… li cittadin de la città partita63
Una promessa mancata
Del libro promesso alla fine della Vita Nova non è rimasta traccia. A causa degli accidenti della storia o perché Dante non è mai passato dal progetto alla scrittura? La domanda è destinata a restare senza risposta, a meno di non dare credito a quelle testimonianze che parlano di un poema latino da lui cominciato e poi lasciato interrotto. Le testimonianze, per la verità, riferiscono esplicitamente di una prima redazione in latino della Commedia: è evidente che per i lettori antichi associare la notizia, per di più trasmessa da una incerta tradizione orale, di un poema presunto al poema effettivamente scritto doveva essere quasi automatico. Se però sgombriamo il campo da quel facile equivoco, potremmo interpretarle come indizi del fatto che Dante si fosse effettivamente dedicato all’opera preannunciata alla fine della Vita Nova.
Nei primi anni Quaranta del Trecento il giovane Boccaccio trascrive in un suo zibaldone parte di una epistola latina che, in data imprecisata, ma fissabile fra la tarda estate del 1314 e l’inizio della primavera del 1315, un monaco benedettino della congregazione dei pulsanesi di nome Ilaro avrebbe inviato dal monastero di Santa Croce al Corvo, sovrastante la foce del fiume Magra in Lunigiana, a Uguccione della Faggiola, signore di Pisa e di Lucca. La lettera avrebbe accompagnato il dono di un esemplare dell’Inferno, corredato di glosse, a lui dedicato. Nell’epistola Ilaro racconta che un giorno al monastero si era presentato un personaggio innominato (che si capisce da chiari segni essere Dante), il quale, transitando attraverso la diocesi di Luni diretto «ad partes ultramontanas» (al di là degli Appennini o delle Alpi?), dopo un colloquio riservato, colpito dalla devozione che il frate gli manifestava, aveva estratto da una tasca un libretto e glielo aveva regalato per ricordo. E poi gli avrebbe espresso il desiderio che quel libretto (prima sezione di un’opera in volgare tripartita, e perciò identificabile con l’Inferno), una volta corredato di chiose dallo stesso Ilaro, fosse inviato a Uguccione; cosa che il frate, per l’appunto, sta facendo. Ilaro, infine, informa Uguccione che, se un giorno volesse «ricercare le altre due parti di quest’opera» (Si vero de aliis duabus partibus huius operis aliquando Magnificentia vestra perquireret), potrebbe richiedere quella «che segue a questa» (que ad istam sequitur) al marchese Moroello Malaspina, e la terza a Federico d’Aragona, re di Sicilia. A questo punto Boccaccio (o l’estensore dell’antigrafo da cui copia), evidentemente interessato solo alla sezione dantesca, smette di trascrivere.
Il problema è stabilire se la lettera sia autentica. La discussione è tuttora aperta. I dubbi più consistenti concernono proprio i passi che per noi sarebbero i più interessanti. Stando a Ilaro, Dante avrebbe confessato di avere cominciato a scrivere la Commedia in latino, ma di essere presto passato al volgare perché aveva preso atto che «le poesie degli illustri poeti erano disprezzate come fossero di nessun conto; e perciò gli uomini, per i quali in tempi migliori tali cose si scrivevano, abbandonarono – o dolore! – le arti liberali ai plebei». Dante, cioè, avrebbe interrotto la composizione del poema latino perché le condizioni culturali del suo tempo quasi lo imponevano, dal momento che gli «homines generosi», cioè i nobili, i potentes, erano inesperti di latino. Ancor più sospetti sono i due esametri e mezzo che Dante avrebbe recitato a Ilaro e che di quel poema interrotto sarebbero stati l’incipit: «Ultima regna canam, fluvido contermina mundo, / spiritibus que lata patent, que premia solvunt / pro meritis cuicunque suis». Comunque li si interpreti – «canterò i regni i più lontani, posti al di là dell’universo ruotante, che si aprono immensi alle anime, e dispensano i premi a ciascuna secondo i suoi meriti» (Padoan); «canterò gli ultimi regni, posti al di là del mondo corruttibile, che ampi si offrono alle anime, e ripagano ciascuna come merita» (Bellomo) –, questi versi alludono a un regno oltremondano: non è chiaro se a un aldilà generico o, più specificamente, paradisiaco. Della loro autenticità, come peraltro del resto dell’epistola, Boccaccio era convinto, tuttavia che possano essere danteschi risulta difficilmente credibile. E poco credibile è anche la notizia di una Commedia inizialmente concepita in latino. Che essa risalga allo stesso Dante è improbabile, per non dire impossibile. O si tratta di una interpolazione, come dire che tutto il discorso relativo alla Commedia, e non solo gli esametri, è stato aggiunto alla lettera originale, o si tratta di un equivoco. Dante, cioè, avrebbe accennato a un poema in latino iniziato e poi interrotto e Ilaro potrebbe aver pensato che si riferisse alla Commedia. Una conclusione equilibrata potrebbe essere che, dopo la morte di Dante, a una lettera autentica che accompagnava il dono a Uguccione di una copia dell’Inferno siano state aggiunte le parti relative al presunto poema latino. L’epistola, quindi, non sarebbe integralmente falsa, ma interpolata e manipolata in più punti.
Se frate Ilaro è un testimone così poco attendibile che la sua stessa esistenza può essere messa in dubbio, ben diversa è l’autorevolezza di Filippo Villani. Nella prefazione al suo commento alla Commedia (scritto verso la fine del Trecento e interrotto dopo il primo canto) Villani riprende da Boccaccio il contenuto dell’epistola di Ilaro (compresi i due esametri e mezzo del presunto incipit) arricchendolo, però, di una notizia inedita. Per confermarne la veridicità riferisce che allo zio paterno, lo storico Giovanni Villani, Dante aveva confidato, evidentemente prima di essere bandito da Firenze, di aver tralasciato il latino per il volgare perché, paragonati i suoi versi a quelli di Virgilio, Stazio, Orazio, Ovidio e Lucano, gli era sembrato di avere accostato uno straccio alla porpora. Anche Filippo, come Boccaccio, identifica il poema latino interrotto con la Commedia, ma la sua testimonianza resta ugualmente preziosa perché attesta che a Firenze era viva la memoria di un Dante poeta in latino. Non è molto, certo, ma forse è sufficiente per non far ritenere del tutto fantasiosa l’ipotesi che quel tentativo di poema latino si collegasse al proposito espresso alla fine della Vita Nova.
«Fu’ io a lui men cara e men gradita»
Avesse o no cominciato a scrivere l’opera promessa, è un fatto che subito dopo il 1295 la produzione letteraria di Dante cambia radicalmente di segno. Ci saremmo aspettati che egli imboccasse la strada della poesia mistica ed escatologica, e invece ecco un Dante mondano come mai prima e dimentico di quel mito di Beatrice alla cui costruzione si era dedicato per molti anni. Il lirico d’amore, come se non avesse più volte proclamato di essere stato sempre fedele (con la sola eccezione della Donna pietosa o gentile) a un’unica donna, si concede a una pluralità di ispiratrici. Non solo, arriva a scrivere poesie pervase di un eros e di una sensualità che sono l’esatta negazione dell’atmosfera estatica dei testi in lode di Beatrice: «S’io avesse le belle trecce prese / che son fatte per me scudiscio e ferza, / pigliandole anzi terza / con esse passerei vespero e squille; / e non sarei pietoso né cortese, / anzi farei com’orso quando scherza».64
Eppure, il progetto annunciato alla fine della Vita Nova, comunque siano andate le cose, sembra essersi mantenuto vivo nella mente di Dante, se non altro come atto mancato. Se si sentisse in colpa per non aver adempiuto quella promessa non sappiamo, e nemmeno è importante sapere; sappiamo, però, che nella Commedia attribuisce al sé stesso personaggio un fortissimo senso di colpa nei confronti di Beatrice. Nel Paradiso Terrestre la incontra finalmente, esattamente dieci anni dopo la sua morte. È la stessa donna da lui amata in gioventù e celebrata nella Vita Nova, eppure qui appare profondamente cambiata. Non più fonte di ogni dolcezza, ma altera, «proterva»;65 parla, e la sua lingua è come una spada che colpisce sia «per taglio» sia «per punta».66 Essa accusa un Dante confuso e smarrito di averla tradita: subito dopo la sua morte «si tolse a me, e diessi altrui».67 A ciò lo avevano spinto l’allentarsi dei sentimenti amorosi che prima nutriva per lei («fu’ io a lui men cara e men gradita»68) e l’attrazione non vinta per altre donne («qual cosa mortale / dovea poi trarre te nel suo disio? … Non ti dovea gravar le penne in giuso, / ad aspettar più colpo, o pargoletta / o altra novità con sì breve uso»69). L’accusa di infedeltà, dunque, non è generica: Dante ha dimenticato la nuova prospettiva poetica, letteraria e umana che gli si era dischiusa al momento della morte dell’amata ed era ricaduto in una concezione e in una pratica della poesia (le pargolette e le altre novità) che negavano la nuova visione amorosa che il libro giovanile lasciava intravedere. Quando Beatrice afferma che Dante si sarebbe dovuto «levar suso / di retro» a lei70 e che invece ha gravato le sue «penne in giuso», forse ricorre a usuali metafore di carattere etico, ma forse allude a qualcosa di più concreto, a quel mancato salire al cielo, sulle sue orme, che una visione paradisiaca avrebbe realizzato alla lettera.
La svolta non coinvolge solo la lirica d’amore e il ruolo protagonistico di Beatrice, ma sconvolge a fondo l’intera poetica dantesca. Lo stesso poeta che nella Vita Nova aveva appena teorizzato, in accordo con l’amico Cavalcanti e in polemica con Guittone e i suoi seguaci, che la lirica in volgare poteva essere solamente d’argomento amoroso, adesso compone canzoni su temi etici e civili. Cosa può aver determinato una svolta così netta?
Verso la fine del 1293 muore Brunetto Latini; poco prima era morto anche Bono Giamboni. Con la scomparsa di questi due intellettuali, e in modo particolare del primo, nella vita culturale e civile di Firenze si apre un grande vuoto. Per decenni Brunetto aveva impersonato il ruolo del saggio che mette a disposizione della città il suo sapere. In lui si fondevano una notevole (unica in città, prima di Dante) cultura libresca e una spiccata propensione pratica agli affari di governo e a quelli privati. Banchieri e mercanti di Firenze potevano guardare a Brunetto come a un modello perché era uno di loro, ma dotato di ciò che a loro più difettava: una vasta e raffinata cultura. La sua morte, se lascia un vuoto, apre anche un problema di eredità. Dante è l’unico intellettuale laico che, obiettivamente, possa rivendicarla; in ogni caso, lui si sente il vero erede del maestro defunto. Tuttavia, al ruolo di grande consigliere o, diremmo oggi, di intellettuale organico al potere non possono aspirare né un elitario lirico amoroso né un ancor più distante poeta in latino; quella funzione richiede un intellettuale impegnato che affronti temi etici attinenti alla vita sociale. L’individualista che coltiva il giardino esclusivo della lirica e della letteratura antica deve trasformarsi in uno scrittore che, in volgare, tratti problemi sentiti dalla collettività. Ma ciò risponde solo a una parte di quanto è richiesto a chi aspiri a succedere a Brunetto; altra parte non secondaria è la partecipazione alla cosa pubblica. E ciò è esattamente quanto Dante fino a ora si è guardato dal fare. Per conseguire quel posto di prestigio che egli sente alla sua portata, deve necessariamente immergersi nella politica cittadina.
Uno «scioperato» in politica
Proprio in quel giro di anni nella politica fiorentina accadono fatti che sembrano quasi costruiti su misura perché Dante possa realizzare il mutamento richiesto.
Le restrizioni all’accesso alle cariche pubbliche che a partire dal 1293 erano state decretate per gli appartenenti al ceto dei magnati avevano, come è comprensibile, suscitato forti tensioni nella classe dirigente. A seguito di tumulti popolari (23 gennaio 1294) alla cui origine erano i Donati – in particolare Corso, accusato dal «popolo minuto» di essere stato sottratto illegalmente alla giusta pena capitale per un paio di omicidi compiuti poco prima –, i magnati poterono mettere sotto accusa Giano della Bella, che del governo antimagnatizio era l’anima. Nel febbraio 1295 l’alleanza oggettiva tra i Grandi e i ceti popolari lo costrinse a fuggire da Firenze. Ma il tentativo dei magnati di rovesciare la situazione non riuscì completamente. È vero che, come conseguenza della caduta di Giano, gli Ordinamenti di giustizia furono riformati in senso meno restrittivo (i cosiddetti Temperamenti), ma la sostanza delle disposizioni restò in vigore. I provvedimenti del 1293 stabilivano che, oltre ai magnati (registrati nominativamente in un apposto elenco), erano esclusi dal priorato coloro che erano insigniti della dignità cavalleresca e coloro che non esercitavano realmente un’arte. I provvedimenti deliberati il 6 luglio 1295 mantengono il divieto per i cavalieri, ma «stabiliscono che per esser considerato come artefice e quindi per essere ammesso al priorato e al godimento di tutti gli altri diritti inerenti alla qualità di artefice, non è necessario l’esercizio reale e personale dell’arte». Questa disposizione tocca Dante direttamente.
Fino al 1293 nessuna legge gli avrebbe impedito di far parte delle magistrature cittadine; l’impedimento era sorto solo nel biennio 1293-1295 in quanto non iscritto a un’Arte (Dante non ha mai avuto il problema di essere considerato magnate). Ma almeno dagli inizi degli anni Ottanta, molto prima che l’appartenenza a una corporazione diventasse fattore dirimente per accedere alla vita pubblica, il potere effettivo era in mano alle Arti, e pertanto chi non ne faceva parte incontrava notevoli difficoltà a inserirsi nella vita politica. Perciò Dante, che, non esercitando nessuna professione o attività, non poteva essere iscritto a una corporazione, era escluso di fatto dalla partecipazione alla politica. Insomma, il suo disimpegno potrà anche essere dipeso da un sentimento di disinteresse, ma più che altro deve essere stato la conseguenza della scelta di vivere da rentier. Dall’estate del 1295 gli si apre la possibilità di iscriversi a un’Arte seguitando a vivere di rendita, e lui l’afferra al volo. Entra a far parte di quella categoria di persone che saranno dette «scioperati», cioè inattivi.
La sua iscrizione all’Arte dei medici e speziali è documentata solo per il marzo 1297, ma deve risalire a poco dopo il luglio 1295. Pare assodato, infatti, che già nel semestre novembre 1295 - aprile 1296 egli rappresentasse il suo sestiere nel Consiglio ristretto o speciale del capitano del popolo (composto di 36 membri e perciò detto anche Consiglio dei trentasei). Pare anche, però, che non vi avesse mai preso la parola e ne avesse più volte disertato le riunioni: il che sarebbe un comportamento abbastanza strano per una «matricola». È certo, invece, che il 14 dicembre 1295 interviene durante un Consiglio delle capitudini. Composto dai magistrati (consoli, o capitudini) delle dodici Arti maggiori, esso aveva il compito di preparare proposte e deliberazioni da sottoporre poi all’approvazione dei Consigli del Comune. Nella seduta in cui Dante prese la parola si discuteva, per l’appunto, la proposta di un nuovo sistema di elezione dei priori. A volte questo e altri organi si avvalevano della consulenza di esperti o «savi» (sapientes), ed è proprio in qualità di «savio» che Dante partecipa a quel consiglio. Altrettanto sicuro è che, sei mesi dopo, faceva parte del Consiglio dei cento. Eletto ogni sei mesi, era, insieme al Collegio dei priori, l’organo più importante del governo di Firenze (alle sedute partecipavano anche i priori e il gonfaloniere di giustizia): durante il primo semestre sono documentati interventi di Dante in data 5 giugno 1296. Ora, se Dante fosse stato membro del Consiglio ristretto del capitano del popolo, che scadeva il 30 aprile, per un problema di incompatibilità non avrebbe potuto essere eletto in questo secondo, che iniziava a operare il primo di quel mese. Si è dunque pensato che egli sia stato cooptato dal gonfaloniere (Lapo Saltarelli, che vedremo essere uno dei suoi referenti politici) e dai priori al posto di un consigliere per qualche motivo decaduto.
Designato come «savio» o cooptato, sembra proprio che Dante abbia mosso i primi passi nella vita politica senza sottoporsi a nessun vaglio elettivo. In un caso e nell’altro qualcuno lo ha scelto. Qualcuno che non avrà certo guardato alle sostanze economiche e al prestigio professionale, ma che lo avrà giudicato adatto a ricoprire incarichi pubblici per le sue doti, ormai riconosciute, di filosofo e di poeta. Tuttavia sarebbe un po’ ingenuo ritenere che nella vita politica fiorentina, già turbolenta in quegli anni a causa delle lacerazioni del partito guelfo di governo, si potesse rappresentare il proprio sestiere unicamente per meriti culturali. Il sesto d’appartenenza era la base necessaria sulla quale costruire una ascesa politica, ma a contare erano le relazioni che uno aveva al suo interno. San Pier Maggiore era diviso in due schieramenti dalla rivalità, che stava ormai per degenerare in scontro aperto, tra Cerchi e Donati. Questi ultimi erano parenti acquisiti di Dante, ma i suoi amici più stretti, per esempio Guido Cavalcanti e Manetto Portinari, erano collegati ai Cerchi. Saranno stati i Cerchi, dunque, e in particolare Vieri, la persona più potente del sestiere e, forse, di Firenze, a giudicare che quel non più giovane uomo, di famiglia modesta e dal misero patrimonio, ma ricco di doti intellettuali, potesse giovare alla loro causa.
Sappiamo che ancora nel 1297 Dante prende la parola in un consiglio, su un argomento non conosciuto, dopo di che non resta più traccia alcuna della sua attività politica. Perciò ignoriamo quale sia stato il percorso, tra alleanze e inimicizie, che nel fatidico 1300 lo porterà a occupare, primo e unico nella storia degli Alighieri, il seggio più alto nella gerarchia comunale.
Pedagogia della «gentilezza»
Nelle prime sedute consiliari a cui partecipa, Dante si pronuncia, da «esperto», su questioni di carattere procedurale; si esprime a favore di provvedimenti contro coloro, soprattutto magnati, che commettono atti di violenza ai danni di detentori di cariche pubbliche; appoggia delibere a vantaggio dei vicini di Pistoia. Non gli si presenta l’occasione di occuparsi di grandi problemi di politica estera e interna. Un ruolo modesto, dunque, che non può dare la misura di quale apporto reale un «filosofo» e «retore» come lui possa arrecare alla vita cittadina. L’eredità di Brunetto gli può essere riconosciuta solo se all’impegno pratico egli affianca una produzione intellettuale capace di incidere sui grandi temi che agitano il dibattito e lo scontro politico tra i ceti cittadini.
Il problema della nobiltà, cosa essa sia, quali siano gli individui e i ceti sociali che possono fregiarsi del titolo di nobile e, soprattutto, quale comportamento a essa si addica, è centrale nell’aspra dialettica politica degli anni Novanta, anni che, non a caso, si aprono con gli Ordinamenti antimagnatizi. Il concetto di nobiltà, per un gruppo oligarchico privo di ascendenze nobiliari ereditarie, trova la sua espressione simbolica nel cavalierato. La corsa a questo riconoscimento misura l’ansia di promozione sociale delle grandi dinastie delle banche e del commercio. D’altra parte, sono proprio i comportamenti arroganti e indisponenti che gli aristocratici per censo mutuano dai nobili di sangue a provocare la reazione del «popolo», cioè del ceto produttivo della città. Il tema della nobiltà si intreccia pertanto con problemi di etica pubblica. Per Dante esso assume anche valenze più personali, se è vero che il vivere da nobile è un ideale che molto incide sulle sue scelte.
In un primo tempo, alla domanda su che cosa sia la nobiltà Dante aveva dato una risposta imperniata sull’aristocraticismo intellettuale. Nella stagione stilnovista aveva condiviso con un ristretto numero d’amici l’idea che solo i cuori «gentili», cioè nobili, potessero provare amore e, di converso, che esso non potesse albergare in uomini «vili» e «noiosi». In altre parole – come recita l’attacco di un sonetto della Vita Nova, appoggiandosi all’autorità del Guinizelli di Al cor gentil rempaira sempre amore – l’idea che «Amore e ’l cor gentil sono una cosa, / sì come il saggio in suo dittare pone».71 Di per sé non era una concezione originale; nuovo, invece, era il corollario che Dante, Cavalcanti e, in parte, Cino ne facevano discendere, vale a dire che la poesia d’amore dovesse rivolgersi solo a un pubblico ristretto e selezionato, i «gentili» e gli «intendenti». Così il principio che la nobiltà d’animo sia prerogativa necessaria e sufficiente per provare amore – principio che nella sua storia era stato un’istanza di apertura, un modo per rompere steccati ideologici e sociali – nelle mani di questi poeti fiorentini si era trasformato in una espressione di separatezza e di chiusura. Quel gruppetto egemonizzato dal magnate Cavalcanti intendeva proporsi come élite intellettuale, come nuova aristocrazia fondata sul merito culturale e sui comportamenti che ne conseguono.
Adesso – nella seconda metà degli anni Novanta – Dante si rivolge all’intero ceto dirigente cittadino con due canzoni, per così dire, etico-pedagogiche: nella prima (Le dolci rime d’amor ch’i’ solia) definisce in cosa consista la nobiltà, specchio di ogni «virtù»; nella seconda (Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato) descrive quali comportamenti, compresi sotto l’etichetta di «leggiadria», si addicono al nobile. Il suo intendimento è di mostrare che la «gentilezza» può essere acquisita (e che la cortesia, sua traduzione nell’ambito dei rapporti sociali, può essere praticata) anche nel contesto cittadino, purché si comprenda che essa non dipende né dal lignaggio né dalla ricchezza. La sua, dunque, è una proposta di mediazione, nello spirito di Brunetto.
Ne Le dolci rime, confutando una sentenza da lui attribuita all’imperatore Federico II (ma in realtà di Aristotele),
Tale imperò che gentilezza volse,
secondo ’l suo parere,
che fosse antica possession d’avere
con reggimenti belli,72
sostiene con vigore che «ricchezza» non è «di gentilezza … principio» e che non si può essere gentili solamente per nascita («per ischiatta»). Ricchezza e nobiltà ereditaria devono accompagnarsi alla virtù individuale, consistente nella capacità di scegliere il giusto mezzo tra gli estremi. Se proiettata sullo sfondo dello scontro sociale e ideologico fiorentino, questa tesi, di per sé poco originale, può essere considerata di impronta spiccatamente «comunale». Essa, infatti, sancisce il diritto del ceto che oggi chiameremmo borghese ad arrogarsi un rango nobiliare, seppure di nuovo tipo, e riconosce il valore delle aristocrazie ereditarie, a patto che si integrino nella comunità: una posizione, dunque, nella quale la composita classe dirigente cittadina poteva riconoscersi nella sua interezza.
Nella seconda canzone la parte dedicata a descrivere quali siano i giusti comportamenti dei veri «leggiadri» è preceduta da un’aspra requisitoria contro i falsi «leggiadri», contro coloro, cioè, che in società si comportano in modo sconveniente e urtante, nella convinzione che i loro atteggiamenti siano propri dei nobili, quali essi si ritengono. Dante li elenca per categorie: gli scialacquatori, «per gittar via loro avere» (perché sperperano i loro soldi) credono di essere annoverati tra le persone onorevoli («credon potere / capere là dove li boni stanno»), e così spendono per allestire banchetti e soddisfare i loro appetiti sessuali («Qual non dirà fallenza / divorar cibo ed a lussuria intendere»), per ostentare ornamenti e vestiti costosi, come se fossero una merce esposta per essere acquistata da compratori stupidi («ornarsi come vendere / si dovesse al mercato d’i non saggi? / ché ’l saggio non pregia om per vestimenta»). Non hanno capito in cosa consiste un nobile comportamento né coloro che ridono continuamente e a sproposito, pensando che ciò sia indice di prontezza di spirito, né coloro che si esprimono in modo difficile e ricercato («parlan con vocaboli eccellenti») e trattano gli altri con fare altezzoso, soddisfatti che la plebe resti colpita dalle loro parole e dalla loro arroganza («contenti che dal vulgo sian mirati»). Nemici della leggiadria sono anche quelli che ignorano la fedeltà in amore e l’arte del corteggiamento, ma si abbandonano a buffonerie nei discorsi e dalle donne prendono, di nascosto come ladri, «villan diletto», piaceri bestiali («non sono innamorati / mai di donna amorosa; / ne’ parlamenti lor tengono scede; / non moveriano il piede / per donneare a guisa di leggiadro, / ma, come al furto il ladro, / così vanno a pigliar villan diletto … che paiono animal sanza intelletto»). Il leggiadro, all’opposto, «dà e prende liberalmente, è piacevole nella conversazione, ama ed è amato dai saggi, mentre è indifferente al giudizio di chi saggio non è; non è arrogante ma sa mostrare il suo valore quando occorre».
Nessuno degli argomenti, né a favore né contro, può essere considerato nuovo. Ma nuova nel suo complesso è una canzone nella quale hanno ampio spazio argomentazioni filosofiche che potevano essere svolte solo da chi avesse acquisito una grande familiarità con testi come l’Etica Nicomachea di Aristotele. E nuovo, soprattutto, è il fatto che un impianto argomentativo filosofico sia al servizio di una polemica che ha obiettivi concreti e facilmente individuabili dai lettori. È Dante stesso a identificare i nemici della leggiadria nei «falsi cavalieri»: «Oh falsi cavalier, malvagi e rei, / nemici di costei».73 Ma i fiorentini contemporanei non avevano bisogno di quella indicazione per capire: i nemici sono i ricchi senza passato nobilitati dal titolo cavalleresco, parvenu che scimmiottano stili di vita della classe più elevata, e perciò tengono tavola imbandita, si circondano di buffoni e di clienti (come il Ciacco protagonista del canto VI dell’Inferno), ostentano la ricchezza, trattano con arroganza il «popolo» e molto spesso pretendono (e a volte ottengono con la forza) una sorta di immunità dalla legge. Formano quel ceto magnatizio contro il quale all’inizio degli anni Novanta si era rivoltata la società fiorentina emarginandolo dalla vita politica. La polemica di Dante, proprio perché non indirizzata contro la nobiltà e la cavalleria, ma contro la loro degenerazione, sarebbe piaciuta a Brunetto Latini. Sicuramente piaceva a un politico-intellettuale come il già ricordato Lapo Saltarelli, coinvolto nella stesura degli Ordinamenti antimagnatizi di Giano della Bella ed esponente della parte cerchiesca (era legato a Vieri dei Cerchi anche da parentela, essendo suo consuocero). Insomma, con le canzoni morali Dante si schierava. E il suo schierarsi, ovviamente, non poteva piacere a tutti.
La rottura con Guido Cavalcanti
Non doveva essere piaciuto a Guido Cavalcanti. Abituato fin da giovane a recitare una parte di primo piano nella vita pubblica (si ricorderà che nel 1280 era uno dei garanti della pace del cardinale Latino), ne era stato messo ai margini dagli Ordinamenti, e nemmeno i successivi Temperamenti gli avevano concesso di accedere alle cariche più importanti. Volendo, però, avrebbe potuto iscriversi a un’Arte, e così partecipare alla vita politica attiva all’interno di uno dei veri gangli del potere del «popolo». Inviti in tal senso deve averne avuti più d’uno. Il cronista Dino Compagni, per esempio, gli invia un sonetto rinterzato (Se mia laude scusasse te sovente) nel quale, in sostanza, lamenta che egli non metta al servizio della collettività le sue grandi virtù facendosi «ovrere», cioè iscrivendosi a un’Arte: tu, gli dice Dino, non hai bisogno di essere nobile di sangue e di avere un grande seguito, perché nobile lo sei di tuo, e con le tue qualità avresti potuto essere anche un grande mercante («Se’ uomo di gran corte: / ahi, con’ saresti stato om mercadiere!»). Se Dio – prosegue – conducesse ciascuno al suo giusto fine, allora, colmando le differenze, darebbe il dono della cortesia, di cui tu abbondi, agli artigiani e te farebbe operaio, membro di una corporazione, senza perciò che tu smetta di guadagnare, un po’ come faccio io, che, pur guadagnandomi la vita lavorando, sono anche generoso («cortese») nel donare. Ma l’altezzoso Cavalcanti da questo orecchio non ci sentiva. Non che si tenesse in disparte, e neppure che parteggiasse, lui magnate, per i suoi pari – anzi, era politicamente schierato con i Cerchi, che venivano considerati più sensibili alle richieste del «popolo» –, ma aveva una visione della lotta politica decisamente di stampo magnatizio. Era incline allo scontro, anche fisico, alla provocazione e al bel gesto individuale, nel quale si mescolavano ardimento e arroganza. Nella sua avversione per la fazione nemica, l’odio personale nei confronti di Corso Donati contava forse più delle motivazioni squisitamente politiche. Insomma, un individualista come lui non avrebbe potuto essere parte integrante di un’organizzazione.
Ebbene, Guido, proprio perché fautore di una nobiltà d’animo elitaria e quasi da coltivare in solitudine, avrebbe potuto sottoscrivere tutte le accuse che Dante rivolgeva al ceto cavalleresco fiorentino, ma difficilmente avrebbe accettato che il suo amico e complice mettesse la sua cultura e la sua valentia di poeta al servizio del «popolo», che egli probabilmente considerava «vulgo», un alleato indegno di un intellettuale. E poi, un po’ di rancore non poteva non provarlo. È famoso un suo sonetto (I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte) nel quale rimprovera Dante di «pensar troppo vilmente» e di frequentare «l’annoiosa gente», lui che un tempo si teneva lontano dalle folle («Solevanti spiacer persone molte»). Non conosciamo né la data né l’occasione del sonetto, ragion per cui ne sono fiorite tantissime e discordanti interpretazioni. Una di queste, e forse tra le più fondate, suggerisce che Guido rimproveri a Dante, che alcuni anni prima condivideva la sua visione aristocratica della cultura, il suo aderire alle novità «democratiche» della politica di quegli anni.
Va detto, tuttavia, che Dante, se delle due strade che gli si aprivano davanti al termine della Vita Nova avesse imboccato quella della visione escatologica e non quella della produzione morale, non per questo avrebbe evitato la rottura con Guido. Era scritto in cielo che questa coppia così determinante per la giovane letteratura in volgare dovesse dividersi. Il razionalista e scettico Cavalcanti non avrebbe approvato un poema teologico-filosofico, a maggior ragione, poi, se scritto in latino. Ma già nella Vita Nova le proteste di identità di vedute e le richieste di complicità che la costellano non nascondono l’esistenza di divergenze. Già allora un solco profondo separava la concezione amorosa di Guido, pessimistica, irrazionale e patologica, da quella del Dante della lode, incentrata sulla fiducia che l’amore sia strumento di elevazione etica. La canzone dottrinale Donna me prega ne è una testimonianza sicura: «è difficile immaginare» è stato detto «proposte più antitetiche di quel trattato d’amore che è la Vita Nuova di Dante e della canzone d’amore di Cavalcanti». È addirittura possibile che Donna me prega sia stata ideata proprio per confutare la concezione amorosa che Dante esprime nelle «nove rime», e che essa, pertanto, rappresenti il punto di più evidente disaccordo tra i due amici. D’altra parte, anche se la Vita Nova a Guido è quasi dedicata, l’affermazione di Dante che lui era stato il suo Battista, fatta per di più forzando pretestuosamente la lettera di un innocuo sonetto d’occasione, può essere letta (e può essere stata letta dall’interessato) come un omaggio solo apparente. In effetti, un omaggio in cui si dice sostanzialmente che il più giovane allievo ha superato il maestro più anziano e, particolare non secondario, che lo ha fatto mettendo a frutto la sua lezione in una direzione che lui sicuramente non approvava, è un omaggio ben strano.
Sull’orlo del dissesto economico
Le rendite di due poderi e di un paio di casupole non consentono un alto tenore di vita. Dante, poi, non sembra particolarmente attento al denaro (che, peraltro, avrà sempre posseduto in modiche quantità, essendo ipotizzabile che i campi gli fornissero più che altro beni di natura): non si è sottratto alle spese per combattere a cavallo, e neppure a quelle per almeno un soggiorno a Bologna. Forse non ha mai comprato libri, oggetti dal costo proibitivo, ma la carta, genere anch’esso piuttosto costoso, e l’occorrente per scrivere se li deve essere procurati. Avrà pure acquistato abiti decorosi per frequentare sia la buona società dei Cavalcanti e dei suoi pari sia le assemblee e i Consigli pubblici. E si aggiunga l’onere crescente di una famiglia che si era fatta numerosa.
Nella seconda metà degli anni Novanta i fratelli Alighieri (che mantengono in comune i beni ereditati) si trovano a dover fronteggiare una crisi economica di dimensioni preoccupanti. È evidente che dall’attività politica, che allora come oggi presentava molte opportunità di guadagno, Dante non ha ricavato sensibili benefici. Del resto, allora come oggi, i vantaggi della politica andavano soprattutto a chi poteva godere di un consistente patrimonio di partenza.
La situazione precipita nel 1297. L’11 aprile Dante e Francesco ricevono in prestito la somma di 227,50 fiorini d’oro; nel 1300 sono ancora insolventi, e la causa è portata davanti a un giudice civile del sesto di Porta del Duomo. Nel frattempo, verso la fine del 1297, il 23 dicembre, i fratelli contraggono un altro prestito, con Iacopo di Litto dei Corbizzi, per la ragguardevole cifra di 480 fiorini d’oro. In meno di un anno, dunque, sono costretti a indebitarsi per 707,50 fiorini d’oro. Nella seconda metà dell’anno precedente Dante era entrato nel Consiglio dei cento. Per far parte di questa assemblea era necessario pagare almeno 100 libbre o lire di imposta, che equivalevano a un imponibile di circa 1200 lire. Ebbene, 1200 lire in quegli anni avevano il valore effettivo di 600 fiorini d’oro. Il patrimonio di Dante, anche ammesso che non si situasse al livello minimo richiesto, non doveva superarlo di molto. Quella cifra, infatti, risulta congruente con il valore delle proprietà di Pagnolle calcolato su fiorini svalutati degli anni Trenta del secolo successivo. È quasi certo, dunque, che i 707,50 fiorini di debito (ma forse erano anche di più) corrispondevano al valore dell’intero patrimonio degli Alighieri.
Dietro queste cifre si coglie la drammaticità di una crisi che rischia di travolgere la famiglia. A salvare Dante e Francesco intervengono il nonno materno, Durante degli Abati, e il padre di Gemma, Manetto dei Donati. Insomma, i due rami facoltosi con i quali gli Alighieri si erano imparentati adesso si alleano per aiutare figli e nipoti. Sono loro a garantire quel mutuo così cospicuo, loro insieme ad altre due persone: Noddo degli Arnoldi e Alamanno degli Adimari, un magnate, quest’ultimo, e fiero avversario dei Cerchi. E poi si aggiungono altri parenti acquisiti, dato che il prestatore Iacopo Corbizzi agisce per sé ma anche per conto di Pannocchia Riccomanni, il quale era fratello del Lapo Riccomanni maritato a Tana, sorella di Dante. Del resto, anche i Corbizzi erano vicini alla famiglia Alighieri: Litto, padre defunto del prestatore Iacopo, aveva lasciato possedimenti fondiari che confinavano con le terre di Dante e Francesco a Pagnolle. Si ha la netta sensazione che si sia attivata una rete familiare e che questa, tra i ghibellini Abati, i Donati e gli Adimari, facesse riferimento a un giro sociale e politico non solo estraneo ma addirittura avverso alla parte politica per la quale Dante simpatizzava. E forse abbiamo motivo di credere che Forese Donati, quando in uno dei suoi sonetti ingiuriosi gli augurava sarcasticamente che Dio gli conservasse Tana e Francesco («se Dio ti salvi la Tana e ’l Francesco»74), facesse riferimento a una condizione di dipendenza di Dante dai fratelli che agli occhi dei fiorentini appariva evidente già da tempo.
La vicenda del prestito di 480 fiorini si protrarrà nei decenni: nel 1315, dal testamento di Maria, vedova di Manetto Donati e madre di Gemma, apprendiamo non solo che la fideiussione data a suo tempo dal marito era ancora in vigore, ma che egli aveva garantito per un altro prestito di 46 fiorini e che altri 90 erano stati garantiti da un Perso Ubaldini. Solo nel 1332 Francesco restituirà a Iacopo Corbizzi la metà della cifra ricevuta trentacinque anni prima.
La litania di prestiti, però, non è finita: il 23 ottobre 1299 è Francesco a ricevere 53 fiorini, non si sa se per sé o anche per il fratello. Nel frattempo, infatti, Francesco si è reso autonomo e ha cominciato a esercitare la professione, tradizionale nella famiglia, di piccolo commerciante e prestatore: e così è lui a prestare a Dante 125 fiorini il 14 marzo 1300 (ma pochi giorni dopo, il 31, contrae a propria volta un mutuo di 20 fiorini) e altri 90 l’11 giugno (Dante sarebbe entrato in carica come priore quattro giorni dopo). Tra i due fratelli è il più noto a soffrire di maggiori difficoltà economiche. Quanto fossero stretti i rapporti con Durante degli Abati è confermato dal fatto che nel marzo 1301 sono Dante e Francesco a garantire, presso Cerbino di Tencino di San Pier Maggiore, un mutuo di importo imprecisato a lui concesso (nel luglio dello stesso anno Francesco riceve in prestito dallo stesso Cerbino di Tencino 13 fiorini d’oro).
Una lotta di potere
Già prima di Campaldino (1289) in Firenze non esisteva più un partito ghibellino organizzato. L’unico partito rimasto era la cosiddetta Parte guelfa, dotata di propri uffici, di strutture di autogoverno e di una sede di rappresentanza. Nei fatti, al di là delle distinzioni formali, si era creata una piena identificazione tra partito e Comune. Dopo Campaldino la vita politica fiorentina, che fino ad allora ruotava intorno al difficile e squilibrato rapporto tra l’oligarchia dei banchieri e dei grandi rentier (che insieme monopolizzavano il potere all’interno della Parte) e i ceti economici produttivi, rappresentati dalle corporazioni, è sconvolta dalle rivendicazioni del cosiddetto «popolo grasso» (commercianti e industriali) alleato con il «popolo minuto» (artigiani e piccoli professionisti). Alla dialettica tra partiti subentra, dunque, uno scontro tra ceti. L’oligarchia ne esce sconfitta, tanto che con gli Ordinamenti del 1293 viene di fatto esclusa dalle cariche di governo. Il che non significa che essa sia estromessa dalla gestione effettiva del potere. I magnati, infatti, seguitano a essere il gruppo dirigente del partito, e il partito, che con i suoi adepti ha un grande peso nelle Arti, in particolare in quelle maggiori, esercita una notevole influenza sulla scelta del personale politico. I provvedimenti antimagnatizi che si succedono a partire dal 1293 hanno però l’effetto di spaccare il gruppo dirigente della Parte: come rispondere alle discriminazioni e quali rapporti intrattenere con il «popolo» segnano la linea divisoria tra due schieramenti. L’ala più intransigente fa capo ai Donati, quella più morbida, ma sarebbe meglio dire più ambigua e incerta, ai Cerchi. Sembrerebbero semplici divergenze di valutazione, sennonché, come spesso succede nella storia fiorentina di quel periodo, anche queste finiranno per degenerare in una vera e propria guerra civile. A inasprire i contrasti fino al punto da renderli non più componibili concorrono numerosi fattori. Primo fra tutti, la rivalità ormai antica che divide le due famiglie principali, per di più entrambe residenti nello stesso sestiere di San Pier Maggiore; poi il fatto che i due schieramenti, all’interno dei quali si distribuiscono gli esponenti delle maggiori compagnie bancarie di Firenze, rappresentano interessi economici distinti e cospicui; infine, le interferenze esterne. Firenze è una delle capitali finanziarie d’Europa, è dunque inevitabile che gli avvenimenti di politica interna si intreccino con ambizioni e appetiti esterni. Come a suo tempo la lotta tra Guelfi e Ghibellini era stata acuita e condizionata dall’ingerenza degli Angioini di Napoli, così adesso sarà il reiterato intervento del papa Bonifacio VIII a determinare la vittoria di una delle due fazioni della Parte guelfa.
I Cerchi erano a capo della più grande compagnia bancaria di Firenze, ma non potevano vantare illustri natali: erano proprio il prototipo di quella «gente nuova» che Dante accuserà di aver fatto degenerare Firenze con i propri «sùbiti guadagni».75 Inurbatisi dalla Val di Sieve (il «piovier d’Acone»76) agli inizi del secolo, avevano avuto un’ascesa economica e sociale travolgente, tanto che nel 1280 potevano comprare le case dei Guidi: Dante, che vi abitava vicino, era costretto a vedere ogni giorno sulla porta che era stata di tanto nobile famiglia un’insegna carica di «fellonia», di viltà, come quella dei nuovi padroni. Non è solo lui, comunque, ad accusare i Cerchi di viltà: anche Dino Compagni, che negli anni tempestosi della lotta intestina era legato al loro carro, nella Cronica scriverà che essi evitavano di assumere il titolo di signori della città, ma ciò «più per viltà che per piatà», cioè per amor di patria, «perché temevano i loro avversari». L’accusa era rivolta al capo della famiglia, Vieri, il quale, benché a Campaldino avesse mostrato un grande coraggio fisico, nelle complicate vicende di fine secolo, che effettivamente lo avrebbero potuto far diventare padrone della città, si era mosso, fidando sul suo enorme potere economico, in modo titubante, prudente e soprattutto contraddittorio.
Opposta è la storia dei loro vicini di casa, i Donati, come del tutto opposto, rispetto a Vieri, è il profilo del loro capo, Corso. Privi di grandi mezzi economici, i Donati appartenevano alla più antica aristocrazia cittadina, e degli aristocratici avevano il comportamento altezzoso e sprezzante. Corso era un vero modello di cavaliere, ardito e coraggioso, ma anche violento e compreso della sua superiorità di classe. Abituato a ricoprire la carica di podestà in molte città italiane, e quindi abituato al comando, poco incline a rispettare le leggi, di cui si ritiene al di sopra, e dotato di grande intraprendenza (si deve a una sua autonoma iniziativa gran parte del merito della vittoria di Campaldino), è un fiero oppositore degli Ordinamenti e di tutti i provvedimenti antimagnatizi. Dal «popolo» è lontano come Vieri ma, a differenza di Vieri, non nasconde la sua avversione. Viene a trovarsi a capo della fazione dei duri quasi naturalmente, più per i suoi comportamenti che per meditata scelta politica.
La prima, ma decisiva rottura dello schieramento guelfo si verifica nel luglio 1295, quando, proprio sfruttando il malcontento popolare suscitato dalle intemperanze di Corso, i magnati tentano di abolire la legislazione che li colpiva. Ci riescono solo parzialmente, tanto che si può parlare di tentativo fallito. In quell’occasione Vieri dei Cerchi si tiene in disparte, e questo basta perché nell’opinione pubblica egli si faccia la fama di amico del «popolo». La rivalità personale e familiare tra i due comincia così ad assumere una marcata coloritura politica, di conseguenza nascono due distinte formazioni organizzate.
Nei primi tempi dopo la cacciata di Giano della Bella la prudenza mostrata da Vieri accrebbe il suo potere nella Parte guelfa e in città. Ben presto, però, furono i magnati al seguito di Corso a prendere il sopravvento, anche perché molti banchieri di quella Parte (in particolare gli Spini e i Mozzi, che detenevano il monopolio della finanza pontificia) e lo stesso Corso godevano dell’appoggio del papa. In effetti, l’asse tra i Donateschi e Bonifacio VIII, che si sarebbe manifestato apertamente all’inizio del secolo, si era consolidato fin dai primi giorni del nuovo pontificato, anzi, aveva radice negli accordi finanziari stipulati dall’allora cardinale Benedetto Caetani ancor prima di salire sulla cattedra di Pietro. Dalla fine del 1296 alla primavera del 1299, in un clima di tensione che vede susseguirsi scontri armati e uccisioni da entrambe le parti (per esempio, nel dicembre 1296, durante la veglia funebre di una donna di casa Frescobaldi scoppiarono tafferugli che poi degenerarono in tumulto, fino all’assalto delle case dei Donati; nel dicembre 1298 morirono in carcere, dove erano stati rinchiusi a seguito di violenze per le strade, alcuni giovani di parte cerchiesca: le circostanze non furono chiarite, ma la voce popolare ne addebitava la responsabilità ai Donateschi), Corso detiene di fatto il controllo della città.
Sono uomini suoi, in particolare, i podestà Cante dei Gabrielli (che avrà un ruolo decisivo nella condanna di Dante e nella repressione cruenta dei Bianchi ribelli), in carica nel secondo semestre del 1298, e il trevigiano Monfiorito da Coderta, in carica nel primo semestre del 1299. Entrambi si segnalano per un uso di parte della legge. Il primo, nel novembre 1298, condanna a morte, su accuse che si sarebbero poi rivelate infondate, Neri Diodati, figlio di Gherardino, noto esponente di parte cerchiesca, abitante nel sestiere di Dante: Neri riesce a fuggire, e toccherà proprio a Dante, tre anni dopo, perorarne l’innocenza. Il secondo si rende particolarmente odioso per avidità e mancanza di scrupoli. Nel marzo 1299 condanna Giovanna degli Ubertini di Gaville, suocera di Corso, da questi accusata di furto e sottrazione di documenti. Non è detto che sia stato abuso di potere (Giovanna, infatti, sembra manovrata dai Cerchi), resta il fatto, comunque, che la sentenza provoca una sollevazione popolare. Monfiorito viene incarcerato. L’episodio è all’origine della (provvisoria) disgrazia di Corso: questi, chiamato in giudizio, ammette sfrontatamente di avere corrotto il podestà. Condannato, si rifiuta di pagare la multa, e allora, nel maggio di quell’anno, è bandito dalla città (ma prontamente nominato da Bonifacio VIII podestà di Orvieto, prima, e poi rettore della Massa Trabaria). Una così forte reazione di fronte a un caso di mala giustizia, in un’epoca nella quale abusi di potere, concussione e uso partigiano della legge erano all’ordine del giorno, si spiega solo con l’avversione che Corso era riuscito a suscitare negli strati «popolari», oltre che nei magnati di parte avversa.
Vale la pena di raccontare una vicenda che in quegli stessi mesi aveva coinvolto ancora Monfiorito, perché vi compare il giurista Baldo d’Aguglione, quello stesso di cui, nella Commedia, Dante dirà che con il suo «puzzo» ammorba Firenze. Durante l’inchiesta a suo carico Monfiorito confessa a certo Pietro Manzuolo, che l’inquisiva, di aver fatto mettere a verbale dal giudice Nicola Acciaioli in un processo penale una testimonianza che sia lui sia il giudice sapevano falsa. La confessione dell’ex podestà è imbarazzante perché Acciaioli è genero di Manzuolo. La cosa, comunque, viene messa a tacere, tanto che pochi mesi dopo, il 15 agosto 1299, Acciaioli è eletto priore. Durante il priorato, però, egli cerca di eliminare dal verbale di quel processo gli atti che lo compromettono, e allora si affida a Baldo d’Aguglione. Questi, più volte priore, era stato uno degli estensori degli Ordinamenti di Giano della Bella, ma poi aveva svolto un ruolo di primo piano per disinnescarne le punte più acute e per far cadere lo stesso Giano, avvicinandosi ai magnati. Baldo riesce ad avere da Acciaioli gli atti processuali, ne elimina le parti compromettenti e li restituisce mutilati al deposito della cancelleria. La manomissione sarà scoperta ed entrambi saranno condannati. Ma la condanna non impedirà ad Acciaioli, una volta ritornati al potere i Donati, di occupare cariche importanti, segnalandosi nella persecuzione giudiziaria dei Cerchieschi, e a Baldo, legatosi lui pure ai Donati, di percorrere una brillante carriera politica (già l’anno seguente è coinvolto nel processo di revisione della causa tra Corso Donati e Giovanna degli Ubertini). Dante segnerà anche questo episodio nella Commedia, quando dirà che la scalinata per salire a San Miniato al Monte era stata costruita in un’epoca nella quale a Firenze «era sicuro il quaderno e la doga»,77 nella quale cioè ci si poteva ancora fidare dei registri e delle misure pubbliche (con allusione a un altro scandalo relativo a ruberie legate al monopolio del sale).
Il priorato, «cagione e principio» di tutti i mali
Uscito di scena Corso, i Cerchi restano detentori del potere. La partita, però, non è chiusa, anzi, nel 1300 si fa ancora più aspra.
Per Dante questo è un anno fatidico; se guardiamo alle conseguenze che avrà sulla sua vita, potremmo dire fatale. Ha da poco compiuto trentacinque anni quando, il 15 giugno, comincia il suo mandato di priore. Cooptato nell’élite dirigente fiorentina, gli si prospetta un avvenire di successo. E invece in esilio dichiarerà sconsolato: «Tutti e mali et tutti gl’inconvenienti miei dalli infausti comitii del mio priorato ebbono cagione et principio».
Il 1300 è l’anno della riscossa dei Cerchi. Dopo una prima fase di attiva presenza negli anni 1295-1296, avevano sofferto la politica aggressiva di Corso e si erano tenuti defilati. Adesso, con Corso lontano, riprendono l’iniziativa. È interessante notare che il diagramma dell’attività politica di Dante – cominciata tra il 1295 e il 1297 e, dopo un periodo di latenza, dispiegatasi a partire dal maggio 1300 – corrisponde a quello della prima ascesa dei Cerchi e del loro predominio in città dopo la crisi della parte donatesca. Certo, i quasi tre anni di silenzio che seguono il suo ultimo intervento pubblico del 1297 possono dipendere in gran parte dalla perdita della documentazione archivistica, ma resta l’impressione che la coincidenza tra l’emergere del suo ruolo pubblico e i momenti di maggior peso politico dei Cerchi non sia casuale. Come dire che Dante, nella realtà, non è stato un intellettuale super partes alla Brunetto Latini animato da puro senso civico, ma è stato uomo dei Cerchi.
La loro politica segue due distinti binari. Verso l’esterno proseguono sulla linea, adottata dalla città negli anni precedenti, di sostegno finanziario e armato alle guerre «private» scatenate da Bonifacio VIII nell’Italia centrale. Come fra il 1297 e il 1298 il Comune aveva appoggiato la sua guerra senza quartiere (elevata al rango di «crociata») contro i Colonna, conclusasi con la totale e impietosa distruzione di Palestrina (è nell’ambito di questi eventi bellici che si situa il consiglio fraudolento di Guido da Montefeltro: «lunga promessa con l’attender corto»78), così la gestione dei Cerchi appoggerà la guerra di rapina ai danni degli Aldobrandeschi, grandi feudatari e conti palatini di Maremma. Tanta accondiscendenza dipendeva sia dalla necessità di tutelare i cospicui interessi che le banche fiorentine di entrambi gli schieramenti avevano in curia, sia dalla paura che si rivelasse fondata (come in effetti poi si rivelò) la voce, circolante già dai primi tempi del pontificato di Bonifacio, che egli cercasse di accordarsi con il re di Francia Filippo IV il Bello per conquistare Firenze con un intervento armato di suo fratello Carlo di Valois. All’interno, invece, i Cerchi sono fermi nel difendere le istituzioni fiorentine dalle ingerenze papali, e neppure sembrano curarsi eccessivamente della palese protezione che il pontefice accorda ai loro nemici. La contraddizione tra questi due comportamenti sarà una delle cause principali della loro rovina.
Verso la metà di marzo 1300 è inviata a Roma un’ambasceria incaricata di una missione segreta: scoprire se in curia ci siano fiorentini che tramano contro i Cerchi. Ne facevano parte Lapo Saltarelli e Lippo di Rinuccio Becca. A quanto pare, gli inviati assolsero bene il compito affidatogli e, ritornati a Firenze, denunciarono di tradimento quattro persone legate al banco degli Spini (una delle compagnie più implicate negli affari finanziari del papa). L’accusa (sostenuta in particolare dal giurista Saltarelli) portò alla condanna a pene pecuniarie e al taglio della lingua di tre dei quattro inquisiti. La condanna fu emessa (il 18 aprile) senza tenere conto delle pesanti minacce che nel frattempo il papa, il quale riteneva, non a torto, che quel processo fosse rivolto contro di lui, formulava contro i priori e contro Saltarelli in particolare, accusato perfino di eresia; anzi, Saltarelli fu eletto priore per il bimestre 15 aprile - 14 giugno (il bimestre precedente a quello di Dante). E come segno ulteriore di indipendenza, nel Collegio di Saltarelli fu eletto pure Gherardino Diodati, l’uomo politico che Cante dei Gabrielli aveva cercato di colpire un paio d’anni prima condannando a morte il figlio Neri. La sentenza era inapplicabile perché i condannati risiedevano a Roma, ma era pur sempre una sfida palese al papa e alla fazione donatesca. Nel frattempo Vieri era stato convocato a Roma da Bonifacio VIII. Al papa, che lo aveva accolto con molti onori e che gli aveva chiesto di sottoscrivere un patto di pace con Corso, Vieri aveva negato che tra lui e il Donati ci fosse guerra alcuna: in quell’occasione – commenta il cronista Villani – Vieri fu «poco savio, e troppo duro e bizzarro», cosicché il papa «rimase molto isdegnato contro lui e contro sua parte».
Intanto a Firenze la tensione si è fatta altissima. Verso il tramonto del 1° maggio, durante i balli con i quali si celebrava la festa di Calendimaggio, sulla piazza antistante la chiesa e il convento vallombrosano di Santa Trinita un gruppo di giovani di casa Donati e di loro amici assalta un gruppo dei Cerchi, ferendo un maturo membro della famiglia di nome Ricoverino. Circa una settimana dopo, la parte dei Donati si riunisce a convegno proprio nel convento davanti al quale era scoppiata la rissa e del quale era abate Ruggero dei Buondelmonti, uno dei più arrabbiati partigiani dei Donateschi. Il loro piano è ordire una congiura che rovesci con le armi il governo dei Cerchi e prevede che forze armate esterne, capitanate da Guido di Battifolle, uno dei rami casentinesi della grande famiglia comitale dei Guidi, penetrino in città a dar man forte agli insorti interni. Tra i più attivi congiurati figura quel Simone dei Bardi che ben conosciamo per essere stato il marito di Bice Portinari. La congiura, però, viene scoperta: molti dei congiurati sono subito processati e condannati. Simone dei Bardi e il Guidi a pene pecuniarie; Corso Donati, che si trova a Roma presso il papa ed è ritenuto il vero ispiratore della sedizione, a morte. Siccome è impossibile procedere contro di lui, si radono al suolo le sue case in San Pier Maggiore e gli si confiscano i terreni.
La risposta di Bonifacio VIII non si fa attendere: il 23 maggio nomina legato per la Toscana e la Romagna il cardinale Matteo d’Acquasparta, ministro generale dei francescani, e subito lo invia a Firenze con la missione di paciere. In realtà a Firenze, dove il cardinale arriva ai primi di giugno, tutti sanno qual è la sua vera missione. Il legato viene subito allo scoperto proponendo che per l’imminente nomina dei nuovi priori (13 giugno) si proceda non con il metodo elettivo, che avrebbe assicurato un’ampia maggioranza ai Cerchieschi, ma attraverso un sorteggio, dal quale sarebbe potuta uscire una composizione imprevedibile. Il momento è estremamente delicato per i Cerchi, che però trovano la forza di opporsi, soprattutto grazie a Lapo Saltarelli, priore in carica e loro vera guida politica in questi mesi. Per sventare la minaccia papale è necessario avere il completo controllo del Collegio, facendo eleggere persone decise e di fiducia. Dalla votazione esce anche il nome di Dante. Che tutti gli eletti fossero di comprovata fedeltà c’è comunque da dubitarne, se poi due di essi tradiranno passando alla parte avversa. Quanto a Dante, se viene designato in quel frangente significa che i Cerchi lo considerano uno dei più fidati. Circa un mese prima, il 7 maggio, era stato inviato come ambasciatore a San Gimignano, con il compito di perorare l’adesione di quella città a un convegno della Taglia (cioè l’alleanza) dei Guelfi toscani nell’ambito delle guerre messe in atto da Bonifacio VIII. Si trattava di un incarico istituzionale, per conto del Comune. Istituzionale è anche il ruolo di priore, ma poche volte come in quella circostanza si era caricato di valenze così squisitamente politiche. Ci furono «baratterie», come si diceva nel linguaggio dell’epoca, accordi in cambio di favori? Che Saltarelli e i suoi si siano dati da fare è sicuro. Ma la sentenza di condanna di Dante, che nomina sue pratiche barattiere in occasione di elezioni di priori o gonfalonieri, è di un fariseismo spudorato. Come se allora l’elezione nei Consigli cittadini passasse per il libero gioco democratico! Un grande dantista ha detto parole definitive sulla vicenda: «È certo che tutto fu predisposto perché riuscissero quelle persone che il bisogno richiedeva».
Che ci volesse decisione i neopriori lo sperimentarono subito. Il giorno stesso dell’insediamento un notaio della Camera del Comune, l’ufficio collocato nel Palazzo del podestà che gestiva le finanze pubbliche, e quindi aveva anche il compito di riscuotere le multe, consegna loro il testo della sentenza di aprile contro i soci degli Spini che tanto fa infuriare il papa. Si tratta di renderla esecutiva, almeno per la parte finanziaria. In ogni caso, è una questione assai spinosa. E poi continuano i disordini di piazza. Dopo solo una settimana dall’inizio del mandato, la vigilia della festa solenne di san Giovanni (23 giugno), i consoli delle Arti, che sfilavano verso il Battistero nella tradizionale processione con la quale le corporazioni recavano offerte alla chiesa del santo, furono assaliti, prima a parole e poi con i fatti, da un gruppo di magnati. Questi urlavano: «Noi siamo quelli che demo la sconfitta in Campaldino; e voi ci avete rimossi degli uficî e onori della nostra città». C’era del vero. Erano stati loro, nerbo dell’esercito fiorentino, i principali artefici della vittoria su aretini e Ghibellini, quegli stessi magnati che pochi anni dopo erano stati estromessi dalle cariche pubbliche. A organizzare la clamorosa protesta erano stati, quasi certamente, i Donateschi, ma non è escluso che a essa, diretta contro il governo «popolare», avessero aderito anche magnati dell’altra parte. I priori, di fronte a un gesto inaudito come quello, dopo aver indetto un’assemblea straordinaria di «savi» (tra i quali sedeva Dino Compagni), decisero di colpire entrambi gli schieramenti. Inflissero il confino a Castel della Pieve (oggi Città della Pieve), in Umbria, a otto esponenti donateschi e ai «loro consorti», familiari e accoliti più stretti; e a Sarzana, ai confini della Lunigiana, a sette cerchieschi e ai «loro consorti». Se voleva essere un provvedimento per allentare la tensione, non si può dire che abbia raggiunto lo scopo. I Donateschi opposero resistenza: d’intesa con il cardinale legato, chiesero a Lucca di intervenire in loro favore, e solo l’atteggiamento deciso dei priori, che diffidarono i lucchesi dal muoversi e, a ogni buon conto, armarono i confini, alla fine li convinse a piegarsi. Pochi mesi dopo, a causa di un grave errore di valutazione del successivo Collegio dei priori, quel provvedimento sarà all’origine di tensioni ancora più aspre.
Tra i confinati di parte cerchiesca c’è Guido Cavalcanti. La storia del sodalizio tra Dante e Guido finisce in tragedia: a Sarzana, zona paludosa, Guido si ammalerà di malaria e molto probabilmente vi morirà, e se non là, morirà pochissimo tempo dopo essere rientrato a Firenze. È probabile, dunque, che i due non si siano più rivisti. Gli eventi della vita hanno voluto che la metafora dell’allievo che uccide il maestro si realizzasse alla lettera.
Il primo effetto dei gravi avvenimenti di san Giovanni fu di ammorbidire l’atteggiamento dei governanti nei confronti dell’Acquasparta. Da tempo questi reclamava i pieni poteri, e così, verso la fine di giugno, alcune sue richieste furono finalmente accolte, ma con molte limitazioni. Alla metà di luglio, però, capita uno strano incidente. «Uno di non molto senno», rimasto senza nome, un giorno tirò un colpo di balestra in direzione di una finestra del vescovado dove il legato abitava; la freccia si conficcò nell’imposta. Il cardinale, impaurito, lasciò in gran fretta quella dimora per trasferirsi Oltrarno nel palazzo dei Mozzi, soci del banco degli Spini. Il gesto dell’ignoto ha tutta l’aria di essere una provocazione, in ogni caso costrinse i priori a compiere un atto riparatore portando in dono al cardinale 2000 fiorini. La linea della fermezza nei confronti del papa e del legato restò però inalterata. Bonifacio VIII lo esortava a mostrarsi più duro ed energico, e per tutta risposta i priori (e fu una delle ultime deliberazioni del priorato di Dante) inviarono ambasciatori a Bologna per stringere un’alleanza diplomatica e militare che suonava quasi a scherno, se si pensa che l’Acquasparta era legato di Toscana e di Romagna. L’alleanza sarà stipulata formalmente il 25 agosto, dieci giorni dopo la fine del mandato di Dante.
Un biografo ha scritto che, «uscendo di palazzo», Dante doveva avere «l’impressione d’aver vinto, anzi stravinto». Se era così, saranno bastati pochi giorni a disilluderlo. Ben presto, infatti, la situazione politica si aggravò ulteriormente, ma noi non possediamo documento alcuno che getti un po’ di luce su quali furono le mosse di Dante nei mesi successivi. Dopo un prolungato silenzio, riapparirà sulla scena politica solo nell’aprile 1301.
L’ultimo papa medievale
I lettori della Commedia si fanno una pessima idea di Bonifacio VIII. Dante è feroce con i suoi nemici, e siccome egli considera Bonifacio il suo nemico peggiore, la diffamazione nei suoi confronti è sistematica.
Il cardinale Benedetto Caetani fu eletto papa a Napoli, il 24 dicembre 1294, con il nome di Bonifacio VIII, e incoronato a Roma un mese dopo, il 23 gennaio. Succedeva a Celestino V, l’eremita Pietro del Morrone – uomo di vita santa, appoggiato dagli «spirituali» francescani e dalle correnti riformiste della Chiesa, ma inesperto di problemi ecclesiastici e internazionali e sostanzialmente manovrato dal re di Napoli Carlo II d’Angiò – che si era dimesso dopo pochi mesi di pontificato (5 luglio - 13 dicembre 1294). Il cardinale Caetani, consultato come esperto di diritto canonico, aveva giudicato ammissibili e valide le sue dimissioni. Un parere, questo, che peserà sul suo intero pontificato. I suoi molti nemici, in particolare gli «spirituali» francescani, i Colonna e il re di Francia, sosterranno che egli aveva indotto Celestino alle dimissioni per potergli succedere, e pertanto che la sua elezione doveva essere considerata illegittima. La questione della legittimità lo perseguiterà fino alla morte (e anche dopo). È vero, però, che Bonifacio, dopo la sua elezione a papa, fece arrestare e poi tenne segregato Celestino (e a procedere alla sua cattura, nel febbraio 1295, fu quel Carlo Martello che Dante aveva conosciuto alcuni mesi prima a Firenze), ma a ciò fu indotto, oltre che dal timore di un ripensamento da parte di Celestino, anche dalla considerazione che, in ogni caso, la presenza di due papi tra i fedeli poteva creare molto sconcerto.
La figura di Bonifacio VIII è controversa. In lui la profonda persuasione che alla Chiesa e al papato sia affidato il compito di guida universale dell’umanità convive con più mondani progetti di espansione territoriale, sia del papato sia della sua famiglia. La lotta senza quartiere ai Colonna e la guerra contro gli Aldobrandeschi sono motivate soprattutto da ragioni di politica familiare; l’ingerenza nella vita interna di Firenze si colloca, forse, in un disegno di acquisizione della Toscana al dominio della Chiesa. Più di ogni altra cosa, a caratterizzare il suo pontificato è una concezione teocratica, proclamata e messa in atto con grande energia, secondo la quale il papa è al di sopra dei re e dei regni, e perciò deve avere la preminenza e il dominio su tutta la terra e su ogni anima. Da questo punto di vista Bonifacio può essere considerato l’ultimo grande pontefice medievale, sulla linea dei papi che avevano combattuto contro gli imperatori germanici per affermare la superiorità della sfera spirituale su quella temporale. Adesso, però, il potere temporale da sottomettere non è quello dell’imperatore, ma quello delle nuove monarchie.
Lo scontro divampa con il re di Francia. Filippo il Bello, con il quale Bonifacio ha intrattenuto rapporti altalenanti, finisce per reagire duramente alle sue pretese teocratiche. Si sviluppa così un attacco violento e continuo, che durerà anche dopo la sua morte (un interminabile processo postumo – si concluderà nel 1311 senza, però, arrivare a una condanna – sarà messo in atto da Filippo il Bello e Clemente V), mirato a provare l’illegittimità della sua elezione e a infamarlo personalmente con accuse di eresia, sodomia e, perfino, di pratiche demoniache. Lo scontro culmina con l’assalto al palazzo papale di Anagni e la temporanea cattura del papa da parte dell’inviato francese Guglielmo di Nogaret e di Sciarra Colonna, che vendica così la persecuzione della sua famiglia (7 settembre 1303). Che in quell’occasione il papa sia stato schiaffeggiato dal Colonna è probabilmente una leggenda. Bonifacio, comunque, non resse all’oltraggio e morì poco più di un mese dopo (11 ottobre). Mentre i suoi predecessori avevano vinto la lunga contesa con gli Hohenstaufen, Bonifacio VIII perse quella con la monarchia francese. Fu una sconfitta gravida di conseguenze per la storia della Chiesa e dell’Europa. Dopo la breve parentesi del pontificato del trevigiano Niccolò di Boccasio (Benedetto XI, ottobre 1303 - aprile 1304), con l’elezione di Bertrand de Got (Clemente V) comincia una lunga serie di papi francesi pesantemente condizionati dal re di Francia, tanto che la sede papale finirà per essere trasferita ad Avignone, dove resterà fino al 1377.
Dante, dicevo, considera Bonifacio VIII il peggiore dei suoi nemici. L’odio che nutre nei suoi confronti è tale da spingerlo a preconizzargli l’inferno quando (stando alla finzione della Commedia) è ancora in vita: è papa Niccolò III (il papa Orsini con il quale il cardinale Caetani era stato in stretta relazione), immerso a testa in giù in uno dei fori nei quali sono conficcati i simoniaci, a scambiare la voce di Dante pellegrino che gli chiede di parlare per quella di colui che dovrà prendere il suo posto: «Sè tu già costì ritto, / sè tu già costì ritto, Bonifazio?».79 Dante non perdona al papa di avere agito copertamente, in modo farisaico («Lo principe d’i novi Farisei»),80 a favore della parte donatesca: questa, profetizza Ciacco, prevarrà grazie all’appoggio «di tal che testé piaggia»,81 di uno che adesso, nel 1300, finge di essere imparziale. A volte sembra interpretare la vicenda fiorentina come uno scontro personale tra lui e il papa, tanto da spingersi ad affermare, per bocca di Cacciaguida, che la sua cacciata dalla patria già si sta preparando nel 1300, e ben presto sarà messa in atto, in quella curia romana dove ogni giorno si fa mercato di Cristo: «Questo si vuole e questo già si cerca, / e tosto verrà fatto a chi ciò pensa [Bonifacio] / là dove Cristo tutto dì si merca».82 Bonifacio, che non si fa scrupolo di indire una crociata nel cuore della Chiesa («presso a Laterano»83), ha trasformato la tomba di Pietro in una «cloaca», una fogna di sangue e miasmi («cloaca / del sangue e de la puzza»84). Quella che Dante fa pronunciare a san Pietro è forse la più violenta invettiva che mai sia stata scagliata contro un papa: indegno della cattedra di Pietro al punto che questa, al cospetto di Cristo, può essere considerata vacante: «Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio».85 Benché sembri dare credito alle accuse di avere ingannato Celestino con i suoi consigli giuridici («non temesti tòrre a ’nganno / la bella donna [la Chiesa], e poi di farne strazio»86), Dante mai pone in dubbio la sua legittimità di pontefice. L’oltraggio di Anagni rinnovella nella persona del suo vicario la passione di Cristo: «veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, / e nel vicario suo Cristo esser catto. / Veggiolo un’altra volta esser deriso; / veggio rinovellar l’aceto e ’l fiele, / e tra vivi ladroni esser anciso».87 Rancore personale, odio politico e disprezzo morale non bastano perché un cristiano dalla fede così salda come Dante deroghi dalla più rigorosa ortodossia. In ciò non è solo: anche Iacopone da Todi – il più famoso laudista del Duecento, dopo Dante il poeta più letto nei due secoli successivi –, che per essersi schierato con i Colonna fu fatto prigioniero durante la presa di Palestrina (estate 1299) e detenuto in condizioni penose fin dopo la morte di Bonifacio, nei suoi versi lo attacca con rara virulenza («Lucifero novello a sedere en papato»), senza mai metterne in dubbio, però, la legittimità di successore di Pietro. E anche uno dei grandi ispiratori del movimento «spirituale», Pietro di Giovanni Olivi, prese più volte posizione, in contrasto con i fratelli francescani, a favore della validità delle dimissioni di Celestino.
1300, l’anno del giubileo
L’indizione del primo giubileo della Chiesa è l’atto a cui resta più legata la memoria del pontificato di Bonifacio VIII.
Con l’approssimarsi dell’anno centenario, un anno carico di molte valenze simboliche, si era formato un movimento spontaneo di pellegrini che si recavano sempre più numerosi al sepolcro del primo papa nella convinzione che in quell’anno la visita avrebbe consentito di lucrare un giubileo (una indulgenza) del tutto particolare. Non si sa da dove nascesse e che fondamenti avesse questa credenza (certamente favorita dai canonici di San Pietro); è un fatto che l’afflusso dei penitenti, in particolare in prossimità del Natale, si faceva di giorno in giorno più consistente. Bonifacio VIII, di formazione giuridica, fece ricercare negli archivi se un qualche documento potesse avvalorare la credenza popolare; pur non avendo trovato alcunché, decise ugualmente di sfruttare quell’ondata di religiosità e così, il 22 febbraio 1300, emanò una bolla con la quale stabiliva che ogni cento anni la Chiesa concedeva la piena indulgenza di tutti i peccati a coloro che, nell’arco di tempo di trenta giorni (se residenti a Roma), di quindici (se esterni), si fossero recati quotidianamente in pellegrinaggio alle basiliche di San Pietro e di San Paolo, si fossero pentiti e confessati dei loro peccati. La bolla, prendendo atto che l’anno giubilare di fatto era già stato avviato dai fedeli, stabiliva che l’indulgenza poteva essere lucrata a partire dal Natale precedente (25 dicembre 1299) fino alla vigilia di Natale dell’anno in corso. Come in molte delle sue decisioni, anche in questa, a motivazioni squisitamente religiose si affiancavano calcoli di carattere politico: il giubileo, infatti, era il modo per riaffermare la centralità di Roma e per ribadire solennemente la pienezza dei poteri del papa. Il vicario di Cristo si collocava al di sopra degli Stati e delle istituzioni umane e, nello stesso tempo, esercitava una piena giurisdizione spirituale sulle anime, delle quali, addirittura, poteva modificare il destino oltre la morte del corpo.
Un giubileo non era una novità; ne erano già stati concessi molti in passato. La novità era l’estensione dell’indulgenza. Fino ad allora la remissione delle pene temporali – cioè di quelle pene che restano da scontare o attraverso le opere in questa vita o attraverso le sofferenze del Purgatorio dopo che l’assoluzione ottenuta con il sacramento della confessione ha cancellato quella eterna – era stata concessa solo per periodi di tempo limitati e, per di più, brevi (cancellava poco più di tre anni di pena l’indulgenza più ampia accordata fino a quell’anno). L’indulgenza dell’anno centenario, invece, rimetteva le pene totalmente. I sovrani e gli uomini di governo percepirono soprattutto l’aspetto politico della decisione papale, e quindi disertarono il giubileo, ma la massa dei fedeli rispose in modo straordinario e imprevisto. In una società profondamente pervasa di religiosità, l’annuncio che non solo sarebbero stati perdonati tutti i peccati, ma che sarebbe stata cancellata ogni pena a essi collegata suscitò un effetto enorme. Migliaia di persone si recarono a Roma da ogni parte d’Europa. La quantità di penitenti accorsa in quell’anno rimase impressa nella memoria collettiva come un evento eccezionale: non si era mai vista una folla così enorme. Testimoni e cronisti raccontano che il numero di uomini e donne (anche la forte presenza femminile fu una novità) che si assiepavano per le strade di Roma era tale che, nonostante fossero stati presi provvedimenti per snellire i flussi (come l’apertura di una porta straordinaria nelle mura), molti finirono calpestati. Benché i più arrivassero a piedi, non bastava il foraggio per nutrire la gran quantità di cavalcature che si era radunata in città. Le cronache forniscono anche delle cifre: nel corso dell’anno la popolazione di Roma sarebbe aumentata stabilmente di duecentomila unità, e ciò senza contare «quelli che erano per li cammini andando e tornando»; ogni giorno vi sarebbero entrati trentamila pellegrini e altrettanti ne sarebbero usciti; la vigilia di Natale del 1300 a Roma sarebbero stati presenti più di due milioni di uomini e donne. Sono cifre iperboliche e fantasiose, ma rendono bene lo stupore che, in un periodo storico nel quale i numeri a cui noi siamo abituati erano del tutto impensabili, quelle masse umane suscitavano negli spettatori.
Fra le migliaia di pellegrini ci fu anche Dante. La descrizione del ponte di Castel Sant’Angelo transennato per governare il grande flusso di pellegrini che vi transitava diretto a San Pietro ha il sapore di una testimonianza oculare:
come i Roman per l’essercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,
che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro,
da l’altra sponda vanno verso ’l monte.88
Il viaggio a Roma, più che una ipotesi, sembra una certezza. Non sappiamo, però, in quale periodo dell’anno sia avvenuto. Stando alla (poca) documentazione in nostro possesso, in marzo-aprile o tra settembre e Natale niente avrebbe impedito a Dante di ritagliarsi un mese di tempo (quindici giorni di viaggio e quindici per visitare le basiliche) da dedicare a quel viaggio penitenziale. Il 14 marzo è a Firenze, dove riceve un prestito dal fratello Francesco: è suggestiva l’ipotesi che quei soldi gli servissero proprio per il pellegrinaggio e, magari, che egli sia giunto nell’Urbe proprio il 25 marzo, giorno d’inizio del viaggio ultraterreno della Commedia.
«Nel mezzo del cammin di nostra vita»
Il viaggio, in sogno, raccontato nel poema comincia nel giorno (25 marzo) in cui la tradizione collocava sia l’incarnazione sia la morte di Cristo e dal quale i fiorentini facevano iniziare il nuovo anno, e termina dopo una settimana, il 31 marzo. Molti motivi possono aver indotto Dante a collocare il suo viaggio straordinario nel pieno dell’anno giubilare. Determinante, però, deve essere stata la constatazione che il 1300 coincideva con il suo trentacinquesimo anno di vita, che egli riteneva il «mezzo del cammin». La coincidenza, infatti, poteva avere un significato del tutto particolare per chi, già da tempo, si riteneva dotato di particolari privilegi e destinato a lasciare un segno. E quel trentacinquesimo anno nel quale lui, primo della sua famiglia, era stato eletto al priorato si presentava proprio come un tornante della sua vita, l’inizio di una nuova fase.
Dante, ovviamente, avrebbe potuto fare queste considerazioni anche a distanza di tempo dal 1300. E infatti, mentre i biografi e i commentatori antichi datano la genesi della Commedia o in quell’anno o nella sua prossimità, comunque prima dell’esilio, gli studiosi moderni sono quasi unanimi nel ritenere che essa nasca molto dopo: per alcuni, nel 1304, per la maggioranza, nel biennio 1306-1307. Gli esegeti antichi prendevano alla lettera le affermazioni dell’autore, e quindi la loro testimonianza non è di grande valore; tuttavia ritenere che l’idea dell’ambientazione giubilare e, pertanto, che il nascere o quanto meno il precisarsi dell’idea di un poema si siano formati in Dante poco tempo dopo il viaggio a Roma corrisponderebbe assai bene alla sua tendenza a scrivere a caldo, a ridosso degli eventi. A ridosso del pellegrinaggio, ma prima del bando d’esilio, perché, dopo, quell’anno di svolta sarebbe apparso sotto ben altra luce.
È bene essere chiari. La Commedia che noi leggiamo è quella che Dante ha scritto quasi sicuramente a partire dal 1306-1307 fin quasi alla morte. Non esiste traccia alcuna di un testo preesistente. Ciò nonostante l’ipotesi che in un periodo vicino al viaggio romano egli abbia schizzato almeno un abbozzo di poema o una serie di cartoni, come dicono i pittori, appare ragionevole alla luce di quanto sappiamo della sua personalità e della sua evoluzione ideologica e politica. Tanto più che essa può appoggiarsi anche a un dato testuale, e cioè alle differenze riscontrabili tra i primi canti e il resto del poema. Si sarebbe trattato di una sorta di lavoro preparatorio, forzatamente interrotto dalle vicende politiche, che Dante poi avrebbe sfruttato quando, alcuni anni dopo, avrebbe messo mano alla grande opera senza più alcuna interruzione. L’idea di una fase primitiva attenuerebbe non poco la sensazione di frutto maturato quasi istantaneamente trasmessa da una Commedia che irrompe all’improvviso nell’orizzonte intellettuale e creativo di Dante. Si potrebbe obiettare che in un biennio così convulso come fu quello del 1300-1301 Dante, forse, aveva la testa altrove, ma sarebbe un’obiezione che dimentica, da un lato, che alla Commedia Dante ha quasi sempre lavorato in situazioni altrettanto convulse e, dall’altro, che anche in quei due anni così intensi l’attività politica non era tutto, né per Dante né per i fiorentini.
La vita quotidiana, l’amministrazione della città, gli affari non risultano sconvolti nella misura che noi, focalizzati sulle vicende politiche, tendiamo a immaginare. Per esempio, il 28 aprile 1301 Dante è nominato «sovrastante» ai lavori, richiesti da un gruppo di cittadini, per raddrizzare una strada tortuosa che dal Borgo della Piagentina portava al torrente Affrico. Compito di Dante era di supervisionarne l’esecuzione per conto dei priori: l’incarico gli era toccato perché lui stesso era uno degli interessati, possedendo beni nel popolo di Sant’Ambrogio presso la Piagentina. Si presti attenzione alla data: aprile 1301. Siamo quasi nel pieno della crisi politica decisiva, eppure la vita di Firenze e di Dante stesso sembrano scorrere nella normalità. Se si poteva dedicare a lavori di quel tipo, perché non avrebbe potuto dedicarsi alla poesia?
Ripeto: la Commedia che noi leggiamo, anche nei suoi primi canti, è stata scritta intorno al 1306-1307; ciò che Dante può avere scritto in precedenza deve essere stato quasi integralmente rifatto. Quasi, perché nei primi canti della Commedia definitiva si intravede in controluce qualcosa della primitiva impostazione e, perfino, qualche tratto testuale superstite. Sono queste tracce che inducono ad affermare che l’ideazione del poema e le prime fasi di scrittura non possono essere posteriori al Convivio e al De vulgari eloquentia, composti tra il 1304 e il 1306. Non lo possono essere perché la visione dell’assetto politico-istituzionale della cristianità ancora riscontrabile nel prologo del poema stride con quella appena elaborata da Dante nei due trattati.
Il progetto politico del Convivio, omogeneo peraltro a quello del De vulgari, è stato così riassunto: «i nobili d’Italia, al di là della loro disunione, nonostante le deviazioni di singoli membri, devono diventare quel che potenzialmente già sono e che sono effettivamente stati: il ceto che sotto l’egida dell’impero garantisce, contro le spinte centrifughe e disgregatrici dei nuovi poteri economici in primo luogo e di conseguenza politici, l’esistenza di una civilitas umana coesa e pacifica». Esso presuppone che Dante abbia maturato, o stia maturando, l’idea della centralità dell’istituzione imperiale. Ebbene, nel 1306-1307, lasciato il tavolo del Convivio per quello della Commedia, dimenticherebbe ciò che aveva appena sostenuto (e che poco dopo sosterrà con maggior forza ancora) per scrivere un poema che esordisce (canto II) con dichiarazioni improntate al più schietto guelfismo. L’impero romano non sarebbe stato creato, come ci aspetteremmo dall’autore del Convivio, quale supremo garante della pace e della felicità umana in terra, ma in funzione della Chiesa e del papato:
[Enea] fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero.
Per quest’andata [agli inferi] onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.89
Roma e l’impero stabiliti dalla divina Provvidenza «per lo loco santo / u’ siede il successor del maggior Piero»: è stato detto che questa è «formula che più guelfa non si potrebbe». Una affermazione siffatta, se fosse stata scritta nel 1307 e dintorni, sarebbe una immotivata e improvvisa regressione rispetto a ciò che Dante pensava solo un anno o due prima (e seguiterà a pensare un anno o due dopo). La contraddizione non sussisterebbe, invece, se quei versi fossero stati scritti anteriormente, e fossero rimasti nella Commedia definitiva come residuo di una posizione superata.
Il «quadernetto» di Boccaccio
L’ipotesi che l’avvio della Commedia – o, meglio, di un poema in versi che poi sarebbe diventato la Commedia – preceda Convivio e De vulgari eloquentia non comporta di per sé che esso sia avvenuto a Firenze prima dell’esilio. A rendere plausibile questa eventualità è un racconto del solito Boccaccio.
Per due volte e a distanza di anni, prima nella sua biografia dantesca e poi nelle Esposizioni sopra la Comedia, questi riferisce un episodio accaduto «cinque anni o più» dopo il bando di Dante: l’indicazione cronologica pur vaga – segno che le sue fonti non concordavano o non ricordavano bene – riporta all’incirca al 1306-1307. La seconda versione, più ampia e dettagliata della prima, racconta che Gemma Donati, prevedendo che a seguito della condanna del marito la loro casa sarebbe stata saccheggiata, ne aveva asportato «alcuni forzieri con certe cose più care e con iscritture di Dante» e li aveva fatti nascondere in luogo sicuro. Dopo «cinque anni o più» Gemma cerca di ottenere le rendite che le spettano sui beni dotali confiscati, ma per intentare la causa deve esibire alcuni documenti che si trovano per l’appunto in quei forzieri. Allora incarica un amico o un parente, in compagnia di un legale («procuratore»), di compiere la ricerca. Nei forzieri, fra le altre cose, questi trovano «più sonetti e canzoni» in volgare e un «quadernetto» contenente i primi sette canti dell’Inferno. Il quadernetto è dato in visione a Dino Frescobaldi, poeta stilnovisteggiante («famosissimo dicitore in rima») e rampollo di una cospicua famiglia di banchieri «neri». Dino, ammirato di ciò che ha letto, prima ne fa copie e le distribuisce agli amici, e poi decide di far riavere il quadernetto a Dante perché possa continuare la composizione interrotta. Venuto a sapere che egli si trovava in Lunigiana presso il marchese Moroello Malaspina, lo invia a quest’ultimo, il quale, pieno di ammirazione lui pure, incita Dante a riprendere la scrittura del poema.
Gli studiosi, salvo poche eccezioni, sono scettici sull’attendibilità di questo racconto. Che, certo, non andrà preso alla lettera, ma che sarebbe troppo sbrigativo liquidare come «leggenda». In primo luogo, perché Boccaccio è, come sempre, scrupoloso e cita le fonti. Due persone diverse (entrambe le quali si arrogavano il merito del ritrovamento) e in tempi distinti gli hanno raccontato quella storia, ma «puntualmente, quasi senza alcuna cosa mutarne»: la prima volta l’ha ascoltata dal notaio Dino Perini, la seconda dal nipote di Dante, Andrea Poggi. Lui si limita a riferire, senza prendere partito («Non so a quale io mi debba più fede prestare»); anzi, manifesta anche qualche dubbio sulla veridicità di ciò che ha ascoltato, e ciò è la prova migliore che non si tratta di una sua invenzione, ma che a Firenze si tramandava la notizia del ritrovamento dei canti iniziali del poema. In secondo luogo, i riferimenti storici appaiono plausibili: cinque anni dopo il bando Dante era effettivamente in Lunigiana presso Moroello; Dino Frescobaldi, come membro dell’oligarchia al potere, aveva sicuramente occasione di entrare in rapporto con il Malaspina, che in quel periodo era il capitano dell’esercito dei Neri fiorentini.
Lascia più perplessi, invece, la notizia che a essere ritrovati siano stati proprio i primi sette canti dell’Inferno e che Dante abbia poi ricominciato a scrivere partendo dall’ottavo. L’oscurità che avvolge modi e tempi di composizione del poema impedisce di prendere posizione. Nessuno è in grado di stabilire con esattezza se, eventualmente, il lavoro sia proseguito proprio dal punto in cui era rimasto interrotto, quale fosse il punto in cui era rimasto interrotto, se le parti scritte fossero solo un abbozzo o avessero raggiunto una loro compiutezza, se e in quale misura siano state riviste e rifatte. Tuttavia non può essere trascurata la circostanza che le testimonianze esterne combaciano con i dati ricavabili dal testo.
È sufficiente anche solo scorrere la bibliografia critica per accorgersi quanto largamente sia riconosciuto il fatto che i primi canti dell’Inferno, all’incirca fino alla città di Dite, presentano una serie di caratteristiche formali, strutturali e di contenuto che li distingue dai successivi. Le differenze sono così rilevanti che un lettore intelligente ha potuto scrivere che «ci sono due ingressi nell’Inferno, quasi due diversi inizi del poema. Prima si entra dalla porta scardinata, poi dalle porte della città di Dite». Le differenze interessano un po’ tutti gli aspetti del testo: dalla modalità del racconto, inizialmente impostato su un andamento da visione medievale, poi tralasciato a favore di un più complesso sviluppo poematico, alla regia della rappresentazione, caratterizzata da una geografia infernale ancora non ben precisata e, soprattutto, dall’incertezza dell’autore nel trovare le soluzioni narrative per i trapassi da un canto all’altro; dall’atteggiamento del personaggio Dante, che oscilla tra un eccesso di pietas e un eccesso di furor vendicativo, a quello non bene caratterizzato di Virgilio e degli stessi demoni; dall’ordinamento morale delle pene e dei peccati, che poi Dante dovrà in parte correggere, a un uso della terzina assai lontano dalla straordinaria duttilità che questo metro mostrerà in seguito, e altri se ne potrebbero aggiungere. Tutto ciò potrebbe essere addebitato a un Dante ancora in fase di rodaggio, un Dante che non ha ancora conquistato la sua autentica cifra stilistica, non ha ancora piena padronanza dei modi della rappresentazione e dello stesso progetto complessivo. E però il fatto che il salto di qualità e di impostazione sia così netto, almeno a partire dal canto di Farinata, sembra suggerire l’esistenza di uno iato temporale, e che la rielaborazione dei canti iniziali, per quanto profonda possa essere stata, non abbia corretto tutte le incertezze di quella prima fase di scrittura.
Un poema fiorentino
Della prima redazione, quella definitiva ha conservato soprattutto il punto di vista dell’autore, di un fiorentino che scrive per i concittadini.
Tutto l’Inferno è fiorentino, ma i canti fino al X di Farinata lo sono in un senso più forte: in questa zona del poema, infatti, i personaggi rilevanti sono (quasi) esclusivamente di Firenze. La loro fiorentinità è, per così dire, esaltata dall’essere gli unici dannati moderni. In effetti, la parte iniziale dell’Inferno non è propriamente spopolata, ma finisce per suscitare tale impressione perché è abitata soprattutto da anime che vengono dal mondo biblico, classico e della letteratura romanza. Come se Dante fosse reticente nei confronti della contemporaneità.
Gli ignavi sono riconoscibili («Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto»90), ma non meritano di essere individuati (con la parziale eccezione «di colui / che fece per viltade il gran rifiuto»,91 vale a dire Celestino V) e tanto meno nominati; gli avari e prodighi del quarto cerchio non sono nemmeno riconoscibili («la sconoscente vita che i fé sozzi, / ad ogne conoscenza or li fa bruni»92), cosicché in un canto dove pure ci sarebbe ampia materia («Questi fuor cherci, che non han coperchio / piloso al capo, e papi e cardinali, / in cui usa avarizia il suo soperchio»93) non compare nemmeno un nome. Reticente al massimo, poi, è il discorso propriamente politico. Ai grandi avversari si allude in maniera talmente criptica («tal che testé piaggia»94) da non permetterne una sicura identificazione (come già, del resto, per «colui / che fece per viltade il gran rifiuto»); i possibili salvatori si nascondono dietro l’allegoria del Veltro. Sembra proprio che il Dante di questi primi canti si accosti ai temi della lotta politica del momento, tutti di ambito fiorentino, con molta prudenza.
Anche il canto di Ciacco conferma la sensazione di un Dante assai circospetto nel parlare della Firenze contemporanea. È la prima volta che la «città partita» appare sulla scena, la prima volta che la vicenda politica fiorentina è fatta esplicito tema di racconto, la prima volta che il lettore potrebbe vedere in azione sul corpo sociale cittadino l’«avarizia», la «bestia» che l’«invidia»95 aveva liberato dall’Inferno e fatto circolare per il mondo. Ebbene, questo carico di attese è soddisfatto solo in parte dalle parole di un fiorentino che, per quanto chiamato per nome, neppure riesce a uscire da un sostanziale anonimato. Ma forse nelle primitive intenzioni di Dante quello affidato a Ciacco, personaggio pochissimo connotato dal punto di vista politico, era un discorso non incentrato sulle lotte di fazione, bensì mirato a un obiettivo più civile (in senso lato) che politico (in senso stretto): un giudizio etico sul degrado dell’aristocrazia (i magnati) di Firenze.
Chi è Ciacco? Le proposte di identificazione sono svariate: la più convincente è quella che egli sia «uomo di corte», cioè un «cliente» di grandi famiglie facoltose. Egli, allora, è lì a incarnare, grazie al suo peccato di incontinenza, lo stile di vita dei ricchi o degli arricchiti fiorentini che tengono corte imbandita, in altre parole, il mondo del «luxus» e del dispendio. Il peccato della gola denuncia un più grave peccato sociale. Lo stile di vita simboleggiato dalle corti imbandite rimanda a quello nobiliare, rimanda cioè alla «cortesia» intesa come munificenza, generosità, liberalità, ma ne tradisce lo spirito vero: se «dare» e «regalare» sono il nucleo dell’ideologia cortese, la cortesia, per non tramutarsi in irrazionale e colpevole prodigalità, richiede misura. Ebbene, protesterà Dante, «la gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata».96 E si tenga a mente «orgoglio», perché il comportamento superbo designato da quella parola sarà proprio di Filippo Argenti.
La richiesta di Dante di conoscere la sorte di alcuni esponenti del ceto magnatizio vissuti nella Firenze di metà secolo (Farinata, Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci, Arrigo, Mosca dei Lamberti) appare sotto una luce più viva se la pensiamo nel contesto di un’analisi generale della decadenza del ceto aristocratico. Quei personaggi, infatti, non sono evocati in quanto uomini politici (del resto, sull’operato di alcuni di loro Dante si esprimerà in termini molto critici), ma in quanto cittadini «che fuor sì degni» e «ch’a ben far puoser li ’ngegni». Cittadini illustri per meriti personali, e anche per casato: appartengono tutti a grandi famiglie dell’aristocrazia magnatizia, sono cavalieri e domini. Rappresentano, dunque, il passato di quelle stesse famiglie che, adesso, ostentano le loro ricchezze e mantengono clientes come Ciacco, sono un concreto punto di riferimento per misurare quanto la nobiltà cittadina si sia degradata.
Anche Filippo Argenti appartiene a una grande consorteria magnatizia, quella degli Adimari, una delle famiglie eminenti del guelfismo fiorentino. Nei loro confronti Dante mostrerà un’avversione che sfocia nel disprezzo denigratorio, ma qui, nel canto VIII, non sembra volerli attaccare attraverso la figura di uno di loro. Alla stessa famiglia, infatti, appartiene il Tegghiaio Aldobrandi ricordato nel canto VI tra coloro «ch’a ben far puoser li ’ngegni» e che nel canto XVI sarà collocato in compagnia di persone «l’ovra … e li onorati nomi» delle quali, dirà Dante, sempre «con affezion ritrassi e ascoltai».97 Se Tegghiaio degli Adimari fu, come scrive Villani, «cavaliere savio e prode in arme e di grande autoritate», il suo discendente Argenti, anch’egli cavaliere, secondo Dante, «fu al mondo persona orgogliosa»,98 iraconda («spirito bizzarro»99) e violenta. Boccaccio aggiunge che Filippo era tanto ricco che «alcuna volta fece il cavallo, il quale usava di cavalcare, ferrare d’ariento e da questo trasse il sopranome»: la sua superbia, dunque, si manifestava anche in una vacua ostentazione di ricchezza. Il paragone tra due persone della stessa consorteria, ed entrambe ornate del titolo di cavaliere, è allora inevitabile. L’Argenti, con il suo orgoglio, è qui a mostrare fino a che punto i costumi della classe dirigente fiorentina, anzi, del ceto più elevato di quella classe, siano decaduti dai tempi in cui le loro azioni e i loro rapporti sociali erano ispirati a valore e cortesia all’oggi in cui Firenze è dominata e rovinata da «superbia, invidia e avarizia».100
L’ottica fiorentinocentrica sembrerebbe smentita dalla circostanza che i primi peccatori moderni, anzi contemporanei, ad apparire nel poema sono romagnoli. Sappiamo che l’uccisione di Francesca da Polenta e di Paolo Malatesta da parte di Gianciotto era passata inosservata agli occhi della società dell’epoca. Nessuna cronaca locale la registra; nessun documento ne conserva traccia; i commentatori antichi non sanno niente di più di quanto dice Dante. Per i contemporanei, dunque, non era stato un episodio particolarmente eclatante: del resto, non erano rari i casi di mariti, soprattutto di rango, che lavavano con il sangue l’onore macchiato. Ebbene, se c’era un luogo, oltre a quelli che ne erano stati il teatro, in cui quel fatto di cronaca nera poteva aver suscitato un certo scalpore, questo era proprio Firenze. Qui i protagonisti di quella storia di amore e morte erano ben conosciuti: sappiamo che l’amante di Francesca vi aveva esercitato la funzione di capitano del Comune fra il 1282 e 1283 e che tra il luglio e il novembre 1290, quindi pochi anni dopo il delitto, databile al 1285, il padre di Francesca vi aveva ricoperto la carica di podestà.
Le innumerevoli letture del canto V insistono, giustamente, sui motivi dell’amore e della letteratura d’amore, ma ne sottovalutano altri aspetti importanti, quali l’adulterio, l’incesto (gli amanti sono cognati) e l’omicidio. Il peccato di lussuria è individuale, ma produce effetti negativi sulla società. La soddisfazione delle pulsioni sessuali (il sottomettere la ragione al «talento») può generare adulterio, incesto, omicidio. Non è dunque un semplice peccato di incontinenza rispetto al desiderio, ma un peccato che turba l’ordine sociale, l’armonia familiare e le regole della convivenza. Nel De amore Andrea Cappellano aveva scritto che dalla lussuria nascono numerosi mali sociali e perfino crimini: «Da lì spesso derivano omicidi e adulteri … Anche le relazioni incestuose risultano per lo più derivare da lì: infatti non si trova nessuno così dotto nella parola di Dio che, se stimolato dal pungiglione d’amore per l’impeto dello spirito del male, sappia mettere un freno al desiderio lussurioso rivolto a donne che gli sono consanguinee o affini oppure votate a Dio». L’incesto fra cognati è uno dei crimini indotti dal comportamento sessuale sregolato.
Che due esponenti della nobiltà si siano abbandonati a siffatti comportamenti, provocando la reazione violenta del marito offeso, denota che gli stili di vita della nobiltà feudale si sono degradati, proprio come si sono degradati quelli della nobiltà cittadina.
Lo sguardo con il quale nei primi canti infernali Dante scruta il venir meno dei valori tradizionali nella classe aristocratica, sia urbana sia feudale, è ancora lo stesso con il quale poco tempo prima componeva le canzoni sulla «nobiltà» (Le dolci rime d’amor ch’i’ solia) e sulla «leggiadria» (Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato). Gola (Ciacco), lussuria (Francesca), ira, orgoglio e ostentazione di ricchezza (Argenti): i quadri infernali esemplificano i vizi tipici dei nobili che credono di atteggiarsi a «leggiadri» e invece ignorano i fondamenti della vera leggiadria. Con le canzoni Dante si proponeva di acculturare in senso «gentile» i potenti di Firenze, nobili o arricchiti che fossero; nei canti infernali prevale l’atteggiamento critico, la deplorazione, ma la cornice ideologica è la stessa. Qui il quadro si è allargato alla nobiltà di sangue, quella stessa a cui guardano come a un modello i cavalieri di Firenze. La storia di Francesca e Paolo colpisce la degenerazione della loro classe di riferimento; il personaggio di Filippo Argenti quella delle antiche e onorevoli famiglie magnatizie cittadine; l’uomo di corte Ciacco stigmatizza lo stile di vita dei parvenu fiorentini, degli arricchiti senza passato. Gente che imita in forme degradate il tipo di vita dei nobili, che cerca di autonobilitarsi attraverso l’uso sociale della ricchezza, ma confondendo liberalità con ostentazione. Tra le canzoni morali e i primi canti dell’Inferno c’è continuità ideologica; il punto di vista con il quale questi canti sono scritti è quello di un fiorentino intrinseco che si rivolge ai concittadini.
Con la Vita Nova Dante era riuscito a far convergere in un progetto unitario le diverse linee lungo le quali fino ad allora si erano mossi i suoi interessi culturali. Ma subito dopo la pubblicazione di quel libro le strade si erano divaricate: quella che sembrava una impellente vocazione per la poesia in latino e per contenuti teologici e visionari era stata quasi subito spenta dal sopravvenire di più mondane preoccupazioni di carattere civile. Uno dalla mente sistematica come lui, quasi ossessionato dall’organicità e dalla coerenza, deve aver vissuto con disagio quella condizione di sdoppiamento. Il giubileo, con il suo messaggio di rinnovamento individuale e universale, era stato uno stimolo potente a concepire un’opera che unificasse le due contrastanti ispirazioni. Quell’opera, di cui, ripeto, possiamo intravedere solo qualche labile contorno, doveva già fondere, come farà la Commedia, il filone beatriciano, che avrebbe dovuto trovare il suo coronamento in un testo più degno della Vita Nova, e l’impegno etico-civile, che si era espresso nelle canzoni morali. La visione ultraterrena conferiva un’aura profetica al personaggio autobiografico che ne era protagonista; l’agitata e confusa situazione politica di Firenze, le tensioni sociali che la percorrevano, gli effetti nefasti di uno sviluppo economico che cancellava gli antichi valori municipali erano il terreno sul quale il personaggio poteva esercitare la sua pedagogia critica. Un viaggio tra i morti per salvare i vivi, per salvare i fiorentini che stavano vivendo una drammatica, ma non ancora disperata, crisi interna. Il corso degli eventi farà sì che un poema concepito per Firenze e a favore di Firenze si trasformi nel libro più aspramente e violentemente antifiorentino che sia stato scritto.