saprà mai se gli autori del massacro fossero normanni, o provenzali, o entrambi: sta di fatto che i vincitori si accapigliarono tra loro in mezzo ai cadaveri ancora caldi e fumanti delle vittime. Fuma, d’inverno, il sangue appena versato.

Intanto i principi cominciavano a individuare un nuovo problema. Se nelle città prevalentemente cristiane era abbastanza facile riorganizzare una qualche vita civica e un minimo d’ordine politico e sociale all’indomani della conquista e magari perfino del saccheggio, lo stesso non accadeva nelle città musulmane. Se si fosse continuato a massacrare indiscriminatamente la popolazione (salvo quelli che venivano venduti in schiavitù o che riuscivano a fuggire) si sarebbero ereditati non dei centri urbani, ma dei deserti disseminati di cadaveri e di rovine. Luoghi fin ad allora famosi per bellezza, ordine, prosperità, gioia di vivere, sarebbero diventati nidi per avvoltoi e tane per volpi. E a che cosa mai sarebbe servito estendere nuove signorie su tanta desolazione?

I milites unius scuti, i povres chevaliers, i semplici fanti, i pellegrini ormai induriti e corrotti da un viaggio intrapreso nel nome di Gesù e compiuto nel sudore e nel sangue, non condividevano preoccupazioni di questo genere: bastava saccheggiare, e tra loro erano troppi quelli che ormai si erano abituati al turpe gusto del sangue. Poi, l’unico problema era conservare al sicuro e guardare a vista l’involto, la sacca, il cofano che conservava i proventi dell’avventura: i beni materiali, di cui Urbano a Clermont aveva promesso gran messe assieme a quelli spirituali. Involti, sacche, cofani che passavano rapidi da una mano all’altra grazie a transazioni feroci, a colpi di dado ma, più spesso, di coltello.

Ai Poveri di Dio non interessava la sopravvivenza dei pagani né la prosperità di terre nelle quali non intendevano dimorare. Ma molti principi e cavalieri d’un certo rango, che ormai mancavano da casa da quasi tre anni – anche quelli che non si erano tagliati i ponti dietro le spalle, come avevano invece fatto in un modo o nell’altro Raimondo o Boemondo –, si andavano ripetendo che in fondo a Gerusalemme si va per morire e per esservi sepolti nella valle di Giosafat, come accadeva ai primi cristiani: a che pro tornare in un’Europa nella quale forse non c’era più posto per loro, tra gente ormai diventata estranea che nella migliore delle ipotesi li avrebbe festeggiati un paio di giorni – se avessero portato del bottino – per poi dimenticarli? Perché mai prender di nuovo posto fra amici che si erano abituati alla loro assenza, fra parenti che magari si erano già divisi i loro averi, tra figli che li avrebbero a malapena riconosciuti o che erano nati dopo la loro partenza (e talvolta magari un po’ troppi mesi dopo...), fra consorti avvezze ormai al letto vuoto o che da tempo si erano sapute consolare?

Bisognava dunque impedire che i pellegrini continuassero a desolare il paese; bisognava salvaguardare la sopravvivenza e la ricchezza del domani, un domani nel quale i franchi avrebbero certo potuto governare, ma qualcuno – gli infedeli – avrebbe pur dovuto continuar a lavorare. La Spagna insegnava, si ripetevano i più esperti e ragionevoli: le genti assoggettate, se sottoposte a un trattamento umano, si rivelavano buoni sudditi, solleciti pagatori di tributi, ottimi produttori di ricchezza. Quei saraceni erano sovente anche abilissimi artigiani, astuti e prosperi mercanti, giardinieri e agricoltori avvezzi a curar fiori delicati e preziosi alberi da frutto; non erano certo come i rustici villani che popolavano le brughiere e i boschi d’Europa, buoni solo al duro lavoro della zolla. Semmai, somigliavano alle genti allegre e vivaci delle città della costa, agli scaltri veneziani, agli spicci genovesi, ai ruvidi ma intelligenti pisani; e soprattutto a quelli del meridione d’Italia, agli amalfitani coltivatori di agrumi e di rose, ai baresi che già parevano un po’ greci, un po’ pagani essi stessi (oh, Bari!, sospirava Rimondino rimasto fedele alla sua Elena per quanto sapesse di non poter sperare d’essere ricambiato).

Avanti, allora! Nata come guerra al servizio del basileus e come pellegrinaggio sotto scorta, la strana spedizione partita nel 1096 da un Occidente che ormai sembrava a tutti ancor più remoto di quanto in realtà non fosse – e remoto nel tempo non meno che nello spazio – si stava trasformando in qualcos’altro. I pellegrini scannavano e arraffavano perché per loro questa era l’ultima delle guerre, lo scontro finale con le armate della Bestia prima del Regno dei Cieli: nelle loro prospettive c’erano soltanto la morte in battaglia e il Paradiso oppure il ritorno alle misere dimore che avevano lasciato troppi mesi prima, però magari con un involto il contenuto del quale avrebbe consentito l’affrancamento dal signore, l’acquisto del campo del vicino, la compera di qualche bue o di alcuni asini, una vita meno dura. Ma i buoni cavalieri pensavano in altri termini al loro futuro. Li avevano pur visti, i loro colleghi lorenesi e normanni, i fideles di Baldovino e di Tancredi, già abbigliati e profumati all’orientale e accasati con spose siriane o armene ben provviste di dote! Quello era un domani appetibile: una signoria in Oriente, bravi contadini, pastori e artigiani saraceni come sudditi, case bianche dove godersi le sere all’ombra di cortili al centro dei quali cantavano le fontane e splendevano gli alberi carichi di arance dorate. E, se i loro nuovi homines avessero voluto restar fedeli alla loro legge, che cosa mai poteva importare? Non erano forse anch’essi dei credenti nel Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe? Ormai si era imparato abbastanza sui saraceni: la guerra è una scuola dura, ma consente rapidi progressi nell’apprendimento. Altro che adoratori di Maometto, di Apollo e del demonio! Questi conoscevano i profeti meglio di tanti monaci, veneravano Gesù per quanto non riuscissero ad ammettere la Resurrezione e non capissero né la Trinità, né la faccenda dell’Eucarestia (ma, quelle, erano tutte cose che nemmeno i cristiani capivano granché...). Questi erano teneramente devoti a Maria Vergine, una cosa che già il vescovo Ademaro aveva notato con grande commozione. E, a differenza dei buoni cristiani, si sarebbero fatti svenare piuttosto che proferire una bestemmia. E allora, che male c’era a consentir loro, una volta conquistategli le città, di continuar a onorare Iddio secondo la loro fede? Raimondo Pilet, presa Tell-Mannas, ne aveva posto gli abitanti saraceni dinanzi al dilemma: accettare il battesimo o venir decapitati. Ma anche i preti dicevano che aveva agito male: la fede non s’impone, essa germoglia se e quando lo vuole Iddio dal cuore toccato dalla Grazia.

Intanto, però, le polemiche sull’assetto di ogni nuovo centro conquistato ritardavano la marcia, il che rischiava davvero di comprometterne l’esito: ormai tutti – anche il papa a Roma, anche il basileus, anche i califfi di Baghdad e del Cairo – sapevano che la mèta dei pellegrini armati era Gerusalemme. Ogni giorno perduto rafforzava le difese che gli infedeli stavano febbrilmente approntando attorno alla Città Santa. Ci si doveva quindi affrettare.

Una volta di più, il conte di Tolosa fu attratto dalla prospettiva di mettersi a capo del popolo di Dio: una volta di più, i chierici provenzali guidati dal suo cappellano e i pauperes devoti al «profeta» Pietro Bartolomeo e alla Santa Lancia si sparsero negli accampamenti ripetendo che il Signore aveva indicato Raimondo come l’eletto, così come aveva indicato David a Samuele. Il conte troncò alfine gli indugi: chiese che Maarat fosse posta sotto l’autorità del vescovo di Albara, in modo che la prima diocesi franca in terra di Siria cominciasse a configurarsi con una qualche consistenza; indi cedette a Boemondo tutti i residui diritti che ancor si era riservato di rivendicare su Antiochia e – mentre il rivale rientrava nella metropoli, ormai con sicurezza sua – annunziò la sua partenza verso sud.

Ma era, al suo solito, lacerato tra le tentazioni di diventar sul serio il capo annunziato dalle profezie popolari e il livore contro Boemondo che gl’impediva di abbandonare la contesa per l’egemonia tra i capi. Aveva ancora un punto a suo favore rispetto ai concorrenti: continuava a essere il più ricco in termini di denaro liquido, e molti giuravano che ormai il basileus gliene procurasse con larghezza in premio della tenacia con cui egli aveva difeso i diritti imperiali sulla Siria.

Il conte uscì pertanto da Maarat, verso il Natale: ma si diresse a Rugia, verso nord, sulla via di Antiochia, dove aveva invitato i capi franchi a un convegno che avrebbe dovuto essere risolutivo. Lì, chiese loro di passare come mercenari al suo servizio per continuar l’impresa liberi finalmente da assilli economici. Offriva per questo somme proporzionate alle residue rispettive forze militari: pare una decina di soldi di Tours o di Provins per ogni cavaliere da assoldare, che non era davvero poco.54 Ne propose diecimila ai duchi di Lorena e di Normandia, seimila al conte di Fiandra e cinquemila a Tancredi che tuttavia sembra non disponesse d’un seguito tale da giustificare l’offerta. Ma Raimondo voleva esser particolarmente generoso col giovane Altavilla in modo da strapparlo definitivamente all’influenza dello zio che, dalla sua Antiochia, non si era degnato di rispondere all’appello di Rugia (altri sostengono però che non vi era stato invitato) e al quale naturalmente non fu offerta alcuna somma. In conclusione, il conte voleva dunque – a quel che pare – che circa tremila armati pesanti, con il loro rispettivo seguito, entrassero al suo servizio; e si dichiarava disposto (ne aveva davvero la possibilità?) a sborsare per questo 21.000 soldi di Tours o di Provins, vale a dire oltre 5.000 libbre d’argento in moneta. Una somma ingente.55

Ma i principi non si lasciarono tentare. Forse argomentarono che, se il conte di Tolosa offriva tanto denaro – e ne aveva tanto da spendere –, ciò significava che i suoi amici bizantini (i quali evidentemente gli stavano facendo credito: o dei quali egli era un semplice intermediario) lo avevano assicurato che la conquista della Siria e della Palestina era un ben più ricco e grasso affare. E, soprattutto, non avevano alcuna intenzione di accettare il principio che Raimondo fosse in qualche modo il loro signore: per quanto in puri termini economici, gli unici che l’ingaggio autorizzasse a concepire.

Intanto, la vita a Maarat era sempre più dura. C’è da credere a quanti sostengono che, dopo esser tornati alle scorze d’albero, ai topi e ai piccoli rettili, i pellegrini si fossero dati di nuovo alla carne umana, vincendo il ribrezzo o magari provandone piacere? Se ciò davvero accadde, ormai non era più questione di propaganda. Anzi, neppure i musulmani riuscivano a reagire con orrore dinanzi a tanta disperazione, a tanto tenace ostinazione: cominciavano a nutrire per quei barbari l’ammirazione che di solito i valorosi riservano ai valorosi; quello strano, invincibile senso d’amore che talvolta i nemici provano per i nemici durante le guerre, che può accompagnarsi anche a sentimenti di segno opposto e che s’intende solo se e quando lo si prova.

Fu quindi così che, poco dopo un Natale di freddo e di stenti, i miserabili straccioni accampati dentro e intorno a Maarat fecero sapere al gran signore, che tanto spesso dava segno di amarli e di condividere la loro passione per il miraggio della Città Santa, che la misura era ormai colma. Loro, i poveri, avrebbero provveduto a richiamare ancora una volta i potenti della terra alla volontà divina. Avrebbero distrutto le mura di Maarat e si sarebbero incamminati da soli verso sud.

Raimondo scelse di nuovo gli ultimi, gli eletti. Il 13 gennaio del 1099, dopo le cerimonie dell’Ottava dell’Epifania, uscì da Maarat. Era vestito del ruvido sacco dei pellegrini, si appoggiava al bordone come il suo venerato san Giacomo di Compostella, recava sulla spalla destra la croce rossa di lana grossolanamente cucita e incedeva a piedi, scalzo nel fango d’inverno. Dietro di lui, la città rosseggiava di fiamme. Guai a colui che, posta la mano all’aratro, si volge indietro: lasciate che i morti seppelliscano i morti. Dio con noi.

Seguivano Raimondo il sire di Tell-Mannas, felice di riprendere le armi; il vescovo di Albara, che rimpiangeva in cuor suo la bella città ridotta in cenere; i provenzali della guarnigione di Antiochia, ben decisi a tradurre in un futuro splendido trionfo lo smacco subìto nei confronti dello spregiudicato Boemondo. Ma i normanni che disapprovavano il cinico modo di comportarsi dell’Altavilla – ed erano sia il duca Roberto, sia il generoso Tancredi – si affrettarono a seguire il conte di Tolosa per sottolineare il loro dissenso nei confronti di chiunque ponesse i propri interessi al di sopra della volontà divina. I pellegrini seguivano festanti, lodando Gesù e la nuova gloriosa insegna, la Santa Lancia.

Goffredo di Lorena e Roberto di Fiandra, che dietro al gesto di Raimondo scorgevano un curioso misto di fanatismo e di demagogia, indugiarono a muoversi da Antiochia e fecero sapere che in ogni caso, per scender verso meridione, avrebbero dal canto loro percorso la stretta, pericolosa ma in fondo più comoda – e climaticamente più dolce – strada della costa, che attraverso Jabala e Tortosa li avrebbe condotti ad Arqa. Quello sembrava il punto migliore per ritrovarsi e intraprendere insieme, sia pur distinti per comodità in scaglioni, il cammino verso Gerusalemme. Si diceva che da Arqa alla Città Santa non ci fossero più di duecento miglia. Un paio di settimane di cammino.

La colonna normanno-provenzale procedette abbastanza rapidamente sulla via a oriente dei Nosairi: l’emiro di Shaizar si offrì di fornir a un buon prezzo (praticamente in regalo) vettovaglie all’esercito, a patto che le sue terre fossero attraversate senza violenze né distruzioni. Il che avvenne, anche se non si poterono evitare – soprattutto da parte dei pellegrini – i furti e in qualche caso le rapine di parecchie vacche, molte fra pecore e capre e tutte le galline e le anatre ch’ebbero la disgrazia d’imbattersi negli eletti del Signore. L’unica incertezza proveniva dal comportamento dell’emiro di Damasco, che controllava l’intera area tra il deserto e la costa libanese: avrebbe davvero consentito ai franchi di transitar indisturbati? Per il resto, gli emiri e le comunità arabe sembravano animati da sentimenti del tutto pacifici: quel che chiedevano era di non venir attaccati e di non vedersi bruciar le case e le riserve alimentari. Anche il signore più illustre e colto di tutta la zona, l’emiro Jalal di Tripoli, inviò doni e ambasciatori con l’invito ai principi di visitarlo nella sua bella città sul mare, appoggiata ai contrafforti settentrionali del Libano. Raimondo stimò opportuno, in quel caso, non acceder subito alle pacifiche profferte. Jalal era un personaggio influente in tutto il litorale: era il vero padrone del Libano, a nord del principato damasceno; ma godeva fama di esser diplomatico e uomo di cultura di maggior valore che non guerriero e stratega. Era bene non allarmarlo troppo – per impedire che invocasse aiuto dai correligionari –, ma fargli intendere che non c’era da scherzare.

Per questo Raimondo inviò un consistente corpo di spedizione ad assalire la seconda città dell’emirato tripolino, Tortosa, che subito si arrese insieme con un altro centro un po’ più settentrionale, Marqiye; e intanto pose l’assedio a quello ch’era la chiave della beqaah e il nodo stradale di tutto il sistema litoraneo, Arqa. Era la metà di febbraio.

La notizia di questi successi mise in sospetto e in allarme i principi rimasti ad Antiochia e lo stesso Boemondo. Che cosa stava combinando il conte di Tolosa? Si andava forse costruendo una grande signoria siro-libanese, che avrebbe avuto come vassalli gli emiri di Tripoli, di Shaizar e di Hama? D’altronde, Raimondo scriveva da Arqa ai colleghi invitandoli a raggiungerlo. Boemondo non si lasciò convincere: con la primavera, il basileus avrebbe potuto riprendere la campagna anatolica con l’intento di recuperare anzitutto e soprattutto proprio Antiochia; e l’insistenza del conte di Tolosa affinché anche il normanno d’Italia partecipasse alla marcia su Gerusalemme gli forniva ulteriore materia di sospetto. Era molto probabile, se non evidente, che Raimondo gli stesse preparando una trappola per favorire il suo alleato Alessio facendogli trovare Antiochia priva del suo nuovo signore.

La verità era che Raimondo si era accorto di come le sue milizie non bastassero per conquistare Arqa: in questo modo l’emiro di Tripoli non avrebbe tardato a rendersi conto che i franchi non erano poi così forti e la marcia sarebbe stata compromessa. Erano vere le notizie secondo le quali il califfo di Baghdad in persona si stava per muovere alla volta della costa? È ragionevole il sospetto che fosse il conte di Tolosa a mettere in giro queste voci, al fine di assicurarsi l’appoggio dei colleghi.

Goffredo e Roberto di Fiandra, infatti, accelerarono la marcia accordandosi anche con l’unico signore musulmano che avrebbe potuto ostacolarli sul cammino litoraneo, l’emiro di Jabala; arrivarono sotto le mura di Arqa ai primi d’aprile, ma Raimondo si pentì presto di averli sollecitati.

Era proprio allora giunta una lettera del basileus nella quale si avvertiva che, per l’inizio dell’estate, l’esercito imperiale sarebbe stato in Siria pronto a marciare insieme ai franchi; se il tolosano l’avesse saputo prima, avrebbe potuto far a meno dell’appoggio dei lorenesi e dei fiamminghi che ora saccheggiavano i dintorni, avevano fraternizzato con i normanni – anche con quelli di Tancredi, sempre attratto da Goffredo che ammirava – e non perdevano occasioni per accapigliarsi con i provenzali.

D’altro canto, nemmeno le notizie provenienti da Costantinopoli erano rassicuranti. Se fosse giunto in Siria, Alessio avrebbe dovuto per forza di cose esser riconosciuto come il capo della spedizione; avrebbe rivendicato i suoi diritti territoriali, tutti assolutamente incontestabili; insomma, avrebbe ricondotto al rango di mercenari quei franchi ormai abituati a considerar se stessi degli aspiranti signori di nuovi ricchi principati d’Oriente.

Sarebbero forse stati più tranquilli, i sonni di Raimondo e degli altri, se avessero saputo che il basileus non solo non aveva alcuna intenzione di aiutarli (e a ciò erano ormai preparati), ma che ormai, inviando messi diplomatici ai due califfi, li aveva già sconfessati. Alessio portava la pesante responsabilità della protezione delle comunità cristiane orientali: se avesse permesso il radicarsi della convinzione che quei barbari che stavano puntando sulla Città Santa erano suoi alleati o mercenari, egli avrebbe esposto i cristiani soggetti all’Islam a ogni sorta di rappresaglia; a parte il fatto che non era affatto convinto che essi si sarebbero trovati sotto i franchi meglio di quanto non stessero con i fatimidi e perfino con i turchi.

Tornarono intanto dal Cairo gli ambasciatori che i principi franchi avevano inviato al califfo fatimide in risposta alla missione del gentile e affascinante principe Jafar. Ma non recavano proposte allettanti: solo l’assicurazione che, se avessero rinunziato a proseguire il viaggio in armi, sarebbero stati accolti in pace come pellegrini. Bisognava avanzare subito: prima che i musulmani, magari istigati dal basileus, avessero il tempo di unir le loro ancora sparse forze per un contrattacco. Tanto più che ormai si stava ancora una volta avvicinando la stagione calda: e tutti sapevano ormai bene che cos’avrebbe significato.

Ci si mise di nuovo anche sant’Andrea: ed è difficile credere che fosse stato Raimondo a pregarlo di far sentir di nuovo la sua voce. Ma l’oggetto privilegiato delle sue confidenze, Pietro Bartolomeo, sembrava da tempo agir per proprio conto: o aveva trovato referenti nuovi.

Andrea apparve difatti a Pietro e gli ordinò un attacco massiccio alle mura di Arqa per il giorno 5 aprile, di Martedì Santo: la Santa Lancia li avrebbe protetti. L’evento scatenò il pandemonio. I normanni e i lorenesi inveivano contro le astuzie del conte di Tolosa e i maneggi del suo cappellano Raimondo d’Aguilers; il giullare Tagliaferro aveva composto anche una bella canzonaccia sulle false reliquie già denunziate in Europa dall’abate di Nogent, dai capelli di Maria al prepuzio del Bambino Gesù, aggiungendovi la Santa Lancia e protestando che, dal canto suo, egli credeva solo in quelle conservate nell’elsa della spada di Rolando. I provenzali ribattevano ricordando che Ademaro stesso, per il solo peccato di non credere nella Lancia, era finito all’Inferno: e gli altri rimbeccavano che a vederlo in quel luogo erano stati solo dei pretacci ubriachi e complici di Pietro Bartolomeo.

Alla fine, questi riuscì a imporre che lo si ascoltasse. Aveva molto sofferto, schiacciato tra l’ira del santo che gli rimproverava di non riuscir a guadagnarsi la fiducia dei pellegrini e lo scherno degli increduli che lo accusavano di essere un impostore; ne aveva anche abbastanza dei principi che lo disprezzavano considerandolo una marionetta del conte di Tolosa e perfino di quest’ultimo, toccato dalla Grazia divina ma incapace di rendersene conto. Ora si approssimava il millesessantaseiesimo anniversario del giorno in cui il ferro di Longino aveva penetrato il costato di Gesù, santificandosi per sempre. Quello stesso giorno, l’8 aprile – Venerdì Santo –, in ricordo del Signore che aveva affrontato la croce egli, Pietro, avrebbe sfidato le fiamme. Esigeva un Giudizio di Dio che provasse una volta per tutte come la Lancia fosse santa ed egli veridico.

All’alba di quel giorno, secondo la tradizione, non si celebrò la messa. In una piana sotto gli occhi degli infedeli assiepati sulle muraglie di Arqa erano state preparate due grandi siepi di sterpi e fascine a forma di parallelepipedo, alte quattro braccia, profonde altrettanto e lunghe almeno il doppio: tra esse era stato lasciato libero solo un passaggio largo quanto le spalle di un uomo robusto. Pietro, ormai smagrito dagli affanni e le privazioni, vi sarebbe transitato comodamente.

I due roghi furono benedetti e subito dopo incendiati. Quando il corridoio tra le due masse di fuoco si fu cosparso di cenere e di carboni ardenti, il provenzale vestito della sola camicia, nudi i piedi, il ferro della Lancia tra le mani, fu sospinto su quel tappeto ardente, tra quelle pareti di fuoco. Ne uscì barcollando, la camicia incendiata, il volto carbonizzato, le gambe e le braccia nere di ustioni. Al grido di «Dio lo vuole!», «San Sepolcro!», «Sant’Andrea!» e «Tolosa! Tolosa!», i provenzali gli furono addosso, gli strapparono i brandelli bruciacchiati della camicia facendolo urlare di dolore, lo issarono sulle spalle portandolo in trionfo. Pietro strideva come un verro trafitto dagli spiedi e invocava la Vergine Maria; quindi perse i sensi e Raimondo Pilet, prendendolo tra le braccia – non pesava più nulla, ormai – gridò ai fedeli che la calca aveva minacciato di ucciderlo.

Giacque nella tenda del conte Raimondo per quasi due settimane, rantolando, mentre ci si affannava su di lui cospargendo le sue piaghe di farina e di grasso di montone. Spirò al dodicesimo giorno: i provenzali dissero in seguito all’assalto dei devoti che gli avevano schiacciato le costole, i normanni sostennero in seguito alle ustioni riportate. Il Giudizio di Dio non era quindi servito a nulla: per gli uni aveva provato la santità della Lancia, che il conte di Tolosa continuò a venerare in una tenda costruita appositamente per essa, come il tabernacolo dell’Arca Santa; per gli altri aveva palesato l’impostura. I toscani non avevano preso vero e proprio partito, anche se la loro abitudine a frequentar normanni e lorenesi li faceva inclinare per la tesi dell’impostura. Tuttavia perfino lo scettico Astolfo ricordava con qualche commozione quante volte il vallombrosano Ranieri aveva narrato loro dell’ordalìa fiorentina di quel Pietro – curiosamente omonimo del provenzale – che da allora era stato detto «Igneo»: ma che era sopravvissuto e addirittura diventato cardinale, una sorte ben diversa dalla misera fine dell’uomo della Lancia.

Intanto, la città di Arqa non cedeva: il caldo avanzava e le notizie d’una controffensiva islamica si facevano più insistenti. Anche le perdite erano pesanti. Era caduto tra gli altri Anselmo di Ribemont, un cavaliere molto saggio e prudente, buon amico di Conone di Montaigu: e lo si rimpiangeva soprattutto per le sue doti di cultura, non comuni nel suo ceto. Difatti, vassallo dell’arcivescovo di Reims, gli aveva scritto varie e belle lettere sull’impresa di cui non avrebbe veduto l’epilogo.

A metà maggio il pericolo di una nuova sommossa dei pellegrini, come ad Antiochia e a Maarat, era fin troppo concreto. Si decise di toglier l’inutile assedio e continuare, tanto più che l’emiro di Tripoli garantiva ancora libertà di transito e di vettovagliamento, e qualcuno diceva anche alleanza, in cambio di protezione dall’ira del vizir fatimida per il tradimento. Forse la strada a est del Libano, lungo i corsi del Litani e del Giordano, sarebbe stata più comoda: quella costiera era stretta, qua e là difficile, ideale per gli agguati specie nei punti più alti e impervi. Tuttavia la si scelse, sia per le molte e belle città che si sarebbero potute incontrare – per quanto il conquistarle, se non si fossero arrese spontaneamente, sarebbe stato molto duro –, sia perché era fresca, ricca d’acque e consentiva di tener d’occhio quel mare dal quale si sperava di scorger presto le vele di vascelli soprattutto genovesi, l’arrivo dei quali era già stato annunziato.

Era gioioso e lieve, sul mare, il vento di primavera. Il ghepardo Umar aveva trascorso l’inverno scaldandosi sul seno di Astolfo, durante le lunghe cavalcate tra Antiochia e Arqa. Ma ormai non era più un cucciolo: era una giovane belva dal mantello color del sole e dagli occhi limpidi; si reggeva in perfetto equilibrio sul dorso del cavallo, dietro la sella del suo amico alla schiena del quale si appoggiava ronfando lievemente e battendogli le spalle con frequenti, dolcissimi colpi di testa. Solo l’avvicinarsi di Rimondino gl’incuteva una qualche inquietudine: allora drizzava il pelo e mostrava le zanne affilate. Del resto, era una paura reciproca.

In quindici, indimenticabili giorni di maggio, la costa fu percorsa in più tempo del previsto ma senza veri e propri intoppi da Tripoli ad Arsuf. La gente di Batrum, Jebail e Beirut si chiuse nelle sue mura, ma non tentò resistenza: anzi, dalle città giunsero messi con doni per l’esercito e la sola richiesta che i giardini e i frutteti, così frequenti in quella stretta ridente striscia tra mare e montagna – che a Tancredi ricordava la costa tra Salerno e Amalfi – fossero risparmiati. A Sidone c’era stata qualche resistenza, e quindi alcune devastazioni di piante per rappresaglia; a Tiro erano arrivati da Antiochia e da Edessa gruppi di guerrieri che avevano implorato dai loro rispettivi signori la grazia di poter raggiungere i compagni d’armi sulla via del Sepolcro: fra loro, con grande gioia di Goffredo, di Tancredi, di Conone di Montaigu e del giullare Tagliaferro, c’era il bravo Baldovino di Le Bourg.

Tra il 23 e il 24 maggio si transitò dinanzi a Tiro e quindi, superando alcuni duri passi montani resi però indimenticabili dalla vista del mare e, in lontananza, del Carmelo, si pervenne dinanzi ad Acri e quindi ad Haifa. Poi, a Cesarea, ci si fermò qualche giorno alla fine del mese prima di affrontare la deviazione della strada che dal mare portava nell’interno. Si sapeva bene che lasciarsi alle spalle tante città ricche e prospere in mano dei saraceni era rischioso: ma, se essi non potevano che trattare con i barbari scesi dal nord in quanto non avevano la forza per opporsi validamente a loro, i franchi erano del tutto consapevoli che senza macchine d’assedio e appoggio d’una flotta era impossibile conquistare una città litoranea. Il rischio era l’arrivo di navi saracene dall’Egitto.

Dopo Arsuf, ai primi di giugno, si puntò su Ramleh, città un tempo d’una certa grandezza e importanza ormai evacuata; fuggendo per rifugiarsi sulle montagne all’interno, i musulmani in un gesto di rabbia e di sfida avevano distrutto il santuario di San Giorgio a Lydda, l’antica Diospolis. Tra Ramleh e Lydda si decise che, secondo il programma d’impianto d’una Chiesa latina di Terrasanta, si sarebbe fondata in onore del santo guerriero Giorgio una diocesi: poiché la precedente, quella di Albara in Siria, era stata affidata a un provenzale, s’investì di questa il prete normanno Roberto di Rouen.

L’aria era ormai piena dell’odore di Gerusalemme. Era un odore nuovo, che pochi avvertirono subito perché pochi avevano dimestichezza con la Scrittura. Un lontano afrore di sabbia bagnata, di pozzi profondi, di frutti e rami di palma seccati, di sudore di cammello, di vecchio vino rosso maturato a lungo in giare di terracotta, d’olio d’oliva, di semi di sesamo, di grani d’incenso, di pane cotto sulla pietra rovente. L’odore di Gesù: dei Suoi capelli che avevano forse mantenuto sempre qualcosa del balsamo versato dalla donna di Magdala; delle Sue mani che carezzavano la testa dei bambini e le occhiaie profonde dei ciechi; della Sua veste che la pagana sofferente di flusso sanguigno aveva appena osato sfiorare certa della salute, e la sua fede l’aveva salvata. Un Gesù così diverso dal Pantokrator dallo sguardo terribile delle grandi cupole di Costantinopoli; dal Re e Giudice vittorioso dei timpani delle chiese abbaziali; dal Sire coronato e invincibile che scrutava i fedeli dall’alto della croce della cattedrale di Lucca.

A Emmaus, il paese dove i due pellegrini Lo avevano riconosciuto allo spezzar del pane – ... resta con noi, Signore, perché si fa sera... –, la popolazione era tutta cristiana e accolse i pellegrini in un ondeggiar giulivo di fronde di palma, in una fragranza inebriante di vino e di pane appena sfornato. Da lì Baldovino e Tancredi, quei due eterni cavalieri-fanciulli, non seppero trattenersi: balzarono a cavallo con un pugno di folli al pari di loro e galopparono, briglia sciolta e ventre a terra, sino a Betlemme. Vi giunsero quasi all’alba: la gente cristiana del luogo uscì per incontrarli dalla splendida basilica della Natività, con le croci e l’incenso. Li condussero subito alla grotta dove il Bambino era nato, quindi a quella del latte della Vergine Maria. I poveri cristiani betlemiti baciavano loro le mani, gli ebrei e i musulmani si gettavano ai loro piedi implorando. Ed essi erano un fiume di gioia e di lacrime, avevano buttato a terra le armi, si erano spogliati delle cotte di ferro, ridevano e ripetevano baciando tutti: «Pax vobiscum! Salam aleikum! Shalom alechem! Christus vincit! Kyrie eleeison! Allahu akbar!». Quelle parole arabe ed ebraiche, mischiate al latino e al greco dei cristiani, solo poche ore prima sarebbero parse loro una bestemmia orribile, un diabolico salmodiare di maghi pagani: ora salivano spontanee alle loro labbra ed essi, senza capirne il perché, si scoprivano in grado di assaporarne tutta la dolcezza, di coglierne e possederne per intero la santa potenza.

Un’eclisse di luna abbuiò il cielo di Palestina, quella notte. Era un evento di solito paventato dagli occidentali: ma in quel caso molti sostenevano che, poiché la luna è un pianeta sacro all’Islam – e non a caso: è il pianeta dei folli, il pianeta dell’incostanza, collegato alla figura dell’Anticristo... –, quello era un presagio di vittoria per i cristiani.

La mattina del 7 giugno, nel pulviscolo del sole che si era da poco levato e feriva i loro occhi, comparve controluce una città dalle mura bianche appena rosate dai raggi obliqui. Si era in un punto in cui la strada proveniente da Emmaus faceva un’ampia curva verso est: lì era, secondo la tradizione, la tomba del profeta Samuele (Nabi Samwil, dicevano gli arabi...) che i musulmani avevano trasformato in moschea.

Mons Gaudii, chiamavano quel luogo i pellegrini. Tutti si accalcavano sul ciglio della strada, si additavano a vicenda le mura lontane, cadevano in ginocchio e piangevano. Anche Rimondino si sentiva gonfie e rosse le palpebre: e non era la sabbia del deserto, non era l’aria fresca del mattino, non era il riverbero del sole nascente.