Lo spazio religioso

di Gianluca De Sanctis

A Roma i tempi dei culti non sono meno stabiliti dei luoghi in cui essi devono essere celebrati: che sia un templum, la casa del dio per eccellenza; il focolare della domus, intorno al quale il pater familias esercita quotidianamente il culto domestico; o il crocicchio, dove si celebra annualmente la festa in onore dei Lari; persino l’imperium del console è soggetto a una demarcazione spaziale: il pomerium che divide lUrbs dall’ager, dove hanno luogo le attività militari e le pratiche religiose riguardanti la guerra, come la devotio e l’evocatio.

Una casa per ogni dio

Dopo la grande catastrofe rappresentata dall’incendio gallico e la riconquista della città a opera di Marco Furio Camillo (390 a.C.), Tito Livio, il grande storico di età augustea, racconta che i Romani dibatterono a lungo sull’opportunità di abbandonare Roma, ormai sfigurata dalle devastazioni, e trasferirsi nella vicina città di Veio. Camillo pronunciò allora un lungo discorso allo scopo di persuadere i suoi concittadini dell’impossibilità di un simile gesto. Tutto il monologo, costruito dall’autore per il suo personaggio, è incentrato sull’ordinamento religioso dello spazio urbano, considerato come causa prima della grandezza e dell’eternità di Roma. Ma possiamo essere certi che tale prospettiva era caratteristica dell’habitus mentale dell’uomo romano, per il quale Veio non avrebbe mai potuto sostituire Roma: semplicemente perché “essere Romani” significava “essere a Roma”, un luogo straordinario e fuori dal comune, dove accanto al popolo degli uomini, vive silenzioso e potente un popolo di dèi che sorveglia, protegge e ammonisce. A Roma infatti ogni dio ha la sua casa (templum, fanum, sacellum ecc.), e ogni casa la sua storia. Di qui l’eccezionale quantità di feste religiose del calendario romano, la cui celebrazione evoca lungo il ciclo annuale le grandi esperienze della storia romana riportandole, per così dire, a vivere nei punti nevralgici della topografia sacra, a partire dalla piana del foro, dove si addensa la maggior parte dei templi e dei santuari.

Il focolare e il crocicchio

Il sentimento religioso dei Romani non si esercita soltanto pubblicamente, all’aperto, insieme agli altri cittadini. Esistono in effetti almeno altri due luoghi specificatamente religiosi nel sistema spaziale romano, vale a dire il focolare domestico (focus) e il crocicchio (compitum). Come il focolare pubblico, custodito nel tempio di Vesta, deve rimanere sempre acceso ed essere perpetuamente accudito dalle vestali, allo stesso modo il focolare domestico, quasi fosse una cosa viva, ha bisogno delle cure dei membri della famiglia, in particolar modo del capofamiglia (pater familias), vero e proprio sacerdote della religione domestica; poiché non può essere spento viene ricoperto ogni sera e ravvivato ogni mattina. Qui si bruciano le offerte per il Genio e i Penati, vino per il primo, incenso per i secondi. Ma, cosa ancora più importante, il focolare è sede del Lar familiaris, la divinità protettrice della casa.

Il crocicchio costituisce si può dire l’altra faccia del focolare, è il suo alter ego esterno. In quanto fulcro spaziale e culturale del quartiere (vicus), esso costituisce l’anello di congiunzione fra la dimensione privata e quella pubblica, fra la familia e la comunità dei cives. Qui infatti si incontrano le singole vie, qui si uniscono le case o le rispettive proprietà, qui sorge un piccolo altare dove i vicini celebrano, tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, in un giorno che varia di anno in anno, un sacrificio in onore dei Lares compitales, i Lari dei crocicchi (Compitalia).

Significato e costruzione dei templa

In latino i termini atti a indicare la casa del dio sono diversi: delubrum, aedes, ma soprattutto templum. I templa sono infatti gli edifici consacrati alle divinità, dove si trovano i loro simulacri e i cittadini sono chiamati a celebrare il loro culto. Ma ancor prima di questo significato, poi sopravvissuto nelle lingue romanze, il termine templum indica uno spazio celeste (templum in aere) o terrestre (templum in terra) di forma quadrangolare, ritualmente definito dall’augure, all’interno del quale l’augure stesso è chiamato ad osservare attraverso il volo degli uccelli il manifestarsi della volontà divina. Non è chiaro quale sia il rapporto fra templum in aere e templum in terra, se l’uno sia una proiezione dell’altro o viceversa, né come fossero nel dettaglio colti e interpretati i segni religiosi che si mostravano al loro interno. Quel che è certo è che ogni templum ha bisogno di un augure che lo crei. L’augure (augur), è il sacerdote incaricato di interpretare a nome dell’auspicante i segni celesti. Costui, secondo la preziosa testimonianza di Varrone (De lingua latina, 6, 53), delimitava con la sua parola i confini delle aree per l’osservazione di tali segni. Le parole (verba) pronunciate dall’augure non erano evidentemente parole “normali”: erano verba effata, parole cioè in grado di realizzare il contenuto del loro enunciato nel momento stesso in cui venivano pronunciate. Il loro effetto sulla realtà era immediato. I confini del templum, infatti, cominciavano a esistere a partire dalla loro definizione. Non a caso il termine che in latino indica propriamente l’area del tempio e che poi per metonimia passa a indicare il tempio stesso, divenendo quindi quasi un sinonimo di templum, è fanum, che Varrone fa derivare dal verbo fari (effatus, di cui abbiamo parlato sopra, è il participio passato di un composto di fari), in quanto i pontifices nel consacrare il fanum ne “enunciano” (fati sint) i confini (De lingua latina, 6, 54). Insomma la parola dell’augure è una parola talmente potente da essere in grado di incidere lo spazio, di tagliarlo, di imprimergli la forma del templum. All’interno di questo strano osservatorio a cielo aperto gli àuguri si concentravano sull’oggetto del loro studio, ossia gli auguria. Il termine augurium, derivato come augur dal verbo augeo, “aumento”, “accresco”, indica “il presagio favorevole, quello con cui gli dèi decretano l’esito fausto e il successo di un’impresa sottoposta al loro giudizio tramite un procedimento divinatorio” (Maurizio Bettini, Alle soglie dell’autorità, introduzione a Bruce Lincoln, L’autorità, Einaudi, 2000, p. XXV). Ma il significato più vicino all’etimologia sembrerebbe essere un altro: quello di “accrescimento” prodotto dalla divinità, su sollecitazione del sacerdote, in una certa categoria di oggetti. E infatti l’inauguratio, come rivela la documentazione in nostro possesso, più che una ricerca di consenso o di “benedizione” divina, è una vera e propria pratica rituale volta a “ingrandire”, ad “accrescere” la natura di un individuo (cfr. l’inauguratio di alcuni preti a vita, in particolare quella del re Numa che aveva anche funzioni religiose descritta da Livio in I, 18), o di un luogo (cfr. le espressioni inaugurare urbem, inaugurare templa ecc.), assicurandogli così il successo necessario allo svolgimento della sua funzione.

L’inauguratio di un tempio non può essere cancellata che da una exauguratio, ossia da un rito uguale e contrario. Così accadde per gli antichi altari (fana e sacella) che sorgevano anticamente sulla cima del Campidoglio e che al tempo di Tarquinio il Superbo (VII sec. a.C.) furono sconsacrati per lasciare l’intera area libera per la costruzione del nuovo tempio di Giove Ottimo Massimo. Quando invece a dover essere cancellata è una città intera, si utilizza un rito opposto e speculare al rito di fondazione: “Infatti, per exaugurare” sono parole di Servio, un tardo commentatore di Virgilio “e abbattere le città si utilizza l’aratro, in modo tale che esse vengano distrutte con lo stesso rito con il quale erano state costruite” (Servio, Ad Aeneidem, 4, 212).

Urbs, ager effatus e pomerium

È noto che il primo atto di fondazione di una città romana consisteva nel tracciare, secondo un rito probabilmente di derivazione etrusca, un solco circolare che ne delimitasse il perimetro più esterno, lungo il quale poi sarebbero state innalzate le mura urbane (sulcus primigenius). A una certa distanza dal solco, al suo interno, si ergeva una seconda frontiera, appena marcata sulla superficie del terreno da una serie di cippi terminali disposti a intervalli regolari l’uno dall’altro. Questo era quello che i Romani chiamavano pomerium: una linea immaginaria, quasi incorporea e impalpabile se confrontata con la consistenza della cinta muraria, ma estremamente importante dal punto di vista politico e religioso. Esso infatti costituisce il confine dell’urbs, la parte più interna della città, la sola inaugurata e in quanto tale soggetta a uno statuto del tutto particolare, che la distingue da qualunque altro luogo compreso il territorio immediatamente adiacente ad essa, il cosiddetto ager effatus (che pure condivide con l’urbs il fatto di essere stato “bonificato” da impurità di natura religiosa, cioè liberatus, e delimitato dalla parola potente degli àuguri, appunto effatus).

Di qui la necessità di una particolare delimitazione, e la funzione del pomerium: separare due spazi eterogenei dal punto di vista giuridico-religioso, urbs e ager appunto, che implicano per loro natura l’esercizio di due forme di potere alternative e complementari, quali l’imperium militiae (potere militare) e l’imperium domi (il potere civile). L’attraversamento del pomerium che può essere realizzato solo previa consultazione augurale, determina infatti il passaggio da una forma di imperium all’altro. E poiché al potere militare è riconosciuta una natura fondamentalmente opposta a quella del potere civile, lo spazio della pace deve restare rigorosamente separato dallo spazio della guerra.

Pertanto l’area inaugurata compresa all’interno del pomerium, non può e non deve essere contaminata dalla morte; e ciò è possibile solo se resta demilitarizzata. Per questo all’interno dell’urbs non possono essere né bruciati, né seppelliti i cadaveri, né l’esercito può entrare in armi, se non in occasione del trionfo. D’altra parte l’imperium militiae che, per questa ragione, è esercitato solo fuori dal pomerium, ne costituisce anche la difesa. Poiché infatti l’anello pomeriale e il perimetro delle mura sono separati da uno spazio intercalare più o meno ampio, ager effatus, qualora la città fosse stata assediata l’esercito poteva essere guidato dal suo comandante (imperator) e agire liberamente lungo questa fascia anulare a protezione dell’urbs, senza per questo comprometterne l’integrità rituale.

Devotio ed evocatio. Due pratiche religiose de-localizzate

L’ager, fuori dal pomerium, è dunque lo spazio adibito alla guerra e alle sue attività, comprese le pratiche religiose ad essa connesse. Tra queste rivestono un particolare interesse la devotio e l’evocatio, per mezzo delle quali i Romani erano in grado di invocare gli dèi (propri o altrui) per scongiurare un pericolo o ottenerne aiuto militare. La devotio è una particolare forma di voto per cui un comandante militare, mediante la recitazione di una formula (carmen) e una serie di atti rituali ben precisi, si offre alle divinità infere quale vittima sacrificale, chiedendo in cambio la vittoria per il suo esercito e la disfatta dei nemici. Si tratta in sostanza di una procedura rituale straordinaria che attiva un meccanismo di scambio per cui le divinità che ricevono in anticipo un’offerta (la vita del comandante) si vengono a trovare in una posizione di “mancanza” che le costringe a ricambiare e a fare così la volontà di chi ha dato avvio alla transazione. In effetti, come mostra il racconto liviano della devotio per noi meglio documentata, quella compiuta dal console Publio Decio Mure nel 340 a. C. contro i Latini, l’efficacia del rito risiede non tanto o non solo nel potere magico-incantatorio delle parole pronunciate dal soggetto, quanto piuttosto nel principio di natura economica del do ut des, del dare per ricevere.

L’evocatio, come dichiara il nome stesso, consiste invece nell’“evocare” mediante una formula specifica (certum carmen) le divinità tutelari di una città nemica, invitandole ad abbandonare gli assediati in cambio di un nuovo tempio e un nuovo culto a Roma. È probabile, anche se non specificato da Macrobio, un erudito della fine del IV secolo, al quale dobbiamo le informazioni più dettagliate a riguardo, che in caso di rifiuto la divinità fosse trattata come prigioniera alla stregua degli abitanti. D’altra parte l’unico caso certo documentato da fonti annalistiche, e filtrato attraverso il racconto di Livio, è quello della Giunone Regina di Veio, evocata da Marco Furio Camillo nel 396 a. C. al termine di un lungo assedio.

Vedi anche
Augusto: il fondatore dell’impero
Il contesto militare
La guerra a Roma
Attori e tempo rituale
Le divinità della casa
La magia a Roma
Varrone e la riflessione sulla cultura e sulla lingua
Annalistica e letteratura tecnica nell’età di Augusto