I’ fui nato e cresciuto
sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa1

Le «gloriose stelle»

Dante Alighieri nasce a Firenze nel maggio 1265 sotto il segno dei Gemelli. Al fonte battesimale gli viene imposto il nome Durante. Nome che lui non userà mai: negli scritti si autonomina e si firma sempre e solamente Dante; Dante lo chiamano i suoi corrispondenti poetici; Dante è l’unico nome che figura nei documenti, privati e pubblici, redatti mentre era ancora in vita; Dante, infine, è la forma sulla quale sono state elaborate tutte le «interpretazioni» del suo nome. Nel Medioevo era diffusa la convinzione che il nome di una persona, se rettamente interpretato (interpretatio nominis) – che non vuol dire interpretato secondo una corretta etimologia –, rivelasse il destino di chi lo portava o, meglio ancora, che le azioni compiute da chi lo portava svelassero il significato profondo del nome. Come il nome Beatrice comunica che quella donna è «beata» di per sé e «fonte di beatitudine» per gli altri, così il nome Dante segnala che il suo portatore, attraverso le opere, «dà», elargisce agli altri i grandi doni intellettuali ricevuti da Dio.

Di essere nato sotto il segno zodiacale dei Gemelli lo dice Dante stesso nel Paradiso. Durante la salita all’Empireo, venutosi a trovare proprio in quella costellazione, prega i Gemelli di aiutarlo nell’ultimo impegnativo tratto della sua ascesa e ricorda come il sole fosse congiunto con loro nel momento in cui, per la prima volta, lui aveva respirato l’aria di Toscana: «quand’ io senti’ di prima l’aere tosco».2 Nell’istante del suo primo respiro, quando gli influssi degli astri agiscono con più forza, quelle «gloriose stelle» avevano infuso in lui tutto l’«ingegno» di cui, grande o piccolo che sia («qual che si sia»), si sente dotato. Tuttavia, benché molte volte si occupi di problemi astrologici, e benché insista sulla particolare «virtù» delle stelle che hanno presieduto alla sua nascita, Dante non specifica mai quale influsso particolare esse abbiano esercitato su di lui. Gli astrologi dell’epoca sostenevano che, se nella «casa» dei Gemelli erano presenti anche Mercurio e Saturno (congiunzione che si era verificata proprio nel 1265), i nati sotto il segno erano dotati di eccellenti qualità intellettuali e di particolari capacità di scrittura. Può darsi che lo pensasse anche Dante. Di sicuro, al di là delle (non molte) dichiarazioni di modestia, egli era convinto che i Gemelli lo avessero provvisto di un notevole ingegno.

Possiamo essere certi, comunque, che se fosse nato sotto un altro segno, egli avrebbe ugualmente sostenuto che esso lo aveva beneficato in sommo grado. Della personalità di Dante, infatti, l’aspetto più rilevante è il suo sentirsi diverso e predestinato. In ciò che ha visto, fatto o detto, si tratti della nascita di un amore, della morte della donna amata, della sconfitta politica o dell’esilio, lui scorge un segno del destino, l’ombra di una fatalità ineludibile, la traccia di una volontà superiore. È un’idea che ha cominciato a nutrire fin da giovane e che si rafforzerà nel tempo fino a sfociare nella convinzione di essere stato investito da Dio della missione profetica di salvare l’umanità. Come non chiedersi, allora, quale immagine di sé desse nella vita di ogni giorno un uomo così egocentrico e così persuaso della propria eccezionalità e, soprattutto, come gli altri lo giudicassero?

Il ritratto vulgato di un Dante sdegnato, superbo, altezzoso, di un uomo dalle granitiche convinzioni che, per amore di verità, sfida i potenti e paga di persona la sua indefettibile coerenza nasce, ovviamente, dalla Commedia: sia da ciò che in essa Dante dice di sé («sta come torre ferma, che non crolla / già mai la cima per soffiar di venti»,3 «ben tetragono ai colpi di ventura»4) sia dal ruolo di giudice dell’umanità che in essa si arroga. In effetti ci voleva un’autostima fuori del comune per emettere tante impietose sentenze, lanciare così feroci sarcasmi e pronunciare accuse infamanti nei confronti di persone di rango, molte delle quali, per di più, ancora viventi o delle quali, comunque, erano ancora vivi i diretti discendenti. Tale ritratto, però, non corrisponde del tutto alla realtà umana e psicologica di un uomo costretto a barcamenarsi tra fazioni politiche contrapposte, a contemperare i voleri di protettori tra loro spesso divisi e ostili, di un esule senza mezzi materiali alla perenne e infruttuosa ricerca di un luogo che potesse sostituire la patria perduta.

I contemporanei non sono di grande aiuto a chi voglia ricostruire quale fosse il vero Dante. Fra quelli che lo hanno conosciuto, quasi nessuno ha scritto di lui; solo pochi della generazione successiva ne parlano dopo essersi documentati.

Giovanni Villani, più giovane di una decina d’anni, di Dante era stato, se non amico, conoscente. Nella sua storia di Firenze, sotto la data del 1321, gli dedica un intero paragrafo, nel quale ne traccia anche un breve, ma puntuto, profilo caratteriale: riconosce che con le sue opere ha onorato la città, ma insinua che nella Commedia «si dilettò», forse perché esacerbato dall’esilio, «di garrire e sclamare» (parlare in modo aspro) più del dovuto e poi afferma che la sua sapienza lo aveva reso «presuntuoso», «schifo e isdegnoso» (sprezzante e altero) e, per finire, nota che, come fa un sapiente poco affabile («mal grazioso»), non era capace di parlare come si conviene con le persone indotte («co’ laici»), insomma, che era insofferente e maldisposto.

Giovanni Boccaccio, che non lo ha conosciuto, ma che ha parlato con molte persone che lo avevano conosciuto, è un suo ammiratore incondizionato, e perciò il ritratto che ne dipinge è tutto improntato alla lode se non alla vera e propria esaltazione. Tuttavia alcuni tratti sono simili a quelli delineati dal Villani, solo che Boccaccio volge in positivo le notazioni poco simpatetiche dell’altro. Peculiarità di Dante quali il parlare poco e solo se «domandato», l’amore per la solitudine, il perdersi in immaginazioni e pensieri fino al punto da non accorgersi di ciò che gli accadeva intorno, il mostrarsi «superbo e disdegnoso molto», sono aspetti propri del saggio e del filosofo, di chi è consapevole della propria grandezza («né gli parve meno valere … che el valesse»). Per quanto riguarda la superbia, sebbene Dante stesso si accusi di questo peccato, Boccaccio, da storico scrupoloso, richiede il conforto dei «contemporanei», cioè di coloro che lo avevano conosciuto in vita. E a testimonianze orali ricorre anche per documentare un lato negativo – che addirittura, si vergogna di dover rilevare – della personalità dantesca, vale a dire l’«animosità». Gli risulta che, se toccato sulla politica, si adirasse fino a perdere l’autocontrollo, proprio come un pazzo «insano» (furioso). E ciò anche per futili motivi. Pare che in Romagna (dove Dante aveva trascorso gli ultimi anni di vita e dove anche Boccaccio aveva soggiornato) fosse noto a tutti («pubblichissima cosa è in Romagna») che Dante, se udiva una «femminella» o perfino un ragazzino («piccol fanciullo») sparlare dei Ghibellini, montava in un tale stato di collera che, se non si fossero taciuti, li avrebbe presi a pietrate. Che sia vero sembra poco credibile; è credibile, invece, che in Romagna si fosse tramandata l’immagine di un Dante irascibile e ferocemente di parte. Secondo Boccaccio, a scatenare quelle crisi era l’odio per i Guelfi, che lo avevano cacciato da Firenze, odio che, per reazione, aveva fatto di lui un «fiero ghibellino». Dante, ghibellino non fu mai, ma che la tolleranza non fosse tra le sue virtù traspare da ogni suo atto.

Boccaccio schizza anche un ritratto fisico: volto lungo, naso aquilino, occhi grandi e mascelle sporgenti in un accentuato prognatismo («dal labro di sotto era quel di sopra avanzato»). Sono particolari che diventeranno canonici nella ritrattistica posteriore, soprattutto quattrocentesca. Ma Boccaccio da dove li ha ricavati? Colpisce che alcuni di quei tratti si riscontrino nella figura affrescata (pare prima del 1337) nella cappella del Palazzo del podestà o del bargello, a Firenze: nessun documento attesta che l’immagine, un tempo attribuita a Giotto, raffiguri Dante, ma la sua parziale somiglianza con quella, più tarda (1375-1406), rinvenuta di recente nell’antica Sala dell’udienza del Palazzo dell’Arte dei giudici e notai, sempre a Firenze, e sicuramente riferibile a Dante, conferma che si tratta proprio di un ritratto dantesco. Boccaccio, dunque, avrebbe potuto vedere quell’affresco, ma forse anche altri oggi perduti. Sennonché egli aggiunge ulteriori particolari, come la bassa statura, il colorito scuro e il fatto che in età matura fosse un po’ curvo («alquanto curvetto»), che non può aver desunto, soprattutto l’ultimo, da immagini dipinte, ma che devono essergli stati riferiti da persone che avevano conosciuto Dante. E infatti nomina un Andrea Poggi, «uomo idioto, ma d’assai buono sentimento naturale» (illetterato, ma di naturale buon senso), con il quale più volte aveva parlato «de’ costumi e de’ modi di Dante». Ebbene, Andrea, che risulta maggiorenne nel 1304, non solo aveva conosciuto Dante, ma ne era addirittura nipote (era figlio, infatti, di una sorella di Dante di cui ignoriamo il nome) e, per di più, un nipote a lui straordinariamente assomigliante non solo nei lineamenti del viso, ma anche «nella statura della persona» e perfino nel portamento, dato che lui pure «andava un poco gobbo, come Dante si dice che facea». Questo per dire che nel ritratto di Boccaccio qualcosa dell’originaria figura di Dante deve essere rimasto, così come, alla luce di certe coincidenze, qualcosa dei lineamenti del volto deve essere rimasto nell’immagine del Palazzo del podestà. Il che significa, allora, che, al di là delle tipizzazioni inevitabili (quasi caricaturale, se è la sua, è l’immagine graffita nel Trecento su un muro al pianoterra del convento fiorentino della SS. Annunziata, già di Santa Maria di Cafaggio), in alcuni degli elementi più topici dell’immagine divenuta tradizionale (il prognatismo, se non il naso aquilino) possiamo scorgere almeno un barlume della fisionomia dantesca.

La «cerchia antica» e «la gente nova»

Dante nasce nella casa di famiglia sulla piazza retrostante la chiesa di San Martino al Vescovo, nel sestiere di San Pier Maggiore, quasi dirimpetto alla torre, ancora esistente, della Castagna, a due passi dalla chiesa della Badia e dal Palazzo del podestà. La casa degli Alighieri, dunque, si trovava circa a metà strada tra il duomo e l’attuale piazza della Signoria, a est dell’odierna via dei Calzaiuoli. Quando Dante, nel 1302, fu condannato all’esilio, alla confisca e alla distruzione dei beni, la casa non fu rasa al suolo: lo impedì il fatto che egli ne condivideva la proprietà con il fratellastro Francesco. Nei primi decenni del Quattrocento era ancora in piedi. Leonardo Bruni racconta di un pronipote di Dante di nome Leonardo, discendente del primogenito Pietro, il quale, venuto a Firenze «con altri giovani» da Verona, dove la famiglia risiedeva ormai da due generazioni, si era rivolto a lui per avere informazioni sull’illustre trisavolo: in quell’occasione Bruni gli aveva mostrato «le case di Dante et de’ suoi antichi» e gli aveva dato notizia «di molte cose a lui incognite».

La casa – «assai decente», a detta di Bruni – doveva essere di modeste dimensioni. Eppure nella Vita Nova, che si presenta come autobiografica, Dante accenna più volte a una sua «camera» nella quale si ritirava in solitudine a pensare, a piangere e anche a dormire. L’insistenza sul fatto che un ambiente domestico fosse a sua esclusiva disposizione colpisce non poco, sia perché nelle case medievali non esistevano spazi differenziati e destinati all’uso di un solo membro della famiglia, sia perché nella piccola casa degli Alighieri, negli anni nei quali è ambientata la storia della Vita Nova, oltre a Dante vivevano almeno la moglie, forse un figlio, la matrigna e il fratellastro. È poco credibile, dunque, che egli vi avesse una sua camera. Solamente le persone molto ricche potevano godere di spazi adibiti a studio o a stanza da letto e preclusi agli altri. Se la possibilità di avere un ambiente domestico personale denotava una condizione signorile, è più che probabile che con l’insistere sulla camera Dante volesse alludere a un suo stile di vita aristocratico: anche questo sarebbe uno dei tanti segni di distinzione con i quali egli cerca di negare le sue origini mediocri per collocarsi a un livello sociale più elevato.

Anche se la casa era modesta, San Pier Maggiore era quello che oggi diremmo un buon quartiere. Vi abitavano famiglie magnatizie – alcune nobili, altre insignite della dignità cavalleresca – e popolane, senza quarti di nobiltà, anzi, il più delle volte di origini assai umili, ma molto facoltose. Magnatizie o no, erano famiglie influenti. Alcune, come i Portinari, la famiglia d’origine di Beatrice, eserciteranno un ruolo importante nella vita di Dante; altre, come i Cerchi e i Donati, addirittura decisivo: sarà lo scontro esiziale tra le fazioni guidate da queste due consorterie a causare il suo esilio. Come tutti i sestieri, anche San Pier Maggiore era diviso da interessi economici, soprattutto bancari e commerciali, e politici: in una prima fase, Guelfi contro Ghibellini; in seguito, Guelfi «neri» (Donateschi) contro Guelfi «bianchi» (Cerchieschi). E tuttavia le famiglie rivali vivevano gomito a gomito in case fortificate e munite di torri poste l’una a contatto dell’altra ed erano, proprio per questo, sempre attente a preservare il controllo della propria zona residenziale e pronte a sfruttare ogni occasione per accrescerla. I matrimoni venivano contratti di preferenza tra residenti in case vicine proprio per poter ingrandire in modo omogeneo i possedimenti immobiliari. Più vasta era la porzione direttamente controllata e più forte era l’influenza sull’intero quartiere. Il pericolo maggiore era che altre famiglie si insinuassero nel proprio territorio. Una delle cause scatenanti della lotta che sarebbe terminata solo a fine secolo, e con esiti drammatici, tra le famiglie appena ricordate dei Donati e dei Cerchi fu proprio un problema di invasione del territorio. I Cerchi, ricchissimi ma di bassi natali, erano arrivati a possedere una parte considerevole del sesto: nel 1280 vi avevano acquistato anche le case di proprietà dei Guidi, conti palatini, una delle più eminenti dinastie feudali fra Toscana e Romagna, le avevano ristrutturate e vi conducevano una vita sfarzosa. I Donati, di antica nobiltà ma meno provvisti di mezzi, si ritenevano i maggiorenti del sestiere e, vedendo minacciata la loro supremazia, cominciarono a covare odio misto a disprezzo per quei vicini senza passato che esibivano spudoratamente la loro potenza economica.

La Firenze in cui Dante ha vissuto fino all’età di trentasei anni non assomigliava alla città che poi sarebbe diventata famosa nel mondo per i suoi monumenti architettonici. Ovviamente, non c’erano né il campanile di Giotto né la cupola di Brunelleschi né i palazzi dell’età medicea, ma non si ergevano ancora neppure Santa Maria Novella e Santa Maria del Fiore. La Firenze di Dante è una città medievale: un intrico di vie strette, di case di pietra e di legno addossate le une alle altre, un insieme disordinato di abitazioni, fondaci, botteghe e magazzini intervallato qua e là da orti, vigneti e giardini. Le chiese sono numerose, ma di piccole dimensioni; le torri numerosissime e a volte di dimensioni notevoli. I grandi clan familiari le costruiscono in parte per segnalare il loro potere, ma soprattutto a difesa delle case e delle botteghe sottostanti e come postazioni elevate dalle quali colpire in un vasto raggio intorno. Difendersi e minacciare erano operazioni entrambe necessarie in una città nella quale le rivalità tra privati e gli odi di parte degeneravano in violenze e scontri quasi quotidiani. Insomma, a disegnare il profilo della città erano le torri e i campanili, non architetture monumentali, civili o religiose. Sarà solo verso la fine del secolo che cominceranno i lavori per alcuni grandi progetti architettonici che ancor oggi plasmano l’immagine di Firenze. Nel maggio 1279 i domenicani del convento di Santa Maria Novella pongono solennemente la prima pietra di una chiesa che nelle loro intenzioni sarebbe dovuta diventare una delle più grandi d’Italia; nel 1284 è rinnovata (forse dal grande architetto Arnolfo di Cambio) la vecchia Badia; nell’ottobre 1295 i francescani iniziano la costruzione di Santa Croce; l’anno dopo comincia la trasformazione, su progetto di Arnolfo di Cambio, dell’antica ma piccola cattedrale di Santa Reparata nell’imponente Santa Maria del Fiore; nel febbraio 1299, sempre su progetto di Arnolfo, prendono il via i lavori del Palazzo dei priori (poi detto della Signoria e, infine, Palazzo Vecchio). Sono imprese la cui realizzazione richiederà anni di lavoro, alcune addirittura secoli.

Nell’ultimo periodo in cui ha abitato a Firenze, Dante ne ha visto i cantieri, ha passeggiato sotto le impalcature. Quei maestosi edifici, però, non hanno fatto in tempo a imprimersi nel suo immaginario come nuovi simboli della città. Nemmeno il duomo di Santa Maria del Fiore, che pure, benché lontano dall’essere completato, già veniva utilizzato (e celebrato come nuova gloria cittadina) quando lui viveva ancora a Firenze. Dante non lo nomina mai. Al centro dell’immagine della città che egli si porta dietro nell’esilio resta il Battistero di San Giovanni. Fino agli inizi del Trecento il suo «bel San Giovanni»5 era stato non solo l’edificio più grande e più riccamente decorato di Firenze, ma il tempio cittadino per antonomasia, quello in cui si svolgevano le più significative cerimonie liturgiche, in cui il Comune custodiva il carroccio e depositava i trofei di guerra. Nessun’altra costruzione faceva concorrenza a questo simbolo religioso e civile della città.

Insomma, la Firenze in cui Dante nasce e trascorre la prima parte della vita non è una città che si imponga per la grandiosità dei monumenti o lo sfarzo dei palazzi. La sua rivale storica, Pisa, per numero, dimensioni e ricchezza degli edifici (si pensi solo al complesso marmoreo duomo-battistero) forniva ben altro colpo d’occhio. Firenze, però, non era una città piccola (intorno al 1280 contava tra i quaranta e cinquantamila abitanti, pertanto era fra le più ragguardevoli in Europa) e, soprattutto, era in piena espansione, mentre Pisa era in declino.

Già intorno alla metà del Duecento la cerchia di mura che alla fine del secolo precedente aveva sostituito l’antica cinta romano-bizantina si era rivelata insufficiente: al di là del perimetro murario erano sorti monasteri, chiese, borghi di notevole dimensione. E così, a cominciare dal 1285, si procedette a costruire una terza cerchia fortificata, i cui lavori terminarono solo nel 1333. Essa, alla fine, aveva un perimetro di otto chilometri e mezzo; del resto, a quella data la popolazione era quasi raddoppiata rispetto a quella del 1280.

Firenze, dunque, è una città dinamica. La sospinge uno straordinario sviluppo economico. Il cuore dell’economia fiorentina è la finanza. È impressionante il numero delle sue compagnie bancarie e mercantili (le due attività erano quasi sempre congiunte): hanno la loro base in città, ma operano sull’intero scacchiere europeo e mediterraneo attraverso un sistema di filiali e di alleanze in grado di coprire i mercati più importanti, dalle Fiandre all’Inghilterra, dalla Francia al Regno di Sicilia, al Nord Africa. Il cuore della finanza fiorentina è il fiorino. Questa moneta di ventiquattro carati d’oro, che su una faccia aveva impresso il giglio simbolo della città e sull’altra l’effigie di Giovanni Battista, suo protettore, fu coniata a partire dal novembre 1252 e ben presto si impose come la principale moneta degli scambi internazionali, una sorta di dollaro dell’epoca, che aveva corso perfino tra i Saraceni. Il famoso teologo e predicatore domenicano Remigio dei Girolami arriva a proclamare che il fiorino era uno dei sette doni concessi a Firenze dalla Provvidenza. Lo sviluppo economico e l’accresciuto ruolo di Firenze come potenza regionale provocano un cospicuo fenomeno di inurbamento, alimentato non solo dall’immigrazione di manodopera dal contado, ma anche dall’insediarsi in città di proprietari terrieri e di detentori di diritti feudali, nonché di artigiani, giudici, avvocati e notai provenienti da altri centri urbani.

Niente di tutto ciò piaceva a Dante. Per lui il fiorino era un «maladetto fiore»6 sbocciato dalla corruzione. Era il simbolo tangibile del pervertimento della società. I nuovi potenti, divenuti tali grazie agli affari, avevano sostituito il guadagno alle virtù civiche e militari delle antiche famiglie magnatizie. La grandezza, la confusione, l’attivismo di una città nella quale nobili e popolani erano tutti dediti a una qualche occupazione economica suscitano in lui il rimpianto della piccola Firenze di cent’anni prima, della città che, «dentro da la cerchia antica»7 delle mura, viveva sobriamente, ma con decoro, pace e pudicizia, e regolava i tempi della giornata lavorativa sul suono delle campane della Badia. I fiorentini allora si sentivano parte di una comunità ristretta, rispettosa di gerarchie sociali immutabili («fida cittadinanza»),8 ignara degli sconvolgimenti prodotti dall’arrivo dei forestieri del contado («la gente nova») e dai rapidi arricchimenti di famiglie senza passato («i sùbiti guadagni»).9 Nessuno, a quei tempi, avrebbe potuto prevedere che i Guidi, i conti per antonomasia, si sarebbero dovuti piegare ad avere residenze in città, proprio nel vicinato degli Alighieri; ma, peggio ancora, che quelle case poi sarebbero state acquistate dai Cerchi, una famiglia di origini oscure immigrata dalla Val di Sieve. E tanto meno i felici abitanti dell’antico San Pier Maggiore avrebbero immaginato che un giorno nel loro quartiere si sarebbe sparso il «puzzo / del villan d’Aguglion»,10 del giurista Baldo proveniente dal castello di Aguglione in Val di Pesa. Durante l’esilio Dante sarà sferzante nei confronti dei Cerchi e, ancor più, di Baldo d’Aguglione: i suoi giudizi nasceranno dalla delusione, perché lui a Firenze era stato uomo dei Cerchi, e dall’odio personale, perché anche con Baldo, prima che questi diventasse suo nemico, per un breve periodo aveva avuto una qualche consonanza politica. E tuttavia Dante, sebbene rispetto agli umanisti alla Petrarca, così brillantemente internazionali e super partes, appaia per carattere e per formazione uomo di municipio, in realtà non fu mai in sintonia con la società fiorentina, nemmeno quando godeva dei diritti di cittadinanza. Ne avversava proprio la modernità, cioè il progresso economico e la mobilità sociale.

Tra le molte contraddizioni della sua personalità spicca il modo antitetico nel quale egli valuta le innovazioni a seconda che incidano sulla sfera artistico-culturale o su quella politico-sociale. Dante ritiene, ed è un pensiero del tutto originale, che lo scorrere del tempo abbia un ruolo decisivo nel trasformare i fenomeni culturali: le lingue naturali sono instabili e incessantemente mutevoli; le arti e la letteratura sono anch’esse in movimento: Franco Bolognese supera l’arte di miniare di Oderisi da Gubbio, Giotto soppianta Cimabue, Cavalcanti toglie a Guinizelli la gloria della lingua, il «dolce stil novo» si lascia alle spalle tutta la produzione lirica da Giacomo da Lentini a Guittone d’Arezzo e Bonagiunta da Lucca. Ebbene, l’intellettuale che mostra di avere una così acuta percezione della storicità dei fenomeni culturali, quando volge lo sguardo alle dinamiche sociali, economiche e politiche della sua epoca vorrebbe bloccare il corso della storia, anzi, riportare indietro le lancette dell’orologio. Rifiuta in blocco gli assetti produttivi basati sulla manifattura, il commercio e la finanza, il rimescolamento del tessuto sociale dei Comuni da essi prodotto (la «cittadinanza, ch’è or mista»),11 le nuove forme signorili di governo (che lui chiama «tirannidi»), il deperimento delle giurisdizioni feudali, la centralità della finanza nei rapporti tra Stati e signorie. Dante considera il dinamismo sociale degenerazione dei costumi e perversione dei valori; la perdita di ruolo e di potere degli antichi ceti dominanti, caduta dei pilastri dell’ordine comunitario; la concorrenza aspra tra le città e l’affermarsi di istituzioni signorili, disordine esiziale per la pacifica convivenza della cristianità. È convinto che la salvezza verrà solo ritornando indietro alla serena e domestica Firenze premercantile, all’epoca in cui la cristianità poggiava sull’equilibrio tra i due «soli» (papato e impero), a un assetto sociale gerarchico e stabile imperniato sulla nobiltà feudale. Tornare indietro e bloccare il tempo. Ricostituire un mondo immobile, garantito da un disegno istituzionale immutabile, simile in questo all’eterna corte celeste del Paradiso.

Tra distruzione e ricostruzione

La Firenze in sommovimento punteggiata di cantieri, coperta di impalcature, popolata di operai e percorsa da carri carichi di materiali da costruzione, Dante l’ha vista negli ultimi vent’anni in cui vi ha abitato; ben altra immagine della città aveva avuto davanti agli occhi in quelli precedenti. Firenze gli mostrava strade sventrate, cumuli di macerie, abitazioni scoperchiate, torri diroccate o mozzate. Per non dire che, addirittura, ha rischiato di non vederla. Sono state le aspre lotte, una vera e propria guerra civile, tra Guelfi e Ghibellini a provocare continue distruzioni e a far correre alla città il rischio di essere rasa al suolo.

Nel XIII secolo il prevalere dell’uno o dell’altro partito non si configurava come una normale alternanza al potere. A Firenze, e nelle altre città, lo spoils system ai danni dei perdenti consisteva nella spoliazione dei beni, quando non della vita stessa. Se riuscivano a salvare la pelle, gli sconfitti venivano confinati o esiliati; subivano il saccheggio delle abitazioni, la confisca o la distruzione delle case e dei luoghi di lavoro. Ciò a seguito di processi più o meno regolari. Ma innumerevoli erano le vendette private e i regolamenti di conti perpetrati senza alcuno schermo legale. E questo era il motivo che spesso induceva anche chi non era stato colpito da un bando a emigrare di propria volontà. La giustizia vessatoria e le persecuzioni private scavavano tra le parti un fossato d’odio che si allargava sempre più dal momento che il susseguirsi di vittorie e di sconfitte comportava il ripetersi delle spoliazioni e dei bandi. La spirale dell’odio finiva per dividere i clan familiari più ampi e per frantumare perfino quelli ristretti. In città la convivenza era precaria, soggetta a improvvisi scoppi di violenza collettiva e a colpi di mano di singoli individui anche nei periodi di tregua, quando le fazioni cercavano di collaborare.

La divisione in Guelfi e Ghibellini non era solo un fenomeno interno. Entrambi i partiti avevano alleati in altre città e rapporti stretti con i maggiori fautori internazionali dell’impero e della Chiesa. Perciò le lotte intestine si intrecciavano con le questioni di politica estera, e le conseguenze non erano di poco conto. Ne è un esempio proprio la proposta di distruggere Firenze fatta dai rappresentanti del re di Sicilia Manfredi – capo dello schieramento ghibellino intorno alla metà del secolo – in un congresso tenuto a Empoli dai vincitori della battaglia di Montaperti, in cui, nel settembre 1260, i fuorusciti ghibellini di Firenze, i senesi e le forze imperiali di Manfredi avevano inflitto una disastrosa sconfitta ai fiorentini governati dai Guelfi. La proposta non passò per l’opposizione dei Ghibellini di Firenze guidati dal capo carismatico Manente degli Uberti, detto Farinata (immortalato da Dante nel canto X dell’Inferno). Firenze non fu rasa al suolo, ma semidistrutta sì. I Ghibellini, rientrati in città, infierirono sugli sconfitti con bandi d’esilio, proscrizioni, confische e con la distruzione dei beni immobili. Siccome solo due anni prima erano stati i Guelfi ad abbattere le case dei Ghibellini, alla fine del 1260 Firenze doveva essere in gran parte coperta di macerie. Ma non era finita. Sette anni dopo, a seguito della sconfitta di Manfredi a Benevento (1266), le parti si rovesceranno. I Ghibellini saranno proscritti ed esiliati, i loro beni confiscati e molti loro possedimenti smantellati. Le macerie di queste e delle precedenti distruzioni saranno visibili per molti anni. Il giovane Dante, camminando per le vie della città, avrà visto una Firenze semidiroccata, costellata di ferite profonde e non rimarginate. Ferite del tessuto urbanistico che resteranno aperte per molti anni, in certi casi per sempre. Alcuni dei complessi edilizi allora abbattuti, infatti, non saranno più riedificati. Le case e le torri della famiglia Uberti, la più potente e illustre dello schieramento ghibellino, situate nel sesto di San Pier Scheraggio in un’area vicina all’attuale Palazzo Vecchio, furono rase al suolo e le macerie rimasero in loco per decenni. Lo spazio che esse occupavano non fu mai più edificato, tanto che quell’area finì per confluire nell’attuale piazza della Signoria, accanto al Palazzo dei priori.

Nel 1280 le parti in lotta formalizzeranno una contrastata pacificazione: si aprirà la fase della ricostruzione. I Ghibellini riedificheranno le case abbattute; cominceranno i lavori per grandi opere civili e religiose; le rovine, che per vent’anni avevano ingombrato le strade, saranno utilizzate per consolidare i terrapieni della nuova cinta muraria.

Dante ha abitato in una città dai due volti, ma con un tratto comune, l’instabilità. Viene da chiedersi se la visione di una Firenze presa nel ciclo distruzione-ricostruzione, e perciò costantemente in movimento, non abbia acuito il suo desiderio di stabilità cooperando al formarsi della grande utopia regressiva del ritorno all’antico, alla Firenze immobile nella sua struttura urbana e sociale.

Guelfi e Ghibellini: le radici dell’odio

Dante è stato un politico di secondo piano. Della sua attività pubblica le cronache del tempo o tacciono o parlano solo di sfuggita. Eppure la politica ha condizionato la sua vita più di ogni altra cosa. Vissuto in una città stabilmente guelfa, ne fu cacciato a causa delle divisioni che verso la fine del Duecento lacerarono il partito al potere; da esule, nel suo peregrinare tra città e castelli dell’Italia centro-settentrionale, rimase coinvolto anche nelle ostilità, che in patria non aveva sperimentato di persona, tra Guelfi e Ghibellini.

I termini «guelfi» e «ghibellini» sono la trasposizione italiana dei nomi che in Germania, nel XII secolo, designavano rispettivamente i sostenitori dei pretendenti alla corona imperiale della casata bavarese e sassone dei Welfen e i fautori degli Hohenstaufen, signori del castello di Wibeling. Nell’Italia centro-settentrionale i due termini cominciarono a diffondersi durante lo scontro tra i papi e l’imperatore Federico II, quando finirono per designare gli schieramenti filopapale (Guelfi) e filoimperiale (Ghibellini). Anche se la divisione in due partiti delle città e delle consorterie feudali era correlata a questioni che travalicavano gli ambiti locali, a determinare la composizione degli schieramenti erano interessi e situazioni socio-culturali peculiari a ciascuna città. Insomma, il più delle volte il dichiararsi Guelfi o Ghibellini forniva una copertura ideologica alle lotte, endemiche nella società comunale, tra grandi famiglie, ciascuna delle quali era a capo di un proprio sistema di alleanze e di relazioni economiche.

A Firenze, città a cui, nella seconda metà del XIII secolo, la finanza conferisce una spiccata proiezione internazionale, i legami tra vicende interne e politica estera sono particolarmente stretti. Il fatto che le rivalità tra i partiti si intreccino con i rapporti finanziari e commerciali sullo scacchiere internazionale trasforma, a partire da Montaperti, quello che nei primi decenni era uno scontro limitato alla fascia ristretta della classe di governo in una lotta che coinvolge l’insieme della cittadinanza. A essere messo in gioco, infatti, è il destino della città, non di questo o quel gruppo dirigente. L’oligarchia al potere era costituita dalle famiglie magnatizie, i cosiddetti «Grandi». I magnati, considerati tali non solo per nobiltà di sangue, ma anche per censo e per stile di vita, si distribuivano tra i due partiti, anche se, in linea di massima, l’aristocrazia d’estrazione feudale era più vicina a quello dell’impero, mentre l’aristocrazia del denaro, più aperta al cosiddetto «popolo», cioè a quel composito aggregato di mercanti, artigiani ricchi, proprietari di immobili che costituiva il nerbo della società fiorentina, propendeva per il partito del papa.

Con Federico II di Svevia, del casato degli Hohenstaufen (1194-1250), la lotta per la supremazia tra gli imperatori germanici e il papato – iniziata con il nonno Federico I detto Barbarossa e proseguita con il padre Enrico VI – diventa una questione prevalentemente italiana. A Federico II, infatti, era riuscito di unificare in una sola persona il titolo di re di Sicilia (1198) e di imperatore dei Romani (1220), e proprio questo i papi temevano più di ogni altra cosa. Il Regno di Sicilia, comprendente, oltre all’isola, l’intera Italia meridionale, dal punto di vista formale era feudo del papa, ma in realtà godeva di una piena autonomia; anche l’impero vantava diritti sull’Italia centro-settentrionale, ma le città comunali e le signorie si comportavano come città-Stato del tutto indipendenti. Il papato temeva che un imperatore che avesse avuto il controllo sia della Germania sia dell’Italia meridionale sarebbe stato spinto a collegare i due domini ripristinando il suo potere sul resto della penisola. Se ciò fosse accaduto, i territori dell’Italia centrale e della Romagna sui quali il papa esercitava la propria diretta autorità (i cosiddetti «possedimenti di San Pietro») sarebbero stati accerchiati e, soprattutto, sarebbe stata molto ridimensionata l’influenza pontificia sulle vicende italiane. Il timore era giustificato, perché fu proprio ciò che Federico II cercò di fare. Fu questo disegno politico a far sì che, in vita, egli fosse additato come eretico e messo del demonio, e che la fama di nemico della Chiesa e della cristianità lo seguisse per secoli.

Firenze per tradizione (e per interesse) era filopapale; le sue maggiori rivali in Toscana, Pisa e Siena, erano filoimperiali. Sebbene Federico II fosse riuscito a imporre una sostanziale egemonia ghibellina sulla regione, Firenze aveva resistito a lungo. Tuttavia nel gennaio 1249 un contingente militare inviato dall’imperatore al comando del figlio Federico d’Antiochia ne aveva rovesciato il governo e aveva costretto i Guelfi al potere a lasciare la città. Ma la vittoria ghibellina era stata di breve durata. Nel dicembre 1250 Federico II muore all’improvviso; i Ghibellini, che già prima della scomparsa dell’imperatore una sollevazione popolare aveva messo in seria difficoltà, sono esautorati dal potere. Si instaura un governo (detto poi di «primo popolo» per distinguerlo dal «secondo popolo» degli anni Ottanta) guidato dai ceti produttivi (il «popolo», per l’appunto) e imperniato sulle compagnie artigiane. È espresso da loro il nuovo magistrato, il capitano del popolo, che adesso affianca il tradizionale podestà. Benché non si presenti in modo esplicito come di parte, è comunque un governo a forte impronta guelfa, tanto è vero che un gruppo di Ghibellini viene espulso dalla città già nel luglio 1251. Tale impronta si farà sempre più marcata negli anni successivi, e ciò complicherà la convivenza con la parte ghibellina. Per quasi dieci anni, tuttavia, Firenze godrà di una relativa stabilità, e siccome in questa città i rivolgimenti politici sono la norma, è comprensibile che i cronisti fiorentini dei decenni posteriori (tutti guelfi convinti) abbiano mitizzato questa fase come una specie di età dell’oro della vita comunale (in questo periodo viene coniato il fiorino ed eretto il Palazzo del capitano del popolo).

L’equilibrio italiano (e di conseguenza fiorentino) si rompe nel 1258, quando Manfredi, figlio naturale di Federico II, violando i diritti dell’erede legittimo Corradino, ottiene la corona di re di Sicilia e di Puglia e riprende la politica del padre con il sostegno delle forze ghibelline del resto d’Italia. I Ghibellini di Firenze, guidati da Farinata degli Uberti, rompono subito la tregua, ma il loro tentativo di rovesciare il governo cittadino è stroncato: banditi dalla città, si rifugiano a Siena. La guerra tra i due schieramenti, comunque, è inevitabile. Si concluderà il 4 settembre 1260 con la già citata battaglia di Montaperti: qui i Guelfi di Firenze e i loro alleati (i lucchesi in prima fila) sono sbaragliati dalle forze congiunte dei senesi, della cavalleria tedesca inviata da Manfredi e dei fuorusciti ghibellini di Firenze. È una battaglia che segna il corso della storia fiorentina e che resterà impressa per decenni nella memoria della città. I fiorentini, soprattutto guelfi, non dimenticheranno né la strage di concittadini (Dante ricorderà l’Arbia, il fiume che scorre presso il campo di battaglia, «colorata in rosso»12 dal sangue dei caduti) né la sorte terribile di gran parte delle migliaia di prigionieri rinchiusi nelle carceri di Siena: ben ottomila morirono durante la prigionia, i superstiti saranno liberati solamente dieci anni dopo, nell’agosto 1270. Subito dopo la sconfitta i Guelfi lasciano in massa la città e si rifugiano in prevalenza nell’amica Lucca. L’oligarchia ghibellina assume il totale controllo del governo: abolisce la magistratura del capitano del popolo e procede a confische, distruzioni e bandi d’esilio nei confronti degli sconfitti. Dopo Montaperti gli imperiali di Manfredi sembrano avere il totale controllo della Toscana: nel 1264 anche Lucca espelle i Guelfi, sicché i fuorusciti fiorentini sono costretti a emigrare nuovamente, molti di loro a Bologna.

A questo punto è il papato a prendere l’iniziativa. Di fronte al riapparire della minaccia sventata al tempo di Federico II, Clemente IV mette in atto due contromosse: da un lato intimorisce i banchieri di Firenze, ben attenti a preservare i loro cospicui interessi nell’amministrazione della curia papale; dall’altro sollecita l’intervento di una potenza non italiana. Nel 1265 offre la corona del Regno meridionale al conte di Provenza Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX. È un gesto che non solo cambierà il corso della guerra contro gli Svevi, ma che inciderà per secoli su quello della storia italiana. Sceso in Italia, nel gennaio 1266 Carlo è incoronato a Roma re di Sicilia e inizia le ostilità contro Manfredi. La guerra si risolve ben presto con la sconfitta e l’uccisione di Manfredi a Benevento nel febbraio dello stesso anno. A Firenze, dopo un tentativo di governo quasi congiunto delle due fazioni, nell’aprile 1267, con l’arrivo in città della cavalleria francese, i Ghibellini si danno alla fuga e la città si consegna a Carlo d’Angiò, il quale, in maggio, assume per sette anni la carica di podestà (funzione che eserciterà mediante vicari). Un ultimo tentativo di riscossa dei Ghibellini italiani promosso da Corradino di Svevia, nipote di Federico II, che nell’aprile 1268 sbarca a Pisa per muovere guerra a Carlo d’Angiò, è stroncato in agosto a Tagliacozzo. Corradino è fatto prigioniero e decapitato a Napoli pochi mesi dopo.

La rovina degli Svevi non segna la fine del conflitto tra il partito papale e quello imperiale – pur intervallato da fasi di latenza, e senza più toccare i picchi drammatici del periodo svevo, esso proseguirà ancora per oltre mezzo secolo –, ma segna la fine della presenza ghibellina in Firenze. Il governo guelfo si identificherà sempre più con le istituzioni cittadine, al punto che le organizzazioni del partito diventeranno gli organi effettivi di governo della città. Firenze si legherà strettamente alla corte angioina di Napoli e alla curia pontificia. Banchieri e finanzieri ne ricaveranno notevoli benefici economici, ma la città sarà messa sotto tutela. La dipendenza dagli Angioini di Napoli si allenterà solamente agli inizi degli anni Ottanta, quando Firenze si darà un nuovo assetto istituzionale che porrà al centro del governo una magistratura collegiale formata da persone, i priori, elette per un tempo limitato.

Gli Alighieri: tra storia e romanzo familiare

Gli Alighieri sono guelfi, pertanto la circostanza che Dante nasca in Firenze nel maggio 1265, molti mesi prima della vittoria guelfa di Benevento, può significare o che, dopo Montaperti, la madre non aveva seguito il padre nell’esilio o che il padre non era emigrato e, tanto meno, era stato bandito. Questa seconda eventualità, stante la scarsa rilevanza pubblica del padre di Dante, sembra la più plausibile. Sebbene negli anni del ghibellinismo trionfante alcuni Alighieri siano stati banditi (tra questi Geri del Bello o di Bello, cugino del padre di Dante, il quale, nel 1269, otterrà modici risarcimenti per i danni subiti dalla sua casa), possiamo ritenere che Dante non appartenesse a una famiglia di guelfismo intransigente.

Le prime notizie documentate di un capostipite degli Alighieri in Firenze sono relative a un Cacciaguida vissuto nel XII secolo. Anche Dante, che farà di Cacciaguida uno dei personaggi più importanti della Commedia, daterà la storia a lui nota della sua famiglia proprio a partire da questo trisavolo, che, a suo dire, avrebbe sposato una donna della Valle Padana dalla quale sarebbe derivato il nome Alighieri. Ben poco di certo noi possiamo dire intorno a Cacciaguida, ma nemmeno possiamo attenerci in tutto a quanto ce ne dice Dante. Le affermazioni che il trisavolo era stato creato cavaliere niente meno che da un imperatore, un non meglio definito «imperador Currado»,13 e che era morto combattendo sotto l’insegna crociata in Terra Santa suscitano non poche perplessità. Si è pensato che esse vadano ricondotte al desiderio di Dante, particolarmente manifesto al tempo della Commedia, di nobilitare una famiglia d’origine che, nella realtà, non poteva vantare né radici nobiliari né annoverare cavalieri, tanto meno poi di investitura imperiale. Anche l’accenno che Cacciaguida fa ai fratelli Moronto ed Eliseo (dei quali, peraltro, esiste qualche traccia documentaria) potrebbe rientrare in questa stessa strategia, dal momento che esso suggerisce un rapporto degli Alighieri con gli Elisei, una delle famiglie fiorentine di più antica nobiltà. Cacciaguida parla anche di un figlio di nome Alighiero, bisnonno di Dante, che da più di cento anni si starebbe purgando del peccato di superbia. E la menzione della superbia, un peccato tipicamente nobiliare, sembra proprio un altro tratto inteso a completare l’immagine di famiglia un tempo altolocata che Dante sta tracciando.

Di questo Alighiero (che chiameremo Alighiero I per distinguerlo dall’omonimo padre di Dante, qui sotto citato come Alighiero II) non sappiamo quasi niente, «se non ch’ebbe case in S. Martino del Vescovo e che da lui nacquero Bello e Bellincione, i quali quelle case, a tempo debito, si spartirono». Bello fu persona autorevole, tanto da essere insignito del titolo di cavaliere; Bellincione, che esercitò la professione del cambiatore, cioè del piccolo prestatore di denaro, fu lui pure un personaggio onorevole, ma non godette dell’autorevolezza del fratello. Con i figli di Alighiero I la famiglia si divide in due rami. Il primogenito di Bellincione è Alighiero II. Dante nasce dal suo primo matrimonio con una donna di nome Bella (Gabriella). Siccome Bellincione doveva avere un certo prestigio sociale, non sarebbe strano che egli avesse combinato le nozze di suo figlio con una donna di riguardo. La moglie di Alighiero II, dunque, potrebbe essere stata Bella di Durante degli Abati, una famiglia ricca, potente e residente nello stesso quartiere. Ciò spiegherebbe gli stretti rapporti che Durante intratterrà con Dante e i suoi fratelli, sia facendosi garante di prestiti a loro concessi sia ottenendo la loro garanzia su debiti da lui contratti. E ci spiegheremmo anche l’origine del nome Durante, un omaggio di Alighiero II all’onorevole suocero. È vero, gli Abati erano dei fieri Ghibellini; ma è anche vero che, come si è detto, i matrimoni tra famiglie politicamente divise erano frequenti, anzi, erano praticati come strumento per acquietare le contese. Più in generale, guardando l’albero genealogico degli Alighieri, si nota che mentre le generazioni più antiche di entrambi i rami avevano, come era consuetudine delle famiglie medio-alte, un deposito familiare di nomi a cui attingere, soprattutto per i maschi, ragion per cui si ripetono i nomi Alighiero, Bellincione, Bello, Cione, Bellino, Belluzzo, proprio a partire dai fratelli di Dante tale pratica si perde: segno che l’identità di clan si era allentata.

Per motivi a noi ignoti, il prestigio di cui doveva godere Bellincione, durante la vita del figlio Alighiero II in parte si dissipò. Ne è un indizio il fatto che, morta la prima moglie e, con ogni probabilità, anche il padre, Alighiero II contrae un secondo matrimonio con una donna di nome Lapa, figlia di un mercante, Chiarissimo Cialuffi, ricco sì, ma la cui famiglia non compare fra quelle che contano in Firenze. Da Bella, Alighiero II aveva avuto tre figli: Tana (Gaetana), nata intorno al 1260, sposata con Lapo Riccomanni forse intorno al 1275, comunque prima del 1281, e vissuta fin oltre il 1320; una seconda figlia, non identificata, che sappiamo avere sposato tale Leone Poggi, da cui quell’Andrea Poggi a cui Boccaccio ricorre per avere notizie sullo zio famoso, e infine, terzogenito, Dante. Da Lapa ebbe un figlio solo, Francesco.

Di Alighiero II sappiamo ben poco di documentato: nato forse intorno al 1220, molto probabilmente era già morto poco dopo il 1275. Dante, dunque, sarebbe nato quando lui era in età molto matura. Alcuni atti notarili lo mostrano come uomo d’affari, prestatore di denaro e intermediatore di terreni, soprattutto nel territorio di Prato; in una prima fase in società con il padre e con i fratelli, e poi autonomamente. I maneggi finanziari e le compravendite di Alighiero II dovevano essere sufficientemente fruttuosi, ma forse è eccessivo affermare, come si trova spesso scritto, che egli alla sua morte lasciò i figli in agiate condizioni economiche. I beni di proprietà dei fratelli Dante e Francesco, ancora indivisi quando nel 1302 il primo fu bandito dalla città, erano costituiti dalla casa di famiglia in San Martino – una casa piccola, a quanto pare –, da un podere con edificio principale, annessi e alcuni appezzamenti di terreno circostanti, situato a San Miniato di Pagnolle, a poca distanza da Firenze, da un altro podere nella parrocchia di San Marco in Camerata, nella valle del Mugnone e, infine, da un casolare con un orto e un piccolo pezzo di terra situato nel «popolo» (parrocchia) di Sant’Ambrogio, a ridosso della terza cerchia di mura, verso il torrente Affrico. Non sono certo grandi proprietà. Alighiero II, dunque, non ha accumulato e investito in beni immobili. Insomma, appare assai ragionevole la valutazione di Leonardo Bruni, secondo il quale, prima di essere esiliato, Dante, «con tutto che di grandissima ricchezza non fusse, niente di meno non fu povero, ma ebbe patrimonio mediocre et sufficiente al vivere honoratamente». Il problema, però, è stabilire cosa Dante intendesse per vita onorevole e se il suo patrimonio fosse sufficiente a consentirgli di condurla.

Una cattiva reputazione

Alighiero II ha una cattiva reputazione: su di lui gravano sospetti anche infamanti, soprattutto quello di avere esercitato l’usura. A suscitarli, però, non sono né documenti d’archivio né maldicenze di contemporanei, ma, sebbene indirettamente, è proprio suo figlio Dante. Mi riferisco a uno scambio di sonetti (una tenzone) avvenuto all’inizio degli anni Novanta tra Dante e l’amico un po’ più anziano Forese Donati, detto Bicci. Forese, morto nel 1296, appartiene a una delle famiglie più importanti della città: è fratello di Corso e di Piccarda, e quindi lontano parente di Gemma, la moglie di Dante.

Lo scambio tra i due avviene in forma di tenzone. La poesia lirica medievale è prevalentemente dialogica, tende a rivolgere il discorso a un interlocutore, storico o fittizio, esplicito o implicito. Non per caso, dunque, la tenzone è uno dei generi più praticati. Un poeta invia a un collega, o a un gruppo di colleghi, una poesia (in Italia quasi sempre un sonetto) nella quale pone un quesito e sollecita una risposta. Colui che riceve il testo (o coloro che lo ricevono) risponde (o rispondono) con un’altra poesia, che il più delle volte riprende, nello stesso ordine, le rime della proposta; chi ha dato inizio alla tenzone può replicare a sua volta, con ciò provocando spesso un’ulteriore risposta del corrispondente (o dei corrispondenti). Anche Dante frequenta largamente il genere della tenzone, però quella con Forese si differenzia dalle altre perché è una tenzone di vituperio. È composta di sei sonetti (tre di Dante e tre di Forese) nei quali i due si rivolgono insulti e pesanti allusioni alla loro vita privata e ai loro familiari più stretti. Tenzoni di questo tipo erano frequenti nel mondo dei giullari e dei trovatori provenzali: si trattava, in effetti, di scontri fittizi, scherzosi, costellati di ingiurie che dovevano suscitare il riso del pubblico al quale i contendenti recitavano i loro testi. Mancano quasi del tutto, invece, in Italia. Anche questa tra Dante e Forese dev’essere considerata uno scherzo letterario, un gioco, ma uno scherzo che, a un certo punto, sembra degenerare. Dico «sembra» perché le allusioni a fatti della vita privata e a certe consuetudini e modi di dire fiorentini a noi oggi sconosciuti ci impediscono di interpretare con sicurezza una grande porzione della lettera dei sonetti.

Comincia Dante (Chi udisse tossir la malfatata), prima facendo del sarcasmo sulla poca virilità di Forese e poi insistendo sulla sua povertà (condizione infamante nel Medioevo); Forese risponde (L’altra notte mi venn’una gran tosse) ammettendo di essere povero, ma che Alighiero, il padre di Dante, era più povero di lui, tanto da essere sepolto in una fossa comune in terra sconsacrata, sorte che, sappiamo, toccava non solo agli eretici e agli usurai, ma anche a chi non poteva permettersi la spesa per una tomba. Comunque, l’informazione non va presa alla lettera, è un tratto iperbolico in funzione del gioco infamante in atto tra i due. Dante allora sposta il tiro (Ben ti faranno il nodo Salamone): accusa Forese di essere talmente goloso e ghiottone (accusa grave a quei tempi) da rischiare la prigione (si ricordi che nel Purgatorio Forese sarà collocato proprio nella cornice dei golosi); Forese ribatte (Va rivesti San Gal prima che dichi) che Dante mangia a spese altrui, che si è spinto fino a rubare agli istituti di carità e che rischia di finire non in prigione, ma in un ospedale per i poveri. A questo punto Dante insinua (Bicci novel, figliuol di non so cui) che Forese sia figlio di nessuno e che per soddisfare il vizio della gola, come tutti sanno, rubi; la replica è sanguinosa (Ben so che fosti figliuol d’Allaghieri): meglio essere figli di nessuno piuttosto che dell’«Allaghieri», un padre da cui Dante ha ereditato la viltà, tanto da lasciare invendicata un’offesa che lui aveva ricevuto, anzi, da essersi subito affrettato a far pace.

Le accuse che i due si scambiano rientrano tutte, senza eccezioni, nel repertorio di ingiurie a cui attingono le tenzoni infamanti e di vituperio: sono elementi di un gioco letterario impostato su motivi ricorrenti e perciò da non leggere in chiave direttamente biografica. Non possiamo assumere per vere le insinuazioni relative all’indigenza estrema e alla poca nobiltà d’animo di Alighiero II; esse, infatti, sono da mettere sullo stesso piano di quelle, palesemente eccessive, che colpiscono Dante stesso. A rendere interessante un simile scambio non è la fondatezza degli improperi, ma il fatto che, pur in un contesto di gioco da taverna o da lieta brigata, le malevole notazioni di Forese su Dante, sul padre e, più in generale, sulla famiglia Alighieri contrastano in modo netto con l’immagine di quella famiglia abbozzata dalle opere di Dante. Contrasto accentuato ulteriormente dalla circostanza che, mentre Dante nei suoi scritti parla delle generazioni passate, la tenzone si riferisce agli Alighieri viventi o da poco defunti. Da una parte, abbiamo Cacciaguida, imparentato con i nobilissimi Elisei, crociato e cavaliere di investitura imperiale, e Alighiero I, il quale sconta in Purgatorio il peccato di superbia, che, come si è detto, è peccato nobiliare per eccellenza; dall’altra parte, abbiamo un Alighiero II miserabile economicamente e moralmente, un Dante a cui si apre la strada dell’ospizio dei poveri, che non esita a rubare ad altri poveri e che si ritrae per viltà dal dovere di vendicare l’offesa subita dal padre. Il contrasto non potrebbe essere più netto. A un passato connotato di nobiltà d’animo e di sangue si contrappone un presente meschino e ignobile. Beninteso, sono due immagini entrambe deformate: la prima, dalla tensione utopistico-regressiva, sorretta da un’altrettanto utopistica voglia di riscatto e di autonobilitazione; la seconda, dal crescendo imposto dal botta e risposta ingiurioso. E però le due immagini misurano, anche se per eccesso, quella distanza tra ideale e reale che le ricostruzioni un po’ mitiche di Dante cercano ostinatamente di annullare.

La «via della scienza»

Della sua infanzia Dante non parla. Ci stupiremmo del contrario. L’infanzia, infatti, è la grande assente nella letteratura del Medioevo. Questo non significa che in quei secoli gli uomini fossero indifferenti al mondo infantile e al rapporto tra bambini e adulti. Tuttavia le esperienze di quella prima età e, soprattutto, i ricordi personali non erano ammessi, salvo rare eccezioni, nella rappresentazione letteraria.

Anche Dante si mostra attento all’infanzia. Registra i tentativi dei piccoli di articolare le prime parole: «pappo» (cibo, pappa), «dindi» (denari, soldini), e osserva che questo «idioma» rallegra giocosamente («trastulla») «i padri e le madri»; studia i loro comportamenti e la loro psicologia: il loro bisogno di sentirsi protetti e consolati dalla madre, la vergogna che provano per le colpe commesse, i pianti per i castighi subiti. E tuttavia non si abbandona a ricordi e memorie dei suoi primi anni, in parte perché, dice lui, sarebbe un «parlare fabuloso», senza fondamento, e in parte ancora maggiore perché i maestri di retorica non concedono agli scrittori la facoltà di parlare di sé, se non quando farlo è di «utilitade» agli altri, e né il racconto degli accadimenti di un bambino o di un giovanetto né quello dei fatti privati di una persona, se non rivestono un particolare valore morale ed esemplare, possono giovare a qualcuno. Per nostra fortuna il Dante maturo, posseduto da una incoercibile ansia autobiografica, non farà che parlare, direttamente o indirettamente, di sé.

Per quanto riguarda gli anni infantili, invece, egli accenna solo poche volte, e vagamente, a sé stesso e ai familiari. Perciò non siamo in grado neppure di congetturare quali conseguenze abbia avuto su di lui la perdita della madre in giovanissima età, quali siano stati i suoi rapporti con la seconda moglie del padre e cosa abbia rappresentato, per un Dante poco più che decenne, restare orfano anche del genitore.

Intorno ai cinque o sei anni, come molti bambini delle classi agiate, anche lui avrà cominciato gli studi. L’affermazione è ipotetica perché la mancanza di informazioni su questo importante aspetto della sua vita è totale. E neppure possiamo sopperire all’assenza di dati guardando ai percorsi formativi di suoi coetanei. Mentre, infatti, gli archivi di Firenze traboccano di documenti di ogni genere che consentono di seguire quasi giorno per giorno sia la vita pubblica della città sia quella di tantissimi privati, gli atti e le testimonianze intorno al mondo della scuola degli ultimi decenni del Duecento sono andati quasi interamente perduti. Tale naufragio andrà forse imputato ai casi della storia, ma desta comunque il sospetto che istruzione e cultura non fossero in cima ai pensieri dei ricchi e industriosi fiorentini.

La famiglia Alighieri non era così facoltosa da permettersi un precettore privato. È dunque presumibile che Dante all’inizio degli anni Settanta abbia cominciato a frequentare una scuola pubblica. Anche se la loro presenza è documentata solo verso la fine del secolo, possiamo ragionevolmente ipotizzare che almeno alcune scuole fossero attive già nei decenni precedenti. Erano scuole private a pagamento, gestite da «maestri dei bambini» (doctores puerorum) laici, nelle quali i piccoli, in un corso di studi della durata di cinque o sei anni, apprendevano a leggere, scrivere e qualche rudimento di latino. Il fatto che nel 1277 un doctor Romano tenesse scuola nei pressi di San Martino, proprio vicino alla casa di Dante, non ci autorizza a credere che quella fosse la scuola da lui frequentata. L’insegnamento era impartito in volgare e forse solo negli ultimi anni contemplava un po’ di latino (il Salterio, Esopo e poco altro). Nel Convivio Dante spiega che il volgare lo introdusse «nella via della scienza» dal momento che grazie a esso egli «entrò nello latino», lingua che gli aprì poi la strada «a più inanzi andare»:14 non è detto, però, che si riferisca a questo ciclo primario e non, piuttosto, a quello di grammatica, corrispondente alla nostra scuola secondaria.

L’apprendimento era essenzialmente mnemonico, coadiuvato dall’ausilio di pochissimi testi; centrale nella pedagogia di quei tempi (e a lungo anche dopo) era la «ferula», la verga. Intorno alla metà del Trecento, Francesco Petrarca scrive all’amico fiorentino Zanobi da Strada, titolare di una scuola di grammatica, per convincerlo ad abbandonare l’insegnamento e a coltivare più alte aspirazioni, cioè a dedicarsi agli studi e alla poesia. Secondo Petrarca, ai maestri devono piacere «la polvere e le grida e il pianto di chi geme sotto la frusta (sub ferula)»: a questa professione, dunque, si dedichino coloro ai quali è gradito «comandare a inferiori e aver sempre chi spaventare, chi tormentare, chi affliggere, chi dominare, chi li odii purché li tema». Petrarca calca sicuramente la mano, ma l’associazione scuola-bastone ritorna troppe volte negli scritti dei primi secoli, perfino presso i predicatori, per non pensare che il periodo scolastico si imprimesse nella memoria di quei nostri predecessori come un’epoca di angherie subite. Le parole di Petrarca documentano inoltre che la professione di insegnante era assai poco prestigiosa. Del resto, era anche poco remunerativa.

Intorno ai dieci anni, terminato il primo ciclo scolastico, ai ragazzi di Firenze e delle altre città comunali si aprivano due strade: una professionalizzante e una orientata verso le «arti liberali». Il primo percorso, molto più frequentato del secondo, era basato sulle cosiddette scuole d’«abaco» o d’«algoritmo». I futuri mercanti, impiegati degli istituti bancari, artigiani vi apprendevano, in volgare, discipline che oggi chiameremmo contabilità, merceologia, economia monetaria internazionale. Apprendevano anche quelle poche nozioni di latino necessarie per le formule epistolari. Il secondo percorso, invece, era finalizzato proprio all’apprendimento della lingua latina, indispensabile per poter accedere all’università. Nelle scuole di grammatica lo studio durava circa cinque anni e, dopo un periodo dedicato quasi esclusivamente alla lingua latina (sulla base della grammatica di Donato, autore del IV secolo d.C.), si apriva, per via indiretta e grazie soprattutto alle numerosissime citazioni contenute nella grammatica più complessa di Prisciano (V-VI secolo d.C.), anche alla letteratura antica. Non abbiamo notizie di scuole di grammatica per i laici nella seconda metà degli anni Settanta (la prima attestazione risale al 1299), sappiamo però della loro esistenza nelle istituzioni conventuali: tra il 1286 e il 1290 è documentata la presenza di due maestri di grammatica per i novizi nel convento servita di Santa Maria di Cafaggio. Dante accenna, ancora nel Convivio, all’«arte di grammatica» che gli aveva consentito di comprendere Boezio e Cicerone, dove «grammatica» indica sia la lingua latina sia la disciplina che la studia.15 È dunque possibile che egli abbia frequentato una scuola, ma anche questo presumibile corso di studi resta avvolto nel mistero. Perciò ignoriamo quali classici latini egli possa avere letto in questo periodo. A Firenze, dove l’interesse per i grandi latini si affermerà molto tardi, i libri di autori classici scarseggiavano. Del resto, come ho già detto, l’impressione complessiva è che ancora negli ultimi decenni del Duecento l’istruzione non fosse particolarmente accurata. E non solo nel settore degli studi liberali. Mancano, per esempio, documenti che provino l’attività di scuole di notariato e di scuole giuridiche, che, invece, ci saremmo aspettati in una città commerciale nella quale i notai, i giudici e gli avvocati erano tanto numerosi da costituire una loro corporazione. Città come Arezzo, Siena, Pistoia mostrano un’attenzione per la cultura dei laici molto più sviluppata.

Se le scuole di grammatica sono assenti, o comunque di scarso peso, non possono ovviamente essere presenti quelle di retorica, le scuole cioè nelle quali, data per acquisita la conoscenza della lingua, si imparava a costruire testi, soprattutto prosaici, che obbedissero a consolidate tradizioni retoriche, le cosiddette artes dictaminis. Più che l’oratoria, lo scopo principale di questo apprendimento avanzato era l’epistolografia, l’arte di comporre lettere ufficiali per conto delle istituzioni o lettere private che ambissero ad avere dignità letteraria. Dante si rivelerà un eccellente prosatore in latino e un grande epistolografo. Ammesso che intorno ai quindici anni egli abbia completato regolari studi di grammatica, resta aperto il problema di dove e sotto la guida di chi abbia conseguito questa competenza linguistica e retorica. Sicuramente non attraverso un corso di studi; ma altrettanto sicuramente non da puro e semplice autodidatta. A Firenze il solo che avesse la cultura, l’esperienza e l’autorità per potergli trasmettere queste conoscenze era Brunetto Latini.

Folgorazioni e svenimenti

Il bambino che imparava a leggere e a scrivere presso un magister puerorum probabilmente aveva qualche problema di salute. Lo deduciamo dagli scritti del Dante maturo. Nessun altro autore medievale parla di malattie da lui sofferte con la stessa frequenza con la quale ne parla Dante. A volte ne riferisce direttamente, altre volte, e sono le più, o inserisce accenni a episodi morbosi quando parla del rapporto con Beatrice o vi allude attraverso un gioco metaforico che attenua gli aspetti più scopertamente autobiografici e suggerisce una lettura degli eventi in chiave simbolica.

Appartiene al primo tipo il racconto di una malattia agli occhi da cui dice di essere stato affetto a causa del troppo studio: a forza di leggere aveva debilitato «gli spiriti visivi» al punto che le stelle gli «pareano tutte d’alcuno albore ombrate», e solo «per lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo dell’occhio coll’acqua chiara» aveva recuperato il «primo buono stato della vista».16 Dante lascia intendere di avere sofferto di questa malattia nel periodo in cui si dedicava a studi filosofici, più precisamente tra il 1293 e il 1295. Sappiamo che egli era un devoto di santa Lucia. Siccome la peculiare devozione a un santo dipende quasi sempre dal tipo di patrocinio che la tradizione gli attribuisce, quella di Dante per Lucia sarà dipesa dal fatto che la santa viene invocata, a causa del collegamento tra il suo nome e la luce, come protettrice della vista. La malattia agli occhi (per la quale gli oculisti parlerebbero di astenopia accomodativa) può aiutare a capire perché nel poema a santa Lucia sia attribuito il ruolo importante di intermediaria tra Dante e Beatrice.

Il più delle volte il riferimento alle malattie si situa nel contesto di un discorso amoroso.

Nella Vita Nova Dante racconta di essere stato colpito da una «dolorosa infermitade», un accesso febbrile che lo aveva condotto a delirare: «E però, mi giunse uno sì forte smarrimento, che chiusi gli occhi e cominciai a travagliare come farnetica persona».17 L’episodio, che possiamo ritenere reale, non ha alcuna attinenza con la passione amorosa e nemmeno avrebbe qualche relazione con la vicenda narrata nel libro se Dante non lo utilizzasse per introdurre, sotto forma di incubo premonitore, la descrizione della morte di Beatrice. Ad assisterlo nella malattia è una «donna giovane e gentile» a lui «di propinquissima sanguinità congiunta»:18 una donna legata da strettissima parentela potrebbe essere una sorella. La storia d’amore raccontata nella Vita Nova comincia nel 1283: a quella data la sorella Tana era già maritata ed è presumibile che lo fosse anche l’altra non identificata sorella che aveva sposato Leone Poggi, dunque la malattia deve risalire ad anni giovanili. Dante la ripesca collocandola in epoca posteriore per esigenze narrative, cioè per situare in un contesto credibile la canzone (introdotta dal racconto di quella malattia) Donna pietosa e di novella etate, che, a suo dire, nei versi iniziali parlerebbe proprio di quella stessa sorella.

Rientra a pieno nella fenomenologia delle manifestazioni amorose la crisi fisica, quasi uno svenimento, provocata dall’apparire di Beatrice. In occasione di un matrimonio Dante si reca con un amico in una casa dove sono radunate molte donne e lì, ancor prima di averla vista, percepisce fisicamente la presenza dell’amata («mi parve sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto dalla sinistra parte e distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo»); ma non appena vede Beatrice, dal tremito precipita in uno svenimento («Allora fuoro sì distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veggendosi in tanta propinquitade alla gentilissima donna … Onde lo ingannato amico di buona fede mi prese per la mano, e traendomi fuori della veduta di queste donne mi domandò che io avesse. Allora io riposato alquanto, e resurressiti li morti spiriti miei e li discacciati rivenuti alle loro possessioni, dissi a questo mio amico queste parole: “Io tenni li piedi in quella parte della vita di là dalla quale non si puote ire più per intendimento di ritornare”»).19

Anche nelle liriche l’apparizione della donna produce spesso analoghi effetti traumatici: l’epifania dell’amata, in atto o anche solo presentita, provoca nel soggetto (caso unico tra i rimatori del Duecento) un istantaneo smarrimento in cui alla perdita della vista può associarsi quella della coscienza. È singolare, però, che una crisi del tutto simile, stando a ciò che Dante racconta, lo abbia colpito già nell’infanzia. È lui stesso, infatti, a datare ai suoi primi mesi di vita la crisi psicofisica descritta nella canzone (forse risalente alla prima metà degli anni Novanta) E’ m’incresce di me sì duramente: il giorno della nascita di Beatrice, lui, ancora di pochi mesi («la mia persona pargola»), improvvisamente e istantaneamente («subitamente») aveva perso conoscenza («sì ch’io caddi in terra») colpito da una folgorazione. I sintomi sono gli stessi della crisi di cui è vittima l’innamorato che parla nella cosiddetta canzone «montanina», Amor, da che convien pur ch’io mi doglia, risalente a un’epoca lontana da quella di E’ m’incresce di me (forse al 1307 inoltrato, durante un soggiorno di Dante nel Casentino) e quindi non riferita a Beatrice. Qui il poeta scrive che, ossessionato dal pensiero della sua donna, si reca dove può vederla con lo stesso animo di un condannato che si avvicina al patibolo, e che quando le è davanti, proprio mentre sta cercando qualcuno che gli faccia avere la grazia, dagli occhi di lei parte una folgore improvvisa che gli toglie i sensi e lo lascia «sanza vita». A differenza della prima, questa canzone si dilunga nel descrivere la risoluzione della crisi, presentata come un «risorgere»: dopo la «percossa» che lo aveva colpito come un «trono» (tuono) il soggetto lentamente riprende conoscenza, ma seguita a tremare di paura e la sua faccia resta a lungo pallida e turbata per lo spavento provato.

Ebbene, le crisi psicofisiche e la loro risoluzione qui descritte, crisi che nulla hanno a che vedere con la concezione dell’amore come patologia – il cosiddetto amor hereos (amore eroico) – diffusa nella scienza medica del tempo, ma che sono unicamente dantesche, mostrano tutti i sintomi di un attacco apoplettico o epilettico. Gli stessi che, in un contesto privo del pur minimo aggancio a tematiche amorose e con il ricorso a termini tecnici della medicina, Dante descrive nel canto XXIV dell’Inferno. Il ladro Vanni Fucci, dopo che il morso di un serpente lo ha istantaneamente polverizzato, riprende altrettanto istantaneamente la forma umana. Repentina è stata la caduta e altrettanto repentino è il ritorno alla propria forma corporea; più lenti, invece, sono il riaffiorare della coscienza e il ripristinarsi dell’equilibrio psichico, tanto che Dante, per descrivere il processo, ricorre a questa similitudine:

E qual è quel che cade, e non sa como,

per forza di demon ch’a terra il tira,

o d’altra oppilazion che lega l’omo,

quando si leva, che ’ntorno si mira

tutto smarrito de la grande angoscia

ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:

tal era ’l peccator levato poscia.20

Verso la fine dell’Ottocento la psichiatria lombrosiana aveva diagnosticato che Dante era stato affetto da epilessia. La diagnosi, tranne pochissime eccezioni, non è mai stata recepita dai dantisti. Eppure, la precisione e la partecipazione emotiva con le quali Dante rappresenta quegli attacchi lasciano intendere che al testo letterario soggiaccia una forte dose di vissuto. Della malattia sembra aver sofferto fin dalla prima infanzia. Nella canzone E’ m’incresce di me scrive di aver attinto il ricordo della folgorazione da cui fu colpito il giorno della nascita di Beatrice dal libro della memoria («secondo che si truova / nel libro della mente che vien meno»): nella «mente» di un bambino di pochi mesi non possono essersi fissati ricordi di alcun genere, e dunque dobbiamo pensare che, se non si tratta di una pura invenzione (possibile, ma improbabile), Dante si rifaccia a racconti ascoltati da familiari o da persone che lo accudivano subito dopo la nascita.

Predestinazione

Nel Medioevo l’epilessia mantiene il carattere di morbo sacro che aveva presso gli antichi, per i quali era causata da un intervento divino quasi sempre di tipo punitivo, ma la sua sacralità si trasforma in diabolicità: l’epilettico è posseduto dal demonio. Non solo è una malattia infamante, spesso confusa con la follia, ma è anche socialmente pericolosa perché può trasmettersi, oltre che per ereditarietà, anche per contagio. Il carattere diabolico del male suggeriva una serie di prescrizioni terapeutiche nelle quali, accanto a rimedi fantasiosi e a volte crudeli, avevano largo spazio gli amuleti, le preghiere ai santi, i riti magici e le pratiche esorcistiche. Sull’epilettico, dunque, gravava un forte pregiudizio, che non di rado si traduceva in accanimento e persecuzione. È su questo sfondo che vanno collocati gli accenni di Dante alla malattia. Era molto diffusa l’idea, espressa per esempio dalla monaca benedettina tedesca dell’XI-XII secolo Ildegarda di Bingen, che il diavolo non provochi l’attacco epilettico direttamente, grazie al suo potere, ma che eserciti la sua influenza quando il corpo è squilibrato a causa degli umori che intasano il cervello e quindi che egli agisca su un corpo predisposto attraverso il «soffio della sua suggestione» (flatu suggestionis suae). Nei versi «per forza di demon ch’a terra il tira, / o d’altra oppilazion che lega l’omo», invece, Dante sembra fare una distinzione: la perdita dei sensi e la conseguente caduta a terra possono essere causati da possessione demoniaca oppure da una occlusione o ostruzione («oppilazione»). L’uso del termine tecnico raro suggerisce che del morbo egli abbia, accanto a quella vulgata, una concezione più strettamente medica. L’oppilazione, infatti, rientra tra le spiegazioni scientifiche prodotte dalla medicina medievale: sarebbe un eccesso di umori, di varia natura, a determinare l’ostruzione totale o parziale dei ventricoli del cervello.

Dante, però, non si limita ad attenuare l’aura diabolica del morbo; nella stanza di E’ m’incresce di me, nella quale racconta la folgorazione infantile, presenta la crisi subita nei primi mesi di vita come il segno dell’essere stato destinato fin dalla nascita a un amore esclusivo, un segno tangibile, impresso sul suo corpo, di una predestinazione decretata da una potenza superiore. Insomma, il nesso amore-malattia è un forte segnale di singolarità: lui solo, fra tutti i rimatori del suo secolo, ha ricevuto questo dono (o questa condanna). Se quella crisi psicofisica è da intendere in senso medico come crisi epilettica, allora ci troviamo di fronte a un Dante che trasforma una malattia che segnava il paziente con un marchio fortemente negativo in un fenomeno che lo contraddistingue in senso positivo.

Anche la malattia, dunque, o meglio questa specifica malattia, è uno dei fattori che avvalorano la sua intima convinzione di essere eccezionale. L’attitudine visionaria che egli manifesta in molte sue opere, e in particolare nella Commedia – attitudine che la cultura medievale collocava sotto il segno del misticismo –, potrebbe avere la sua radice profonda proprio in esperienze patologiche contrassegnate da stati allucinatorii come quelle epilettiche: un’ipotesi, questa, da avanzare con molta cautela, ma comunque preferibile all’idea suggerita da qualcuno che egli facesse uso di sostanze stimolanti o stupefacenti.

In molti altri accadimenti della sua vita, non solo nelle malattie, Dante scorge il sigillo del destino. Il suo compito di intellettuale è di svelarne il significato nascosto. La tensione a riconoscere i «segni» e a interpretarli lo accompagna per l’intera esistenza. I segni, comunque, sono sempre impressi sulle cose, sulla sua persona o sui suoi atti.

Un giorno imprecisato, ma che dovrebbe cadere in un periodo abbastanza vicino al 1300 del viaggio ultraterreno, durante una cerimonia battesimale in San Giovanni succede un incidente. Un bambino (un neonato?) cade dentro una delle anfore di terracotta contenenti l’acqua lustrale e rischia di annegarvi. Dante prontamente rompe il recipiente e lo salva. Quel gesto fece scalpore, forse fu giudicato sacrilego. Anni dopo, quando scrive la Commedia, Dante se ne ricorda e lo racconta nel canto dell’Inferno dedicato ai simoniaci. Qui paragona i fori che costellano le pareti e il fondo della bolgia a quelli scavati nel fonte battesimale per contenere le anfore:

Non mi parean men ampi né maggiori

che que’ che son nel mio bel San Giovanni,

fatti per loco d’i battezzatori;

e poi, inaspettatamente, aggiunge:

l’un de li quali, ancor non è molt’ anni,

rupp’ io per un che dentro v’annegava:

e questo sia suggel ch’ogn’ omo sganni.21

Lo racconta per ristabilire la verità dei fatti («e questo sia suggel ch’ogn’ omo sganni»), ma, soprattutto, perché nel frattempo si è accorto che il suo gesto di un tempo ne aveva ripetuto uno analogo compiuto dal profeta Geremia. Gli abitanti di Gerusalemme si erano dati a culti profetici, e allora Dio aveva ordinato a Geremia di rompere un’anfora nella valle antistante la Porta dei cocci per profetizzare loro che la città sarebbe stata distrutta. Dante, dunque, si è persuaso che anche il suo era stato un gesto profetico, e lo comunica ai lettori attraverso un procedimento «figurale»: la rottura dell’anfora con l’acqua benedetta replica il gesto e, nello stesso tempo, il messaggio del profeta biblico. Come Geremia si era scagliato contro l’idolatria degli ebrei, lui, con la Commedia, si scaglia contro la moderna idolatria (la simonia) della Chiesa. In quel luogo sacro Dio gli aveva affidato il compito di denunciare la corruzione ecclesiastica, lo aveva investito di una missione profetica.

La crisi epilettica come segno di predestinazione non travalica i confini del discorso amoroso. Eppure, anche i teologi medievali, sulla scia dei filosofi e dei medici antichi, scorgevano negli stati di trance, compresi quelli di tipo epilettico, una condizione propizia al manifestarsi di capacità profetiche o divinatorie. Per loro, però, restava aperto, e da decidere caso per caso, il problema se l’ispirazione profetica provenisse da Dio o da Satana. Possiamo pensare che sia stata proprio l’ambiguità nella quale si sarebbe inevitabilmente avviluppata la figura di un epilettico-profeta a convincere Dante a limitare la portata di quel signum al solo ambito amoroso. Il ruolo di profeta investito di una missione salvifica per la cristianità richiedeva certificazioni più limpide e non equivocabili.

Calendimaggio

Nel deserto documentario degli anni Settanta si stagliano due date: 1274 e 1277. Sono entrambe riferite a donne che hanno molto contato nella vita di Dante, ma dai destini completamente diversi, per non dire opposti: a Beatrice, la prima, a Gemma Donati, la moglie, la seconda. Beatrice si collocherà al centro dell’immaginario poetico di Dante; Gemma sarà solo una labile figura sullo sfondo.

All’inizio della Vita Nova Dante afferma di avere incontrato per la prima volta Beatrice, e di essersene subito innamorato, quando lui era quasi alla fine e lei quasi al principio del nono anno di vita (1274). Più avanti racconta di averla rivista la seconda volta quando entrambi avevano diciotto anni (1283). Ora, la Vita Nova, completata intorno alla metà degli anni Novanta, racconta contemporaneamente la storia della poesia del suo autore e quella del suo amore per Beatrice, sostenendo che la poesia ha sempre avuto come ispiratrice, anche se a volte nascosta, quella donna e che a quell’amore, nonostante certe apparenze contrarie, Dante si è sempre mantenuto fedele fin dalla puerizia. Anche la conclamata unicità di questo amore è uno degli elementi che formano il ritratto, o meglio, l’autoritratto di Dante come personaggio eccezionale. Nella realtà le cose non sono andate proprio così: se guardiamo le poesie amorose scritte da Dante prima della Vita Nova, ci rendiamo conto facilmente che fra le tante sue ispiratrici poetiche Beatrice non ha goduto di una posizione di particolare preminenza e che il suo mito si genera sostanzialmente con la Vita Nova. Il suo rapporto con Dante, di qualunque natura esso sia stato, nasce di fatto negli ultimi anni Ottanta ed è interrotto dalla sua morte nel giugno 1290. La Vita Nova, però, è un libro autobiografico, e pertanto la storia che esso racconta non solo non può contraddire in modo palese ciò che i lettori fiorentini sapevano della vita poetico-sentimentale del suo autore, ma deve pure risultare credibile. Per rendere credibile una vicenda in gran parte inventata, Dante la costella di riferimenti alla vita reale, interpretando alla luce della trama fittizia accadimenti da lui vissuti. Insomma, costruisce un libro «falso» assemblando molti materiali «veri».

Sarà vero, allora, che egli ha incontrato Beatrice all’età di nove anni? Nessuno, ovviamente, avrebbe potuto smentire un fatto così privato e, per di più, collocato in una età della quale i lettori del romanzo non potevano avere cognizione. Del resto, Dante non specifica dove e in che occasione sia avvenuto quell’incontro. A situarlo in un preciso contesto ci penserà Giovanni Boccaccio. Nel Trattatello in laude di Dante imbastirà il racconto di come, il Calendimaggio del 1274, il padre di Beatrice, Folco Portinari, avesse raccolto molte persone nella sua casa a festeggiare, e fra queste anche Alighiero e il suo figlioletto Dante, e come in quell’occasione il bambino si fosse innamorato per sempre della giovane Bice. È un’invenzione di Boccaccio, il quale, fra l’altro, senza rendersene conto retrodata una usanza festiva non ancora in auge negli anni Settanta del Duecento. È verosimile però, e quindi credibile per i lettori, che tra famiglie che abitavano nello stesso quartiere e che erano collegate anche da rapporti politici (Portinari e Alighieri erano entrambi schierati con la parte dei Cerchi) ci possano essere state feste e riunioni conviviali.

A Dante interessa la data, e gli interessa esprimerla attraverso il numero nove. Quel numero sarà reiterato decine di volte nel racconto, ne costituirà uno degli assi simbolici portanti, fino al punto che la stessa Beatrice si identificherà con il nove. Ebbene, proprio il ricorrere di quel numero simbolico, che per la nostra sensibilità è indice sicuro di invenzione, è ciò che rende plausibile, se non certa, la veridicità della data. Per noi è naturale pensare che un autore prima associ un particolare valore simbolico a un determinato numero e poi su quel simbolismo costruisca le sequenze narrative del libro. E invece è più probabile che un autore medievale prima scopra certe coincidenze numeriche nella realtà e solo dopo le rivesta di senso simbolico e ne faccia elementi significativi e perfino strutturali della sua opera. Si rifletta su quanto farà Petrarca con il numero sei, che avrà nel Canzoniere un ruolo del tutto simile a quello che Dante affida al nove nella Vita Nova. Ebbene, Petrarca svilupperà la tastiera simbolica del sei a partire da un elemento «realistico», cioè dalla coincidenza tra la data del primo incontro con Laura (6 aprile 1327) e quella della sua morte (6 aprile 1348). È lecito pensare che anche Dante possa essere stato sollecitato da coincidenze biografiche, che lui pure possa aver ricordato episodi reali e, come è tipico della sua mentalità, a posteriori vi abbia riconosciuto un valore simbolico.

A noi fa specie la giovanissima età dei due. E in effetti, se i nove anni di Dante sono davvero pochi anche per i parametri di allora, non così sono quelli di Beatrice. L’età maritale si collocava intorno ai quattordici, quindici anni (quella canonica a dodici), ma quel termine poteva anche essere anticipato. Un contemporaneo di Dante, Francesco da Barberino, nel Reggimento e costumi di donna – un trattato di comportamento femminile scritto in versi intercalati da parti in prosa e ultimato tra il 1318 e il 1320 – racconta la novelletta di Corrado di Savoia che si invaghisce della «figliuola» di un cavaliere di nome Gioietta, «la quale era d’etade di nove anni», e la sposa. Insomma, i nove anni di Beatrice non vanno interpretati, secondo i nostri parametri, come il segno che era ancora una bambina, ma come indicazione che si trattava, come dice il Barberino, di «una fanciulla la qual comincia alquanto a vergognare», cioè «comincia bene e mal sentire».

Possiamo ammettere, dunque, che Dante abbia incontrato per la prima volta Beatrice nel 1274, ma non possiamo assolutamente credergli quando afferma che in quella circostanza nacque l’amore della sua vita, l’unico amore della sua vita. Eppure a questa sua invenzione egli resterà sempre fedele, fino al punto di assumerla fra i tratti tipici della sua biografia intellettuale e letteraria. Dante sembra incapace di immaginare un libro nel quale la sua persona o, comunque, un personaggio che porta il suo nome non abbiano una presenza di rilievo, ma quel personaggio può essere indifferentemente e, spesso, contemporaneamente, o una costruzione letteraria, dunque un vero personaggio, o la diretta trasposizione del suo io biografico. Insomma, parla di sé senza distinguere tra finzione e realtà. Quando nel Purgatorio scriverà che Beatrice lo «avea trafitto / prima che [egli] fuor di puerizia fosse»22 si riferirà alla finzione letteraria della Vita Nova, ma quando, invece, in un sonetto responsivo a Cino da Pistoia (databile tra il 1303 e 1306) si presenterà come esperto d’Amore per essere vissuto al suo servizio fin dall’età di nove anni («Io sono stato con Amore insieme / dalla circulazion del sol mia nona»),23 assumerà quell’invenzione come dato biografico reale.

La breve vita di Bice Portinari

Di Beatrice la Vita Nova indica implicitamente la data di nascita (1266) e, in forma esplicita, anche se contorta (per farlo, infatti, ricorre a ben tre diversi calendari), quella di morte, specificandone ora, giorno, mese e anno: un’ora dopo il tramonto dell’8 giugno 1290. Il libro accenna anche al padre e a un fratello dell’amata, ma per ricostruire quel poco che sappiamo della sua vita dobbiamo ricorrere ad altre fonti.

Sappiamo che era figlia di Folco Portinari, esponente di spicco di una ragguardevole famiglia, dedita al commercio e alla finanza, residente nello stesso sestiere degli Alighieri. Come gli Alighieri, anche i Portinari erano politicamente vicini alla fazione che faceva riferimento alla famiglia dei Cerchi (del cui banco Folco era socio), fazione che verso la fine del secolo avrebbe costituito il nerbo del partito dei Bianchi, contrapposto a quello dei Neri guidato dai Donati. Folco ha rivestito cariche pubbliche di rilievo (è stato più volte priore) e, soprattutto, ha legato il suo nome alla fondazione (nel 1286, ma l’inaugurazione avverrà due anni dopo) della maggiore istituzione assistenziale cittadina, l’ospedale di Santa Maria Nuova. Muore il 31 dicembre 1289. Alla sua morte la Vita Nova dedica un intero paragrafo, nel quale il cenno alla grande bontà del defunto va inteso come una allusione proprio all’ospedale da lui fondato. Dante era molto legato ai Portinari: considerava il fratello di Beatrice, di nome Manetto, il secondo dei suoi amici dopo Guido Cavalcanti.

Beatrice, dunque, appartiene all’alta società cittadina e con il matrimonio, contratto con Simone dei Bardi, si trasferisce in una famiglia ancora più illustre. I Bardi, noti oggi per aver commissionato a Giotto gli affreschi che decorano la loro cappella in Santa Croce (1325-1330), erano titolari di una delle maggiori compagnie bancarie di Firenze. Già potente negli anni Ottanta del Duecento, la loro società si ingrandirà ulteriormente fino a diventare una delle più ragguardevoli in Europa. Il suo repentino fallimento, nel 1343, provocherà un grave contraccolpo su tutto il sistema finanziario fiorentino.

Simone, figlio di Geri di Ricco, appartiene a uno dei due rami principali della famiglia: a differenza dell’altro, discendente dallo zio Iacopo di Ricco, che pratica la grande finanza e partecipa in posizioni di comando alla vita politica del Comune, questo ramo familiare sembra proiettato all’esterno, verso quella che potremmo definire la politica estera della famiglia. Mentre il ramo di Iacopo esprime numerosi priori, nessuno di quello di Geri sembra mai avere occupato quella carica. Il nome di Simone di Geri nei documenti è accompagnato dall’appellativo dominus, segno che egli era stato insignito del titolo di cavaliere. Nella stratificata società comunale un cavaliere godeva di un altissimo prestigio. Anche i testi letterari lo confermano: per esempio, la cosiddetta «canzone del pregio» (Amor mi sforza e mi sprona valere) di Dino Compagni disegna una scala gerarchica che dai re scende ai baroni, ai giudici e ai cavalieri; i «mercatanti» (cioè i finanzieri) vengono dopo i giuristi, i notai e i medici, e precedono gli artigiani. Insomma, sposando il cavaliere Simone dei Bardi, Beatrice è entrata a far parte della più aristocratica élite di Firenze. Grande è la distanza tra la sua posizione sociale e quella di Dante, rampollo di una famiglia di status così mediocre da aver espresso dal 1282 (data di istituzione del priorato) al 1300 un solo priore, Dante medesimo. Simone ricopre in varie città cariche pubbliche di prestigio, come quelle di capitano del popolo (Orvieto, 1310) e di podestà (Volterra, 1288). Nel 1290, l’anno in cui muore Beatrice, è capitano del popolo a Prato.

Ignoriamo quando fu celebrato il matrimonio tra Beatrice e Simone, forse già prima del 1280. Naturalmente sarà stato un matrimonio combinato, politico. In una città dilaniata da ininterrotte contese l’alleanza matrimoniale tra famiglie di parte avversa era un modo per cercare di mantenere l’equilibrio e, in caso di scontro, per limitare i danni; dunque non sorprende che il prudente Folco Portinari abbia cercato di legarsi ai Bardi, acerrimi donateschi. Ignoriamo anche se da quell’unione nacquero dei figli. La sola cosa certa è che, sposandosi, Beatrice si trasferì nella casa del marito.

Le case di Bardi erano situate Oltrarno, lungo la via (che oggi porta il loro nome) che dal Ponte Vecchio corre parallela al fiume verso oriente fino alla porta di San Niccolò, ai piedi della collina di San Miniato. Quella porta era detta «a Roma», perché da lì partiva la Cassia, la vecchia strada consolare per Siena e Roma. Si trattava, dunque, di una via che oggi chiameremmo di grande comunicazione, e infatti ospitava luoghi di ricovero (nel 1283 vi era stato aperto, proprio vicino alle case dei Bardi, un ospedale per gli uomini, l’anno successivo un altro per le donne). Verso la fine della Vita Nova Dante descrive un gruppo di pellegrini che, durante la settimana santa, attraversano Firenze percorrendo una strada «la quale è quasi mezzo della cittade» e che, all’aspetto, mostrano di ignorare il grave lutto che l’ha colpita, cioè la morte di Beatrice. Venendo meno alla regola di non introdurre nel libro nomi di persona o toponimi (nemmeno Firenze è mai nominata), in questo caso Dante comunica ai lettori che i pellegrini si stanno recando a Roma per vedere la Veronica. Essi, dunque, stanno percorrendo la strada, che attraversa Firenze da ovest a est, sulla quale sorge la casa dove Beatrice aveva vissuto da sposata e dove quasi sicuramente era morta. Il cronista Villani ci informa che le case della famiglia Bardi si ergevano in prossimità della chiesa di Santa Lucia dei Magnoli (che fu detta anche Santa Lucia dei Bardi). Ignoriamo in quale chiesa Beatrice sia stata sepolta: le più probabili sono per l’appunto questa o la vicina (demolita nel 1869) Santa Maria Sopr’Arno; in ogni caso, la vicinanza fisica avrà favorito la sua frequentazione della chiesa di Santa Lucia. Ecco allora che nella Commedia la scelta di santa Lucia come intermediaria può arricchirsi di un’ulteriore motivazione: la santa si collega da un lato a Dante per la particolare devozione che egli le professava (nella quale probabilmente giocavano un ruolo i suoi disturbi alla vista), dall’altro a Beatrice, che nella chiesa dedicata alla santa doveva avere pregato più volte.

Simone dei Bardi, come tutti i suoi parenti, era un fedele seguace dei Donati. Un partigiano particolarmente acceso doveva essere il fratello Cecchino, che il cronista Dino Compagni presenta come uno degli uomini di Corso. Fra Corso Donati e Guido Cavalcanti – racconta Compagni – correva una fiera inimicizia, al punto che Corso aveva cercato di far sopprimere Guido mentre si recava in pellegrinaggio a Santiago di Compostela. Per lo meno, di ciò era convinto Cavalcanti, che aspettava il momento di vendicarsi. Un giorno, mentre percorreva a cavallo la città in compagnia di alcuni membri della famiglia Cerchi, si imbatté in Corso, lui pure scortato dai suoi, fra i quali era proprio Cecchino dei Bardi. Guido, allora, spronò il cavallo e scagliò una freccia contro il suo nemico, ma mancò il bersaglio. Guido pensava di essere seguito nell’assalto dai suoi compagni, e invece si ritrovò solo, e dovette fuggire di fronte alla reazione violenta di Corso e della sua brigata.

Quando la parte donatesca assunse il nome di Neri, i Bardi diventarono «neri» a loro volta: saranno sempre schierati non solo con quella fazione, ma addirittura con l’ala più intransigente facente capo alla famiglia dei Della Tosa. Dante, dunque, avrebbe avuto tutte le ragioni per considerarli nemici personali. E allora colpisce che nella Commedia lui, che pure non risparmia sarcasmi, invettive e ingiurie ai suoi nemici politici e, perfino, agli amici di un tempo, non faccia mai cenno ai Bardi. Un segno di rispetto o di totale damnatio memoriae?

Un matrimonio prestigioso

Dante è ancora un bambino e già il padre Alighiero o, meglio, i parenti più prossimi dopo la sua morte, pensano ad accasarlo. Alla fine la scelta cade su Gemma, una ragazzina, coetanea o forse di alcuni anni più giovane di Dante, della potente famiglia dei Donati, essi pure residenti in San Pier Maggiore. Anche in questo caso, essendo gli Alighieri legati ai Cerchi, non saranno mancate, accanto a quelle economiche (la famiglia della promessa sposa possedeva a Pagnolle terreni contigui a quelli degli Alighieri), motivazioni politiche. Gemma era imparentata, anche se alla lontana (è cugina di terzo grado), con Corso, Forese e Piccarda, cioè con il ramo dei Donati che nei decenni successivi avrebbe guidato la fazione guelfa vincitrice, ma anche i suoi genitori vantavano un lignaggio prestigioso. Manetto, il padre, era figlio, infatti, di Ubertino Donati e di una figlia di Bellincione Berti. Dante ha una grande considerazione della nobiltà di Ubertino, tanto che nel Paradiso, proprio per metterla in rilievo, dirà che questi aveva disapprovato il fatto che il suocero Bellincione avesse concesso in moglie un’altra sua figlia a un membro dell’arrogante, ma di «picciola gente», famiglia degli Adimari. Anche presumendo che Dante, come suo solito, accentuasse il carattere aristocratico della famiglia della moglie, resta comunque che per gli Alighieri si trattava di un matrimonio prestigioso. Tanto più che Manetto, che nel 1280 era stato tra i garanti della cosiddetta pace del cardinale Latino, negli anni successivi, cioè dopo il fidanzamento di Dante con Gemma, sarebbe stato creato cavaliere.

Le trattative prematrimoniali sfociarono in un atto, sottoscritto davanti a un notaio il 9 febbraio 1277 (Dante aveva dodici anni), con il quale Gemma veniva promessa a Dante ed era fissato l’ammontare della dote. Purtroppo quell’atto non ci è pervenuto, e quindi non siamo in grado di stabilire chi agisse per conto di Dante, se il padre Alighiero o un tutore. In effetti, Alighiero II avrebbe potuto già essere defunto, e quindi a condurre la trattativa potrebbe essere stato il tutore degli orfani. Allearsi con i Donati era socialmente prestigioso, ma assai poco vantaggioso dal punto di vista economico. La dote di Gemma, infatti, ammontava solamente a 200 fiorini piccoli. Le doti erano calcolate in proporzione al patrimonio del futuro sposo, e questo perché quel patrimonio ne garantiva la restituzione in caso di morte del marito. La cifra modestissima della dote di Gemma conferma che le sostanze di Alighiero II (o meglio, da lui lasciate in eredità) nella seconda metà degli anni Settanta non erano rilevanti. In pratica, Gemma portava in dote solo un nome prestigioso. Sembra poco probabile che un piccolo prestatore come Alighiero II, bisognoso di liquido per la sua professione, abbia pensato a un simile matrimonio: nei suoi interessi e nella sua mentalità sarebbe rientrato piuttosto un contratto con una donna meno nobile ma di maggior sostanza economica. Più attento al nome che ai fiorini, invece, avrebbe potuto essere uno come Durante degli Abati, al quale magari avrebbe fatto comodo allearsi, seppure alla lontana, con i Donati.

Il matrimonio – lo vedremo – sarà celebrato più tardi, si pensa tra il 1283 e il 1285.

Si è molto discusso tra i dantisti se fu un matrimonio felice. La discussione è stata innescata da Boccaccio, che nel Trattatello dipinge un ritratto impietoso di Gemma. A suo dire, i parenti avevano convinto Dante a sposarsi perché si consolasse della morte di Beatrice – il che è palesemente fantasioso – e fecero un grande sbaglio. Quel legame gli procurò solo noie e pene, perché questo, sostiene Boccaccio, è il destino che tocca a tutti gli uomini di ingegno, i «filosofanti», che si adattano al matrimonio: chi lo ha provato sa «quanti dolori nascondano le camere, li quali di fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacia trapassi le mura, sono reputati diletti». L’unico elemento che egli porta a favore della sua requisitoria sarebbe la circostanza (peraltro tutta da dimostrare, anzi, da ritenere priva di fondamento) che, dopo l’esilio, i due non si sarebbero mai più incontrati. In assenza di qualunque indizio non possiamo che astenerci dal giudicare la vita matrimoniale di Dante. Va detto, comunque, che i contrasti fra i coniugi, se mai vi furono, non dovettero essere particolarmente gravi. Lo lascia supporre il fatto che tra Dante e il padre e i fratelli di Gemma corsero sempre buoni rapporti. Per esempio, Manetto Donati fu più volte mallevadore di prestiti concessi a Dante negli anni Novanta, e anche per cifre ragguardevoli: come si dirà anche più avanti, nel dicembre 1297, insieme ad altri, garantì un debito contratto da Dante e dal fratello Francesco per la notevole somma di 480 fiorini d’oro. E anche dopo l’esilio non si ha sentore di contrasti tra i coniugi. E poi, è un fatto che Dante, nonostante lo scontro politico con Corso, nella Commedia tratta con riguardo, per non dire con favore, la famiglia Donati.