La raccolta La visita viene proposta qui nell’edizione Einaudi 1962, uscita nei «Supercoralli» e successivamente ripresentata dallo stesso editore nella ristampa dei «Nuovi Coralli» (n. 335) del 1982.
Raggruppa i racconti brevi di Carlo Cassola, il cui assemblaggio fa da pendant a quello, pubblicato nel 1959 presso la medesima casa torinese, dell’omnibus Il taglio del bosco, dove erano confluiti – come specificava il sottotitolo – i «racconti lunghi e romanzi brevi». L’intera opera narrativa non romanzesca dello scrittore trova dunque, in un giro ristretto di anni, una sistemazione definitiva nelle sillogi Il taglio del bosco e La visita, smistata a seconda della diversa misura dei racconti nell’una o nell’altra, quali parti distinte ma complementari di un unico dittico che è espressione della medesima volontà ordinatrice dell’autore. Accomuna entrambe le pubblicazioni la scelta di riprendere il titolo dal racconto più rappresentativo della rispettiva tipologia. Del resto, i racconti La visita e Il taglio del bosco erano già divenuti in precedenza eponimi di raccolte analoghe, nate sull’onda della loro fortunata e trainante accoglienza: una sola volta nel primo caso, con la raccolta La visita apparsa da Parenti nel 1942 (LV42); due nel secondo, con quelle omonime de Il taglio del bosco, che avevano visto la luce nel 1953 presso i Fratelli Fabbri e nel 1955 presso Nistri-Lischi (TB55): quest’ultima mescolava tra loro, in dosi diverse, le due tipologie che figurano alla fine definitivamente separate.
Da Il taglio del bosco del 1959 La visita del 1962 (LV62) si differenzia invece per la data di composizione dei raccontini che raduna, anteriore per tutti quanti a quella dei testi di maggiore lunghezza, ad eccezione dei sei finali – L’uomo e il cane, I poveri, Il caporale Müller, Aspettando la corriera, Gita domenicale, Scoperta di Joyce –, la cui stesura è fatta risalire dall’autore, pur con la vaghezza della sua nota di presentazione al volume, ad «alcuni anni dopo» il 1945. All’infuori di qualche sconfinamento (e relativo anticipo di motivi della fase letteraria immediatamente successiva) oltre quel discrimine, che con Baba – del 1946 – avvia la stagione delle narrazioni di più ampio respiro, i testi brevi raccolti ne La visita del 1962 non si sovrappongono pertanto cronologicamente ai lunghi de Il taglio del bosco del 1959. L’arco temporale in cui si racchiude la produzione breve di Cassola (dal 1937, dunque, ad un imprecisato dopoguerra) circoscrive prevalentemente, nel cammino dell’autore, gli anni dell’esordio e, con essi, la poetica giovanile del “subliminarismo” che ne costituisce l’originale marchio.
Ma il recupero degli scritti giovanili demarca, nella periodizzazione richiesta dal tragitto complessivo di Cassola, un’ulteriore tappa. La visita del 1962 non si limita infatti al mero repêchage del passato lontano e ormai superato dal passaggio di Cassola ai romanzi di argomento resistenziale, ai quali risultano invece intrecciati cronologicamente, e per lo più anche tematicamente, soprattutto i racconti lunghi. La raccolta segna anche un nuovo snodo della scrittura, preannunciando nella accidentata evoluzione di Cassola una svolta che in quel ritorno alle origini ha la sua premessa: proprio alcuni di quei raccontini giovanili verranno dilatati a romanzo, riproponendone la stessa poetica esistenziale. Già prima della raccolta, peraltro, il romanzo Un cuore arido si era configurato nel 1961 come significativo antefatto della silloge del 1962, e preludio del disegno che esso sottende e si svilupperà poco dopo, a partire dalla trasformazione in romanzo omonimo, nel 1964, del testo breve Il cacciatore.
Il film dell’impossibile, anteposto alla raccolta a mo’ di prefazione, ne chiarisce il proposito che, lungi dall’esaurirsi nella mera ristampa dei primi scritti, mira a un bilancio critico del presente, ripensandolo alla luce della poetica degli inizî. Con la ripresa nel 1962 di questo manifesto teorico antecedente di vent’anni, quale radice della progettualità dell’oggi, Cassola attua un congiungimento estetico tra quanto gli sta alle spalle e il futuro prossimo; testimonia la coerenza artistica del proprio percorso e, al contempo, ne contestualizza la modernità sperimentale, puntualizzando – non senza sottintesa polemica contro interpretazioni errate del suo iter di scrittore – la non appartenenza genetica alla generazione dei neorealisti e fornendo un’anticipata risposta, come molto efficacemente rileva qui l’Introduzione di Massimo Raffaeli, alle critiche che gli rivolgerà un anno più tardi la neoavanguardia.
Il medesimo titolo La visita denomina nel tempo tre differenti testi (un racconto e due raccolte), qui presi in esame separatamente.
Il racconto del 1937
La visita è uno dei più antichi raccontini di Cassola. Era stato scritto, insieme al racconto Paura e tristezza, nel 1937, e aveva poi inaugurato, per l’interessamento di Romano Bilenchi, la collaborazione di Cassola alla neonata rivista «Letteratura» diretta da Alessandro Bonsanti che, sotto il titolo Tre racconti, pubblicò nel 1939 (III, 4, ottobre-dicembre) La visita insieme a Il soldato e a Il cacciatore. Immediata la fortuna: la segnalazione fattane su «Corrente di vita giovanile» nello stesso anno da Giansiro Ferrata, con lo pseudonimo di Cirillo e Metodio, ne determinò il duraturo successo, oltre che, di lì a poco, l’assunzione a titolo della raccolta LV42. Con Paura e tristezza, La visita condivide la primordiale messa a fuoco della poetica giovanile dell’autore, ideata sotto l’influenza di Joyce e con il desiderio di emularlo: «finii poi con l’imboccare un’altra strada, quella del “film dell’impossibile” […] Cercherò di spiegarmi con un esempio […] I morti […] Fu un racconto che mi piacque moltissimo, la mia adesione a Joyce cominciò forse di lì […] Il primo film dell’impossibile che io tentai di scrivere fu un raccontino intitolato La visita» (C. Cassola, Mi si può definire uno scrittore realista?, in «Avanti!», 7 aprile 1963). Archetipo riconosciuto dello sperimentalismo di Cassola, il racconto viene indicato come tale dallo stesso scrittore, che ne sottolinea a più riprese l’emblematicità.
Un dattiloscritto inedito, non datato – il cui titolo è identico a quello del volume Il romanzo moderno (Rizzoli, Milano 1981) pur non coincidendo con le sue pagine –, che si conserva nelle carte di Cassola tra i molti con correzioni autografe da lui predisposti per conferenze o lezioni, spiega, rispetto al «filone del romanzo sociale» e di quello «esistenzialista», l’originalità della linea narrativa «esistenziale» adottata, e porta appunto a riprova il racconto La visita:
In che consiste la differenza? Per l’esistenzialista la realtà, spogliata di ogni valore, ridotta a nuda esistenza, non ha più senso e genera l’angoscia. Per l’esistenziale, mi si passi il neologismo, la realtà non può mai essere completamente spogliata. Resterà sempre il fatto elementare, imperscrutabile, metafisico dell’esistere. La scoperta dell’esistenza sotto il cumulo di valori, veri e falsi, con cui è stata ammantata e insieme nascosta, non genera angoscia, dà stupore e felicità. Da bambino, quando non sapevo niente di queste cose, ero continuamente in attesa che avvenisse il miracolo: che l’esistenza apparisse sotto il rivestimento dell’essere. Quando questo miracolo avveniva, era la felicità. Non insisto su questo punto perché è stato illustrato magistralmente da Proust.
Insomma per l’esistenzialista l’esistenza ha un senso solo se si ammanta di valori, se cioè diventa essere. Altrimenti “le cose sono là”, per dirla con Robbe-Grillet, cieche, incomprensibili, ostili. Ci angosciano, e basta […].
Da giovane, quando cominciai a scrivere, formulai un progetto di narrazione esistenziale. Il compito di uno scrittore mi appariva insieme semplice e difficilissimo: ridurre la vita a esistenza, ricondurre i molteplici casi della vita sotto il minimo comune denominatore dell’esistenza.
Perché difficilissimo e, al limite, impossibile? Perché la vita, scacciata dalla porta, rientra dalla finestra. E la vita a sua volta scaccia l’esistenza. Cercherò di chiarire meglio questo punto, ma prima bisogna che risponda a un’altra domanda: se non ero stato spinto verso la letteratura dall’interesse sociale, ma solo dal bisogno poetico, perché scelsi la strada del romanzo? Non sarebbe stata più adatta al mio scopo la poesia?
Sicuramente la strada sarebbe stata una strada più facile. Per cominciare, c’era una tradizione letteraria nazionale nella quale mi sarei potuto inserire. Il filone più importante della lirica italiana moderna è rappresentato infatti dalla poesia esistenziale o metafisica che dir si voglia. Appartengono a questo filone Leopardi, Pascoli e Montale. C’era inoltre, nell’Italia del tempo, una schiera di giovani poeti montaliani o post-montaliani: mi ci sarei potuto aggregare. Tentativi di narrazione esistenziale, invece, erano stati fatti solo all’estero; non esisteva una tradizione nazionale nella quale inserirsi.
Allora, perché scelsi la narrativa? Perché l’esistenza è il tempo (s’intende, il tempo reale, la durée bergsoniana). Non avrei potuto renderlo che raccontando.
Le immagini ferme della visione poetica potevano essere solo il punto di partenza di una narrazione esistenziale: che di quelle immagini iniziali avrebbe dovuto conservare il fascino, l’incanto. La prima narrazione che scrissi con quest’intendimento s’intitola La visita. È un racconto di poche pagine che scrissi a vent’anni. Lo si può idealmente dividere in due parti: nella prima racconto la visita di un certo colonnello Delfo al suo conoscente australiano Murchison al tempo di Napoleone; nella seconda racconto la visita di un tale alla cognata in un paese della Toscana ai nostri giorni.
I punti di partenza sono messi in evidenza: «In quest’atto erano effigiati nell’arazzo in camera della signora Rosa Boni» dico dei primi due personaggi, e mi affretto ad aggiungere: «La signora Rosa Boni […] la conobbi in treno un giorno d’estate che andavo da Roma a Pisa». Si tratta, insomma, di figure viste da qualche parte, su una stampa colorata o su una carta da parati piuttosto che su un arazzo; e di una donna non più giovane vista in treno. Il racconto consiste nell’animazione della stampa e in un episodio per la donna non più giovane incontrata in treno. Perché nell’un caso e nell’altro avevo scelto come vicenda una visita? Perché è il meno impegnativo degli accadimenti, quello che ti permette di veder da vicino una persona, di sorprenderla nell’intimità della propria casa; la conoscenza può però restare in superficie. Alla fine della visita del colonnello Delfo a Murchison, non si sa quasi niente di quest’ultimo: i due hanno chiacchierato, ma non si sono scoperti, i loro discorsi essendo stati quanto di più convenzionale, banale, superficiale, si possa immaginare. Lo stesso alla fine della visita del cognato alla signora Rosa Boni. Mentre la preoccupazione di un romanziere sociale, volto a mostrarci la vita, è penetrare a fondo nell’animo del personaggio, svelarcene tutte le pieghe, la mia preoccupazione di narratore esistenziale era opposta: i personaggi, volevo che restassero nel vago, che ne fosse mostrato il meno possibile.
Il racconto La visita era destinato pure a una lunga vita autonoma: al pari del successivo Il taglio del bosco, comparirà in numerose antologie.
All’inizio degli anni Sessanta, quando esplode la crisi che porterà Cassola a scrivere Un cuore arido, lo scrittore ipotizza per La visita un trattamento – estensione alla dimensione lunga – analogo a quello cui saranno sottoposti gli altri raccontini recuperati in LV62 dalla produzione del passato. Anzi, per l’imprescindibile carattere innovativo da lui sempre attribuito a La visita («è il racconto più difficile che sia mai stato scritto», esagererà con Davico Bonino l’11 ottobre 1968), il racconto fa addirittura da prototipo per il progetto delle riscritture: «Lo schema: quello de La visita, legando così le varie storie con la massima libertà narrativa. Ma di che specie di storie si dovrebbe trattare? Storie che danno il senso della vita, perciò non raccontate come se si svolgessero attualmente, ma come se fossero rivissute nella memoria o vissute nella fantasia… Penso a una grande Ferrovia locale. Ma devo riguardare attentamente tutti i miei raccontini, per vedere quale può essere sviluppato a romanzo. La visita, forse», si legge in un appunto del 5 ottobre 1961 trascritto il 29 novembre 1963 nel Diario inedito avviato il 19 marzo di quell’anno. La trasformazione del racconto in romanzo non sarà attuata, ma Cassola continuerà a lungo ad averla in mente: «in questi giorni ho consegnato il manoscritto del Cacciatore a Einaudi […] Mi preme più continuare il lavoro. Per prima cosa scriverò La maestra (e cioè Angela profondamente cambiato e sviluppato), poi Umili esistenze, poi Terra di Francia, Monte Mario e finalmente La visita. Come vede, ho il lavoro assicurato per parecchi anni» (a Giannitrapani, 7 settembre 1964); «Questo arrangiamento mi dà respiro per i prossimi due o tre anni […] devo scrivere Ferrovia locale, Paura e tristezza, Terra di Francia e La visita. Per il momento sto scrivendo il primo» (a Gallo, 28 ottobre 1966).
La raccolta del 1942
Primo volume pubblicato da Cassola, la raccolta La visita segna ufficialmente il suo esordio editoriale. Esce il 27 gennaio 1942 per i tipi di Parenti nella collezione di «Letteratura», n. 42. A p. 4 un ritratto dell’autore disegnato da Pericle Fazzini. Contiene: La visita, I due amici, Tempi memorabili, Ferrovia locale, Monte Mario, Il soldato, Il cacciatore, Dànroel, Il ritorno dei marinai, Terra di Francia, Bandiera rossa, Sogno invernale, Studenti, Franceschino, Giorgio Gromo, Al polo. Vi confluisce, selezionata, molta della primissima produzione dello scrittore.
A prescindere dal racconto eponimo, gli altri testi, con la probabile eccezione di Studenti e Franceschino, risultano già usciti in rivista tra il 1939 e il 1941: su «Letteratura» Tempi memorabili e I due amici (IV, 3, luglio-settembre 1940); su «Rivoluzione» Ferrovia locale (II, 4, 5 marzo 1940); su «La Ruota» Monte Mario e Giorgio Gromo (II, III, 1, gennaio 1941); su «Corrente» Dànroel (III, 5, 15 marzo 1940); su «Il Frontespizio» Il ritorno dei marinai (XII, 3, marzo 1940), Terra di Francia e Sogno invernale (XII, 5, maggio 1940), Bandiera rossa (XII, 6, giugno 1940).
Quasi tutti i racconti di LV42 vengono ripresi in TB55: I due amici, La visita, Ferrovia locale, Il soldato, Il cacciatore, Monte Mario, Dànroel, Il ritorno dei marinai, Terra di Francia, Bandiera rossa, Franceschino. Tale consistente recupero dei raccontini, sia pure in forma non autonoma né manifesta (oscurata com’è dal titolo della raccolta che ingloba i pezzi intestandosi al racconto-guida Il taglio del bosco, compresente in essa con Baba e Le amiche), si configura quale tappa intermedia delle vicende editoriali delle prose brevi. Riuniti in TB55 con racconti lunghi degli anni tra il 1946 e il ’49 (è del ’46 Baba, del ’47 Le amiche, del ’48-49 la stesura de Il taglio del bosco), gli scritti giovanili iniziano a essere assunti da Cassola a metro di valutazione di quelli posteriori, predisponendolo a quel bilancio che tra il 1961 e il ’62 trasformerà in progettualità lo sguardo a ritroso e si risolverà in definitiva demarcazione in cicli del suo cammino letterario. Attesta il significato di tappa mediana tra LV42 e LV62, che in TB55 riveste il nucleo di testi antichi, anche il processo variantistico al quale essi vengono sottoposti rispetto alla loro prima pubblicazione su periodici: modifiche formali e spostamenti di collocazione saranno accolti in LV62 (che conferma e sistematizza tutte le correzioni), trapassandovi immutati.
La raccolta del 1962
Dell’edizione 1962, summa definitiva dei raccontini di Cassola, è possibile tracciare in modo dettagliato la genesi e la realizzazione editoriale, grazie al ricco materiale d’archivio dell’Einaudi, che permette di seguire minuziosamente il progetto di un repêchage complessivo, riepilogatore e selettivo, della vecchia produzione meno conosciuta di Cassola («che certo», aveva scritto l’autore a Einaudi il 18 settembre 1960 con pessimismo poi smentito dall’accoglienza, «interesserebbe più la critica che il pubblico»).
Profilatasi concretamente alla fine del 1960, probabilmente sulla scia del successo de La ragazza di Bube, l’idea della raccolta si era affacciata alla mente di Cassola già nel corso della realizzazione di TB59, quando la necessità di ottenere dall’editore Nistri-Lischi la liberatoria per la ripresa di alcuni racconti lunghi aveva stimolato Cassola, e per la casa torinese Calvino, a estendere la richiesta di permesso anche ai raccontini: «si potrebbe aprire una strada per un’eventuale raccolta in volume di tutti i miei racconti brevi, una parte dei quali figurano appunto nel volume stampato da Nistri Lischi. / Io sarei molto contento che tutta la mia produzione dalle primissime cose a oggi ricevesse una sistemazione definitiva nelle edizioni Einaudi», scrive Cassola a Foà il 6 dicembre 1958. «E se in seguito vorrete raccogliere anche i miei pezzi brevi, darei per titolo La moglie del mercante», fa sapere a Calvino l’11, applicando lo stesso criterio che l’aveva portato a scegliere il titolo di TB59: intestare la raccolta al racconto migliore. Il proposito di Cassola è quello di fornire al lettore un bilancio della propria carriera, cogliendo l’occasione propizia per una conferma à rebours dei traguardi raggiunti: «Io dovrei comunque essere avvertito in tempo, perché mi ci vorrà qualche mese per mettere insieme tutte le mie vecchie cose e farne una scelta» (a Einaudi, 18 settembre 1960). Approvata la proposta, Cassola procede al reperimento: «vi mando il dattiloscritto dei racconti brevi. Non è però completo, dovendovi aggiungere due o tre racconti, che devo ancora rintracciare. / Io penso che se ne possa fare un Supercorallo; naturalmente lo preferirei, anche perché tutte le mie altre cose sono ormai nei Supercoralli. Penso che sia possibile, perché cominciando ogni racconto sulla pagina di destra si verranno a guadagnare un certo numero di pagine bianche: sicché, in definitiva, il volume non risulterà più piccolo de La ragazza di Bube» (a Foà, 10 gennaio 1961).
Dalla scelta della collana Cassola fa discendere il criterio della cernita: «Se ritenete opportuno farne un Corallo anziché un Supercorallo, io toglierei alcuni pezzi per dare una fisionomia più precisa al volume» (a Foà, 17 febbraio 1961); «Facendolo uscire nei “Supercoralli” si avrebbe il vantaggio che si affiancherebbe alla restante mia produzione, già raccolta in quattro “Supercoralli”» (a Calvino, 5 novembre 1961). Il recupero dei raccontini è difficoltoso, e non sempre va a buon fine, se il 18 novembre 1961 Cassola scrive a Bilenchi: «Einaudi deve ripubblicarmi le vecchie cose. L’anno scorso io pregai Frosali di ricercarmi certi raccontini apparsi sul Pomeriggio, o comunque si chiamasse l’edizione della sera della Nazione del Popolo. Lui fece delle ricerche, ma poi smise di scrivermi. Ti dispiacerebbe ricordarglielo?».
La raccolta La visita «sarà il nostro libro per il Natale», gli annuncia l’editore il 16 maggio 1962.
Con Calvino Cassola discute a lungo dell’introduzione; il 5 novembre 1961 gli scrive: «A Roma, l’ultima volta che ci vedemmo, tu esprimesti il parere che sarebbe stata opportuna una prefazione. A me sembra che la chiave di quella “poetica” sia data da alcuni brani a carattere discorsivo che sono inclusi nella raccolta (compreso uno nuovo, intitolato Il film dell’impossibile). A ogni modo fammi sapere cosa ne pensi». Calvino gli risponde l’indomani: «il pezzo Il film dell’impossibile era interessantissimo (bellissimo il pezzo sui libri di cui si sa solo il titolo) e mi pare che faccia bene da introduzione al libro. Forse un primo avvantaggiamento alla lettura sarebbe dato dal disporre i racconti in un ordine che appunto guidi a seguire il filo della tua storia. Ognuno datato. Ma certo se tu scrivessi un tuo pezzo memorialistico o autocritico, l’interesse del volume raddoppierebbe». Cassola valuta anche altre candidature: «Penso sia tempo di rimandarti il manoscritto dei miei vecchi racconti. Tu mi dicesti che sarebbe stato opportuno farlo precedere da una presentazione. Ma chi potrebbe farla? Non vedo altri all’infuori di Bassani, Fortini, Citati o Cancogni. Ora i primi tre la farebbero ciascuno da un’angolatura diversa. Nessuno riuscirebbe a far centro, perché capiscono le cose in modo intellettuale. Cancogni sarebbe il solo in grado di farla partendo da un’emozione di lettura e rimanendo in essa. Ma forse, fatta da Cancogni, perderebbe di valore, perché siamo troppo amici e questi racconti gli appartengono quasi quanto a me. / Potrei farla io. Ma dovrei limitarmi a dire pochissime cose, le sole di cui sia veramente sicuro […] E penso che queste poche cose potrebbero essere riassunte nella risvolta. / La soluzione migliore, ora come ora, mi sembra la seguente: premettere, a mo’ di prefazione, quel brano Il film dell’impossibile. E lasciare in fondo una breve Nota dell’Autore per la cronologia dei racconti» (a Calvino, 3 febbraio 1962).
Lo scritto in questione, Il film dell’impossibile, risale al 1942 (e non al 1943, come erroneamente Cassola indica alla Giannitrapani): «fu pubblicato su un giornale bolognese (“Architrave”?) [apparve invece in «Lettere d’oggi», IV, 11-12, novembre-dicembre 1942] poco prima o poco dopo il 25 luglio [1943]. Io ricordo solo che mandai lo scritto ad Arcangeli, ma che non ne ebbi risposta. A quel tempo ero militare, anzi ero sotto processo e avevo altro a cui pensare» (18 marzo 1961, in Lettere a A.G., p. 2). L’importanza teorica del testo e la sua funzione orientativa quale dichiarazione di poetica affondano le radici in riflessioni personali sull’arte, che Cassola aveva cercato già nel 1941 di formulare in un trattato nel quale sono individuabili al loro stadio germinale, come attestano precisi riscontri (ad esempio: «Il fondamento di un quadro, di una stampa, di una fotografia è lo stesso: l’immobilità di persone e cose. Il personaggio immobile ha tutte le possibilità di movimento intatte, cioè tutte le possibilità di vita intatte. Prendiamo un paesaggio: potrà essere teatro di qualunque vicenda»). Sono infatti degli anni 1941-42 i tre quaderni manoscritti inediti di Cassola sulla «concezione allusiva dell’arte», denominati Diario 1°, Diario 2, Diario 3, la cui stesura è saltuariamente registrata nella forma di discontinue annotazioni giornaliere tra il 25 novembre 1941 e il 29 maggio 1942. Oltre ad alcuni brani per lo più narrativi con le loro riscritture, abbozzi di progetti e citazioni di altri scrittori, i diarî contengono in particolare enunciati di natura estetica, spiegati alla luce di considerazioni generali sull’arte (con la «condanna del romanticismo») nonché illuminati dall’esperienza personale e ribaditi nell’applicazione pratica con la stesura di singoli racconti: «per uscir fuori dalla teoria cui sono poco inclinato (appunto perché scarsamente allusiva) scendo a concretare questi miei concetti». Cassola si chiede il 3 febbraio: «Che significa “la vita come allusione”? Significa che le cose non hanno valore in se stesse, ma in quanto alludono ad altre cose le quali altre cose esse sole valgono, sono cioè ancora eterne cioè ancora metafisiche o assolute che dir si voglia […] Aver valore significa esistere ma esistere in senso metafisico cioè assoluto cioè eterno. Mentre comunemente si reputa esistente cioè che esiste naturalmente e cioè determinatamente nel tempo e nello spazio […] Ed ecco la successiva affermazione: non esiste nulla di cui abbiamo nozione diretta, ma solo di cui abbiamo nozione indiretta: nozione che abbiamo indirettamente attraverso una qualsiasi realtà materiale la quale di per se stessa non ha valore ma vale a darci nozione di una realtà esistente: vale cioè ad alludere ad una realtà esistente». Per la verifica dei fondamenti teorici nei racconti, Cassola osserva che Giorgio Gromo «nacque dalle fotografie e dalle conversazioni. A questa sua privilegiata condizione si aggiungeva, sul suo volto, un segno particolare» (rispetto alle altre citazioni, tutte tratte dal Diario 1°, questa rimanda invece al Diario 2). Del racconto Dànroel, Cassola cita e commenta la frase «il cielo lontano guardava su una terra invisibile»; per la «vera realtà artistica subliminare» de La visita riporta, apprezzandolo, il giudizio di «G. Ferrata: “La visita abbraccia molto più spazio delle due pagine in cui è racchiuso”». Si scopre infine, sempre nel Diario 1°, che ai volumetti del 1942, La visita e Alla periferia, Cassola pensava di affiancare in seguito (nel 1943) Memorie della vita come allusione, poi non realizzato, dedicato all’amico con cui condivise e collaudò la poetica subliminare: «A Manlio Cancogni / Nemmeno la memoria è necessaria / all’amore. Tutti quei moti d’amore / ritornano all’amore che li ha creati […] / WILDER, Il ponte di San Luis Rey». Dedicatari, poi eliminati, erano previsti anche per i due libretti pubblicati nel ’42: «Ai miei genitori» per Alla periferia; «A Rosa / Questi versi scrivete per me: qui egli giace / dove anelò di essere: a casa è il marinaio / dal mare, a casa il cacciatore dalla collina. / STEVENSON» per La visita.
Cassola segue poi assiduamente la cura redazionale del volume LV62: «vi ho rispedito da Volterra le bozze de La visita, corrette. Mancava la Nota dell’autore, e anche l’Indice era incompleto: gradirei rivedere l’una e l’altro. / Il film dell’impossibile deve figurare quasi come una prefazione, perciò avevo consigliato di comporlo in corsivo, cosa che non è stata fatta; deve comunque precedere il corpo dei racconti, essere cioè messo prima della Prima Parte» (a Bollati, 1° settembre 1962). Il suggerimento è condiviso da Giulio Bollati: «sono d’accordo con te che il Film dell’impossibile vada composto in corsivo, se come hai scritto a Calvino non intendi scrivere una vera e propria prefazione […] Ma non faresti in ogni caso una brevissima nota a fine volume, come Montale nei suoi libri? Qualche dato di fatto e la dichiarazione di certe “occasioni” […] P.S. Sto leggendo i racconti e li trovo bellissimi. A parte che si prestano oggi a un discorso interessante, sono di una straordinaria presa poetica anche a una lettura disarmata» (6 settembre 1962). «Sono molto contento che le mie vecchie novelle ti piacciano», gli risponde Cassola il 10. «Io avevo mandato anche una Nota dell’autore, molto breve, che non mi è stata rimandata con le bozze, ma che suppongo sia stata composta. Poiché Calvino mi scrive di fare io il risvolto, penso che eventualmente potrei anche ampliare la Nota dell’autore. Non so: dipende da quello che potrò mettere nel risvolto.»
La questione del risvolto rimbalza da un interlocutore all’altro; il 5 settembre Cassola aveva espresso a Calvino la necessità di un testo che ribadisse il messaggio sperimentale de Il film dell’impossibile: «Certo il lettore, messo di fronte al più rivoluzionario testo del secolo (altro che quei plagiari di Robbe-Grillet, Butor ecc.), deve essere in qualche modo messo sulla strada, e perciò il “risvolto” è molto importante. Io credo che tu possa farlo benissimo (eventualmente potresti farmelo avere per qualche integrazione o modifica) ma se non vuoi prenderti questa briga, dimmelo francamente e lo preparerò da me (ma devi dirmi la lunghezza)». Il 7 Calvino rinuncia: «Risvolto: lo farei volentieri ma ci attrae troppo l’idea d’avere un testo tuo, sia pur redatto in forma anonima. E tu sai tutti i “dati di fatto” che io non so. La lunghezza d’un risvolto dei Supercoralli la puoi calcolare a occhio e croce. Una cartella, una cartella e mezza». «Va bene, mi proverò io a fare il risvolto», gli risponde Cassola il 10. E informa Bollati il 21: «Il risvolto l’ho mandato a Calvino. Alla Nota dell’autore [qui riportata a p. 2] ho aggiunto, o meglio, ho preposto solo questo capoverso [incipit: «Questo volume»; explicit: «quasi più»]. A Davico ho scritto che si facesse mandare un servizio fotografico recente di un’agenzia romana […] P.S. Non mi è stato mandato l’Indice. Spero che sia fatto bene».
Giulio Bollati è l’interlocutore principale nella scelta della copertina: «Scegliemmo insieme [con Bollati] una Marina di Carrà e spero che si ricordi qual era (se tu fossi un subliminare ti direi: la più subliminare delle Marine di Carrà, e non potresti sbagliare. Ma con un marxista come cavolo fare a spiegarti?)», aveva scritto a Davico Bonino il 6 settembre.
Il risvolto entusiasma Calvino: «il tuo “risvolto” è bellissimo. Lo pubblichiamo tale e quale. / Solo mi sono permesso dove dici ha trovato la sua maggiore espressione nel romanzo Un cuore arido, di correggere la sua più coerente espressione. Perché, in un risvolto anonimo, editoriale, mi pare non si possa dare un giudizio così perentorio e foriero di polemiche» (senza data). La proposta di correzione trova d’accordo Cassola, insolitamente di buonumore e divertito, che l’11 ottobre gli risponde: «il risvolto è solo in parte mio. Trattandosi infatti di un testo subliminare di fondamentale importanza, ho stimato necessario riunire il Comitato Centrale del Movimento. Il testo è appunto stato stilato collettivamente dai membri del Comitato (il quale è composto unicamente da Cancogni e da me). Si tratta dunque di un documento ufficiale, ed è gravissimo che tu abbia osato manometterlo. Tuttavia, passi pure per quel “coerente” al posto di “maggiore”».
Con Davico Bonino, Cassola perfeziona la scelta della foto e decide lo slogan di presentazione: «ho visto i provini dell’Agenzia Italia […] Senonché Jerry Bauer mi perseguitava e sono stato costretto a farmele fare anche da lui. Non so però come siano venute. Tra le une e le altre, Bollati avrà da scegliere. / Circa lo slogan di presentazione del libro sotto la fotografia, penso che dovrebbe esserci un richiamo alla Ragazza di Bube e a Un cuore arido, dato che la massa dei lettori conosce solo quelli e li definisce infatti “il primo” e il “secondo”, non supponendo nemmeno che io abbia scritto qualcos’altro prima. Non so se potrebbe andare una frase del genere: / “L’ormai vastissimo pubblico de La ragazza di Bube (100 mila copie) e di Un cuore arido (70 mila copie) troverà in questo libro la chiave di Cassola, il segreto del suo modo di raccontare, apparentemente ligio alle forme tradizionali, in realtà profondamente rivoluzionario perché inteso a rappresentare il fluire più nascosto e più vero della corrente della vita”» (2 ottobre).
La raccolta La visita esce dunque il 25 ottobre 1962 nei «Supercoralli». In sopracoperta: Carlo Carrà, Lido: Forte dei Marmi, Collezione Marmont, Milano. La fotografia dello scrittore è di Jerry Bauer.
Il risvolto, non firmato, è di Carlo Cassola:
Quando alla fine del ’39 sulla rivista «Letteratura» apparvero La visita e altri due raccontini di Cassola, accadde un fatto insolito: un critico li recensì, in una nota breve ma calorosa, come se si fosse trattato di un libro. Giansiro Ferrata, era lui il critico, aveva felicemente intuito la nascita di uno scrittore, già pienamente riconoscibile alla sua prima prova.
In effetti i tre raccontini racchiudevano la poetica che Cassola avrebbe sviluppato in seguito e che ha trovato la sua più coerente espressione nel romanzo Un cuore arido. Allora, come oggi, per Cassola raccontare significava niente altro che aderire con le parole più semplici, dirette e usuali all’esistenza quotidiana, ignorando ogni altro problema.
Ma a questo punto è bene chiarire un equivoco. Molti critici, anche tra quelli che più apprezzano Cassola, hanno visto nella sua opera il riflesso di un’ideologia pessimista propria di tanta letteratura del nostro tempo. Letteratura puramente esistenziale, si è detto, cioè priva di valori morali, sociali, storici, e quindi negativa. Ma Cassola (e questi racconti se letti senza paraocchi ne sono la splendida prova) non ha mai pensato che la pura esistenza sia di per sé un dato negativo. Al contrario, per un cuore aperto e sensibile che cosa ci può essere di più bello dell’esistere e anche (come nella prima parte de La visita) dell’essere esistiti? Quale altro valore, morale, religioso, ideologico, può stare alla pari dell’emozione pura di chi a ogni momento, come si vede nelle pagine di questo libro, è toccato dall’apparire “subliminare” (cioè sotto la soglia della coscienza pratica) delle cose? Ecco perché Cassola non ha bisogno di cercare il fatto eccezionale, il grande personaggio, una società interessante, dei casi. Forse che per un’anima “subliminare”, per un vero poeta cioè, un’esistenza qualunque non è abbastanza interessante? In questo senso, Cecina o Colle valgono Parigi o New York, Murchison o la signora Rosa Boni non hanno nulla da invidiare ai grandi personaggi della storia.
Non si potrebbe quindi far peggiore torto a Cassola di vederlo in veste di moralista che rappresenta una realtà modesta, squallida, provinciale, indegna di essere vissuta. I personaggi di Cassola non sono dei poveri esclusi dal banchetto della vita, delle vittime, degli “alienati”. Essi sono al contrario pienamente liberi e felici. In questi racconti brevi ciò risulta con un’evidenza anche maggiore che nei racconti lunghi e nei romanzi. La visita è dunque una guida indispensabile per capire fino in fondo i libri che Cassola ha scritto in seguito.
Sulla seconda aletta, in corpo minore, con la firma di Carlo Cassola, si legge:
Mi accade spesso di essere qualificato come uno scrittore toscano: e questo perché la maggior parte dei miei racconti sono ambientati in Toscana. In realtà io sono nato a Roma, nel 1917, e a Roma ho vissuto fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Mia madre era toscana, di Volterra, mio padre invece era di famiglia settentrionale. Ho avuto la mania di scrivere fin da bambino; ma solo dopo i diciott’anni mi sono scoperto una vocazione letteraria. Lo scrittore che ha avuto una decisiva influenza sulla mia formazione è stato il Joyce di Dubliners e del Portrait of the artist as a young man.
Nei primi anni scrissi solo racconti brevi, che furono pubblicati in due volumetti usciti nel ’42, La visita e Alla periferia. Il mio primo racconto lungo è del ’46: s’intitola Baba e s’ispira alle vicende della guerra partigiana, a cui avevo preso parte in Toscana. Il mio primo romanzo è del ’52: Fausto e Anna. In seguito ho alternato le due misure del romanzo e del racconto lungo, mentre non ho più ripreso a scrivere racconti brevi. Nel ’59 l’editore Einaudi ha raccolto in un unico volume tutti i miei racconti lunghi. La raccolta è stata intitolata Il taglio del bosco, da quello dei miei racconti che ha ottenuto maggiori consensi critici.
Nel ’60, con La ragazza di Bube, ho vinto il Premio Strega e ho ottenuto un vasto successo di pubblico. Successo che si è ripetuto per il mio ultimo romanzo, Un cuore arido, uscito nel ’61. Per vivere ho fatto il professore e il giornalista. Non ho mai fatto parte di nessuna corrente letteraria. Da molti anni vivo a Grosseto, nella Toscana costiera.
Il successo di vendita del libro fu tale da meravigliare perfino Cassola, che lo considerò «incredibile» e lo commentò in un’intervista: «questi miei raccontini sono già a cinquantamila copie di tiratura. L’editore Einaudi ne aveva stampato una prima edizione di trentamila, ma il numero delle prenotazioni è stato tale che ha dovuto gettarne subito sotto i torchi altre ventimila […] è davvero un libro difficile; sarà forse il momento, sarà l’eco del successo della Ragazza di Bube e di Un cuore arido. E pensare che quando questi racconti, una parte, uscirono nel 1942, nella collana di “Letteratura”, ne stamparono cinquecento copie, e trecento rimasero in magazzino» (in D. Porzio, Troppe idee uccidono il romanzo, in «Oggi illustrato», 3 gennaio 1963, p. 71). In realtà l’edizione originale si componeva, come riportato sul colophon, di «trecentocinque esemplari su carta doppio guinea numerati».
LV62 raccoglie sia l’intera, originaria, LV42 sia la silloge Alla periferia (con l’esclusione del racconto L’orfano), che costituiscono, salvo qualche variazione, la prima e la seconda parte del libro, a cui viene ad aggiungersene una terza; anteposto alle tre parti figura Il film dell’impossibile.
In LV62, il corpus di LV42 viene riproposto con qualche mutamento di ordine e con l’integrazione di tre racconti, di cui uno nuovo (La casa di campagna) e due recuperati da Alla periferia (Paura e tristezza e Alla periferia, qui con il nuovo titolo di La signora Rosa Boni a Roma).
La Parte prima. La visita comprende dunque: La visita, Paura e tristezza, I due amici, Tempi memorabili, Ferrovia locale, Il soldato, Il cacciatore, Monte Mario, Dànroel, La casa di campagna, La signora Rosa Boni a Roma, Il ritorno dei marinai, Terra di Francia, Bandiera rossa, Sogno invernale, Studenti, Franceschino, Giorgio Gromo e Al polo.
La Parte seconda. Alla periferia contiene quasi l’intero corpus dei racconti di Alla periferia. Rispetto all’indice originario il numero dei racconti si riduce da dieci a sette, per l’espunzione de L’orfano e per lo spostamento di Paura e tristezza e Alla periferia (rinominato La signora Boni a Roma) nella prima sezione del libro. L’ordine dei racconti risulta invariato; il titolo Alla periferia è qui attribuito al vecchio Pensieri e ricordi su Monte Mario.
La Parte seconda. Alla periferia comprende perciò: Alla periferia, Il mio quartiere, Diario di campagna, Gli amici, Storia e geografia, La vedova del socialista, Ornitologia.
La Parte terza. La moglie del mercante comprende: La moglie del mercante, I bei tempi sono finiti, Clerici, Romolo, Tricerri, L* C*, Relazione di Giacomo sulla Svizzera, Discorsi di fine tavola, Incontro sullo stradale, Il settentrione, Il caporale Sbrana, Decadenza di “Jack”, Il congressista, Dopo la partita, Alla stazione, L’uomo e il cane, I poveri, Il caporale Müller, Aspettando la corriera, Gita domenicale e Scoperta di Joyce. Gran parte di questi racconti erano già apparsi tra il 1945 e il ’55 in riviste e giornali (su «Il Mondo», «La Nazione del Popolo», «L’Italiano», «Il Mattino dell’Italia centrale», «Botteghe oscure», «Rinascita», «Il Contemporaneo», «Il Nuovo Corriere»); alcuni erano già presenti in TB55 (La moglie del mercante, Clerici, Romolo, Tricerri, L* C*, Incontro sullo stradale, Il settentrione, Il caporale Sbrana, Decadenza di “Jack”).
La moglie del mercante, di tutti i racconti dispersi recuperati nella sezione omonima, è il più antico e l’unico che interrompe l’astensione dalla scrittura di cui parla Cassola per gli anni 1942-1944: «La moglie del mercante lo scrissi in pochi minuti nell’agosto del ’42, con nomi russi (fu pubblicato così prima in una rivistina del ’43, che mi pare si chiamasse “Orsa Maggiore”, io ero sotto le armi e non la vidi), poi, nel ’49, nel numero tre di “Botteghe oscure”. Pubblicandolo in volume nel ’55, levai i nomi russi» (a Piccioni, 21 febbraio 1951). Molti anni più tardi, Cassola ricorderà ancora l’episodio: «Le cose nuove si è portati a buttarle via o a rifarle secondo un modulo convenzionale. A me è accaduto più di una volta: La moglie del mercante, che è oggi una delle cose a cui tengo di più, mi inorridì, e la rifeci; per fortuna non la strappai, e a distanza di anni ritrovai il manoscritto» (a Piccioni, 14 settembre 1957).
Molto tempo dopo la pubblicazione del 1962, Cassola tornerà a parlare della raccolta in un trafiletto mai più ristampato (Cassola: l’antiromanzo, in «Corriere della Sera», 12 febbraio 1970), rimarcandone soprattutto l’intento sperimentale e valutandone la fortuna critica, inferiore al successo di pubblico: «Il mio libro meno capito? Sicuramente il primo, La visita, che uscì durante la guerra e raccoglieva i brevi racconti scritti nell’immediato anteguerra. È vero che quei racconti, fin dalla loro pubblicazione in rivista, mi procurarono una pronta e cordiale accoglienza nel mondo letterario: ma ho sempre avuto il sospetto che ci fosse sotto un equivoco. La visita rappresentava infatti il più radicale esperimento di antiromanzo mai tentato: se non era letta in questa chiave, non so come potesse interessare. / Il primo a capirlo fu Manlio Cancogni, che lesse quei raccontini prima che fossero pubblicati. Cancogni non soltanto li capì, ma li sentì. Perché il punto è proprio questo: quel mio progetto di narrazione esistenziale non nasceva da un proposito astratto, ma dal bisogno di mettere in evidenza quello che era sempre stato il mio principale modo di leggere la realtà. / In altre parole, La visita è unidimensionale: o si afferma quest’unica dimensione, o la lettura non può che lasciare indifferenti. Io ho avuto la confortante impressione che parecchi lettori l’abbiano afferrata, quando nel ’62 La visita è stata stampata e riproposta a un pubblico più largo. / In conclusione, La visita è il solo libro per cui debba dichiararmi insoddisfatto della critica. Critiche acute non sono mancate […] nessuno ha però analizzato l’uso assolutamente inconsueto che io ero stato costretto a fare dei procedimenti narrativi. Credo che ne varrebbe la pena».
Per le edizioni successive a LV62, va segnalato che nella riproposta einaudiana della raccolta, del 1982 (nei «Nuovi Coralli», identica a LV62, con in copertina un particolare del quadro di Carrà Dopo il tramonto), la quarta di copertina risulta errata, riferendosi inequivocabilmente a Tempi memorabili. La visita appare successivamente per Rizzoli (collana «La Scala»), nel 1989, con un diverso quadro di Carrà in sopracoperta (L’attesa), e un risvolto a firma di Sergio Pautasso.
La presente edizione della raccolta La visita riprende il testo de La visita 1962 e tiene conto anche delle correzioni apportate a mano da Cassola sull’esemplare di LV62 (seconda edizione) da lui designato come «redazione definitiva».
Alba Andreini
* Per i testi e i carteggi citati si rinvia alla Tavola delle abbreviazioni e all’Elenco dei fondi in coda alla Cronologia (pp. XXXI-XXXII).