la compagnia malvagia e scempia1

Arezzo e il blocco geopolitico antifiorentino

Dei fuorusciti fiorentini molti si rifugiano nella «bianca» Pistoia, i più nella ghibellina Arezzo. Quest’ultima città era il punto di riferimento di un’area regionale assai vasta: ne facevano parte il Valdarno superiore e il grande complesso montuoso che, verso nord, si estende fino alla Romagna. La nostra percezione della zona comprendente il Casentino, l’alto Mugello, il crinale e il versante romagnolo dell’Appennino, il Montefeltro è distorta dai confini amministrativi che oggi la dividono (Toscana, Romagna, Marche) e dal profondo cambiamento degli assi viari tra il Nordest e il Centro dell’Italia intervenuto in epoca moderna. Siamo portati a percepire come entità separate ciò che, allora, era sentito come un insieme unitario e a considerare come periferica una regione che ai tempi di Dante aveva ancora un notevole peso politico e strategico. In quest’area, priva di grandi centri urbani, sopravviveva, indebolito ma tutt’altro che spento, un sistema politico di stampo feudale imperniato su alcune grandi famiglie nobiliari. Pur tra molte disparità, vi prevaleva l’antiguelfismo, che si esplicava nella resistenza alle pretese papali-angioine nella zona feltresco-romagnola e all’espansionismo di Firenze in quella toscana.

La più potente consorteria della regione era quella dei Guidi, conti palatini. Fra Due e Trecento non erano più la grande famiglia unita che nel XII secolo estendeva i suoi possedimenti su vaste aree di Romagna e Toscana, ma, benché ristrettisi tra il Casentino e la fascia pedemontana che lambisce Faenza e Forlì, dominavano ancora un ampio territorio. Il loro declino era cominciato nei primi decenni del Duecento quando, come altre dinastie feudali, si erano divisi in vari rami, ciascuno dei quali manteneva il titolo comitale: di Bagno, di Battifolle, di Modigliana-Porciano, di Romena, di Dovadola. Li separavano interessi economici e schieramento politico: se i Guidi di Modigliana-Porciano erano fermamente ghibellini, quelli di Dovadola e di Battifolle erano guelfi; altri rami, come quello di Romena, oscillavano a seconda delle circostanze e delle opportunità.

Si estendevano tra il Mugello e il versante appenninico bolognese i possedimenti della grande famiglia ghibellina degli Ubaldini. Quelli del ramo della Pila (il cui uomo di spicco era stato quel cardinale Ottaviano nominato insieme a Federico II nel canto X dell’Inferno) avevano la loro base territoriale nel Mugello. Meno cospicue erano le famiglie montefeltrane, che sopperivano alle ridotte entrate economiche del territorio con i proventi del mestiere delle armi. Più volte abbiamo accennato al grande condottiero Guido da Montefeltro e a suo figlio Buonconte; fra Due e Trecento la figura di spicco è quella di Uguccione della Faggiola, feudatario della Massa Trabaria con sede principale a Corneto.

Diversa era la situazione del Valdarno superiore. Qui, infatti, erano insediate casate meno potenti di quelle della montagna tosco-romagnola, come gli Ubertini e i Pazzi (distinti dai Pazzi di Firenze, legati allo schieramento «nero»), entrambe infeudate ai Guidi. Queste famiglie erano state progressivamente spogliate di molti diritti e di molti possedimenti dal Comune fiorentino, e pertanto conducevano contro Firenze una sorta di guerriglia dai fiorentini considerata brigantaggio.

Che i Bianchi di Firenze, i grandi feudatari tosco-romagnoli, i ribelli del Valdarno e gli antichi fuorusciti ghibellini si incontrassero ad Arezzo era dunque nell’ordine delle cose. Probabilmente, a spingere i Cerchieschi a cercare subito un accordo con forze che, per un motivo o per l’altro, erano ostili a Firenze fu la fiducia di poter rapidamente rovesciare la situazione unendo alla loro potenza finanziaria l’esperienza militare dei Ghibellini fuorusciti e dei feudatari della montagna. E questo, fra i tanti, fu il loro errore più grande. Da esiliati che tentavano, legittimamente, di ritornare in patria si trasformarono in ribelli, in nemici non solo della parte «nera» ma dell’intera città.

Il successo degli assalti condotti nella primavera del 1302 ad alcuni castelli del Valdarno superiore sembrò dare loro ragione. Ma dovettero capire ben presto che azioni militari di corto respiro e, per di più, a così grande distanza dalla città non erano risolutive; e dovettero pure capire che Ubertini e Pazzi si muovevano soprattutto per i loro interessi: erano alleati, peraltro poco determinanti dal punto di vista militare, di cui non potevano fidarsi. La prova l’avranno nel luglio 1302, quando Carlino dei Pazzi, dietro la promessa di un compenso in denaro, della restituzione dei possedimenti confiscati e della liberazione di un figlio catturato poco prima, consegnerà al podestà di Firenze Gherardino da Gambara il castello di Castel del Piano (o Pian tra Vigne), che i fiorentini assediavano invano da tre settimane. Ne seguiranno prigionie ed esecuzioni. Nell’Inferno Camicione dei Pazzi, confitto nel ghiaccio della Caina in quanto traditore dei parenti, dichiarerà a Dante di «aspettare» che arrivi il suo congiunto Carlino, la cui colpa farà apparire più lieve la sua, che pure è gravissima. Insomma, i Bianchi avevano bisogno di collegarsi a forze antifiorentine più affidabili e più incisive. E, soprattutto, di portare la guerra nelle vicinanze di Firenze.

L’Università dei Guelfi bianchi

Nel frattempo i Bianchi si erano organizzati dando vita (probabilmente ad Arezzo, dove erano confluiti i loro maggiorenti, tra cui Vieri dei Cerchi) all’Università della Parte dei Bianchi di Firenze (Universitas partis Alborum de Florentia). Era una associazione che regolava i rapporti interni e gestiva quelli con i Ghibellini fuorusciti, con i signori feudali e con le città amiche. La costituzione di universitates sul modello delle magistrature nelle quali il partito si articolava in patria era quasi la norma sia per i Guelfi sia per i Ghibellini esiliati. Il fatto nuovo è che questa Università organizza una parte dei Guelfi contro un’altra parte. È sintomatico che, mentre i Bianchi vanteranno sempre il loro guelfismo, i Neri li tacceranno di ghibellinismo, fino al punto di chiamarli Ghibellini. Altra novità è l’ufficializzazione del passaggio semantico del termine «bianco» da segnale neutro (com’era quando designava la compagnia bancaria «bianca» dei Cerchi per distinguerla da quella «nera») a forte indicatore politico. L’Università è retta da un consiglio segreto di quattro membri, da un consiglio maggiore di dodici e da un capitano militare. Come primo capitano fu nominato il ghibellino Alessandro dei Guidi di Romena. Su questa nomina, avvenuta durante il periodo in cui l’Università era insediata ad Arezzo, avrà influito la circostanza che vescovo della città era Ildebrandino, fratello minore di Alessandro e lui pure ghibellino.

Una volta organizzati, i Bianchi individuano i loro veri alleati nelle famiglie feudali dell’Appennino. L’8 giugno 1302, a San Godenzo, una località del Mugello posta quasi sul crinale, vicino all’odierno passo del Muraglione, in un palazzo di proprietà dei Guidi di Modigliana-Porciano detto «dello specchio» perché, caso raro a quei tempi, dotato di vetrate, si incontrano diciotto eminenti personaggi di parte «bianca» e ghibellina: in rappresentanza dei Bianchi troviamo, oltre a Dante, nomi a noi ben noti, come Vieri dei Cerchi e Andrea dei Gherardini; tra gli esuli ghibellini, un nipote di Farinata, Lapo di Azzolino degli Uberti, già presente, forse, anche all’incontro di Gargonza. Persone, dunque, che in precedenza si erano duramente combattute e che adesso, davanti a un notaio, sottoscrivono un atto con il quale si impegnano a risarcire Ugolino degli Ubaldini dei danni che le sue proprietà nel Mugello avrebbero patito nella guerra imminente contro i Neri di Firenze. Inizia così la prima campagna mugellana, combattuta tra il giugno e il settembre 1302. Sarà ricca di scontri ma, nel complesso, inconcludente, cosicché finirà per rafforzare i Neri.

I quali cominciano anche a ottenere qualche significativo successo su un altro fronte di guerra, quello pistoiese. Qui entra in scena un personaggio che avrà un ruolo molto importante nella vita di Dante, il già citato marchese Moroello Malaspina di Giovagallo in Lunigiana. Dedito, come molti esponenti di grandi casati feudali, al mestiere di condottiero, nel 1302 si era messo al servizio di lucchesi e fiorentini assumendo la carica di capitano generale nella guerra contro la «bianca» Pistoia. Ai primi di settembre, dopo un lungo assedio, fece capitolare la fortezza di Serravalle: Dante, che dal 1306 sarà suo ospite e godrà della sua protezione, a quella vittoria ottenuta ai danni dei suoi amici politici di allora alluderà nella Commedia, con tono quasi celebrativo, paragonando Moroello a un fulmine che si forma nella valle della Magra e che si abbatte sul territorio pistoiese tempestosamente «sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto».2

A peggiorare la situazione dei Bianchi interviene anche l’atteggiamento di Uguccione. Questi, dopo aver combattuto a lungo tra le file ghibelline in Romagna contro gli eserciti papali e angioini, nel 1302 era stato nominato podestà di Arezzo. I Bianchi, che credevano di avere in lui un sicuro alleato, ignoravano che proprio nei mesi in cui loro si rifugiavano nella sua città Uguccione si era riavvicinato alla Chiesa e ai Guelfi e aveva in corso trattative con Bonifacio VIII per ottenere benefici per sé, per il figlio e per il Comune aretino. Raggiunto l’accordo con il papa, Uguccione comincia a rendere difficile la vita dei fuorusciti, e così, tra la fine del 1302 e l’inizio del 1303, l’Università valica l’Appennino e fissa la sua base operativa a Forlì, che da molti anni era il centro del ghibellinismo romagnolo. Proprio il signore della città, Scarpetta Ordelaffi, assume la carica di capitano.

Sotto il suo comando la seconda campagna mugellana comincia presto, ma altrettanto presto i fuorusciti subiscono i primi rovesci. Particolarmente grave è la sconfitta patita nel tentativo di occupare il castello di Pulicciano, a poca distanza da Borgo San Lorenzo, che avrebbe consentito il controllo della principale via di comunicazione del Mugello. Qui, sulla metà di marzo 1303, i Bianchi e i loro alleati sono sbaragliati dai fiorentini guidati dal podestà Fulcieri da Calboli. Oltre che tra fiorentini, si trattò di uno scontro tra forlivesi, dal momento che la famiglia guelfa dei Calboli era rivale di quella ghibellina degli Ordelaffi, dai quali era stata esiliata da Forlì nel 1294. L’odio nei confronti dell’Ordelaffi può anche spiegare la particolare crudeltà del trattamento riservato da Fulcieri ai vinti, crudeltà, peraltro, di cui Fulcieri dà prova per tutto il corso della sua podesteria, tanto che i cronisti lo ricordano come «uomo feroce e crudele» e Dante, nel Purgatorio, ne traccia un impietoso ritratto come «cacciator» di carne umana.

In quello stesso mese di marzo, tuttavia, i Bianchi aprono con Bologna una trattativa che in maggio porta alla stipula di una vasta alleanza antifiorentina tra loro, Bologna, gli Ubaldini, la «bianca» Pistoia, le città ghibelline di Romagna (Forlì, Faenza, Imola) e Cervia, retta dalla famiglia guelfa dei Polentani. A capo dell’esercito è nominato il ferrarese, ma nemico degli Este, Salinguerra dei Salinguerri. Tuttavia l’alleanza, poderosa sulla carta, non ottiene risultati militari di rilievo. Per di più, sembra che ai Bianchi comincino a scarseggiare le risorse finanziarie, tanto che, fra maggio e giugno, sono costretti a contrarre prestiti, peraltro di non grande entità: il 18 giugno si riunisce a Bologna il loro stato maggiore al gran completo, compreso l’Ordelaffi, per accendere un mutuo di soli 450 fiorini. Sul fronte pistoiese, poi, i Bianchi devono registrare un altro tradimento dei Pazzi: questa volta è Pazzino dei Pazzi a cedere, in maggio, il castello di Montale, situato a metà strada tra Prato e Pistoia, dietro un compenso in denaro. Insomma, anche il secondo anno di guerra non produce buoni risultati. Tra i pochi eventi favorevoli i Bianchi possono registrare il fatto che Uguccione della Faggiola, chiusa la parentesi filopapale, era ritornato alla fede ghibellina e si era aggregato all’alleanza dei fuorusciti: ciò riapre loro le porte di Arezzo, che così ridiventa una delle loro principali basi operative. Nel novembre 1303, come capitano dell’Università troviamo non più Scarpetta Ordelaffi, ma Aghinolfo dei Guidi di Romena, fratello del primo capitano Alessandro.

Le novità che imprimeranno una svolta alla guerra tra Bianchi e Neri accadono in autunno, e non dipendono dalla volontà delle parti in causa. L’11 ottobre 1303, a poca distanza dall’oltraggio di Anagni, muore Bonifacio VIII. Un conclave particolarmente rapido elegge, il 22 dello stesso mese, il domenicano Niccolò di Boccasio, stretto collaboratore di Bonifacio ma di scarso peso politico, che prende il nome di Benedetto XI. Già nei primi mesi di pontificato si intromette nella complicata questione fiorentina nel tentativo di arrivare a una pacificazione tra le parti. Il tentativo susciterà grandi speranze nei Bianchi, ma ben presto si rivelerà velleitario, tanto da provocare una ripresa della guerra ancora più sanguinosa.

La solitudine dell’esule

Prima delle sentenze del 18 gennaio 1302 Dante lascia Firenze e si aggrega agli altri esuli ad Arezzo. È solo o è accompagnato dalla famiglia? I provvedimenti giudiziari non toccarono il fratello Francesco, che rimase a Firenze. Non sappiamo se vi abbia vissuto indisturbato o abbia avuto qualche guaio di riflesso: risulta che un cugino, Cione di Brunetto, nel 1306 fu tassato in quanto ghibellino (nome che veniva dato anche ai Bianchi ribelli); ma risulta pure che altri Alighieri, come Cione di Bello, militarono tra le file dei Neri.

Per quanto riguarda Gemma, Boccaccio non ha dubbi: «[Dante] lasciatavi [a Firenze] la sua donna, insieme con l’altra famiglia, male per picciola età alla fuga disposta, di lei sicuro, perciò che di consanguineità la sapeva ad alcuno de’ prencipi della parte avversa congiunta, di se medesimo or qua or là incerto, andava vagando per Toscana». Egli, dunque, avrebbe lasciato a Firenze sia la moglie sia i figli, ancora piccoli, e avrebbe imboccato da solo la strada dell’esilio. Boccaccio avrà avuto queste notizie dalle stesse persone che lo avevano informato del ritrovamento del quadernetto. In effetti esse collimano con quel racconto. Sono «amici e parenti», evidentemente in assenza di Dante, a consigliare Gemma di nascondere le cose più preziose in luogo sicuro. La prima redazione del Trattatello precisa che i forzieri erano stati portati in «luoghi sacri»: potrebbe trattarsi del convento francescano di Santa Croce, nel quale era frate Bernardo Riccomanni, figlio di Tana, lo stesso a cui Dante nel 1315 potrebbe aver inviato, ma è ipotesi quanto mai incerta, l’epistola «a un amico fiorentino». Abbiamo visto che Tana e il marito Lapo, tramite il fratello Pannocchia, hanno soccorso finanziariamente Dante; non sorprenderebbe, dunque, se anche in quei drammatici frangenti avessero prestato il loro aiuto convincendo il figlio a nascondere nel suo convento i beni da mettere al sicuro.

Che il piano di Dante fosse quello di lasciare moglie e figli a Firenze risulta con sufficiente chiarezza: dai primi giorni del novembre 1301 Corso Donati era il vero padrone della città, e Gemma era pur sempre una Donati. Era lecito supporre che una rete familiare di protezione si sarebbe stesa su di lei. È ipotizzabile che il padre di Gemma, Manetto Donati, abbia chiesto rassicurazioni. Del resto, sarebbe stato davvero difficile per i più stretti congiunti di Dante abbandonare Firenze per seguire un esule privo di sostanze economiche e, soprattutto, di protettori presso i quali collocare, se non sé stesso, almeno i suoi cari.

E però l’evolversi della situazione politica farà fallire questo disegno. Ben presto verrà Gargonza, si accenderà la guerriglia nel Valdarno superiore e l’atteggiamento dei Neri cambierà radicalmente. I Neri non perseguiranno più avversari da allontanare dal teatro della lotta politica, ma nemici che avevano tradito la patria. Da qui le sistematiche condanne a morte e una repressione che coinvolgerà anche i parenti dei condannati.

Il 9 giugno 1302 il Comune nomina un ufficiale con il compito di amministrare i beni dei condannati per baratteria o per colpe politiche, di cacciare dalla città i loro figli che avessero superato i quattordici anni e le loro mogli (e questi provvedimenti saranno addirittura inaspriti nel gennaio dell’anno successivo). Che uno degli ispiratori di quella delibera sia stato quel Nicola Acciaioli che alcuni anni prima aveva manomesso, con l’aiuto di Baldo d’Aguglione, il fascicolo giudiziario per lui compromettente dà il segno di quanto fosse coesa la cricca che agiva intorno a Corso. Nel mese di giugno, dunque, Gemma è costretta a lasciare Firenze. Per le ragioni appena dette, è improbabile che abbia raggiunto Dante, il quale, in quel periodo, si muoveva tra Arezzo, il Mugello e il Casentino. È più probabile che i Donati o i Riccomanni abbiano provveduto a sistemarla con i figli in qualche proprietà fuori Firenze e si siano fatti carico del loro sostentamento. Nulla di positivo sappiamo dei rapporti intercorsi fra Dante e la sua famiglia dopo quella data. Secondo Boccaccio, con la moglie non si incontrò più. Ma questa è una idea sua, tutta da dimostrare. Alcuni indizi, al contrario, inducono a credere che un paio di anni dopo la famiglia si sia, temporaneamente, ricongiunta.

Nella mischia

Dante entra subito in azione. Quasi certamente partecipa all’incontro di Gargonza, di sicuro alla formazione dell’Università dei Bianchi. Come i suoi compagni, anche lui doveva essere convinto che una prova di forza immediata potesse rovesciare la situazione. O forse anche in lui la voglia di rivincita era tale da non consentirgli di valutare le conseguenze che l’accordo stipulato a caldo con fuorusciti ghibellini e famiglie ribelli del Valdarno avrebbe provocato. Chissà cosa provava dentro di sé trovandosi seduto allo stesso tavolo con Lapo degli Uberti, con il quale si era scontrato poco più di dieci anni prima nella piana di Campaldino: o riteneva che, come altre volte, l’incontro con i nemici ghibellini sarebbe stato strumentale e di breve durata o la sensazione di avere subito un’ingiustizia era talmente bruciante da impedirgli di sentirsi traditore della patria.

Nell’Università occupa un ruolo direttivo come membro del Consiglio dei dodici. Pare assodato che di quell’organo fosse segretario o cancelliere, cioè estensore delle epistole, dei verbali e dei dispacci ufficiali. Tra i banchieri e i mercanti che formavano il nucleo dirigente «bianco» non dovevano essere molte le persone in grado di svolgere quell’incarico tecnico-politico. Lo sarebbe stato Lapo Saltarelli, ma questo fine legista, dopo il suo tentativo di passare dall’altra parte, anche se non del tutto emarginato non risulta più compreso nella cerchia dei dirigenti. Dante aveva esperienza politica e, soprattutto, aveva la capacità di dettare epistole latine con una eleganza e una disinvoltura ignote a chiunque altro. È probabile che la mansione di cancelliere o segretario fosse retribuita e che questa sia stata la sua fonte di sostentamento per quasi due anni.

Certo, se si è interrogato sulla stranezza di trovarsi a collaborare con Lapo degli Uberti, Dante non può non aver riflettuto anche su quanto la realtà presente smentisse le aspettative con le quali per oltre un quindicennio aveva costruito la sua immagine di intellettuale esperto di retorica, poetica e filosofia. Lui, che mirava a succedere a Brunetto come coscienza critica del Comune, come saggio che metteva il suo sapere al servizio della comunità, non solo si era ridotto a uomo di parte, rendendosi oggettivamente corresponsabile della divisione della città, ma adesso contro la città usava, addirittura, la sua abilità di dictator, rendendosi così corresponsabile anche della foga revanscista dei Ghibellini, gli antichi e più acerrimi nemici di Firenze.

In quanto cancelliere, Dante opera vicino al centro delle decisioni e, probabilmente, anche ai teatri delle operazioni militari. E infatti lo troviamo in giugno a San Godenzo a garantire (a nome della Parte, ovviamente, e non certo con i suoi mezzi) a favore degli Ubaldini. In particolare avrà avuto contatti stretti con la famiglia dei Guidi di Romena, da cui provengono, come si è detto, due capitani dell’Università; sappiamo, inoltre, che ha rapporti con Oberto e Guido, figli di Aghinolfo.

E tuttavia non sarà stata solamente la politica a riempire le sue giornate casentinesi. A Romena o negli altri castelli della famiglia (come Montegranelli, residenza di Oberto) lo avranno inseguito anche certi fantasmi che occupavano la sua fantasia fin dalla giovinezza fiorentina e ai quali, molto probabilmente, aveva da poco dato forma nel poema iniziato e forzatamente interrotto. Oberto, infatti, era sposato con Margherita, figlia di Paolo Malatesta, l’amante di Francesca da Polenta, e Alessandro lo era, in seconde nozze, con Caterina Fantolini, figlia di primo letto di una Zambrasina Zambrasi la quale, rimasta vedova, aveva sposato Gianciotto l’anno dopo che questi aveva ucciso la moglie.

Negli anni a venire Dante cambierà più volte il suo giudizio sui clan familiari da lui frequentati in quella prima fase del soggiorno nel Casentino, cioè i rami Guidi di Romena e di Modigliana-Porciano: molto duro si mostrerà con i fratelli di Romena. Ma al paesaggio del Casentino e del crinale tosco-romagnolo (luoghi nei quali soggiornerà più e più volte) resterà sempre sentimentalmente legato. Sono le acque a fissarsi nel suo ricordo: dalla Fonte Branda, che sgorga proprio sotto le mura del castello di Romena e alla cui acqua l’assetato maestro Adamo rinuncerebbe pur di vedere puniti insieme a lui gli ancora viventi Alessandro e Aghinolfo, ai «ruscelletti che d’i verdi colli / del Casentin discendon giuso in Arno, / faccendo i lor canali freddi e molli»3 fino alla cascata dell’Acquacheta (nella valle del Montone, terra dei Guidi di Dovadola) che «rimbomba là sovra San Benedetto / de l’Alpe per cadere ad una scesa / ove dovea per mille esser recetto».4 Il rimbombo dell’Acquacheta era forse uno dei suoni più familiari a Dante lungo la strada che scollina per scendere a Forlì, strada che tra la primavera del 1302 e quella del 1303 egli deve aver percorso molte volte in entrambe le direzioni.

Verso la fine del 1302 o all’inizio del 1303 anche lui, come tutta l’Università, lascia Arezzo e si trasferisce a Forlì. In quanto segretario avrà frequentato la corte del nuovo capitano Ordelaffi e avrà collaborato con la sua cancelleria, a capo della quale era un Pellegrino Calvi di cui nient’altro possiamo dire.

In missione a Verona

Alla grande adunata bolognese del 18 giugno 1303, alla quale partecipano ben 131 Bianchi con il loro Consiglio quasi al completo, Dante non è presente. Probabilmente era già partito in missione diplomatica alla volta di Verona. Di un incarico diplomatico presso gli Scaligeri parla, per l’appunto, lo storico forlivese del Quattrocento Biondo Flavio.

I ghibellini della Scala erano diventati signori di Verona (senza ottenere, peraltro, l’ereditarietà automatica) con Alberto nel 1277. Proprio per aggirare l’ostacolo della mancata ereditarietà della funzione signorile, questi aveva associato al potere il primogenito Bartolomeo, diventato unico signore dal settembre 1301 alla morte (7 marzo 1304). Gli succedette il fratello Alboino, vissuto fino al 1311, ma che dal 1308 aveva associato il fratello minore Cangrande. Dante, dunque, si era recato alla corte di Bartolomeo. Quando nel Paradiso scriverà di aver trovato rifugio «nella cortesia del gran Lombardo / che ’n su la scala porta il santo uccello»,5 cioè l’aquila imperiale, identificherà esattamente proprio Bartolomeo, il quale, avendo sposato Costanza, pronipote dell’imperatore Federico II, si fregiava, allora unico nella sua famiglia, di uno stemma che esibiva un’aquila sul quarto piolo di una scala. Invece le altre informazioni contenute nel canto non corrispondono affatto alla realtà di quel primo soggiorno veronese. Cacciaguida (profetizzando) dirà che l’ospitalità generosa («cortese») di quel «grande» per Dante sarà «lo primo … rifugio e ’l primo ostello»:6 ma intorno alla metà del 1303 Dante non stava cercando né rifugio né ospitalità (sarà nel 1316 che ritornerà a Verona come ospite e rifugiato). In quell’anno era saldamente inserito nel governo «bianco» in esilio, e proprio per suo incarico si era spinto in quella città con la missione di indurre Bartolomeo a aderire all’alleanza antifiorentina da poco stipulata tra i Bianchi, Bologna e le città romagnole. A quanto sappiamo, Bartolomeo non si lasciò convincere. Eppure Dante, che avrebbe potuto sbrigarsi in fretta dell’incombenza assegnatagli, si trattenne presso gli Scaligeri per circa una decina di mesi.

Cacciaguida pronuncerà anche un grande elogio della liberalità di Bartolomeo, la cui generosità nei confronti di Dante si manifesterà in una sorta di gara nella quale i suoi doni riusciranno sempre ad anticipare le richieste del protetto. E anche questa ha tutta l’aria di essere un’altra mistificazione del Dante filoscaligero del secondo soggiorno veronese. Una serie di indizi, infatti, suggerisce che la realtà del primo soggiorno sia stata diversa.

Nel Convivio, per confutare la tesi che «nobile» significhi «essere da molti nominato e conosciuto», Dante afferma che, se la tesi fosse vera, allora sarebbero vere anche le affermazioni che Bartolomeo da Parma, detto l’Asdente, un calzolaio illetterato famoso perché prevedeva il futuro, sarebbe il più nobile dei suoi concittadini e che «Albuino della Scala sarebbe più nobile che Guido da Castello di Reggio».7 Sostenere che il signore della potente città di Verona, e per questa sua carica a tutti ben noto, in termini di nobiltà non poteva competere con un personaggio di Reggio Emilia, oscuro, sì, ma da ritenersi uno degli ultimi testimoni dei valori dell’«antica età», era un giudizio non poco limitativo. È probabile che esso sia «da collegare a esperienze negative del primo soggiorno veronese».

Oltraggioso e sprezzante è il trattamento riservato ad Alberto della Scala, padre di Bartolomeo, Alboino e Cangrande. Un sedicente «abate in San Zeno a Verona / sotto lo ’mperio del buon Barbarossa»,8 preannunciandone la morte imminente (settembre 1301) e la condanna all’Inferno, lo accusa di avere imposto, contro il diritto canonico, come abate di San Zeno un figlio illegittimo (Giuseppe) e, per di più, «mal del corpo intero, / e de la mente peggio, e che mal nacque»,9 cioè bastardo, storpio e moralmente, se non mentalmente, insano. E ciò per avidità, per poter controllare le ingenti proprietà di quell’abbazia. Si potrebbe insultare così pesantemente il padre dei propri protettori se questi non avessero dato motivo per farlo? Non sarà che l’ospitalità scaligera in quella prima occasione si rivelò assai meno cortese di quanto Dante vorrà fra credere un dozzina d’anni dopo? Ma se è così, per quale motivo Dante, invece di rientrare a Forlì o ad Arezzo, si è trattenuto per tanto tempo presso quella corte?

Il fascino irresistibile di una biblioteca

Il poeta senese Cecco Angiolieri risponde per le rime, in senso letterale e metaforico, a un sonetto perduto nel quale Dante lo attaccava duramente. Proposta di Dante e risposta di Cecco (Dante Alleghier, s’i’ so’ buon begolardo) risalgono al periodo del soggiorno a Verona: «s’io so’ fatto romano, e tu lombardo», scrive infatti Cecco, e sappiamo che i veronesi erano considerati lombardi. Ribattendo a una a una le accuse ricevute, Cecco dice a Dante: se io sono un fanfarone, tu non sei diverso da me, tanto è vero che i nostri comportamenti sono del tutto identici: io, come tu dici, pranzo alla tavola altrui, ma tu a quella tavola sei un habitué; io cerco di accaparrarmi i migliori bocconi, ma tu miri al lardo, alla parte più buona; io cerco di cavarne il massimo profitto, e tu ancora di più. Smettiamo, dunque, di rinfacciarci le nostre azioni: se siamo ridotti così, è a causa della sventura o della nostra mancanza di saggezza. Dal discorso di Angiolieri sembrerebbe di capire che entrambi sono al servizio o alle dipendenze di qualcuno (Cecco forse a Roma, Dante a Verona) e pertanto che Dante non può darsi arie di superiorità e impartire lezioni di vita: lui pure si arrangia cercando di cavare il meglio che può da una condizione di cliente-parassita. Nella disputa, però, interviene un terzo rimatore, il pistoiese Guelfo Taviani (noto per aver corrisposto in rima con il concittadino Cino). Questi, rivolgendosi a Cecco (Cecco Angelier, tu mi pari un musardo), prende le difese di Dante: Cecco non può attaccar briga con un grande filosofo dimenticando che i filosofi disprezzano le ricchezze ed esercitano il loro ingegno non per procacciarsi vantaggi materiali ma solamente per accrescere il loro sapere. Una posizione ingenua questa, e tuttavia, una volta tanto, la semplicità di un sincero ammiratore sembra aver colpito nel segno molto più del cinismo scafato di Angiolieri. È probabile, infatti, che sia stato proprio l’amore per la «scienza» a trattenere Dante in quella città «lombarda» nella quale riceveva poche gratificazioni.

Dal giorno in cui si è allontanato da Firenze, Dante ha dovuto interrompere gli studi. Deve essere stato un sacrificio doloroso per uno che, da più di dieci anni, si era dedicato quasi a tempo pieno alla filosofia e alla letteratura. Tra i castelli tosco-romagnoli o nelle cittadine pedemontane della Romagna non c’erano biblioteche in grado di soddisfare le sue esigenze di studio, e lui non poteva certo permettersi di possedere libri.

A Verona Dante scopre una delle più straordinarie biblioteche allora esistenti in Europa, la Capitolare, cioè la biblioteca che si era formata a opera del Capitolo dei canonici della cattedrale fin dal V-VI secolo. Il suo deposito librario, ricchissimo di testi classici, dalla metà del Duecento ha già cominciato a dare un forte impulso alla scoperta degli scrittori antichi, e ancor più lo farà nell’età di Petrarca. Dante vi avrà trovato libri ignoti a Firenze e nella stessa Bologna, e possiamo immaginare che si sia immerso nella loro lettura. Nel De vulgari eloquentia – la cui scrittura non è molto posteriore al primo soggiorno veronese, e il cui inizio alcuni collocano addirittura durante quel soggiorno – elenca una serie di scrittori latini (Livio, Plinio, non si sa se il Giovane o il Vecchio, Frontino e Orosio), tutti, meno l’ultimo, pochissimo conosciuti al suo tempo, che a suo dire «hanno partorito prose altissime», e allude a «molti altri» che una «sollecitudine amica» lo invita a leggere. Ebbene, i libri di questi autori sono per l’appunto presenti nella Capitolare veronese, e non è da escludere, pertanto, che l’amico che si preoccupa di indirizzare le sue letture sia una persona legata a quella biblioteca, e là conosciuta, che seguita a consigliare Dante (per via epistolare?) anche dopo che questi si era allontanato da Verona.

Uno dei tratti più tipici della personalità di Dante, che lo qualifica come «intellettuale» nel senso moderno della parola, è il suo incessante riflettere su quanto sta facendo, sia come autore sia come uomo. Egli trova le principali motivazioni del suo scrivere in ciò che lui stesso ha visto, provato, detto in prima persona; e perciò si appoggia all’hic et nunc, agli accadimenti immediati, alla cronaca pubblica e privata. Si aggiunga che altra sua caratteristica è quella di collocare i dati dell’esperienza in un quadro teorico o concettuale che li spieghi, e quindi di salire a livelli di generalizzazione più alti. Avendo presenti questi aspetti del suo modo di concepire letteratura e lavoro intellettuale, riesce difficile pensare che gli studi veronesi fossero fini a sé stessi, dettati semplicemente dall’amore per la «scienza». È più credibile che egli avesse maturato o stesse maturando un progetto, e che gli studi fossero per l’appunto mirati alla sua realizzazione. Un progetto che partiva da una riflessione su quanto aveva visto e sperimentato da quando era diventato un esule in guerra contro la sua città. Dante avrà riflettuto sullo strano gioco delle parti di quella guerra, finanziata e politicamente diretta da banchieri e condotta sul campo da feudatari locali e uomini d’arme d’estrazione nobiliare; sul fatto che, mentre i primi non ne ricavavano vantaggi apprezzabili, i secondi potevano regolare vecchi conti in sospeso con Firenze, compiere vendette attese da tempo, lucrare ingenti guadagni passando con disinvoltura da una parte all’altra. E ciò lo avrà anche portato a riflettere sia sulla inguaribile cecità di una classe «borghese» che pensava di poter condurre ogni cosa attraverso il potere della ricchezza sia sull’assenza di ideali di una classe nobiliare e feudale priva di un suo peculiare progetto politico e messasi di fatto al soldo dei suoi nemici comunali. Insomma, avrà cominciato a meditare sul ruolo dei nobili, su come riscattarne la decadenza e su come riportarli a essere il fulcro di una società ordinata e governata da valori che non fossero solo quelli economici. Nasce da qui il germe del Convivio, e non è neppure inverosimile l’idea che egli abbia cominciato a scriverlo proprio nei mesi trascorsi a Verona. Dal suo punto di vista di intellettuale era un modo per continuare la lotta, addirittura con obiettivi più ambiziosi; il che non esclude che, dal punto di vista pratico, fosse anche un modo per defilarsi. Insomma, stanchezza e insoddisfazione non dovevano essere del tutto estranee alla decisione di prolungare il soggiorno in quella città.

Viaggi tra le città venete

Nel primo libro del De vulgari eloquentia (opera sicuramente ascrivibile alla seconda metà del 1304) Dante dà prova di possedere una notevole conoscenza dei dialetti veneti, tanto da segnalare precise e corrette particolarità fonetiche del padovano, del trevigiano e del veneziano. In anni solo di poco più tardi, dal Convivio all’Inferno, mostrerà anche una grande conoscenza dei luoghi: designerà Treviso nominando i fiumi Sile e Cagnano (oggi Botteniga), che in quella città confluiscono; descriverà gli argini che i padovani erigono lungo il Brenta prima che il disgelo gonfi i fiumi di acque alpine, la «ruina» che si è abbattuta a sud di Trento (a non molta distanza da Verona) sulla riva sinistra dell’Adige, il lavoro febbrile degli operai nell’arsenale dei veneziani. Competenza linguistica e conoscenza dei luoghi presuppongono un’esperienza diretta, che Dante può aver fatto durante la permanenza a Verona.

Però non possiamo immaginarci un Dante che viaggia a suo piacimento per le città venete mosso non si sa da quali interessi o curiosità. E questo per almeno due buone ragioni.

In primo luogo, perché Dante era uno sbandito condannato a morte, e ciò significava che non godeva più della protezione di Firenze e, pertanto, chiunque poteva legittimamente e quindi impunemente sopprimerlo. Uno sbandito viveva in costante pericolo di morte: ogni suo spostamento doveva essere attentamente ponderato e, nei limiti del possibile, effettuato sotto la protezione di amici. Nel pieno della guerra in corso, uno sbandito «bianco» come lui avrebbe potuto recarsi alla corte trevigiana di Gherardo e Rizzardo da Camino, notoriamente legati a filo doppio ai Neri e in particolare agli Este di Ferrara, tra i più acerrimi avversari dei Bianchi? Eppure possiamo ipotizzare che Dante lo abbia fatto e addirittura, come testimoniano gli elogi che non molti anni dopo riserverà ai Caminesi, che sia stato ricevuto con una «cortesia» maggiore di quella che gli mostravano gli Scaligeri. In secondo luogo, non possiamo immaginare un Dante turista per banali ma assai concrete ragioni economiche. Siccome non era rientrato dalla missione a Verona, è probabile che l’Università avesse smesso di sovvenzionarlo facendogli venire meno la sua unica fonte di sostentamento. Con quali risorse avrebbe viaggiato tra Verona e Venezia?

Queste considerazioni avvalorano l’ipotesi che Dante, in cambio dell’ospitalità e, forse, di qualche donativo, abbia compiuto, per lo meno saltuariamente, qualche servizio per gli Scaligeri. Se tra questi ci fosse stato un qualche incarico diplomatico, ecco spiegato come egli, munito di un salvacondotto, potesse muoversi liberamente nella regione.

Proprio nell’estate del 1303 era nata una contesa tra Padova e Venezia per il controllo del traffico del sale di Chioggia, di cui la città lagunare deteneva il monopolio. In quell’occasione Treviso e Verona si proposero come mediatrici. La faccenda andrà avanti con rovesciamenti di fronti (Treviso si schiererà con Venezia, e Verona con Padova) fino al 1306. L’ipotesi di un Dante che per conto degli Scaligeri visita Treviso, Padova e Venezia in relazione alle trattative che si svolsero tra quelle città non sarebbe dunque improponibile. Tanto più che egli si mostra informato dei retroscena che condizionano i movimenti di Scaligeri e Caminesi nella vicenda. I signori di Treviso avevano finito per stare dalla parte di Venezia spinti soprattutto dal rancore nei confronti dei padovani, rancore dovuto al fatto che alcuni banchieri-usurai di quella città, e segnatamente Reginaldo degli Scrovegni (il cui figlio Enrico è rimasto nella storia non perché banchiere, ma per aver edificato e fatto decorare da Giotto la cappella di famiglia), li tenevano in pugno per prestiti a loro concessi una ventina d’anni prima.

«Color di cener fatti son li Bianchi»

Fin dai primi mesi di pontificato Benedetto XI invia chiari segnali di voler cambiare la politica del suo predecessore nei confronti della Romagna, del Montefeltro e della Toscana. Suo consigliere è un dotto confratello domenicano, Niccolò da Prato, da lui elevato alla porpora cardinalizia poco dopo essere stato eletto al soglio pontificio. Il neocardinale avrà un ruolo molto importante, a partire dal pontificato di Clemente V, nel fare di Avignone il centro culturale più dinamico e innovativo d’Europa. Al momento lo circonda la fama di essere simpatizzante dei Ghibellini e amico dei Bianchi. Amicizia, questa, che avrebbe potuto essere imputata allo stesso papa, il quale estromette dalla gestione delle finanze della curia i tradizionali banchieri «neri» (in particolare Spini e Bardi) sostituendoli con i Cerchi «bianchi». Benedetto decide di intervenire direttamente nella complicata questione fiorentina e il 31 gennaio 1304 nomina Niccolò da Prato legato apostolico in Toscana, Romagna e nella Marca Trevigiana con il compito specifico di riportare la pace in Firenze. Il legato, tuttavia, farà il suo ingresso in città solamente un mese dopo, il 2 marzo. A ritardarne l’arrivo furono i violenti scontri che in quel periodo erano scoppiati all’interno dello schieramento «nero».

Una costante della storia fiorentina dell’età comunale è che i vincitori politici, una volta eliminati gli avversari, si dividano in fazioni contrapposte e che il nuovo antagonismo, proprio come quello precedente, sfoci nella lotta armata. I Neri non fanno eccezione. I due partiti in cui si schierano fanno capo a Corso Donati e a Rosso Della Tosa. Proprio nel febbraio di quell’anno Donateschi e Tosinghi si scontrano armi alla mano in una vera battaglia combattuta per le strade della città: ne seguono assassinii, saccheggi e incendi. Gli scontri si placano solo grazie all’intermediazione dei lucchesi, che occupano militarmente, anche se per poco tempo, la città.

Il 2 marzo 1304 il cardinale legato fu accolto con grandi feste da una popolazione stanca di vivere in mezzo alle violenze; il 17 gli fu concessa la balìa, cioè la pienezza dei poteri. Riuscito nell’intento di rappacificare le fazioni dei Neri, il cardinale cominciò a mettere in esecuzione il progetto, ambizioso ma assai poco fondato, di riconciliare i Neri con i fuorusciti «bianchi» e ghibellini. Il suo piano prevedeva una vera e propria conferenza di pace, da tenere in Firenze, alla quale avrebbero dovuto partecipare rappresentanti di tutte le parti in causa, le quali furono raggiunte da lettere di invito o, meglio ancora, di convocazione.

In realtà, la trattativa fra il cardinale legato e le parti per arrivare all’incontro di pace dovette essere piuttosto laboriosa. Lo si evince dall’epistola, dettata da Dante, con la quale il capitano, che a quella data doveva essere Aghinolfo di Romena, il Consiglio e l’Università dei Bianchi dichiarano – ottemperando alle richieste rivolte loro dallo stesso cardinale per lettera e, personalmente, da un suo inviato, «uomo di santa religiosità, frate L. consigliere di urbanità e di pace» – di «desistere da ogni attacco e da ogni attività di guerra» e di «sottomettersi alla decisione» del cardinale «con spontanea e sincera volontà», come potrà riferire «il predetto frate L.».10 Questo nunzio, che gode di una così piena fiducia da parte del cardinale, va quasi sicuramente identificato con il frate domenicano Lapo da Prato, nominato predicatore generale nel 1303, e per tutta la vita stretto collaboratore di Niccolò da Prato, di cui fu anche esecutore testamentario. Ebbene, l’estensore dell’epistola sente il dovere di chiedere scusa dell’«ingiurioso ritardo» e del fatto di «essere venuti meno alla dovuta celerità» nel rispondere, e invita l’illustre destinatario a voler considerare, a scusante, «quanti e quali pareri e punti di vista, riconosciuta la sincerità della nostra lega, siano necessari alla nostra Fraternità per procedere decorosamente; e dopo aver soppesato gli argomenti che affrontiamo».11 E così, all’improvviso, si apre uno spiraglio attraverso il quale possiamo gettare uno sguardo sul funzionamento dell’Università dei Bianchi e almeno intuire quanto lento e faticoso fosse un processo decisionale costellato di riunioni, pareri e confronti.

Finalmente a Firenze convergono dodici rappresentanti dei Ghibellini e dei Bianchi per trattare con dodici esponenti dei Neri. Tra i delegati «bianchi» figura (come segretario?) il notaio Petracco di Parenzo, che di lì a poco sarebbe diventato padre di Francesco Petrarca. In città si diffonde un clima di fiducia. Odi ormai quasi secolari sembrano svaniti d’incanto. Lapo di Azzolino degli Uberti, bandito nel lontano 1283 e che adesso ritorna come membro della delegazione ghibellina, percorre le strade cittadine circondato dal rispetto dei fiorentini. Una popolazione stremata dai continui scontri desidera cancellare il ricordo delle violenze che nel mese di febbraio avevano insanguinato la città.

La voglia di pace degli strati popolari aveva fatto breccia anche tra i magnati di parte «nera». Di fronte al formarsi di un’ala favorevole alla trattativa, Corso Donati e Rosso Della Tosa si erano rapidamente riconciliati e messi alla testa dello schieramento contrario. Si rendevano conto che un accordo avrebbe comportato la cessione di qualche potere ai nemici sconfitti, e loro non intendevano per nessun motivo cedere alcunché. Pertanto cominciarono a intralciare sempre più duramente l’operato del cardinale, prima, per guadagnare tempo, convincendolo a recarsi a Prato per svolgere anche in quella città un’azione pacificatrice, e poi rendendo sempre più teso e minaccioso il clima intorno ai delegati dei fuorusciti e alle famiglie cittadine che li sostenevano. La situazione si aggravò al punto che Niccolò da Prato decise, per garantirne la sicurezza, di ospitare i delegati nel palazzo dei Mozzi dove lui stesso abitava. La misura però non fu sufficiente di fronte ai tumulti che i Neri scatenarono all’inizio di giugno, tanto che l’8 di quel mese Niccolò dovette consigliare ai Bianchi e ai Ghibellini di lasciare Firenze. A quel punto i tumulti crebbero di intensità e si rivolsero contro le famiglie di tradizione «bianca» come i Cavalcanti e i Cerchi. Il 10 giugno fu lo stesso cardinale a fuggire da Firenze, contro la quale lanciò l’interdetto.

Quello stesso giorno, prima ancora che il cardinale lasciasse la città, i Neri cominciarono ad appiccare il fuoco alle case dei Bianchi. L’incendio divorò le abitazioni dei Caponsacchi, degli Abati, dei Sacchetti e poi si propagò alle numerose proprietà dei Cavalcanti. In breve tempo divampò nel centro della città e, alimentato dal vento, distrusse una vasta area tra il Mercato Nuovo e l’Arno. In quel giorno bruciarono più di 1400 tra case, palazzi, torri, botteghe e fondaci. Naturalmente ci furono molti morti e molti atti di sciacallaggio. A essere distrutto fu il centro produttivo di Firenze, perché «in quei luoghi era quasi tutta la mercatantia», «insomma», per dirla con Villani, «arse tutto il midollo e tuorlo e cari luoghi della città di Firenze». Per i Cavalcanti, le cui rendite provenivano dagli affitti di botteghe e case civili, fu un colpo gravissimo.

Di fronte a un simile disastro, forse ci aspetteremmo che scattasse una sorta di solidarietà cittadina. Ma nella Firenze di quegli anni solidarietà è una parola sconosciuta. Guido Orlandi – uomo politico «nero» della famiglia magnatizia dei Rustichelli del sesto di Porta San Piero e attardato rimatore spesso in polemica con Guido Cavalcanti – dopo l’incendio comincia un sonetto che trasuda odio politico con le parole: «Color di cener fatti son li Bianchi».

I Neri hanno vinto la battaglia contro il cardinale legato, ma hanno anche sperimentato che il loro potere in città può essere messo in discussione e hanno capito quanto possa essere pericolosa una coalizione che gode dell’aperto appoggio del papa. Perciò rendono più stretti i loro tradizionali rapporti con gli Angioini di Napoli e, riorganizzata la lega guelfa delle città toscane, ne eleggono capo Roberto di Calabria, erede al trono di Carlo II.

I Bianchi hanno perso la battaglia, ma non la guerra. Il papa, sdegnato per l’accaduto, convoca a Perugia i rappresentanti del Comune e delle famiglie che avevano partecipato agli scontri, e questi obbediscono. Sennonché, il 7 luglio Benedetto XI muore improvvisamente.

Per i Bianchi la situazione si fa critica. Dopo una discussione interna nella quale devono essersi confrontati pareri contrastanti, decidono di allestire in fretta un’alleanza militare. Ottenuta l’adesione di Pistoia, Bologna, Arezzo e Pisa, pensano, giustamente, che la mossa migliore sia accelerare i tempi e assalire Firenze prima che Roberto salga da Napoli con la sua cavalleria. In quel momento la città è militarmente sguarnita. E così il 19 luglio si accampano alla Lastra, a tre chilometri dalle mura di Firenze, sulla strada per Bologna. Hanno forze preponderanti, ma commettono un paio di errori gravissimi: non aspettano che tutte le forze alleate si siano congiunte per poi, a ranghi completi, sferrare un attacco su più fronti, ma nemmeno sfruttano l’effetto sorpresa. Il 20, in pieno giorno, i fuorusciti attaccano il lato nord, mentre i bolognesi, sopraggiunti, si attardano ad aspettare le truppe pisane e pistoiesi. Penetrano in città e ingaggiano battaglia nel centro di Firenze, sulla piazza antistante il Battistero. Alla fine, però, gli attaccanti sono costretti a ripiegare: la loro ritirata fa credere ai bolognesi e ai pistoiesi che la partita sia persa e li convince a tornare indietro. Una facile vittoria si trasforma così in una disfatta.

Bianchi e Ghibellini continueranno a combattere ancora per anni, ma con la sconfitta della Lastra le loro prospettive di successo si restringono fin quasi a scomparire.

Ad Arezzo, il giorno della battaglia nasce Francesco Petrarca.

«La dolorosa povertade»

A metà di febbraio 1304 Dante è ancora a Verona. Il 15 di quel mese assiste alla celebre corsa podistica, che si svolgeva ogni anno la prima domenica di quaresima, il cui vincitore era premiato con un drappo verde; se ne ricorderà per descrivere quanto velocemente Brunetto Latini, nudo, si allontana sul sabbione ardente: «Poi si rivolse, e parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde».12 Il 7 marzo muore Bartolomeo della Scala, e il potere passa al poco amato (da Dante) Alboino. Ma a indurlo a lasciare Verona e a ritornare presso i compagni dell’Università deve essere stata la notizia che il cardinale Niccolò da Prato era stato nominato paciere e che il 2 marzo aveva fatto il suo ingresso in Firenze. Di fronte a un fatto che dischiudeva concrete speranze di porre fine all’esilio, Dante non poteva tenersi in disparte. Da Verona, forse già ai primi di marzo, si trasferisce ad Arezzo, dove il capitano succeduto all’Ordelaffi, Aghinolfo, aveva sicuramente collocato la propria base operativa, essendo venute meno le difficoltà frapposte da Uguccione (che anzi, nel frattempo, si era schierato con la lega dei Bianchi e dei Ghibellini) e potendo contare sull’appoggio del vescovo, suo fratello Ildebrandino (che dei Guidi di Romena era la vera mente politica). La lunga latitanza (ma è presumibile che avesse continuato a mantenere rapporti epistolari) non ha incrinato i legami di Dante con il gruppo dirigente, tanto è vero che è lui a comporre (ai primi di aprile?) l’impegnativa epistola con la quale l’Università notifica al legato di accettare tutte le sue condizioni. Non è detto che egli faccia sempre parte del Consiglio, ma è certo che è ancora l’intellettuale di riferimento della lega dei fuorusciti.

Sembra improbabile, invece, che egli continui a godere di qualche sussidio stabile. La sensazione, anzi, è che il Dante che ritorna ad Arezzo sia assillato da problemi economici. Lo si deduce da una epistola di condoglianze inviata (forse nell’aprile, ma nessun documento consente di datarla) a Oberto e Guido di Aghinolfo di Romena per la morte dello zio Alessandro, del quale essi erano gli eredi. Possiamo immaginare che Dante si trovi ad Arezzo e che i funerali di Alessandro si siano svolti in uno dei castelli dei Guidi nel Casentino.

L’epistola si apre con un magniloquente panegirico dello scomparso, che Dante riconosceva come suo signore («dominus») e la cui memoria conserverà finché avrà vita. La perdita è stata grave, ma «la più alta aristocrazia toscana, che rifulgeva per un tanto uomo», gli amici e i sudditi, e lui stesso che, «cacciato dalla patria e esule senza colpa», in lui trovava speranza possono però consolarsi al pensiero che «chi in Toscana era conte palatino della corte romana (imperiale), ora si gloria, abitante della eterna reggia, nella Gerusalemme celeste con i principi dei beati».13 Nel seguito, però, l’epistola cambia registro: Dante chiede scusa agli interlocutori per non aver potuto partecipare alle esequie del loro congiunto. La sua assenza non è dipesa né da «negligenza» né da «ingratitudine», ma dalla povertà in cui la condizione di esiliato lo ha ridotto, e che gli impedisce di possedere «armi e cavalli» con i quali viaggiare o, meglio ancora, presenziare degnamente a un corteo funebre. Egli cerca, sì, di liberarsi dalla prigionia nella quale la miseria lo ha rinchiuso, ma questa, «spietata», fino a quel momento ha avuto la meglio sui suoi sforzi.14 Nel ribadire la sua fedeltà alla famiglia dei protettori, Dante chiede un aiuto concreto per alleviare il suo stato di indigenza. È una lettera da «cliente»; se, invece di essere in un ambiente ancora feudale, fossimo in una corte signorile, la potremmo definire una lettera «cortigiana».

I Guidi non daranno alcun aiuto, e Dante non perdonerà loro questa mancanza di liberalità. Si vendicherà nell’Inferno, dove ripescherà una vecchia storia risalente al 1281. In quell’anno i fratelli Guidi, servendosi di un loro «familiare», tale Adam de Anglia (maestro Adamo), nel loro castello di Romena avevano coniato fiorini d’oro alterati, cioè non di ventiquattro ma di ventuno carati. Per questo reato, gravissimo, erano stati condannati in contumacia, ma poi presto, grazie alla loro conversione al guelfismo, non solo erano stati amnistiati, ma anche insigniti di cariche pubbliche. Dante, invece, non li perdona. Collocherà nell’Inferno il falsario maestro Adamo all’unico scopo di accusare i suoi padroni: furono loro, egli dice, che in Romena lo «indussero a batter li fiorini / ch’avean tre carati di mondiglia»15 (cioè di materia vile), colpa per la quale lui era stato arso sul rogo, e adesso la sua sola consolazione sarebbe di poter vedere lì con lui «l’anima trista / di Guido o d’Alessandro o di lor frate»,16 cioè di Guido, Alessandro e Aghinolfo. Per la verità, prosegue maestro Adamo, un’anima c’è già, quella del fratello maggiore Guido (forse morto a Campaldino), ma lui, impossibilitato a muoversi perché la pena dell’idropisia gli impedisce la deambulazione, non può togliersi la soddisfazione di cercarla per godere della sua pena. L’odio di maestro Adamo è lo stesso di Dante, che non esita a pronosticare l’Inferno a quello stesso Alessandro che solo pochi anni prima aveva fatto abitatore della corte celeste. E si tenga conto che all’epoca della scrittura dei versi infernali, di più, al momento della loro pubblicazione nella seconda metà del 1314, Aghinolfo era ancora in vita (morirà in tarda età nel 1338). Nel collocare all’Inferno i suoi ex protettori Dante sarà mosso da motivazioni politiche: non quelle, però, di un fiorentino devoto alla sua moneta, ma, lo vedremo a suo tempo, quelle di un fiorentino bandito che nel tentativo di ritornare in patria misconosce e condanna i suoi compagni di lotta. Ma insieme a queste lo muoveranno anche ragioni più personali, le ragioni del cliente e familiare tradito, che si vendica della poca generosità con la quale era stato trattato.

Con la lettera agli eredi di Alessandro si affaccia negli scritti danteschi il motivo della povertà causata dalla condizione di esule. Il motivo percorrerà più o meno velatamente gran parte della sua produzione successiva, ma è particolarmente accorato e insistente proprio nel biennio 1303-1304. Nelle prime pagine del Convivio confessa tutto il suo disagio, di più, tutta la sua vergogna, perché a quei tempi la povertà generava vergogna, per la condizione quasi da mendicante in cui la «pena d’essilio e di povertate» lo ha precipitato: «peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo [timone], portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora [esala] la dolorosa povertade».17

Nella primavera del 1304 la situazione finanziaria di Dante si è fatta talmente insostenibile da costringere il fratello Francesco a lasciare Firenze e a recarsi in suo aiuto ad Arezzo. Qui, il 13 maggio, nella casa di un notaio, alla presenza di due testimoni – uno speziale aretino di nome Tedesco e un secondo aretino di nome Baldinetto di Scorzone – Francesco contrae con lo speziale Foglione di Giobbo un prestito di 12 fiorini d’oro, garantito da una fideiussione sottoscritta dal fiorentino Capontozzo dei Lamberti. La presenza di tanti speziali sarà casuale? Forse è più probabile che l’iscrizione a quell’Arte, fatta da Dante una decina di anni prima, abbia creato intorno a lui una rete di relazioni che si è mantenuta in parte anche dopo l’esilio. Insomma, quegli speziali, prestatori o garanti, sono lì per lui, non per Francesco. Questi è solo prestanome, dal momento che uno nella situazione di Dante non poteva certo avere accesso a nessun tipo di credito. Dodici fiorini d’oro non sono una grande cifra, ma neppure del tutto trascurabile. Forse Dante aveva qualche debito da saldare, ma ciò che gli restava avrebbe potuto garantirgli risorse per un tempo non brevissimo.

Qualcuno ha pensato che i soldi ricevuti dal fratello gli servissero per potersi separare dalla compagnia dei fuorusciti, in altre parole, che Dante avesse già preso la decisione di lasciare la politica attiva. È vero che a Verona aveva riscoperto il piacere dello studio, che aveva progettato quel grande trattato filosofico che sarebbe diventato il Convivio e che, molto probabilmente, aveva pure cominciato a scriverlo. Ed è quindi comprensibile che egli desiderasse tornare al più presto al lavoro intellettuale in una città fornita di libri e frequentata da persone in grado di leggerli e capirli. Tuttavia, tenendo conto del tempo necessario perché Francesco raggiungesse Arezzo e di quello richiesto dalle pratiche del prestito, quella decisione sarebbe stata presa al più tardi alla fine di aprile o ai primi di maggio, cioè nel pieno delle trattative che si stavano svolgendo a Firenze e che Dante doveva seguire attraverso i dispacci inviati dai delegati. Si era mosso dal Veneto proprio per trovarsi vicino agli eventi, e magari influirvi con pareri e consigli, e adesso avrebbe deciso di allontanarsi in un momento in cui tutto era ancora possibile e l’agognato ritorno in patria ancora alla portata? Sembra difficile crederlo.

Dante prese, sì, la decisione di distaccarsi dalla dirigenza del partito e di allontanarsi dal teatro della guerra, ma più tardi, almeno dopo la fuga di Niccolò da Prato il 10 giugno, se non dopo la morte del papa il 7 luglio. Nulla sappiamo dei rapporti con i compagni durante la fase che precede il suo allontanamento. È possibile che nella discussione svoltasi all’interno dell’alleanza a seguito del fallimento della mediazione di Niccolò da Prato egli si fosse opposto alla decisione di accelerare i tempi e di attaccare Firenze prima dell’arrivo dei rinforzi angioini. È possibile, cioè, che anche dopo la morte di Benedetto XI egli volesse accordare fiducia all’azione pacificatrice del legato e, più in generale, della Chiesa. Che ci siano stati dissensi tra lui e gli altri sembra trapelare, anche se in forma confusa, dai commenti antichi. Comunque siano andate le cose, è quasi certo che il giorno della disfatta della Lastra egli era già lontano.