Preghiere e formule religiose

di Maria Monteleone

Nella religione romana è estrema l’attenzione all’esattezza esecutiva dei riti, in particolare alla precisione e alla rigorosa osservanza delle formule religiose e al lessico della preghiera. Il termine carmen definisce tutte le possibili forme di preghiera e indica una formula composta da parole precise che vanno pronunciate in ordine esatto e con una speciale intonazione. Il giuramento è lo strumento più vincolante di contrazione degli obblighi che, grazie al carmen che lo realizza, rende valido, inviolabile e sacro l’impegno contratto fra due persone ponendolo sotto la tutela divina.

Esattezza formulare e rituale: i certa verba e il carmen

Livio (Ab Urbe condita, 41, 16) narra che nel 176 a.C. i pontefici annullarono le Ferie Latine già celebrate indicendone di nuove perché il magistrato aveva omesso dalla preghiera l’espressione “per il popolo romano dei Quiriti”. Per i Romani saltare anche una sola parola di una formula religiosa invalida il rito intero. Ed è per scongiurare simili inconvenienti che le preghiere dei culti tradizionali ufficiali e più importanti di Roma sono custodite nei libri sacerdotali, dai quali, di volta in volta, vengono pedissequamente lette, anche quando la loro antichità fa sì che i contemporanei non ne capiscano più il senso: quel che conta non è solo il significato delle singole parole, ma la loro esatta successione e pronuncia. Come scrive Cicerone (De natura deorum, 2, 72), il culto migliore degli dèi consiste nel venerarli con mente (mens) e voce (vox) incorrotte, ovvero con una disposizione d’animo pura, ma anche con una corretta espressione pratica, con le parole giuste. Non si tratta di una mera questione “esecutiva”: lo svolgimento impeccabile del rito è segno del giusto sentimento religioso, della pietas di chi lo esegue e, viceversa, la pietas si rivela nella stretta osservanza delle prescrizioni rituali. Una simile precisione rituale, un simile principio di corrispondenza tra azione e disposizione d’animo, è forse la marca più peculiare della religio di Roma. A renderlo evidente sarebbe sufficiente già il termine stesso di carmen, usato per indicare le formule religiose, tutte, dalla semplice preghiera (prex, precatio) alle formulae dei culti più complessi. Con carmen infatti i Romani intendono un enunciato speciale, pronunciato secondo la modalità del fari, della parola potente “che realizza”, capace di avere effetti sulla realtà. E il potere del carmen, come suggerisce il verbo canere (“cantare”) da cui il termine deriva, poggia prima di tutto sulla catena sonora che la voce produce nel momento in cui pronuncia e “intona” le parole; parole che, a loro volta, non sono mai lasciate al caso ma sono fisse e precise (certa verba) e devono essere recitate dalla prima all’ultima senza esitazione e con la massima chiarezza: da un lato perché la tradizione deve essere conservata, dall’altro perché non vi siano dubbi che l’animus dell’orante aderisca totalmente a ciò che la sua bocca dice. Solo così il rito sarà efficace e gli dèi risponderanno col loro favore. Quello del giuramento è un caso estremamente evidente di tale meccanismo.

Lo iusiurandum: la religio al servizio della iustitia

Il giuramento (iusiurandum) è il vincolo più forte con cui a Roma è possibile dare la propria parola, creare un impegno fra due persone. Esso è lo strumento di garanzia per eccellenza del principio che regola il corretto funzionamento delle relazioni fra gli uomini, quel principio di reciproco rispetto degli obblighi che i Romani chiamano fides (“lealtà”, fedeltà alla parola data e fiducia insieme) e che considerano la base della giustizia (Cicerone, De officiis, 1, 23: fundamentum iustitiae). La sua forza, rispetto alle altre forme di contrazione della fides, sta nella sua natura marcatamente religiosa: il giuramento è una affirmatio religiosa (Cicerone, De officiis, 3, 104), rende stabile (firmum) e sacro (sacrosanctum, sancito, reso inviolabile a mezzo del sacro) quanto viene detto ponendolo sotto la protezione della divinità. E il potere di questa affirmatio risiede principalmente nella sua formula verbale, un carmen dalla struttura fissa: 1) l’invocazione, con cui il giurante chiama il dio a farsi testimone e garante di quanto afferma; 2) il contenuto del giuramento, sia esso una promessa o una affermazione di verità; 3) l’automaledizione condizionale (exsecratio) con cui il giurante chiede al dio di punirlo in caso di spergiuro. L’efficacia del carmen non è dovuta tuttavia solo alla presenza divina chiamata in causa da invocazione ed exsecratio. Essa è legata piuttosto a un procedimento retorico fisso, comune a tutti i giuramenti, con cui l’enunciato viene incatenato alla realtà e assimilato a un ordine di cose materiale piuttosto che verbale. Quando, nella conclusione di un patto, il sacerdote chiede al dio di colpire l’eventuale spergiuro come lui in quel momento colpisce la vittima sacrificale; o quando il giurante invoca su di sé, in caso spergiurasse, di essere cacciato dalla comunità come lui in quel momento scaglia la pietra che tiene in mano; o ancora quando fa appello a divinità visibili e tangibili come il Sole e la Terra, o tocca un oggetto fisicamente presente, come l’altare del dio presso il quale presta giuramento: in tutti questi casi, l’esatta formulazione del carmen, la precisa corrispondenza che la formula istituisce fra le parole e la realtà concreta a cui esse vengono associate (il contesto materiale in cui vengono pronunciate), incatena la verità futura chiamata a realizzarsi dal giuramento a una verità presente, la rende reale e incontrovertibile. L’impegno futuro è così già realizzato nel presente, gli dèi sono già costretti a punirne la violazione.

Vedi anche
Cicerone e il lessico filosofico latino
La religione romana
Attori e tempo rituale
Lo spazio religioso
Credere e spiegare
Cicerone tra retorica e politica
Annalistica e letteratura tecnica nell’età di Augusto