a te fia bello
averti fatta parte per te stesso18
Il precettore
Da quando Dante si distacca dai compagni d’esilio la documentazione, già scarsa, si rarefà ulteriormente fin quasi a scomparire. Da questo momento, per riempire di contenuti la sua vita non possiamo affidarci che a ricostruzioni indiziarie. Perfino la prima tappa del suo girovagare dopo la rottura di metà 1304 è individuabile solamente per congettura. Tutto lascia credere, però, che essa sia Bologna.
Dante vi ha soggiornato negli anni Ottanta del Duecento e, forse, vi è pure tornato nel decennio successivo: è un luogo, dunque, che egli conosce e nel quale è conosciuto, sia come poeta sia come politico. Da alcuni decenni, poi, a Bologna, dividendosi tra la città e San Giovanni in Persiceto, abitavano i discendenti di Bellino di Lapo e, forse, anche i figli di Cione di Bello, fratello del Geri assassinato. In caso di necessità, pertanto, Dante avrebbe potuto appoggiarsi a questa parte del clan Alighieri. Bologna era una buona sede anche per quanto riguardava il problema che Dante doveva affrontare in occasione di ogni suo spostamento, e cioè quello di come reperire le risorse per vivere. La città, in effetti, era piena di studenti universitari che dovevano conseguire una completa padronanza della lingua latina, e ai quali avrebbe potuto impartire lezioni private di grammatica. Ma in realtà l’ambiente intellettuale bolognese era prezioso per altri motivi: preso dal progetto del trattato filosofico, solo a Bologna avrebbe potuto trovare le persone con le quali discutere e confrontarsi, nonché i libri filosofici moderni che neppure la biblioteca di Verona, specializzata in classici, gli poteva mettere a disposizione. Infine, ma si tratta di un prerequisito indispensabile per un esule condannato come ribelle, a Bologna trovava un regime amico dei Bianchi, al punto che i bolognesi erano appena intervenuti in armi al fianco di questi ultimi e dei Ghibellini nella campagna sfociata nel disastro della Lastra.
Si potrà obiettare, e qualcuno lo ha fatto, che il Dante che entra a Bologna all’inizio dell’estate del 1304 aveva appena rotto con la sua parte politica e che perciò avrebbe potuto essere considerato dai Bianchi, bolognesi compresi, un traditore, e come tale essere trattato. Nel Paradiso, per bocca di Cacciaguida, egli non esprimerà solo un giudizio sprezzante sui suoi ex compagni di lotta («la compagnia malvagia e scempia [stolta]»19), ma parlerà esplicitamente di una loro irosa, irragionevole e spietata reazione nei suoi confronti: «che tutta ingrata, tutta matta ed empia / si farà contr’ a te».20 Ma queste sono affermazioni che risalgono ad anni (1316 circa) ormai lontani dal tempo degli eventi, e quindi anche la relazione che in quel canto Dante autore sembra istituire tra l’ostilità dei compagni e gli accadimenti sfociati nella sconfitta della Lastra va interpretata alla luce di atteggiamenti (il costruirsi di Dante come profeta) che conservano un rapporto assai blando con quella remota realtà storica. Più vicina, invece, forse del 1307, è la ricostruzione operata nel canto infernale di Brunetto Latini: Brunetto dirà a Dante che entrambe le fazioni, sia «nera» sia «bianca», vorranno divorarlo, ma che lui si sottrarrà alla loro fame («l’una parte e l’altra avranno fame / di te; ma lungi fia dal becco l’erba»21), senza specificare, però, quando ciò succederà. Ora, la sollevazione degli ex compagni ci fu, e Dante passò effettivamente da traditore, ma non nell’estate del 1304, dopo la Lastra. L’atteggiamento rabbioso ed «empio» che egli descrive presuppone un suo gesto pubblico di rottura, un atto o uno scritto gravemente lesivi dell’onore «bianco» e, soprattutto, tali da proiettare sul loro autore la luce del tradimento. Adesso l’allontanarsi di Dante non è accompagnato né seguito da niente di simile: già l’anno precedente egli si era defilato per molti mesi, e ciò non aveva prodotto incrinature nel rapporto con l’Università.
Una pedagogia per la nobiltà italiana: il «Convivio»
Negli ultimi quattro o cinque anni Dante ha fatto molte esperienze importanti. Ha sperimentato sulla sua pelle come il mondo comunale sia strutturalmente votato alle divisioni e come la competizione interna trabocchi all’esterno in guerre continue tra Comune e Comune, e tra Comuni e ciò che resta degli antichi domini feudali. Ha sperimentato come una società il cui obiettivo primario è l’utile economico non conosca altre regole che la concorrenza e come un capitalismo che mira all’accumulo sia indifferente ai valori della cultura e dell’etica pubblica. L’ininterrotto susseguirsi di guerre civili e di guerre tra città, l’alternarsi di regimi in equilibrio instabile fra «tirannide» e oligarchia, il rovesciamento delle alleanze e i continui tradimenti, insomma, tutto ciò che ai suoi occhi appare disordine e caos, non solo non hanno argini che possano almeno in parte contenerli, ma, al contrario, sono alimentati proprio dalle istituzioni che dovrebbero svolgere un ruolo ordinatore. Venuto meno il potere centrale dell’impero, l’Europa era divisa in monarchie che riproponevano, su più larga scala, la stessa politica competitiva e sopraffattrice dei Comuni e delle Signorie italiane. La Chiesa, invece di svolgere una funzione pacificatrice e di garanzia, era anch’essa, come le vicende di Firenze testimoniavano, un fattore di instabilità: le sue intromissioni, spesso neppure giustificate da una pur labile ragione giuridica, fomentavano discordie e dividevano la cristianità.
Negli ultimi anni trascorsi in esilio, però, Dante aveva anche scoperto una realtà politica e sociale diversa. Presso i discendenti della grande feudalità tosco-romagnola aveva conosciuto un mondo che, a differenza di quello di Firenze, non collocava apertamente l’utile economico in cima ai suoi valori, che garantiva un ordinamento gerarchico della società nel quale non c’era posto per partiti e fazioni, che regolava o diceva di regolare la cosa pubblica secondo un codice d’onore fondato sul «pregio» e sul merito, sulla «cortesia» e sulla lealtà dei comportamenti e, soprattutto, che assicurava la continuità delle istituzioni e degli stili di governo. Insomma, un mondo alternativo a quello nel quale era vissuto fino ad allora. O meglio, potenzialmente alternativo. Dante, infatti, vede bene che le logiche mercantilistiche dei Comuni hanno profondamente inquinato i comportamenti dei nobili, che le sopravvivenze del passato sono per l’appunto sopravvivenze, che la loro politica è o subalterna a quella dei centri economico-finanziari o da questi fortemente condizionata o ancorata a una visione del mondo destinata a soccombere. E tuttavia egli ritiene che quel ceto abbia ancora la possibilità di ritornare al centro della vita politica e sociale, e quindi abbia la capacità di rifondare una società ordinata e pacifica. Per farlo, deve prendere coscienza di quali sono i suoi valori, ricostituire una cultura sua propria andata in gran parte perduta e, soprattutto, ritrovare la coesione di classe frantumata dalla pressione delle città comunali.
Il trattato filosofico a cui lavora a Bologna, il Convivio, si rivolge per l’appunto a un pubblico geograficamente disperso, ma socialmente caratterizzato: «principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati»;22 si propone di stimolarne la presa di coscienza fornendogli una base culturale. Questa, per l’appunto, sarà la «vivanda» servita a tutti coloro che, per soddisfare la loro fame di sapere, siederanno a questa «mensa» partecipando al «convivio».
È lo stesso Dante che negli anni precedenti all’esilio si proponeva di insegnare ai potenti di Firenze in cosa consistesse la vera nobiltà e quali fossero i comportamenti che si addicono a un nobile. Nobiltà che in quegli anni, da uomo di municipio, egli identificava con la gentilezza d’animo, cioè con la sensibilità e la raffinatezza acquisibili attraverso la cultura. È lo stesso Dante, dunque, ma messo di fronte a un pubblico e a obiettivi completamente diversi. Adesso la sua è una posizione antimunicipale. Il perno delle argomentazioni del Convivio, infatti, è che i nobili d’Italia – nobili di sangue, si badi bene – devono diventare il ceto che sotto l’egida dell’impero garantisce «l’esistenza di una civilitas umana coesa e pacifica».
L’orizzonte si è dunque allargato fino a contemplare l’assetto politico e istituzionale dell’intera cristianità. Perché le spinte disgregatrici possano essere controllate e perché la pace possa regnare nel popolo di Dio è necessaria una istituzione universale che regoli i rapporti tra le monarchie e le singole realtà statali sulla base del bene comune e che, contemporaneamente, faccia da contraltare al potere esorbitante della Chiesa, che è causa di dissidi e corruzione, riconducendolo nell’ambito dello spirituale e attribuendo solo a sé stessa la giurisdizione temporale. Questa istituzione non può essere che l’impero, tanto più che esso è la fonte della legittimità del potere delle grandi stirpi feudali che di tale utopistico progetto costituiscono i pilastri. Per un uomo formatosi all’interno di un Comune italiano la virata ideologica non poteva essere più netta. Con ciò Dante non diventa ghibellino: la sua utopia, in effetti, prevede proprio il superamento delle divisioni partitiche, a cominciare da quella esiziale tra la «parte dell’impero» e la «parte della chiesa».
Sennonché l’impero latita, è lontano, da molti anni si disinteressa dell’Italia. In assenza di quei poli unificanti costituiti dall’aula (la corte) e dalla curia (l’organizzazione burocratica) imperiali, la dispersa nobiltà italiana deve trovare altre forme di aggregazione, costruire un’aula virtuale consistente in un sostrato culturale comune. I punti qualificanti del progetto sono due: una ridefinizione del concetto di nobiltà e delle implicazioni comportamentali che ne risultano (è stato scritto che Dante vuole «spiegare che cosa sia la vera nobiltà a un pubblico di nobili») e l’individuazione nella lingua volgare dello strumento con il quale unificare le membra sparse della nobiltà italiana.
L’etica del dono
Il piano originario del Convivio – un prosimetro, come la Vita Nova – prevedeva 14 libri preceduti da uno introduttivo: ciascun libro si sarebbe aperto con una canzone seguita da un commento in prosa volgare. Il lavoro, però, è rimasto interrotto alla fine del quarto libro. Nel 1303-1304 Dante aveva già scritto gran parte delle canzoni, ma non tutte. Una di quelle che compone adesso, proprio per il trattato in lavorazione (probabilmente l’avrebbe commentata nell’ultimo libro), affronta un tema strettamente connesso a quello della nobiltà.
La canzone Doglia mi reca ne lo core ardire, aspra e risentita, attacca il peggiore dei vizi anticortesi, l’avarizia, la quale uccide la liberalità, che è uno dei fondamenti del nobile comportamento. Essa si scaglia non contro i «potenti» della città, destinatari, quasi dieci anni prima, delle canzoni con le quali Dante si prefiggeva di insegnare la «cortesia» agli aristocratici cittadini bisognosi di apprendere le regole e i valori del vero comportamento nobiliare, ma contro gli eredi dell’antica nobiltà feudale, che di quei valori dovrebbero essere i naturali depositari e che, invece, li hanno dimenticati e distorti. È sintomatico che, mentre nella «canzone della leggiadria» (Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato) aveva bollato l’uso distorto della ricchezza da parte dei «cavalieri» e dei parvenu fiorentini, esibizionisti, prodighi, dediti al lusso e al dispendio, adesso, rivolgendosi al mondo dei nobili di tradizione, Dante si concentri sul vizio opposto, sull’avarizia e sulla mancanza di generosità, sulla tendenza «smisurata» all’accumulo. Prerogativa principale della cortesia è il dono, l’elargizione, giusta e misurata, concessa spontaneamente: adesso, invece, i nobili si risolvono a donare solo dopo essersi fatti pregare, mostrando nell’espressione del viso quanto quel gesto sia per loro gravoso, e con ciò trasformano il dono in qualcosa che assomiglia a una vendita, e per di più a caro prezzo, come sa bene chi riceve quell’elemosina («chi con tardare e chi con vana vista, / chi con sembianza trista / volge ’l donare in vender tanto caro / quanto sa sol chi tal compera paga»23). Non è un comportamento da nobile, questo, ma da mercante o da uomo d’affari. Dante vede bene che la nobiltà feudale sulla quale si impernia il suo progetto di rigenerazione sociale è profondamente inquinata dalle logiche dell’agire economico. Lo vede anche perché lo ha sperimentato di persona. Nei versi citati si sente «l’inconfondibile sapore di una sofferta esperienza autobiografica».
La canzone non può essere stata scritta che nel secondo semestre del 1304, dopo che Dante ha patito le delusioni presso gli Scaligeri e presso i Guidi di Romena. E proprio ai Guidi la canzone rimanda in modo esplicito nel congedo: «Canzone, presso di qui è una donna / ch’è del nostro paese; / bella, saggia e cortese / la chiaman tutti, e neun se n’accorge / quando suo nome porge / Bianca, Giovanna, Contessa chiamando. / A costei te ne va chiusa e onesta».24 La signora («donna») toscana («del nostro paese») a cui la canzone è inviata vive in un luogo vicino a quello in cui Dante sta scrivendo («presso di qui»); il suo nome è Bianca Giovanna Contessa, un nome che, interpretato, significa «bella, saggia e cortese». Ebbene, Bianca Giovanna Contessa è una Guidi del ramo ghibellino di Bagno, figlia del conte Guido Novello, genero di Manfredi, e sorella del Federico Novello che sarà ricordato nel sesto canto del Purgatorio tra gli uccisi con violenza. Essa aveva sposato in seconde nozze Saracino della famiglia ghibellina dei Bonacolsi di Mantova. A seguito di faide interne, sia Saracino sia suo padre Tagino erano dovuti fuggire da Mantova e si erano rifugiati a Ferrara presso Azzo VIII, dunque in una località vicina a Bologna.
La dedica a Bianca Giovanna Contessa si iscrive nell’impostazione generale della canzone, la quale, pur trattando temi morali, sociali e filosofici, si presenta come un ammaestramento alle donne, invitate a valutare bene il valore cortese dei loro pretendenti e a concedere l’amore solo a chi ne sia effettivamente provvisto. Ma che a svolgere questo ruolo di certificazione della vera nobiltà interiore dei maschi sedicenti nobili Dante chiami una Guidi non sembra una scelta neutra: la questione della nobiltà, adesso, è tutta interna alle cerchie feudali ed è passibile di soluzione positiva solo all’interno di quelle cerchie.
Il problema della nobiltà stava molto a cuore a Dante, che si sentiva personalmente coinvolto: si tenga presente che per lui la nobiltà è il fondamento della virtù, e non viceversa, come noi saremmo portati a pensare. Il Convivio rappresenta una fase di transizione tra le posizioni sostenute durante gli anni fiorentini e quelle a cui approderà nel Paradiso. A prima vista, benché siano cambiati gli interlocutori, Dante non sembra avere cambiato le sue idee sulla nobiltà. Delle canzoni dottrinali fiorentine solo Le dolci rime è raccolta e commentata nella parte del Convivio effettivamente scritta. Ebbene, le tesi sostenute nel commento non si discostano molto da quelle sostenute nella canzone. Cambia, invece, e notevolmente, il contesto nel quale adesso le argomentazioni sulla nobiltà sono calate. Mentre nella canzone il guelfo comunale trattava con sufficienza l’imperatore Federico II («Tale imperò che gentilezza volse…»), nel Convivio il commento vero e proprio è preceduto da un ampio preambolo nel quale, pur prendendo le distanze dall’imperatore, Dante parla della necessità storica dell’impero e ne argomenta l’origine provvidenziale. Qui, per la prima volta, assume forma compiuta quell’ideologia imperiale che lo porterà a rivedere profondamente le sue idee sulla nobiltà. Ma in realtà una revisione, e non di poco conto, è già intervenuta. Dante seguita a ritenere che la nobiltà sia un dono personale non trasmissibile «per ischiatta», cioè non dipendente dalla stirpe e dal sangue, ma adesso pensa anche che Dio e la natura concentrino il dono della nobiltà «per lo più» nei nati da buona stirpe e che la bontà di una stirpe sia data per l’appunto dal tasso di individui dotati di nobiltà che essa ha generato. In questo modo apre la strada alla rivalutazione della nobiltà ereditaria.
La promozione del volgare
Nell’ultimo quinquennio, almeno a partire dal pellegrinaggio a Roma per il giubileo, Dante ha fatto anche un’altra scoperta: ha scoperto che la lingua del «sì» è molto più frammentata di quanto egli credeva quando conosceva solo i dialetti della Toscana e del Bolognese. C’è quasi un senso di stupore nelle parole con le quali si chiede perché «la parlata della parte destra dell’Italia [si differenzi] da quella della parte sinistra (per esempio i padovani parlano diversamente dai pisani); e perché anche abitanti più vicini discordino nel parlare, come i milanesi e i veronesi, i romani e i fiorentini, e addirittura appartenenti a gente affine, come i napoletani e i caietani, i ravennati e i faentini, e infine, ciò che è più stupefacente, residenti sotto il medesimo reggimento cittadino, come i bolognesi di Borgo San Felice e i bolognesi di Strada Maggiore».25 All’uomo vissuto quasi sempre dentro le mura di una sola città si spalancano panorami imprevisti; altre città e altre tradizioni culturali e linguistiche attirano la sua attenzione, suscitano il suo interesse: il municipale si sente cittadino del mondo («Nos autem, cui mundus est patria»).
Dante si rende conto che i ceti dirigenti italiani mancano di una lingua comune. Nel passato questa era stata il latino, ma adesso egli deve constatare – e come autore delle elaborate epistole diplomatiche scritte per conto dell’Università dei Bianchi ne ha piena consapevolezza – che «principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente» sono «volgari, e non litterati», sono digiuni di latino. Quest’ultimo, da lingua di comunicazione delle classi superiori, si è trasformato in una lingua specialistica, appannaggio dei ceti universitari e degli strati professionali più elevati. Per queste élite culturali (che Dante identifica con i «legisti, li medici e quasi tutti li religiosi»26) la conoscenza non è finalizzata al conseguimento della «felicità» individuale e al bene comune, ma all’utile e al guadagno: «non acquistano la lettera [il latino] per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari o dignitate».27 Insomma, l’alta cultura così come si è andata configurando attraverso il sistema universitario non serve per ricostruire un tessuto comune alla dispersa nobiltà italiana.
Per unificare una nobiltà divisa politicamente, geograficamente e linguisticamente occorre uno strumento nuovo che nei confronti della varietà dei volgari possa svolgere un ruolo simile a quello svolto storicamente dal latino: occorre dunque una lingua che possieda caratteri di selettività, omogeneità, dignità, stabilità. Questa lingua ancora non esiste, ma la geniale utopia di Dante è che il volgare possa diventarlo. Un volgare depurato delle particolarità e dei tratti municipali, reso «illustre», stabile e omogeneo come lo è il latino, lingua artificiale e perciò detta «grammatica», un volgare che diventi lo strumento della comunicazione politica e culturale di quei ceti nobiliari che, anche grazie a esso, potranno ritornare a essere l’asse portante della società. Insomma, nella visione dantesca la nobiltà può rigenerarsi facendo propria, ma in forme nuove, la lingua dei mercanti, dei banchieri, dei borghesi di città, appropriandosi cioè delle armi dei suoi nemici storici. Il sogno utopistico prevede che il volgare riformato alla fine possa addirittura scalzare il latino: «Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce».28
Il «De vulgari eloquentia»
In correlazione con la scoperta dell’estrema frammentarietà delle lingue naturali Dante concepisce l’idea che la loro diversificazione e instabilità dipendano dal fatto di essere mutevoli nel tempo. Per valutare quanto questa concezione sia geniale, si tenga presente che egli usava categorie concettuali e strumenti di indagine che non avevano alcuna tradizione. L’idea della storicità delle lingue parlate, idea esclusivamente sua, basterebbe da sola a fare di lui un grande linguista. Ma questa scoperta gli creava anche un problema. Se le lingue naturali non solo si differenziano tra loro perfino all’interno di una stessa città, ma ciascuna di esse muta nel tempo tanto che «se gli antichissimi pavesi rinascessero oggi, parlerebbero coi pavesi moderni in una lingua discorde o diversa»,29 come costruire una lingua comune che per stabilità e uniformità possa avvicinarsi al latino, che in quanto lingua artificiale non conosce variazioni nel tempo e nello spazio? Questo è il nucleo problematico intorno al quale ruota il De vulgari eloquentia.
Annunciato nel Convivio («Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza»30), il trattato linguistico ne continua su un piano più tecnico e specialistico l’ispirazione politica di fondo, tanto che i due trattati appaiono come le due parti di uno stesso progetto politico-culturale. La ricerca del volgare «illustre, cardinale, aulico e curiale»31 – cioè di un volgare che illumini della sua eccellenza gli altri volgari italiani, li regoli come fa il latino e possa svolgere quel ruolo unificante che spetterebbe, se in Italia ci fosse, all’aula imperiale e all’insieme di nobili che la frequentano – avrebbe dovuto estendersi per quattro o, probabilmente, cinque libri, costruendo un trattato nel quale è facile riconoscere la forma mentis sistematica ed esaustiva che negli stessi anni presiede all’ideazione di quell’altro sterminato trattato che sarebbe dovuto essere il Convivio. Il piano appare tracciato con sicurezza. L’intera materia linguistica si sarebbe ripartita all’interno di una duplice griglia: la prima distribuisce i volgari sulla base di una scala di valore che dal più universale scende al più particolare, per cui dall’ampia trattazione di quello illustre, estesa per più libri, il discorso sarebbe passato a quella dei volgari di grado inferiore; la seconda, di tipo retorico, riprende la tradizionale tripartizione degli stili. E invece il trattato è rimasto interrotto. Ma anche così le intuizioni teoriche e l’assoluta novità di quelle che oggi chiameremmo ricerche sul campo sono di una modernità che suscita ammirazione.
Può sconcertare il fatto che il primo libro scientifico dedicato a una lingua volgare sia scritto in latino. La nostra mentalità ci porterebbe a considerarlo un cedimento; e invece nel contesto culturale in cui quel trattato nasce anche l’uso del latino è un segno di novità. Dante ha ragione quando esalta l’originalità del suo libro: effettivamente, un trattato sistematico che affrontasse insieme i temi della locutio, cioè della naturale lingua di comunicazione, e quelli dell’eloquentia, cioè del suo uso espressivo regolato, e che lo facesse innervando un impianto teorico e filosofico con una forte ispirazione politica, con precise analisi metrico-retoriche e con osservazioni dirette degli usi, non si era ancora visto. Esagera, però, quando nelle prime righe sostiene che nessuno prima di lui aveva minimamente coltivato la dottrina dell’eloquenza volgare. Esisteva un’esile ma non del tutto disprezzabile tradizione, solo che si trattava di testi scritti in volgare che si rivolgevano al pubblico che già usava il volgare a scopi pratici o letterari. Dante, invece, si rivolge a un pubblico da conquistare al volgare.
I professori dello Studio
Il bisogno di parlare a interlocutori in carne e ossa o, comunque, a un pubblico vicino è uno dei tratti più caratteristici del Dante scrittore. Ogni suo testo, in prima istanza, inquadra un ambiente determinato: la Vita Nova, i coetanei di Firenze con i quali Dante condivide stile di vita e concezione della letteratura; la Commedia, le famiglie dei protettori e le parti politiche che via via incontra sul suo cammino di esule. Anche i due trattati, vedremo, non fanno eccezione. Si aggiunga che, a volte, egli sembra proprio chiedere il conforto, se non la collaborazione, di uno specifico interlocutore: nella Vita Nova era Cavalcanti; nel De vulgari è Cino da Pistoia.
Cino vi è citato spesso in quanto lirico in volgare – anzi, è perfino insignito della palma di campione della poesia d’amore, mentre a sé stesso Dante riserva quella di cantore della rettitudine –, ma egli non era noto solo come poeta lirico. Già negli anni in cui Dante scrive il De vulgari la sua fama era legata soprattutto all’attività di giurista. Giurista di formazione bolognese. In questa università aveva studiato nella seconda metà degli anni Ottanta del Duecento, ottenendo all’inizio degli anni Novanta il primo grado di laurea (licentiatus in iure); probabilmente vi aveva insegnato, diremmo oggi, come libero docente a cavallo del secolo, e finalmente, al termine del 1317, vi conseguirà la laurea dottorale (in seguito, come magister, insegnerà in numerose università italiane: Siena, Perugia, Napoli e, forse, Firenze). Insomma, intorno al 1304-1306 negli ambienti universitari bolognesi Cino non era uno sconosciuto. E questo aspetto per il Dante che sta scrivendo Convivio e De vulgari è rilevante almeno quanto l’eccellenza poetica dell’amico, perché il pubblico che egli intende, se non proprio conquistare al volgare, impresa pressoché impossibile, almeno interessare al suo progetto di promozione del volgare, è proprio quello dei professori dello Studio. Quel progetto non sarebbe mai decollato se si fosse scontrato subito con l’opposizione preconcetta dei circoli universitari. Per loro solo il latino, di cui detenevano una sorta di esclusiva in ambito laico, poteva essere considerato lingua di cultura. Da qui, allora, il tentativo dantesco di fare breccia presso di loro presentando la sua proposta linguistica in veste latina. Ciò non ne avrebbe assicurato il successo, ma almeno, nelle sue speranze, avrebbe impedito che il libro fosse rifiutato a priori, proprio come a priori sarà rifiutata, in quanto scritta in volgare, la Commedia.
A Bologna il rimatore Dante, come testimoniano le trascrizioni di suoi componimenti eseguite dai pubblici notai dei Memoriali, aveva un suo pubblico di lettori, e anche il nome del politico circolava tra i ceti dirigenti, ma niente lo accreditava presso i docenti dello Studio come uomo di scienza e filosofo. Solo una persona riconosciuta dalla corporazione avrebbe potuto introdurlo, garantire per lui e sollecitare l’attenzione degli interlocutori. Tra gli amici di Dante questa persona non poteva essere che Cino. Non sappiamo se questi, durante il periodo in cui come «nero» era stato esiliato da Pistoia (dal 1303 al 1306), abbia soggiornato a Bologna; sembra che le città da lui prescelte siano state Prato e Firenze. Ma che egli abbia trovato il modo di esercitare a Bologna un’azione promozionale a favore di Dante è suggerito da almeno un corposo indizio. Durante gli anni d’esilio Cino invia a Dante un sonetto (Dante, quando per caso s’abandona), di non semplice interpretazione, nel quale in sostanza sembra chiedere all’amico «se sia lecito abbandonare un antico amore a vantaggio di un amore nuovo»; Dante risponde per le rime (Io sono stato con Amore insieme) che ad Amore, come egli sa per esperienza, non si può resistere. A interessare, però, non è il sonetto di risposta, ma l’epistola latina che invia come premessa all’amico in esilio («A un esule pistoiese, il Fiorentino esule senza ragione»32): già di per sé il testo latino solleva lo scambio poetico a un livello più alto, evidenziandone le valenze filosofiche. Ebbene, nell’epistola Dante dice che con il chiedergli «se l’anima possa essere trasformata da una passione all’altra»33 Cino gli aveva sottoposto un quesito filosofico la cui soluzione egli avrebbe potuto dare in modo più corretto di quanto lui, Dante, possa fare, ma aggiunge anche di aver compreso che con quella richiesta, che lo obbligava a prendere pubblicamente posizione in «un caso assai dubbio», Cino si proponeva di «dare più fama» al suo nome, e di questo intendimento dell’amico si mostra oltremodo grato.34 Insomma, per dichiarazione di Dante stesso, Cino si industriava a creare e diffondere il buon nome di Dante come poeta filosofo.