se colpa muore perché l’uom si penta35

In fuga da Bologna

Il destino non lasciò a Dante il tempo di verificare se il suo audace progetto politico-culturale avrebbe trovato udienza presso i magistri bolognesi. Nei primi mesi del 1306 la sua vita, che per quasi due anni era trascorsa stranamente tranquilla, tanto che non è azzardato ipotizzare che a Bologna egli potesse aver riunito la famiglia, fu nuovamente sconvolta dagli eventi pubblici. Il sogno di essere riconosciuto dall’alta cultura universitaria si infranse contro la realtà della sua condizione di sbandito. Convivio e De vulgari rimasero incompiuti e non furono mai divulgati.

Dall’inizio del secolo Bologna era governata da una fazione guelfa moderata – nella quale era confluita anche la parte facente capo alla famiglia ghibellina dei Lambertazzi – che appoggiava apertamente i Bianchi di Firenze, e ciò anche dopo la loro cacciata, soprattutto allo scopo di contenere le mire degli Este di Ferrara. Esisteva però una forte opposizione interna, guidata dalla famiglia dei Geremei, caratterizzata da un guelfismo intransigente (antighibellino e antibianco) e perciò collegata agli Este e ai Neri fiorentini. Uno degli esponenti di punta ne era stato quel Venedico dei Caccianemici che nell’Inferno Dante bolla come ruffiano per aver convinto la sorella Ghisolabella a soggiacere alle voglie del marchese Obizzo II d’Este, padre di Azzo VIII («I’ fui colui che la Ghisolabella / condussi a far la voglia del marchese, / come che suoni la sconcia novella»36). L’equilibrio tra le parti si rompe all’inizio del 1306. Le tensioni si acutizzano a partire dai primi giorni di febbraio ed esplodono in tumulti violenti all’inizio di marzo. Il 2 marzo i Lambertazzi sono cacciati da Bologna, dove si insedia un governo guelfo ostile ai Bianchi e ai Ghibellini. Già il 10 marzo le città «nere» di Bologna, Firenze, Lucca, Prato e Siena si accordano per «sterminare per sempre Bianchi e Ghibellini» (ad exterminium atque mortem perpetuam Ghibilinorum et Alborum).

La situazione di Dante e dei Bianchi peggiora ulteriormente poco dopo, quando il 10 aprile, ridotta allo stremo da un lungo assedio costellato di atti di feroce crudeltà, la «bianca» Pistoia si arrende alle truppe fiorentine comandate da Moroello Malaspina. Per i Bianchi la perdita di Bologna e Pistoia rappresenta un colpo assai grave; per Dante si riapre la prospettiva di dover nuovamente cercare ospitalità ramingando tra le poche città o corti ancora non ostili. Ma dove andare? Presso qualche «tiranno» ghibellino della Romagna? Nella ghibellina Verona? Ma lì regnava Alboino, e Dante ne aveva già sperimentato la poca «cortesia». Nella ghibellina Arezzo? Ma i rapporti con i Guidi di Romena – signori di fatto della città tramite il vescovo Ildebrandino – si erano guastati un paio d’anni prima. Nella ghibellinissima Pisa, dove già si erano rifugiati molti esuli «bianchi»? Ma questa era una città a Dante sconosciuta: chi lo avrebbe protetto? Chi gli avrebbe dato di che vivere?

È una situazione drammatica e apparentemente senza via d’uscita. Ma urge, comunque, trovare una soluzione. È vero che ancora il 6 ottobre il Comune emette un bando che impedisce di transitare, fermarsi o abitare sia nella città sia nel distretto di Bologna a qualunque toscano di parte «bianca», segno evidente che molti non avevano ottemperato alle precedenti ingiunzioni – e del resto non doveva essere facile per chi si trovava nella precaria condizione di esule trovare una nuova sede in cui trasferirsi in tempi rapidi –, ma va tenuto conto che Dante, pur non essendo un politico di primo piano, era comunque un «bianco» di sicura visibilità, per il quale indugiare a Bologna dopo il rivolgimento politico poteva essere alquanto pericoloso. È probabile, dunque, che egli abbia lasciato la città in tempi abbastanza rapidi, non oltre il mese di maggio.

L’inviato del papa

Nonostante la perdita di Bologna e di Pistoia, le speranze dei Bianchi non erano del tutto spente. Non c’erano più città «bianche» sulle quali contare, ma restava ancora in piedi un vasto schieramento di forze ghibelline, dalla Romagna al Casentino, dal Mugello al Valdarno superiore, da Arezzo a Pisa. Ma ciò che più di ogni altra cosa, in quel 1306, rinfocolava le loro speranze era la politica del nuovo papa Clemente V. Dopo un tormentato e lungo conclave, nel giugno 1305, a Perugia, era stato eletto come successore di Benedetto XI il guascone Bertrand de Got, consacrato a Lione in novembre con il nome di Clemente V. È il primo di quella lunga serie di papi francesi (si interromperà solo con Urbano VI nel 1378), i quali, prima di fatto e poi ufficialmente, fissano la sede papale ad Avignone (Clemente V non vedrà mai l’Italia). Dante riserverà parole di fuoco a colui che arriverà a definire «pastor sanza legge»,37 ma ciò in un secondo tempo. Anzi, i primi anni di pontificato non devono essergli affatto dispiaciuti. Nei confronti di Firenze, infatti, papa Clemente continua la politica di riappacificazione avviata dal suo predecessore su consiglio del cardinale Niccolò da Prato. Per cinque anni circa, a partire dal 1304, si assiste così a uno strano capovolgimento delle parti: i Neri, saliti al potere grazie all’appoggio determinante di un papa (Bonifacio VIII), sono costretti a contrastare, a volte addirittura con le armi, il sostegno che altri due papi (Benedetto e Clemente) accordano ai fuorusciti «bianchi» e, perfino, ghibellini.

L’intervento papale si fa più incisivo nel febbraio 1306, quando Clemente nomina legato in Romagna e Toscana, con ampi poteri, il cardinale Napoleone degli Orsini di Marino. Nipote di Niccolò III e cugino di quel cardinale Latino che aveva stipulato la prima pace tra Guelfi e Ghibellini nel 1280, Napoleone Orsini era il più potente cardinale della curia (tenne la porpora cardinalizia per un lunghissimo periodo, dal 1288 al 1342). Capo del partito antibonifaciano, non nascondeva le sue simpatie per i Bianchi e, a giudicare dalle sue alleanze, nemmeno per i Ghibellini. Il suo obiettivo era lo stesso di Niccolò da Prato: riportare i fuorusciti in Firenze. Non si mosse, però, per vie diplomatiche, ma con una continua esibizione di forza. Giunto a Bologna poco dopo la cacciata dei Lambertazzi, si mostrò subito minaccioso nei confronti di Firenze, tanto che i fiorentini, per prevenire un suo attacco armato, all’inizio di maggio assediarono il castello di Montaccianico in Mugello, tenuto dagli Ubaldini e da forze «bianche», lo espugnarono e lo rasero al suolo dopo tre mesi di assedio. Il Mugello, troppo vicino a Firenze, sarebbe stato una base d’appoggio importante per un’eventuale spedizione del legato. Nel frattempo a Bologna l’Orsini cercava di pacificare la città, ma la sua azione venne interpretata dai bolognesi come un tentativo di rovesciarne il governo a favore dei Lambertazzi cacciati. Il malumore popolare crebbe fino al punto che, il 23 maggio, una sommossa lo costrinse a fuggire da Bologna (dove era podestà Bernardino da Polenta, fratello di Francesca da Rimini) e a riparare a Imola.

È ragionevole pensare che, durante la permanenza dell’Orsini, Dante fosse ancora in città e che ne seguisse le mosse con molto interesse e piena adesione, come già aveva fatto, del resto, con Niccolò da Prato. Non stupirebbe se ne avesse chiesto la protezione. La sua fuga, perciò, deve essergli apparsa il segno che tutte le strade che potevano riportarlo a Firenze si erano chiuse. In ogni caso, non può essere rimasto a Bologna anche dopo l’insurrezione antiorsiniana.

Una richiesta di perdono

Si fa strada in Dante l’idea di tentare una soluzione personale, cioè di essere perdonato e amnistiato. Un’idea simile può nascere solo dalla disperazione, ma può tradursi in pratica solo a patto di trovare a Firenze persone che la condividano, la sostengano e che, per autorità e prestigio, possano avviare una trattativa con chi ha il potere di concedere il rientro dell’esule. Non poteva essere uno sbandito a rivolgersi direttamente ai governanti cittadini.

A Firenze Dante poteva contare su qualche appoggio sicuro: sulla facoltosa famiglia Riccomanni (Lapo, marito di Tana, morirà verso la fine del 1315), sui Donati parenti di Gemma (il padre Manetto, che sembra ancora in vita nel 1306, il fratello Foresino e suo figlio Niccolò, che sempre si mostreranno vicini a Gemma e ai suoi figli); sull’ammirazione di qualche intellettuale (per esempio, il banchiere «nero» e poeta Dino Frescobaldi). In particolare poteva fare affidamento sull’amicizia di Cino da Pistoia, che per ragioni politiche in quei mesi molto probabilmente viveva proprio a Firenze. Cino doveva essere in rapporti con Moroello Malaspina, capitano della Taglia guelfa dal marzo 1306, e perciò persona molto influente. Non sappiamo di quale natura fossero tali rapporti: è un fatto, però, che pochi mesi dopo gli eventi di cui stiamo parlando Cino invia a Moroello in Lunigiana un sonetto (Cercando di trovar miniera in oro) di non semplice decifrazione (sembrerebbe alludere a un suo nuovo amore per una donna della famiglia Malaspina), al quale, secondo una prassi ampiamente diffusa, per conto del marchese risponde Dante con un altro sonetto (Degno fa voi trovare ogni tesoro). Ora, sarebbe una forzatura affermare che questo scambio a tre voci denoti una particolare familiarità tra gli autori, ma non è una forzatura interpretarlo come segnale di una complicità che dal letterario sfuma nel vissuto. Il rapporto tra Cino e Moroello nasce, comunque, sul terreno della politica: il marchese è l’uomo a cui i Neri di Firenze e Pistoia hanno affidato l’incarico di «liberare» la città, e Cino, se non proprio un dirigente «nero», è sicuramente vicino agli esponenti di quella parte politica (tanto è vero che, poco dopo essere rientrato in Pistoia, assunse – anche se per pochi mesi – la carica di giudice per le cause civili). Insomma, è credibile che Cino, più di altri, si sia adoperato per convincere il marchese Malaspina a prendersi a cuore la causa di Dante. Moroello poteva svolgere un ruolo decisivo: lui, infatti, aveva l’autorità per parlare direttamente a Corso Donati.

Ritengo che Dante e i suoi sostenitori abbiano giocato per prima la carta della famiglia. Gemma era una Donati, cugina di Corso in terzo grado, la sua riammissione in città non solo non avrebbe rappresentato una deminutio del prestigio del clan, ma semmai l’avrebbe accresciuto: facendo valere le ragioni del sangue, Corso avrebbe dato prova di essere il vero uomo forte di Firenze.

Il racconto di Boccaccio del ritrovamento del «quadernetto» sembrerebbe attestare che l’operazione ebbe successo. Il ritorno di Gemma, infatti, è il necessario antefatto delle ricerche da lei avviate per entrare in possesso dei documenti messi al sicuro al momento della fuga del marito. Sappiamo che, «cinque anni o più» dall’esilio di Dante, Gemma fu consigliata di far valere i suoi diritti sui beni dotali sequestrati: «che ella, almeno con le ragioni della dote sua, dovesse de’ beni di Dante radomandare». Il testo non è perspicuo: Boccaccio non vorrà dire che Gemma chiedeva di riavere la proprietà della parte di beni sequestrati sulla quale era assicurata la sua dote (cosa impossibile per la legislazione fiorentina), bensì di usufruire della rendita di quella porzione di beni. Per promuovere una causa, ovviamente, Gemma doveva trovarsi in Firenze, e perciò essere rientrata in città. Non risulta che intorno al 1306 il regime «nero» avesse cambiato atteggiamento nei confronti dei ribelli e dei loro parenti, come suggerisce Boccaccio («essendo la città venuta a più convenevole reggimento che quello non era quando Dante fu condennato»), dunque, se diamo credito al racconto, dobbiamo pensare che i Donati al potere siano riusciti a ottenere un gesto di clemenza a favore della loro congiunta.

Un atto di conciliazione come quello avrebbe suscitato non poche speranze per quanto riguardava il destino personale di Dante. Ma è anche evidente che non poteva bastare una trattativa privata, o quasi, perché uno sbandito potesse essere riammesso nella comunità. Prestigio familiare e mozione degli affetti per Dante non valevano. Ci voleva un atto pubblico, un gesto di pentimento e sottomissione, una richiesta di perdono inoltrata con tutti i crismi.

E Dante questo passo lo fece.

«Popolo mio, che ti ho mai fatto?»

Scrive Leonardo Bruni che Dante «ridussesi tutto a umiltà, cercando con buone opere et con buoni portamenti racquistare la gratia di potere tornare in Firenze per spontanea revocazione di chi reggeva la città», e aggiunge che a quello scopo scrisse più volte, non solo «a particolari cittadini et del reggimento, ma al popolo», e fra le lettere ne cita una «assai lunga» che comincia con le parole «Popule mee, quid feci tibi?». Ebbene, questa epistola perduta ha tutta l’aria di essere quella richiesta ufficiale di perdono che Dante doveva necessariamente inoltrare.

Bruni la conosce perché nei primi decenni del Quattrocento era conservata nella cancelleria della Signoria di Firenze: ciò significa che, a suo tempo, quell’epistola era stata inviata ai priori. Negli stessi anni di Bruni, e indipendentemente da lui, la conosce anche Biondo Flavio, che può averla letta in quella che era stata la cancelleria degli Ordelaffi di Forlì. È impensabile che sia stato Dante a inviare al suo ex capitano Scarpetta Ordelaffi copia di una epistola nella quale condannava la sua alleanza con lui e gli altri Ghibellini romagnoli e di Firenze. È più probabile che proprio i Neri si siano presi la briga di diffondere presso i loro avversari un testo che gettava sull’antico membro del Consiglio dell’Università l’infamia del tradimento. E che quella lettera abbia fatto rumore è confermato anche dalla circostanza che essa è nota pure al cronista Villani. Insomma, è questo il gesto che scatenò l’ira dei Bianchi e dei Ghibellini contro Dante, e, dal loro punto di vista, con non poche ragioni.

Benché sia perduta, dai riferimenti, con alcune puntuali citazioni, che ne fa Bruni possiamo farci un’idea del tono e, in parte, degli argomenti affrontati nell’epistola. Inaugurata da una citazione dal libro del profeta Michea («Populus meus, quid feci tibi?»), doveva essere una sorta di memoriale nel quale Dante ripercorreva le tappe della sua vita di cittadino e di politico rivendicando la sua appartenenza allo schieramento guelfo. Ricordava la sua onorevole partecipazione alla battaglia di Campaldino, che era una pietra miliare del guelfismo di Firenze, difendeva il suo operato di priore dalle accuse che gli erano state mosse, ribadiva la sua estraneità alla decisione di richiamare i Cerchieschi, tra i quali Cavalcanti, dal confino di Sarzana, sottolineava come l’esilio lo avesse ridotto in miseria, mentre la sua casa fiorentina era stata ben provvista di «suppellectile abbondante et pretiosa». Fin qui non si scorge l’atteggiamento «umile» di cui parla Bruni: anzi, l’impressione è che Dante rivendichi con orgoglio, e senza nulla concedere, il suo operato di cittadino ligio alle leggi e di uomo pubblico dedito al bene comune, quasi un’autoapologia.

L’umiltà doveva informare la parte successiva dell’epistola, alla quale però Bruni non accenna, quella in cui Dante chiedeva che venisse revocato il bando a suo carico e fossero perdonate le sue colpe. «Colpa» è un termine molto connotato, usato dallo stesso Dante in un testo di poco posteriore ma connesso con questa vicenda. Ma di quale specifica colpa egli chiede perdono? Non di avere commesso reati o ingiustizie durante il suo priorato, non di aver fatto parte di uno schieramento avverso (cosa normale e di per sé non riprovevole), neppure di aver cercato di ritornare a Firenze con la forza («però che i cittadini cacciati volendo tornare in casa loro non debbono essere a morte dannati» scrive Dino Compagni); la colpa è di essersi alleato con i Ghibellini, i nemici storici di Firenze, e quindi di aver tradito non solo lo schieramento guelfo, ma l’intera città, perché era almeno dai tempi di Campaldino che il guelfismo si identificava con la fiorentinità. I Guelfi potevano combattersi, esiliarsi e uccidersi tra loro, ma il loro odio reciproco non poteva uguagliare quello che li divideva dai Ghibellini. «Or noi avemo trovati uomini, che sono di parte Guelfi e Ghibellini, che vorrebbe volentieri, se potesse, ’n un tratto uccidere tutti gli uomini dell’altra parte: tutti gli ucciderebbe a un tratto, se potesse»: sono parole pronunciate dal pulpito, nel primo decennio del Trecento, dal domenicano Giordano da Pisa.

Se di questo Dante chiedeva di essere perdonato, è comprensibile che i Ghibellini e i Bianchi sconfessati mostrassero forti segnali di ostilità nei confronti di chi, per lavarsi della macchia di aver tradito Firenze, non aveva esitato a tradire loro.

Questo, però, è solo l’inizio di una storia che si protrarrà all’incirca per un paio d’anni.

Ai piedi dei «monti di Luni»

Uno dei rari documenti d’archivio sopravvissuti attesta che nei primi giorni dell’ottobre 1306 Dante si trova in Lunigiana presso i Malaspina. Ciò non prova che Moroello Malaspina si fosse attivato nel tentativo (forse riuscito) di far rientrare Gemma in Firenze, prova, però, che durante il 1306 un rapporto tra Dante e il marchese si era effettivamente instaurato, magari grazie alla mediazione di Cino.

Fuggito da Bologna, dunque, Dante si trasferì in Lunigiana. Potremmo anche azzardare una data: giugno, dopo la rivolta di maggio contro l’Orsini, un mese nel quale Moroello, impegnato fino ad aprile nell’assedio di Pistoia e non ancora preso dalle operazioni belliche contro il castello di Montaccianico in Mugello, poteva trovarsi nei suoi possedimenti lunigianesi. Qui, stando alla testimonianza del figlio Pietro (ma si tratta della terza redazione del commento alla Commedia, più che sospetta di manipolazione), Dante si trattenne «per non piccolo tempo» (per non modicum tempus). Era la prima volta che visitava questa zona d’Italia, che poi gli sarebbe diventata familiare.

Quando il discorso viene a cadere sui luoghi danteschi, il pensiero corre subito, oltre che a Firenze, come è ovvio, a città quali Verona, Arezzo o Ravenna; raramente ci si ricorda che Dante ha vissuto per molti anni tra i monti dell’Appennino tosco-emiliano e tosco-romagnolo. Sottolineare la componente appenninica dell’esperienza biografica di Dante non è una mera curiosità e nemmeno un semplice scrupolo da storico: l’immagine della sua vita sarebbe distorta se non si tenesse nel debito conto che in essa si incrociano il mondo mercantile e affaristico della «borghesia» comunale e quello delle giurisdizioni feudali insediate proprio sui versanti appenninici. Se Firenze si colloca sotto il segno del profitto, l’Appennino ricade sotto quello dell’onore. L’incontro-scontro tra questi due mondi segna Dante in profondità.

La conformazione orografica della Lunigiana è simile a quella del Casentino. Si tratta di un’ampia valle (situata fra Toscana e Liguria) percorsa da un fiume (la Magra) che dal crinale appenninico scende alla piana, allora paludosa, di Sarzana. La posizione, come quella del Casentino, è strategica perché consente il controllo delle vie di comunicazione fra Toscana ed Emilia e fra Toscana e Liguria. Anche la Lunigiana era dominata da un’unica grande famiglia, i Malaspina, i quali, proprio come i Guidi, estendevano i loro possedimenti su entrambi i versanti appenninici. Nel 1221 (all’incirca negli stessi anni nei quali si erano divisi i Guidi) i Malaspina si erano articolati in due rami principali, quello dello «Spino secco» e quello dello «Spino fiorito». Gli ospiti di Dante appartenevano al primo ramo, che a sua volta, dal 1266, era suddiviso in quattro diramazioni: di Mulazzo, di Villafranca, di Giovagallo e di Val di Trebbia. Moroello di Manfredi, che di Dante è il principale ma non unico protettore, appartiene al ramo di Giovagallo. Come i Guidi, anche i Malaspina sono politicamente divisi: se Moroello è un guelfo vicino alla parte «nera», Franceschino di Mulazzo è un ghibellino convinto.

In Lunigiana Dante ha soggiornato più volte e a lungo, ma non sembra che il paesaggio della valle della Magra lo abbia colpito quanto quello casentinese dell’Arno. I suoi ricordi, semmai, sono legati alla zona più meridionale: alle cime delle Apuane (i «monti di Luni») e, soprattutto, ai bianchi marmi delle cave e alla visione del mare e del cielo che si spalanca dalle montagne che sovrastano Carrara. In Lunigiana quel che conta è il paesaggio umano. Con i Malaspina Dante instaura un rapporto felice e, cosa per lui insolita, mai sconfessato. In quella antica famiglia marchionale trova ancora operanti i veri valori e comportamenti cortesi. Valori e comportamenti che egli giudica all’altezza della migliore tradizione feudale perché, ovviamente, ne è stato beneficato. Nel Purgatorio l’incontro con l’anima di Corrado II Malaspina, morto nel 1294, cugino dei suoi protettori Moroello e Franceschino, gli fornirà l’occasione per un altisonante elogio della fama onorevole della casata, diffusa in tutta Europa, giustamente, perché quella famiglia, in un mondo che ha perso la strada delle virtù, «sola va dritta e ’l mal cammin dispregia».38 Il maggiore titolo di gloria del Malaspina è di aver conservato il «pregio de la borsa e de la spada»,39 cioè di coltivare ancora le due principali qualità che contraddistinguono il vero comportamento nobiliare: l’esercizio delle armi (proprio non solo di Moroello, che lo praticava per così dire professionalmente, ma anche del cugino Franceschino, impegnato in eventi bellici per quasi tutta la vita, e di altri Malaspina che avremo occasione di incontrare, come Spinetta dello Spino fiorito) e la pratica della liberalità. Con l’espressione «pregio della borsa» Dante intende distinguere la generosità motivata dal riconoscimento dei meriti del beneficato da quella forma di elargizione, che sconfina nel pagamento di prestazioni e, addirittura, nell’elemosina, già condannata nella canzone Doglia mi reca. Il servizio di Dante ai Malaspina, e in modo particolare a Moroello, si configura come libera prestazione intellettuale, in un rapporto non esente, per di più, da una sorta di complicità: lo lasciano intendere sia il coinvolgimento del marchese nella corrispondenza poetica tra Dante e Cino sia l’affermazione, contenuta in un’epistola inviata da Dante a Moroello dal Casentino, che presso la sua «corte» gli era stato lecito «attendere a liberali prestazioni» suscitando l’«ammirazione» del suo ospite.40 Che nei castelli tra quei monti confinanti con la Liguria si raccogliesse effettivamente un insieme di persone tale da meritare il titolo di «corte» (curia) c’è da dubitare (anche perché i vari Malaspina non risiedevano, di solito, in uno o più castelli di cui fossero singolarmente o per ramo familiare proprietari, ma in possedimenti, non sempre castelli, che detenevano in comune per quote parti con gli altri rami della famiglia); c’è da prendere atto, invece, che l’idealizzata enfatizzazione che Dante ne fa non può scaturire che dal suo sentirsi finalmente riconosciuto come intellettuale e come poeta, tanto è vero che proprio qui ricomincia a scrivere la Commedia.

Le prestazioni liberali non lo esentavano, tuttavia, da più concreti compiti pratici. Sappiamo di almeno un incarico delicato e di responsabilità affidatogli dai cugini Malaspina. Che fosse stato assegnato a uno arrivato in Lunigiana da poco e perciò non molto addentro alle questioni locali è la migliore dimostrazione che in quella «curia» o in quelle «curie» le persone colte e dotate di esperienza del mondo non dovevano abbondare.

Tra i Malaspina dello Spino secco e il vescovo conte di Luni, il genovese Antonio di Nuvolone da Camilla, cugino di Alagia Fieschi, moglie di Moroello, e protetto dai potenti Fieschi conti di Lavagna, si protraeva da anni una complicata controversia, uno stato di guerra endemica e di faida (alimentato soprattutto dai Malaspina). Il 6 ottobre 1306 le parti arrivano a sottoscrivere un atto di pace. A nome dei Malaspina la trattativa finale e la firma dell’atto sono fatte da Dante, che agisce sulla base di una procura. La faccenda si svolge e si conclude in due momenti e in due luoghi distinti, ma nello stesso giorno. La mattina del 6, nella piazza principale di Sarzana, detta della Calcandola, il notaio sarzanese Giovanni di Parente di Stupio (i Malaspina non avevano una propria cancelleria) stila davanti a testimoni una procura con la quale il marchese Franceschino di Mulazzo, che agisce anche per conto dei marchesi Moroello di Giovagallo e Corradino di Villafranca, nomina suo «legittimo procuratore esecutore e messo speciale Dante Alighieri di Firenze». Ciò avviene alle sette, prima della messa. Poi Dante e il notaio si trasferiscono a Castelnuovo, dove, nel palazzo episcopale, Dante e il vescovo si scambiano un bacio di pace e, alle nove, firmano l’atto notarile. Benché in esso siano presenti formule precauzionali del tipo il «signor Franceschino indurrà – se potrà – lo stesso signor Moroello a ratificare», «a condizione che il predetto signor Franceschino e i signori Corradino e Moroello – se vorranno accettare tutte le cose sopraddette e sottoscritte – facciano lo stesso», è evidente che la stipulazione può essere stata conclusa in modo così veloce perché le trattative erano già state fatte e gli accordi già presi. Insomma, Dante interviene nella fase finale perché ha le competenze necessarie per controllare l’operato del notaio. Anzi, non sembra infondata l’ipotesi che il prologo dell’atto di pace (in termini tecnici denominato arenga) si debba proprio a lui, che avrebbe passato al notaio una carta da ricopiare.

È possibile che questo incarico abbia portato Dante a Sarzana per la prima volta nella sua vita; è quasi impossibile che in quella città non gli sia venuto alla memoria il ricordo di Guido Cavalcanti, lì morto o gravemente ammalatosi solo sei anni prima; e, forse, Dante si sarà pure interrogato sulla sua parte di responsabilità riguardo alla fine dell’amico.

«Perdonare è bel vincer di guerra»

Dante ha inoltrato la richiesta di perdono, ma i mesi passano («più lune»41) e dai Neri fiorentini o non arrivano segnali o ne arrivano di negativi.

Nel suo disperato tentativo Dante, forse, non poteva che affidarsi a Corso Donati, ma in quel momento questi non era la persona più adatta per ottenere il reintegro di un fuoruscito in odore di ghibellinismo. La frattura tra lui e i Della Tosa (già all’inizio del 1304 degenerata in scontro armato) si era ulteriormente allargata. Corso si sentiva spinto ai margini, ma, come suo solito, reagiva con grande determinazione. Non aveva abbandonato il progetto, a cui pensava da anni, di insignorirsi della città, e a questo fine aveva stretto, e stava ancora stringendo in quei mesi, una vasta rete di alleanze, sia interne sia esterne, che andavano dai Guelfi di Prato e Lucca ai Neri di Pistoia, senza escludere i Ghibellini aretini, i Guidi e, perfino, i Bianchi fuorusciti. Insomma, i sospetti dei fiorentini nei suoi confronti non erano campati sul nulla. Il suo terzo matrimonio, con una figlia del capo ghibellino Uguccione della Faggiola (si ricordi che Corso era stato nominato da Bonifacio VIII rettore della Massa Trabaria), aveva accresciuto la diffidenza della parte tosinga e alimentato la diceria che egli tramasse con i Ghibellini. Insomma, era davvero difficile che Corso nel 1306 potesse muoversi concretamente a favore di Dante. Tutt’al più poteva, in accordo con i Malaspina e altre famiglie feudali a lui (e a loro) collegate, cooperare ad assicurargli una rete protettiva fuori da Firenze.

Ma è a Firenze che Dante vuole rientrare.

La canzone Tre donne intorno al cor mi son venute, nota come «canzone dell’esilio», è una delle poesie dantesche che meno si lasciano decifrare, e ciò non perché il dettato sia oscuro, ma perché oscuri sono i riferimenti autobiografici. La struttura della canzone è insolita. Le prime quattro stanze sono occupate da un dialogo, che si volge nel cuore (e quindi si tratta di un pensiero drammatizzato), tra due entità astratte: Amore (da intendere non in senso erotico, ma come caritas, amore generale nel quale è compreso quello umano) e Drittura, la Giustizia. Questa è accompagnata da una figlia e dalla nipote: sono le «tre donne» dell’incipit, emblemi della tripartizione della Giustizia in legge divina, naturale e umana. Gli enti allegorici lamentano che la giustizia e le altre virtù nate dalla stessa stirpe di Amore e Drittura, quali Larghezza e Temperanza, un tempo amate, adesso siano odiate e disprezzate dal mondo, che le ha scacciate costringendole, esuli, a ramingare mendicando. Nella quinta e ultima stanza improvvisamente il discorso abbandona il piano dell’allegoria e fa riferimento alla situazione personale di Dante. Nell’ascoltare il lamento di esuli così eccellenti – scrive il poeta – io reputo un onore l’esilio a cui sono condannato; se Dio o il destino vogliono che il mondo tramuti i fiori bianchi in neri, cioè sovverta i valori e renda colpevoli gli innocenti, ma l’allusione ai due partiti guelfi sembra ovvia, allora cadere dalla parte della giustizia è, nonostante tutto, onorevole: «Ed io ch’ascolto nel parlar divino / consolarsi e dolersi / così alti dispersi / l’essilio che m’è dato onor mi tegno: / che se giudicio o forza di destino / vuol pur che ’l mondo versi / li bianchi fiori in persi, / cader co’ buoni è pur di lode degno».42

Sono parole orgogliose, simili a quelle che nell’Inferno pronuncia Brunetto Latini nel comunicare a Dante il suo prossimo esilio: «La tua fortuna tanto onor ti serba, / che l’una parte e l’altra avranno fame / di te».43 Simili non a caso, dato che la composizione di quel canto infernale non deve essere molto distante da quella della canzone. Dante, dunque, ribadisce la giustezza del suo operato, ispirato a Drittura e Amore, e l’ingiustizia della sua condanna, segno del sovvertimento dei valori verificatosi nel mondo. Non concede nulla alla parte da cui pure aspetta di essere perdonato. Sennonché – prosegue l’io narrante – questo esilio onorato, che pure reputerei cosa lieve, si trasforma per me in un tormento, e ciò perché sono lontano dal bell’oggetto che i miei occhi desiderano vedere e la cui assenza mi consuma:

E se non che degli occhi miei ’l bel segno

per lontananza m’è tolto dal viso,

che m’have in foco miso,

lieve mi conteria ciò che m’è grave;

ma questo foco m’have

sì consumato già l’ossa e la polpa,

che Morte al petto m’ha posto la chiave.44

Non c’è dubbio, qui Dante sta parlando di una donna, una donna che egli ama e da cui è separato perché essa si trova nella città che a lui è preclusa. Dante manca da Firenze da parecchi anni, nelle poesie amorose scritte dopo l’esilio non c’è traccia di un suo amore fiorentino che continui a farlo ardere di passione; e allora, chi mai può essere questa donna?

I versi che subito seguono recitano:

Onde, s’io ebbi colpa,

più lune ha volte il sol poi che fu spenta,

se colpa muore perché l’uom si penta.45

Se è vero che il pentimento cancella la colpa, ebbene, la mia colpa eventuale è stata cancellata da parecchi mesi («più lune»), e perciò dovrebbe essermi permesso di ritornare a Firenze presso quella donna. I parecchi mesi vanno contati dal momento in cui lui si era pubblicamente pentito, cioè da quando aveva inviato l’epistola ai priori, e pertanto questa canzone deve risalire almeno agli ultimi mesi del 1306, durante il soggiorno in Lunigiana. I versi finali si presentano come una sorta di sollecito, una perorazione indirizzata a chi poteva sostenere la causa di Dante. Segue un congedo abbastanza strano. In esso, infatti, il poeta invita la canzone a tenere nascosto il suo significato profondo se non ad «amico di vertù». Ma è stato osservato che la canzone «non è particolarmente ostica né sembra avere significati riposti» e dunque, ciò che solo agli amici «di virtù» potrà essere svelato, probabilmente non è altro che l’appello, motivato con ragioni affettive, che la conclude. Ragioni che solamente ai veri destinatari, a coloro che conoscevano l’antefatto biografico a cui Dante allude, potevano apparire evidenti. I destinatari non possono essere che Corso e i suoi amici. Ora, che Dante chieda a loro di aiutarlo a rientrare a Firenze per porre fine alle pene amorose provocate da una ignota concittadina appare del tutto inverosimile. Invece la richiesta sarebbe motivata se la donna a cui Dante vorrebbe ricongiungersi fosse Gemma, riammessa in città proprio durante quell’anno. A distanza di tempo Dante giocherebbe ancora una volta la carta della famiglia. Si potrà obiettare che questo è l’unico componimento lirico dei primi secoli nel quale non solo un poeta parla della propria moglie, ma ne parla con le parole che la poesia riserva alla passione amorosa. È vero, nella letteratura antica le dichiarazioni d’amore per una moglie appaiono del tutto eccezionali, e tali restano queste, anche fatta la tara di quel tanto di strumentale che esse pure hanno. Ma non si dimentichi che anche Dante è eccezionale. Come definire altrimenti uno scrittore che in ogni suo testo sembra prefiggersi di infrangere regole e abitudini? Tanta passionalità nei confronti della moglie sarà apparsa scandalosa a chi, allora, poteva decifrare correttamente il suo testo, ma non sarà apparso altrettanto scandaloso il fatto che egli abbia attribuito l’identità di una sua sorella alla Donna pietosa protagonista dei primi versi della «canzone dell’incubo» della Vita Nova?

La canzone ha circolato in questa forma, cioè con un unico congedo, ma successivamente Dante ne ha aggiunto un secondo. Quando ciò sia avvenuto non è possibile stabilire, ma di sicuro esiste un nesso tra la decisione di aggiungere quel congedo e gli effetti che la canzone aveva prodotto presso i primi destinatari. Il secondo congedo è tutto politico:

Canzone, uccella con le bianche penne,

canzone, caccia con li neri veltri,

che fuggir mi convenne,

ma far mi poterian di pace dono.

Però nol fan, ché non san quel ch’io sono:

camera di perdon savio uom non serra,

ché perdonare è bel vincer di guerra.46

L’impressione è che Dante risponda a qualche messaggio negativo pervenutogli dai primi destinatari (del resto, se era in Lunigiana, tramite Moroello il canale con i suoi sostenitori fiorentini doveva essere costantemente aperto). Prende atto di non potersi ricongiungere alla famiglia perché non si attenua l’intransigenza dei Neri e tuttavia, pur ribadendo il suo guelfismo al di sopra delle parti, non rinuncia a un ulteriore, quasi patetico (qui sì che Dante, come scrive Bruni, «si riduce a umiltà») tentativo di fare breccia nei cuori degli avversari. Lui, che «uccella» insieme ai Bianchi, vorrebbe andare a «caccia» anche con i Neri, ma questi non lo vogliono, non gli concedono il dono della pace. Non sanno, infatti, quanto lui sia cambiato. Questo appello a valutare la sincerità dei suoi sentimenti, la buona fede di un pentimento sofferto appare tragicamente doloroso se si pensa che è rivolto a un mondo che sembra conoscere unicamente il linguaggio dell’odio e della vendetta.

«Amore tremendo e imperioso»

La protezione dei Malaspina ha significato molto di più dell’ospitalità nelle loro dimore lunigianesi. Grazie a quella famiglia Dante ha beneficiato di una rete di relazioni in virtù della quale gli sono state aperte le porte di casate nobiliari di fede «nera» che, altrimenti, avrebbe trovato rigorosamente chiuse. Il viatico dei Malaspina, insomma, ha fatto sì che quel perdono rifiutatogli dai Neri di Firenze gli venisse concesso dai Neri esterni.

Nel 1307, non sappiamo in quale periodo dell’anno e per quale motivo, Dante lascia la Lunigiana per il Casentino. Di questo soggiorno, in effetti, ben poco ci è noto. Anche delle famiglie che lo hanno ospitato possiamo parlare solo per congettura. La nostra fonte è Boccaccio, secondo il quale, dopo il soggiorno a Verona (Boccaccio ignora quello a Bologna), Dante «quando col conte Salvatico in Casentino, quando col marchese Morruello Malespina in Lunigiana, quando con quegli della Faggiuola ne’ monti vicini ad Orbino … onorato si stette». Queste informazioni collimano perfettamente con la nuova posizione politica assunta da Dante con la richiesta di perdono. È evidente, infatti, che dopo la sua pubblica presa di distanze da Bianchi e Ghibellini, egli deve aver evitato quelli che erano stati i suoi primi protettori nella regione, e cioè i Guidi ghibellini di Modigliana-Porciano e di Romena, per rivolgersi invece a famiglie insediate prevalentemente nel versante romagnolo e nella zona montefeltrana, come i Guidi di Dovadola (a cui appartiene Guido Salvatico) e i Faggiolani. Famiglie, queste, schierate con i Guelfi «neri» e, non a caso, collegate da rapporti politici e di parentela ai Malaspina e a Corso Donati.

Nei suoi scritti Dante non nomina mai Uguccione della Faggiola, però nel canto XII dell’Inferno cita, accanto a Rinier Pazzo, un Rinier da Corneto, dicendo che entrambi «fecero a le strade tanta guerra».47 Mentre il primo Rinieri era stato un importante capo ghibellino della famiglia dei Pazzi del Valdarno, quello da Corneto va identificato non con uno sconosciuto «bandito» maremmano, ma con il padre di Uguccione, morto nel 1292. Corneto, nel Montefeltro, era il principale castello dei Faggiolani, la loro sede di riferimento. E non si pensi che la menzione sia disonorevole: Dante sta parlando non di banditi di strada, ma di grandi feudatari, non a caso ghibellini, in lotta contro l’espansionismo territoriale dei Comuni, cioè di «ribelli» nel senso politico della parola.

I Guidi di Dovadola erano un ramo guelfo strettamente collegato ai Neri di Firenze (Ruggero II, figlio del Guido Salvatico ospite di Dante, nel 1304 vi era stato podestà). È facilmente intuibile che Dante non sarebbe stato accolto da loro se non avesse goduto della protezione di Moroello, al quale essi erano legati da comunanza di schieramento politico ma anche da rapporti di parentela. Anche di Guido Salvatico Dante tace, ma, come di Uguccione aveva ricordato il padre, di Salvatico nomina con grandissimo onore lo zio Guido Guerra, morto nel 1272, uno dei campioni del guelfismo fiorentino, una sorta di anti-Farinata. E lo nomina nel girone di Brunetto, in un canto, cioè, la cui composizione è coeva o quasi al soggiorno presso i Dovadola.

Faggiolani e Guidi di Dovadola non ci portano propriamente nel Casentino, ma al di là del crinale, verso la Romagna e le Marche, «ne’ monti vicini ad Orbino». E invece il solo testo dantesco che sappiamo con certezza composto durante questo soggiorno sull’Appennino tosco-romagnolo, la canzone Amor, da che convien pur ch’io mi doglia, da Dante stesso chiamata «montanina»,48 ci rimanda al versante toscano, esattamente alla valle casentinese dell’Arno: «Così m’ha’ concio, Amore, in mezzo l’alpi, / nella valle del fiume / lungo ’l qual sempre sopra me sè forte».49 Dove e presso chi Dante abbia scritto questi versi non possiamo stabilire con sicurezza: sappiamo però che i possedimenti di Guido Salvatico, benché estesi soprattutto nella valle del Montone, cioè sul versante adriatico, comprendevano anche il castello di Pratovecchio in Casentino. Il castello sorgeva proprio sulla riva sinistra dell’Arno, sovrastato dalle vicine torri di Romena. Ora, la canzone fu inviata a Moroello con una epistola latina di accompagnamento nella quale Dante scrive di essere caduto innamorato non appena, provenendo dalla Lunigiana, aveva messo piede «presso la corrente dell’Arno».50 A questo punto, potrebbe essere considerato più di una semplice coincidenza il fatto che un anonimo commentatore del Purgatorio fra Tre e Quattrocento affermi che Dante amò «una di Prato Vecchio», per la quale, appunto, avrebbe scritto la nostra canzone.

L’epistola a Moroello fornisce alcune informazioni biografiche. La canzone, alla quale abbiamo già accennato in relazione alle crisi psicofisiche di tipo epilettico o apoplettico descritte in alcune poesie amorose di Dante, racconta in quale condizione il poeta versi, colpito da un inatteso e repentino fulmine amoroso proprio in quella stessa valle dell’Arno dove, tanti anni prima, era caduto innamorato di Beatrice. L’epistola precisa le circostanze del nuovo innamoramento: «A me, dunque, staccatomi dalle soglie della corte, poi sospirata, nella quale, come spesso vedeste con compiacimento, fu lecito adempiere uffici liberali, appena ebbi posto sicuro e incauto i piedi presso la corrente dell’Arno, d’improvviso, ahimè, una donna, come folgore dall’alto, apparve, non so come ai miei voti in tutto per costumi e bellezza conforme. O quanto fu il mio stupore a quella apparizione! Ma lo stupore cessò per il terrore del tuono che seguì. Poiché come ai diurni baleni succedono i tuoni, così, scorta la fiamma di questa bellezza, Amore tremendo ed imperioso mi ebbe suo, e questo … qualsiasi cosa era stata dentro di me a lui contraria o uccise o sbandì o imprigionò».51 «Sicuro e incauto», come Francesca e Paolo, che leggevano il libro galeotto «sanza alcun sospetto».52 Inutile indagare chi possa essere questa donna fatale: a Boccaccio qualcuno aveva raccontato – lasciandolo dubbioso peraltro – che si trattava di un’«alpigiana» dal «bel viso», ma «gozzuta». Gozzuta o no, di Pratovecchio o no, sarà stata una castellana o domina di quelle contrade. Importa, invece, mettere in rilievo come la nostalgia espressa nella lettera per la «curia» malaspiniana da poco lasciata denunci quanto grande sia la diversità tra la condizione culturale della Lunigiana e quella del Casentino. Come fa anche la canzone, quando lo scrivente lamenta che tra i monti ove adesso si trova non ci siano né intendenti d’amore né un pubblico femminile in grado di capire e consolare: «Lasso!, non donne qui, non genti accorte / veggio a cui mi lamenti del mio male».53 Insomma, ancora una volta il Casentino appare a Dante sguarnito di ambienti e di costumi cortesi.

Con uno stacco improvviso il congedo sposta il discorso sulla situazione di esule del poeta:

O montanina mia canzon, tu vai:

forse vedrai Fiorenza, la mia terra,

che fuor di sé mi serra,

vota d’amore e nuda di pietate.54

La canzone, dunque, nel viaggio dal Casentino alla Lunigiana, probabilmente passerà per Firenze (si può pensare a un plico portato da un corriere che percorre la strada della Consuma, la quale si inerpica proprio di fronte a Pratovecchio). Benché privo di dedicatari interni, anche il testo poetico, come l’epistola, sembra proprio destinato a Moroello. Sappiamo con sicurezza che nel maggio 1307 il marchese è in Val di Magra, «attento ai suoi interessi finanziari lunigianesi», sicché non è un azzardo eccessivo ritenere che canzone ed epistola possano esser state scritte nella tarda primavera o all’inizio dell’estate di quell’anno.

La canzone forse vedrà la città priva d’amore e di compassione che nega il ritorno al poeta. A questa Firenze spietata, se mai vi entrerà, la canzone potrà dire che non ha più niente da temere da parte del suo autore, perché questi, imprigionato com’è da una catena amorosa, se anche la crudeltà della sua patria venisse meno, non potrebbe più farvi ritorno: «Se vi vai dentro, va dicendo: “Omai / non vi può fare il mio fattor più guerra: / là ond’io vegno una catena il serra / tal, che se piega vostra crudeltate, / non ha di ritornar qui libertate”».55 Se mai entrerà in Firenze, se cioè riuscirà a farsi leggere da quelle persone alle quali Dante aveva inviato le sue suppliche, adesso la canzone non riferirà nient’altro che un messaggio di resa. Giocato, anche questo, sui sentimenti: l’amore per una donna lo attirava prepotentemente a Firenze, l’amore per un’altra lo trattiene fuori da Firenze. In un simile congedo è implicito un omaggio cortigiano al destinatario: se l’amore gli impedisce addirittura di ritornare nella città che è in cima ai suoi desideri, è scusabile il fatto che egli si tenga lontano dal suo protettore o gli si mostri «negligente»: «affinché alcune cose riferite per altre» scrive nell’epistola a Moroello «cose che assai spesso sono solite essere incubatrici di false opinioni, non facciano passare per negligente chi invece è prigioniero».56 E però bisogna anche riconoscere che nella canzone Dante parla di un amore vero, bruciante. La crisi che lo colpisce quando si avvicina a questa donna, una folgorazione che gli toglie i sensi, è del tutto analoga a quella che nella giovanile canzone E’ m’incresce di me diceva di aver provato il giorno della nascita di Beatrice. Non può essere una coincidenza casuale: dobbiamo ammettere che questo Dante ultraquarantenne a Pratovecchio si sia innamorato con la stessa intensità con la quale si era innamorato o si innamorava da giovane (e, forse, potremmo anche pensare a una ricaduta in quella malattia di tipo epilettico alla quale anche nella canzone giovanile alludevano sintomi come lo svenimento improvviso seguito da un lento riaffiorare della coscienza). Dallo schermo amoroso, tuttavia, traspare anche altro, una sorta di disillusa rassegnazione: Dante è consapevole che è impossibile vincere la resistenza dei Neri. Forse non è una rinuncia, perché egli coltiverà sempre la speranza di poter rientrare in patria, ma di sicuro è la presa d’atto che la sua condizione non è in quel momento reversibile. Anche perciò è probabile che la canzone risalga al 1307 inoltrato, quando ormai appare chiara la debolezza politica di Corso Donati.

Sotto l’ombrello dei Malaspina

Come nel canto VIII del Purgatorio Corrado II Malaspina preconizzava a Dante che entro sette anni dal loro incontro (marzo 1300) avrebbe sperimentato di persona quanto fosse fondata la fama che circondava la sua famiglia, così nel XXIV il rimatore lucchese Bonagiunta Orbicciani, dopo aver sussurrato un nome femminile, Gentucca, rivela a Dante che la donna così chiamata, ancora fanciulla nel 1300 («non porta ancor benda»), gli «farà piacere»57 la sua città. Dante, dunque, ha soggiornato a Lucca.

Di uomini e fatti lucchesi, del resto, è molto informato. Una saga lucchese, tutta in negativo, è il canto dei barattieri immersi nella pece di Malebolge (XXI); in gran parte lucchese è quello degli adulatori immersi nello sterco (XVIII). Entrambi questi canti infernali grondano disprezzo nei confronti della città, sia essa rappresentata da cavalieri «bianchi» come Alessio degli Interminelli o da popolari «neri» come Bonturo Dati. Più che l’atteggiamento sprezzante, ovviamente dettato da motivazioni politiche, interessa che Dante mostri di possedere informazioni di prima mano. L’Interminelli può averlo conosciuto a Firenze alla fine degli anni Novanta, ma il Bonturo Dati oggetto di una sarcastica sferzata su Lucca (dove «ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo»58) è conoscenza fatta in quella città, di cui Bonturo, legato ai Neri fiorentini e ancora vivo quando Dante scrive (morirà nel 1325), sarà arbitro fino al 1314. E solo a Lucca può avere raccolto informazioni così precise e dettagliate sulla morte di Martino Bottaio da poter costruirvi uno dei più straordinari meccanismi narrativi del poema.

Nella bolgia dei barattieri Virgilio invita Dante a prestare attenzione a qualcosa che sta succedendo, e allora Dante si volta e vede un «diavol nero» che porta sulle spalle un «peccatore» appena giunto all’Inferno. È un alto magistrato del Comune di Lucca, di cui è taciuto il nome. Ma gli esperti di cose lucchesi, una volta informati da Dante stesso che gli eventi a cui ha assistito nella bolgia si sono svolti il sabato santo, cinque ore prima di mezzogiorno, lo possono identificare con Martino Bottaio (che fu, scrive Francesco da Buti, «gran cittadino in Lucca al tempo suo, e concorse con Bonturo Dati e con altri uomini di bassa mano, che reggevano allora Lucca»), morto per l’appunto il 26 marzo 1300. Dante personaggio ha la visione dell’arrivo all’Inferno della sua anima in tempo reale, in diretta, diremmo oggi.

Del resto, solo un profondo conoscitore della società lucchese poteva escogitare che i nomi dei demoni, a cominciare da quello collettivo di Malebranche, corrispondessero a quelli di famiglie locali o a soprannomi circolanti in città.

Eppure, se c’era una città nella quale uno sbandito «bianco» non avrebbe mai dovuto mettere piede, questa era proprio Lucca, la più fedele e attiva alleata dei Neri di Firenze. Se Dante vi soggiorna, e a quanto pare anche a lungo, è perché qualcuno dotato di potere e prestigio ha garantito per lui. Il garante non può essere stato che Moroello, la cui parola doveva contare molto in una città di cui aveva comandato le truppe nella guerra contro Pistoia del 1302 e nella quale recentemente, nel 1306, aveva svolto l’incarico di capitano del popolo. Ed è pure probabile che sia stato lo stesso Moroello a trovare a Dante un impiego, magari proprio presso la misteriosa Gentucca di cui parla Bonagiunta. Tutto ciò deve essere avvenuto nel 1308, dopo il soggiorno nel Casentino.

Chi è Gentucca? Le ricerche sono state infruttuose. Il canto purgatoriale, con l’atmosfera misteriosa e vagamente erotica che lo circonda, può dare adito a equivoci. È improprio chiedersi se Dante stia ringraziando per una ospitalità ricevuta o adombri una storia privata, intima, in un canto nel quale, per di più, si parla di poesia d’amore. Il segreto di Gentucca è racchiuso quasi certamente nei rapporti che legavano la sua famiglia ai Malaspina e, salvo nuove scoperte archivistiche, non è dissolvibile.

Altrettanto misteriosa resta la menzione, come testimone, di un Giovanni figlio di Dante Alighieri da Firenze contenuta in un atto notarile redatto a Lucca il 21 ottobre 1308. Certo, la data collima con quella del soggiorno di Dante, e potremmo anche pensare, allora, che questo Giovanni sia il figlio primogenito, costretto a lasciare Firenze perché aveva compiuto i fatidici quattordici anni, e perciò congiuntosi con il padre. Che di lui non si abbiano notizie prima di questa data non è dirimente; desta invece non pochi sospetti il fatto che non se ne abbiano dopo. Siccome il suo nome non è compreso tra gli esclusi dall’amnistia del 1311, dobbiamo necessariamente pensare che egli o sia morto in giovane età prima di quella data o sia figlio di un omonimo. Tuttavia, che nello stesso torno di anni potessero circolare in Toscana due Dante Alighieri da Firenze aventi ciascuno un figlio di nome Giovanni appare una coincidenza davvero un po’ troppo straordinaria: la possibilità, dunque, che si tratti del primogenito del nostro Dante sembra essere l’ipotesi più economica. Il fatto che Giovanni viva a Lucca con il padre non implica di per sé che tutta la famiglia si sia ricongiunta in quella città. Se Gemma era effettivamente riuscita a rientrare a Firenze, è difficile credere che se ne fosse allontanata solo un paio d’anni dopo.

Il crollo delle speranze

Da Lucca Dante assiste al progressivo indebolirsi dell’influenza politica di Corso e alla sua definitiva rovina. Nel primo semestre del 1308 il Donati aveva lasciato Firenze per andare a ricoprire la carica di podestà a Treviso, signoria del suo amico Rizzardo da Camino. L’incarico era prestigioso, ma se Corso aveva avvertito il bisogno di allontanarsi dalla città era segno che non si sentiva più tanto forte.

E infatti al suo rientro la situazione in breve tempo precipita. Corso cade vittima di una provocazione ordita da due dei suoi più acerrimi nemici, Pazzino dei Pazzi e Betto Brunelleschi. Questi lo fecero arrestare con l’accusa di essere loro debitore; Corso fu presto liberato, ma ne nacque una lite che ben presto degenerò in scontri tra i suoi fautori e quelli dei Della Tosa. Corso chiese l’aiuto militare dei suoi sostenitori esterni, e in particolare di Uguccione della Faggiola, che si trovava ad Arezzo. I nemici allora giocarono d’anticipo e il 6 ottobre, ottenuta una sentenza che lo accusava di tradimento per i suoi legami con i Ghibellini, assalirono le torri nelle quali si era asserragliato. Con un inganno convinsero Uguccione, ormai prossimo a Firenze, a ritornare indietro; vistosi perduto, Corso tentò la fuga, ma, inseguito, venne raggiunto e fatto prigioniero poco fuori le mura. Mentre veniva ricondotto in città, si lasciò cadere dal cavallo, che lo trascinò a lungo, finché un colpo di lancia non mise fine alla sua vita. Dante ne descrive lo strazio, per bocca del fratello Forese, con toni shakespeariani:

«Or va», diss’ el; «che quei che più n’ha colpa,

vegg’ ïo a coda d’una bestia tratto

inver’ la valle ove mai non si scolpa.

La bestia ad ogne passo va più ratto,

crescendo sempre, fin ch’ella il percuote,

e lascia il corpo vilmente disfatto».59

Nella versione di Dante, Corso, rimasto impigliato in una staffa, è trascinato dal cavallo imbizzarrito in una corsa verso l’Inferno. Siamo nello stesso canto del Purgatorio nel quale Bonagiunta parla di Gentucca: solo a questa altezza del poema Dante abbandona la sua reticenza e indica a chiare lettere Corso come «quei che più … ha colpa» del fatto che il suo luogo natale «di giorno in giorno più di ben si spolpa, / e a trista ruina par disposto».60 Dante doveva essere convinto da molto tempo che Corso fosse il maggiore responsabile della guerra civile fiorentina, ma non poteva denunciare per iscritto le colpe di colui dal quale si aspettava un aiuto concreto per ritornare in patria.

Con la morte del Donati l’aspettativa di ottenere una amnistia personale tramonta definitivamente. Pochi mesi dopo tramonta definitivamente anche l’aspettativa dei fuorusciti «bianchi» di essere riammessi a Firenze a seguito dell’azione del legato papale.

Napoleone Orsini, cacciato da Bologna, si era trasferito a Imola, ma anche da qui, però, si era dovuto allontanare per stabilirsi nel Casentino – a Romena, presso l’Aghinolfo che era stato capitano dei Bianchi – e ad Arezzo. Intorno a lui si era raccolto un vasto arco di forze che andava dai Bianchi fuorusciti alle famiglie ghibelline del Mugello (gli Ubaldini) e ai Ghibellini di Arezzo; si diceva che anche Corso Donati fosse in relazioni con lui. Di fatto l’Orsini aveva messo in piedi una spedizione militare che minacciava la stessa Firenze. Numerosi furono gli scontri tra i fiorentini e gli alleati del legato. Ma fu una spedizione male condotta, che non solo subì rovesci sul campo, ma che nemmeno seppe approfittare dell’occasione, che pure le si era presentata, di portare un attacco decisivo a Firenze. Ai primi del 1309, dopo aver creato senza risultati tangibili molto scompiglio tra il Mugello e il Valdarno superiore, il cardinale fu rimosso dal suo incarico.

Dante aveva scelto la strada della soluzione personale, e perciò le mosse belliche e diplomatiche del legato non lo avevano coinvolto direttamente. Lui non avrebbe potuto presentarsi nella Romena in cui l’Orsini aveva fissato il suo quartier generale e, ancor meno, rivolgersi ai feudatari ghibellini che aveva pubblicamente ripudiato. Ma nei castelli dei Faggiolani aveva saputo dei contatti tra Corso e il cardinale. Anche per lui, dunque, il fallimento del legato rappresentava un colpo durissimo. Doveva aver avuto la netta sensazione che una fase della sua vita si fosse chiusa.

Di lì a poco si sarebbe forzatamente chiuso anche il suo soggiorno a Lucca.

Parigi o Avignone?

Il 31 marzo 1309 un editto del Comune di Lucca impone ai rifugiati fiorentini di lasciare la città e il distretto. Nemmeno l’autorità di Moroello può esentare Dante dall’obbligo. Con lui il destino è implacabile: ogni volta che trova una sistemazione confortevole e propizia agli studi (Lucca non era sprovvista di biblioteche) è costretto a fuggire per ragioni politiche indipendenti dalla sua volontà. Il bando da Lucca, comunque, è meno drammatico di quello subito a Bologna tre anni prima: lì vicino ci sono i castelli dei Malaspina e la loro «cortese» benevolenza non è venuta meno. Sono i progetti di Dante, però, a essere cambiati. Crollata la prospettiva di poter rientrare a Firenze, non sembra più interessato a trascorrere la sua vita tra le famiglie feudali dell’Appennino, lunigianese o casentinese che sia. Il ricordo della gratificante esperienza bolognese deve rendere più acuta la sensazione di modestia prodotta dalla vita intellettuale di quelle piccole corti di provincia, che egli pure si sforza di idealizzare. Sente il bisogno di orizzonti più ampi, di ambienti più ricchi di stimoli e di opportunità.

I biografi antichi sono quasi tutti concordi nell’affermare che Dante ha frequentato lo Studio di Parigi. L’affermazione, tuttavia, non è suffragata da indizio alcuno, se non un cenno della Commedia al «Vico de li Strami»,61 cioè alla rue du Fouarre nella quale aveva sede la Facoltà delle Arti. In realtà è assai dubbio che Dante abbia seguito le lezioni dei maestri parigini; giustamente uno studioso moderno si chiede perplesso: «un uomo di quaranta anni suonati tra i ragazzini (tra i quattordici e i venti anni) della Facoltà delle Arti? Un uomo sposato tra i chierici e i religiosi della Facoltà di Teologia?». Ma se non era per l’università, per quale altro motivo si sarebbe spinto fino a Parigi? Non sarà che il Dante seduto tra i filosofi e i teologi parigini è solo una leggenda nata tra i suoi ammiratori per rafforzarne l’immagine di sapiente fuori dal comune? A quell’epoca, per un filosofo degno di questo nome un tocco parigino era indispensabile.

Il nucleo di verità sotteso a questa probabile leggenda potrebbe essere un viaggio in Francia da Dante effettivamente compiuto. Nessun documento ci assiste, ma nel Purgatorio sono presenti tracce di un itinerario che dalla Lunigiana si snoda attraverso la Liguria fino alla Provenza. Il cammino, montuoso e accidentato, parte da Lerici, all’estremità orientale della Liguria (e fino a pochissimo tempo prima ancora possedimento malaspiniano), e arriva a Turbia (La Turbie), all’estremità occidentale, nelle vicinanze di Nizza: rispetto all’erta del monte del Purgatorio, scrive Dante, «Tra Lerice e Turbìa la più diserta, / la più rotta ruina è una scala, / verso di quella, agevole e aperta».62 Tra i due punti la strada attraversa il torrente Lavagna, che scende al mare tra Sestri e Chiavari («Intra Sïestri e Chiavari s’adima / una fiumana bella»63), e poi corre in altura fino a sovrastare la cittadina di Noli, a ovest di Savona, per raggiungere la quale era necessario scendere un ripido pendio («Vassi in Sanleo e discendesi in Noli … con esso i piè»64). L’itinerario è esattamente quello dell’antica strada romana che portava in Provenza. Insomma, sembra proprio che nei canti del Purgatorio si siano depositate le tracce di un lungo e faticoso viaggio via terra. L’unico periodo nel quale, per unanime consenso, Dante può essersi trasferito in Francia è quello tra il 1309 e il 1310, cioè dopo che ebbe abbandonato Lucca. La circostanza che i canti del poema nei quali sono sparsi i segnali geografici sopra indicati siano stati composti proprio in quel biennio rafforza l’ipotesi.

Le tracce, però, vengono meno proprio ai confini con la Provenza. Esili indizi di una conoscenza della regione provenzale sono reperibili nel Paradiso. Tuttavia quello più corposo e pertinente, perché sembrerebbe presupporre una visione in loco, si trova nell’Inferno ed è costituito dalla succinta descrizione della necropoli degli Alyscamps di Arles, alla quale Dante nel cerchio degli eretici paragona la distesa di avelli scoperchiati: «Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, / sì com’ a Pola, presso del Carnaro, / ch’Italia chiude e suoi termini bagna, / fanno i sepulcri tutt’ il loco varo».65 A parte il fatto che è assai dubbio che Dante abbia mai visto Pola in Istria, ammettere che qui scatti il ricordo di una visita alla città provenzale urta contro ostacoli cronologici difficilmente superabili: la composizione dei canti che raccontano l’ingresso nella città di Dite, infatti, con un alto grado di probabilità dovrebbe essere anteriore alla data del viaggio in Francia. Pertanto, o Dante qui fa sfoggio di conoscenze libresche o i canti in questione sono stati sottoposti a una successiva riscrittura, anche solo parziale. Un’ipotesi, quest’ultima, possibile, ma assai gravosa. In ogni caso, la Commedia non registra impressioni o ricordi del percorso che avrebbe portato Dante dalla Provenza a Parigi.

Nel 1309 Dante lascia i Malaspina e parte per la Francia. Se mancano indicazioni che si sia spinto fino a Parigi, la meta del viaggio non avrebbe potuto essere Avignone?

In quegli anni Avignone, dove, dal marzo 1309, Clemente V si era stabilito definitivamente (si ricordi che la Provenza era dominio degli Angioini di Napoli e non del re di Francia), si avviava a diventare la nuova capitale culturale d’Europa. Cominciava ad attirare intellettuali e persone che cercavano opportunità professionali. Molto sensibili al richiamo della città del papa erano gli esuli «bianchi» di Firenze, che nella curia potevano contare sulla simpatia dei due cardinali più potenti, Niccolò da Prato e Napoleone Orsini. Anche per un Dante in cerca di un ambiente nel quale far valere le proprie doti intellettuali e la propria ragguardevole cultura, e al quale era preclusa Bologna, Avignone con le sue corti cardinalizie avrebbe rappresentato la soluzione più confacente. In quegli ambienti non ci sarebbero state preclusioni politiche nei suoi confronti: tutt’al più, lui era noto per le sue prese di posizione contro Bonifacio VIII, ma la curia di Clemente era filofrancese e antibonifaciana. Il problema, semmai, sarebbe stato quello delle entrature.

Dante aveva sicuramente stretto rapporti con il domenicano Lapo da Prato, inviato in missione, nell’aprile 1304, da Niccolò da Prato presso i vertici dell’Università dei Bianchi, ma non risulta che abbia mai incontrato di persona il cardinale; è possibile che a Bologna abbia avuto qualche contatto con Napoleone Orsini all’inizio della sua legazione, ma se mai ci furono, furono contatti fugaci. Insomma, anche se non mancavano conoscenti capaci di fare da mediatori, sembra proprio che nessuno dei principali canali che avrebbero potuto agevolare l’inserimento di un fuoruscito «bianco» nella società avignonese fosse alla sua portata.

Dalla sua, però, Dante aveva sempre i Malaspina. Mentre avrebbero potuto fare ben poco nell’eventualità di un suo soggiorno a Parigi, i Malaspina sarebbero stati in grado di intervenire a suo favore se si fosse recato ad Avignone. Uno dei cardinali più influenti nella curia, Luca Fieschi (nipote di Ottobono Fieschi dei conti di Lavagna, che fu papa nel 1276 con il nome di Adriano V), era fratello, infatti, di Alagia, la moglie di Moroello. I rapporti tra i clan Fieschi e Malaspina, essendo i loro territori confinanti, non erano esenti da tensioni, ma i legami tra Moroello e la famiglia della moglie si mantennero sempre stretti, improntati al rispetto e alla collaborazione. Che Alagia e il marito possano aver chiesto al potente congiunto di adoperarsi per il loro protetto non desterebbe, dunque, alcuna meraviglia.

Tuttavia è inutile chiedersi se Dante abbia ottenuto qualcosa. La sua stessa presenza ad Avignone resta una mera ipotesi. La sola cosa probabile, anche se non provata, è che egli, nella primavera del 1309 o poco dopo, abbia lasciato l’Italia per la Francia o la Provenza.

Un nuovo re di Germania

Dante è ancora a Lucca quando in Europa succedono cose alle quali, sul momento, egli non sembra dare grande importanza, ma che sono destinate a imprimere alla sua vita una svolta radicale quasi quanto quella subita con il bando del 1302.

Il 1° maggio 1308 il re dei Romani (titolo spettante agli imperatori non incoronati) Alberto I d’Asburgo è assassinato da un nipote. Il 27 novembre, a Francoforte sul Meno, Enrico di Lussemburgo, forte dell’appoggio di uno dei sette grandi elettori, il fratello Balduino arcivescovo di Treviri e, forse, del segreto sostegno del papa, ancora una volta consigliato da Niccolò da Prato, viene eletto re di Germania. Sarà incoronato ad Aquisgrana all’inizio dell’anno successivo. Enrico, di lingua e cultura francese, era vassallo del re di Francia Filippo il Bello. A fare notizia non fu l’elezione di un nuovo re di Germania, ma il fatto che essa fosse avvenuta contro il volere del re francese. Questi, infatti, aveva candidato al trono suo fratello Carlo di Valois, quello stesso che abbiamo visto in azione a Firenze in veste di paciere.

La reazione di Dante sembra alquanto tiepida. Nel canto VI del Purgatorio, contenente la celebre apostrofe: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!»,66 l’Italia è paragonata a un cavallo; ma come la nave è senza nocchiero, così il cavallo è senza cavaliere: «la sella è vòta».67 Il cavaliere che dovrebbe «seder … in la sella» è «Cesare»,68 l’imperatore. Quando scrive questi versi, dunque, Dante è ancora persuaso che la sede imperiale sia vacante: evidentemente non sa che il neoeletto Enrico si propone di scendere in Italia per cingere la corona imperiale, proposito che sarà ufficializzato solo nell’estate del 1309. Sa comunque che un re di Germania è stato eletto: nell’apostrofe, infatti, si rivolge al vivente (nel 1300) Alberto d’Asburgo minacciando sopra il suo sangue il «giusto giudicio» del Cielo come punizione per aver abbandonato l’Italia, per non aver inforcato gli arcioni di quel cavallo indomito e selvaggio che essa è diventata. La punizione sarà tale da incutere paura al suo successore: «tal che ’l tuo successor temenza n’aggia».69 Una minaccia, questa, scritta dopo che l’uccisione dell’Asburgo (preceduta l’anno prima dalla morte del figlio Rodolfo) era intervenuta a dare corpo alla profezia e dopo che Enrico era stato eletto nuovo re di Germania.

Insomma, fra il 1308 e i primi mesi del 1309 l’elezione di un re di Germania non basta perché Dante ritenga che la vacanza dell’impero, che perdurava dalla fine degli Hohenstaufen, sia finalmente terminata. Dalla morte di Federico II (1250) ben tre eletti (Rodolfo d’Asburgo, nel 1273; Adolfo di Nassau, nel 1291; Alberto d’Asburgo, nel 1298) avevano ottenuto il titolo di re dei Romani senza conseguire poi l’incoronazione imperiale; niente lasciava credere che il debole conte di Lussemburgo sarebbe riuscito là dove avevano fallito tutti i suoi predecessori. Da qui il distacco, quasi il disincanto di Dante. Sentimenti, peraltro, che egli non era il solo a provare. È significativo che quando, circa un anno dopo, si spargerà la notizia che il neoeletto sarebbe effettivamente sceso in Italia, la cosa susciti addirittura stupore presso l’opinione pubblica della penisola, impreparata a un evento che non si era più verificato a memoria d’uomo.

La scrittura dell’attualità: la «Commedia»

Per l’uomo Dante gli anni del «pentimento» sono una parentesi ben presto chiusa e dimenticata. La velocità con la quale, infrantasi la speranza di ottenere il perdono dai Neri, egli ritorna a posizioni politiche e ideologiche simili a quelle espresse, fra il 1304 e il 1306, nel Convivio e nel De vulgari eloquentia suggerisce che in quel preteso pentimento, nonostante le sue proteste di sincerità, ci fosse una forte componente strumentale. Per il poeta Dante, al contrario, gli anni del pentimento segnano un passaggio irreversibile. Il tentativo di fare breccia nei cuori dei suoi nemici lo induce a riprendere il poema cominciato prima dell’esilio e poi lasciato in sospeso: quell’«incompiuta», infatti, proprio perché concepita da un Guelfo fiorentino non sfiorato da dubbi ideologici e politici, adesso può essere il piedistallo sul quale costruire un autoritratto di guelfo leale da offrire come garanzia della sua fedeltà ai valori di Firenze. Sia chiaro, la Commedia che noi conosciamo può essere lo sviluppo di un progetto passato, ma in realtà nasce nell’esilio, e con intendimenti diversi da quelli a cui quel progetto mirava. Tra questi forse il più determinante è la volontà di Dante di allontanare da sé la taccia di traditore. Che egli concepisca un tale capolavoro sotto lo stimolo di esigenze contingenti e perseguendo pure obiettivi pratici, dice molto sulla sua forma mentis e su quanto stretto sia il rapporto della sua creatività con il vissuto. Ma dice anche quanto dolorosa gli fosse la condizione di esule e come il desiderio di porvi fine, da cui era nato quel pentimento forse insincero, fosse in lui incoercibile. Se in alcune sue linee generali, ivi compresa l’impostazione visionaria, la Commedia può essere stata concepita prima dell’esilio, senza il trauma dell’esilio non sarebbe il poema che è.

Il legame tra la Commedia e l’aspirazione di Dante a ritornare in patria vale per l’Inferno, ma non per le due cantiche successive. Già nel Purgatorio sono altri i suoi riferimenti politici e ideali. Ciò non stupisce. Il poema, impregnato di autobiografismo più di ogni altra opera dantesca, registra fedelmente i mutamenti di schieramento e, soprattutto, il continuo variare delle attese del suo autore. Benché dia la sensazione di essere un organismo strutturato in modo ferreo, e perciò pensato e progettato in un solo momento, in realtà esso si è sviluppato giorno per giorno, con incessanti cambiamenti di rotta. Da questo punto di vista è l’opera di Dante che più e meglio esprime la sua esigenza di parlare di sé, di ciò che ha fatto, detto, vissuto, delle sue prese di posizioni politiche, dei suoi ideali e della sua mutevole visione del mondo. La Commedia, dunque, è un poema bifronte: parla dei destini dell’umanità in una prospettiva escatologica e, nello stesso tempo, compie una lettura puntuale e insistita della più stretta attualità. È un’opera di finzione, ma in età medievale non esistono altre opere di finzione che registrino in modo così sistematico, tempestivo e quasi puntiglioso fatti della storia, della cronaca politica, della vita intellettuale e sociale contemporanei. E, per di più, senza temere di addentrarsi in retroscena noti solo per sentito dire o in quello che oggi chiameremmo gossip politico e di costume. Per molti aspetti, assomiglia agli odierni instant-book. I lettori di allora potevano riconoscervi eventi accaduti da pochissimo tempo e il profilo di molti personaggi scomparsi di recente o, addirittura, ancora in piena attività. Ebbene, nel corso della stesura Dante ha cambiato molto spesso le sue idee, è passato da uno schieramento politico a un altro, da un protettore a un altro, magari nemico del precedente. I percorsi biografici, le oscillazioni, le contraddizioni dell’autore sono tutti registrati nel libro, il quale si presenta, contemporaneamente, come lettura profetica della storia dell’umanità e come autobiografia. Ma è un’autobiografia assai particolare, dal momento che iscrive le azioni e i pensieri del protagonista nel destino di un uomo dotato del dono eccezionale della profezia.

La Commedia è un libro scritto pensando ai posteri, ma indirizzato a un pubblico vicino all’autore al momento della scrittura. Un pubblico che cambia nel tempo a seconda che Dante cambi il luogo di residenza, lo schieramento politico in cui milita, gli ideali a cui tende. Resta inalterato, però, il modo in cui, nel rappresentare la realtà extraletteraria, Dante connette la scrittura all’attualità. Questa penetra nel testo per ammicchi, allusioni, segnali criptici, messaggi sottintesi: Dante, infatti, è consapevole di stare scrivendo per un pubblico diverso nel tempo ma sempre informato, quindi capace di decodificare i messaggi nascosti e di capire le allusioni al presente. È bene insistere sul fatto che i cenni e le allusioni sparsi nel poema si riferiscono a fatti recenti, a volte recentissimi: molti possono essere compresi con facilità solo nell’immediatezza degli eventi (e infatti i loro riferimenti storici si sono in gran parte persi con il passare del tempo). Dante, certo, non poteva prevedere che la composizione di questo libro lo avrebbe impegnato per tutta la vita e che il Paradiso sarebbe stato pubblicato solo dopo la sua morte, ma sicuramente immaginava che gli sarebbero occorsi parecchi anni per completarlo. E allora perché tanta cura di «stare sulla notizia» pur sapendo che il testo sarebbe circolato quando quella notizia non sarebbe stata più tanto significativa? È ragionevole ipotizzare che egli non licenziasse singoli canti o gruppetti di canti consentendone copia, ma che durante i lunghi anni di lavoro ne desse lettura a un pubblico ristretto e interessato. Si comprenderebbe meglio, allora, perché affidasse a molti passi del libro messaggi politici che acquistavano valore proprio dall’essere emessi a caldo, a ridosso degli eventi.

L’«Inferno» guelfo

È possibile che durante il soggiorno in Lunigiana Dante abbia effettivamente recuperato, come racconta Boccaccio, materiali rimasti a Firenze e che ciò lo abbia stimolato a riprendere il lavoro intorno al poema interrotto. Nell’epistola con la quale dal Casentino, nel 1307, accompagna l’invio a Moroello Malaspina della canzone «montanina» confessa al marchese che il nuovo travolgente amore che lo ha improvvisamente catturato «empiamente bandì, quasi fossero sospette, le assidue meditazioni con le quali consideravo le cose terrestri e quelle celesti».70 «Tam celestia quam terrestria»: il sintagma consuona talmente con la definizione che molti anni dopo Dante darà della Commedia come «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra»,71 da rendere plausibile che stia parlando della stessa opera. Opera a cui attendeva quando l’amore lo avvinse. La ripresa dell’Inferno, dunque, sembra proprio avvenuta in Lunigiana, forse nella seconda metà del 1306. La sua composizione, salvo interventi locali, correzioni e riscritture anche estese apportati in seguito, si deve ritenere conclusa, per indizi interni, alla fine del 1308 o ai primi del 1309, nell’ultimo periodo del soggiorno a Lucca (Dante, comunque, attese ancora alcuni anni a pubblicare la cantica, probabilmente fino alla seconda metà del 1314). La scrittura del Purgatorio seguì a ruota, e si protrasse per parecchi anni: la pubblicazione, infatti, avverrà solo tra la fine del 1315 e la prima metà del 1316.

Sappiamo che nei quasi tre anni vissuti fra Lunigiana, Casentino e Lucca Dante cerca di entrare in sintonia con i Neri, in particolare con la fazione di Corso e con i suoi alleati esterni, nel tentativo di stornare da sé la taccia di ghibellino e di accreditarsi, al contrario, come guelfo verace. Riscontrare come l’Inferno nella sua interezza delinei un ritratto dell’autore perfettamente congruente con quello che Dante intendeva offrire ai suoi avversari politici chiarisce quale sia stata la molla reale che lo aveva spinto a riprendere in mano il poema interrotto. Ignoriamo come egli abbia proceduto nel rifacimento del già scritto: qualcosa, comunque, sembra aver conservato se l’impostazione di fondo di quel poema, o abbozzo di poema, ancora traspare nella redazione definitiva dei primi canti. Siccome vi intesseva un discorso etico-politico rivolto ai concittadini, adesso quell’impostazione poteva essere il punto di partenza per un poema nel quale un guelfo sbandito ribadisse la sua fedeltà agli ideali fiorentini e il suo sentirsi, benché cacciato, ancora membro della comunità. Come è stato scritto, un Inferno «guelfo», ma con una importante precisazione: guelfo in senso politico. Dante aveva già scritto Convivio e De vulgari, aveva già maturato convinzioni ideologiche filoimperiali e, in ogni caso, assai diverse da quelle del partito della Chiesa. Nella prima cantica non le sostiene, ma neppure le smentisce; limita il suo discorso, tatticamente, al puro piano dello schieramento politico. E non rinnega neppure – come non fa, del resto, nemmeno nei testi nei quali confessa la sua colpa e chiede perdono – la sua appartenenza alla parte «bianca»: afferma con forza, invece, il suo essere erede convinto della tradizione guelfa con la quale da decenni si identificava, al di là delle divisioni interne, la comunità fiorentina.

Due figure esemplari della storia fiorentina

Il canto dell’Inferno nel quale, tra gli eretici, Dante incontra Farinata degli Uberti, la figura simbolo del ghibellinismo fiorentino, deve essere stato uno dei primi composti alla ripresa del lavoro. Tra Dante e il grande Ghibellino si sviluppa un dialogo teso, a botta e risposta, un vero scontro politico. Il messaggio sotteso è trasparente: Dante autore proclama a protettori e nemici che lui si è definitivamente staccato dalle pericolose frequentazioni del recente passato (si ricorderà che aveva combattuto contro Firenze fianco a fianco con Lapo degli Uberti, nipote di Farinata). Anche Cavalcante, che sconta la pena nella stessa arca infuocata di Farinata, era stato un famoso capo di parte, ma di parte guelfa. Dante sembra assumere un atteggiamento equanime appaiando un Guelfo e un Ghibellino, ma è un’equanimità solo apparente. Cavalcante era guelfo, sì, ma guelfo «bianco», della stessa fazione di Dante. Che i due antichi avversari siano congiunti nella pena diventa allora figura della condanna etica e politica dei loro discendenti, alleatisi per combattere Firenze. Più che dai Bianchi, tuttavia, Dante doveva prendere le distanze dai Ghibellini. Ecco allora che tra gli eretici sono dannati, e per di più senza una sola parola di commento, il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, un campione del ghibellinismo toscano, e l’imperatore Federico II di Svevia («qua dentro è ’l secondo Federico / e ’l Cardinale»72), che dei Ghibellini era il massimo punto di riferimento. Perché, adesso, questi due grandi ghibellini si trovino entrambi all’Inferno è facilmente comprensibile se si considera che solo poco tempo prima, nel Convivio, Federico II era stato trattato con molto rispetto per la persona e con reverenza nei confronti della carica, e che nel De vulgari era stato addirittura oggetto, insieme al figlio Manfredi, di un appassionato e altisonante elogio.

Nel canto XV, composto a poca distanza di tempo da quello di Farinata, compare un altro dei personaggi più illustri della storia fiorentina, Brunetto Latini. Se Farinata è il ghibellino per antonomasia, Brunetto è l’intellettuale più rappresentativo del guelfismo fiorentino. Lui pure, dunque, è un simbolo. Nella Commedia, e nella storia politico-intellettuale di Dante, questo di Brunetto, in realtà, è un ritorno.

Negli anni Novanta del Duecento, all’epoca delle canzoni etico-civili, il Latini rappresentava per Dante il modello del saggio che mette a disposizione della città il suo sapere e la sua esperienza del mondo per accrescerne il tenore morale e intellettuale. Modello ancora ben presente al Dante che, in Firenze, abbozza i primi canti del poema che sarebbe diventato la Commedia. L’incipit celeberrimo («Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita»73) allude infatti in modo scoperto all’inizio del Tesoretto, dove il Latini racconta come, sulla via del ritorno dall’ambasceria condotta per conto del Comune presso Alfonso X di Castiglia, informato da uno studente «che venia da Bologna» della sconfitta dei Guelfi fiorentini a Montaperti e della loro cacciata dalla città, per il dolore aveva perso l’orientamento e, abbandonata la via maestra, si era trovato, senza accorgersene, in una selva orribile. L’allusione dantesca, lasciando intravedere dietro a uno smarrimento etico-esistenziale una realtà di grave disordine politico, va ben oltre il semplice omaggio letterario: in effetti, collocare l’inizio del poema all’ombra del più illustre intellettuale guelfo di Firenze non è un gesto neutrale, sembra piuttosto il modo di autoproclamarsene erede.

Ciò accadeva all’inizio del secolo, ma passano pochi anni e Dante sembra averlo dimenticato. Di Brunetto non c’è traccia nel Convivio; il De vulgari eloquentia lo nomina addirittura tra i toscani che, nella loro demenza, pretendono di arrogarsi il titolo del volgare «illustre», mentre scrivono solo versi municipali. Una intemerata dal tono sferzante. Adesso, alla ripresa del poema, l’atteggiamento si rovescia ancora. Brunetto diventa una delle figure centrali a sostegno della rivendicazione dantesca di appartenere a quella tradizione politico-culturale impersonata proprio dall’antico maestro. Nel canto infernale Dante ne enfatizza il ruolo magistrale («Lo mio maestro»74) con espressioni altisonanti («m’insegnavate come l’uom s’etterna»75). Alle lodi del maestro accompagna la reiterata esibizione del rapporto filiale da cui si sente a lui legato: «O figliuol mio…», «O figliuol…», «la cara e buona imagine paterna».76 Dirsi figlio di Brunetto significa dichiararsene erede, indicare sé stesso, per quanto cittadino sbandito, come il vero interprete dei valori della tradizione guelfa comunale. Brunetto giudica un onore l’esilio inflitto all’allievo per «ben far», e con ciò gli rilascia una patente di cittadino integro e fedele ai principi della comunità fiorentina. Bianchi e Neri, gli dice ancora Brunetto, «avranno fame di te»,77 ti vorranno entrambi distruggere, a dimostrazione – ecco il pensiero sottinteso – che Dante non appartiene a nessuna fazione e che la sua rettitudine politica è propria di chi, come Brunetto, ha a cuore i destini della patria e non di una sua parte. Dante può indicare sé stesso come erede del Latini non benché sbandito, ma perché sbandito.

Una reticenza carica di significato

Dall’incontro con Farinata apprendiamo che Dante è un esule. Il Ghibellino, infatti, gli predice che lui pure, entro quattro anni dal loro incontro, apprenderà quanto «pesi» l’«arte» del «tornar», vale a dire quanto sia faticoso e penoso ciò che uno sbandito è costretto a fare per rientrare in patria. Le parole di Farinata inquadrano il periodo della vita di Dante in cui egli vanamente cerca il perdono. Farinata, però, nulla dice sul quando, sul perché e da chi Dante sarà esiliato. La cosa singolare è che in nessuno dei canti precedenti queste informazioni erano state date: Ciacco aveva predetto che entro tre anni la parte cerchiesca sarebbe caduta e che la parte donatesca vincitrice l’avrebbe oppressa per molto tempo, ma non aveva fatto cenno alcuno a un bando che avrebbe colpito lo stesso Dante. Dopo Farinata, anche Brunetto tacerà sul perché e sul quando della cacciata di Dante da Firenze, limitandosi ad accennare all’«ingrato popolo maligno» che, proprio a causa del suo «ben far», gli si «farà … nimico»,78 e si diffonderà invece sulle reazioni ostili di Bianchi e Neri al suo tradimento. Il fatto che nell’Inferno Dante autore non parli mai né dei modi né delle cause né delle responsabilità della sua condanna ha come conseguenza che il racconto mette in scena un personaggio al quale sono preannunciate le gravi difficoltà a cui andrà incontro nel tentativo di ritornare in patria senza che qualcuno gli abbia predetto che dalla patria sarebbe stato bandito. In effetti in tutta la Commedia, e non solo nell’Inferno, c’è una grande lacuna, un non detto carico di significato: Dante non produce alcuna analisi storico-politica degli anni decisivi che vanno dal priorato al bando. Brunetto accomuna nella colpa indistintamente tutto il «popolo» di Firenze, come se non fosse stata una «parte» precisa di quel popolo a espellerne un’altra; Cacciaguida nasconderà le specifiche responsabilità di uomini e partiti dietro una generica Firenze «noverca».79 Il perché di tanta reticenza è evidente: se avesse parlato di quegli eventi, Dante non avrebbe potuto esimersi dal denunciare le responsabilità di Corso Donati e della sua parte. Ma nel biennio durante il quale compone l’Inferno è proprio Corso, come si è detto, la persona da cui spera di avere l’appoggio decisivo per rientrare. E comunque, non era il caso che un fuoruscito in cerca d’amnistia si mettesse a rivangare le azioni dei Neri in quel frangente. Solo nel Purgatorio, per bocca del fratello Forese, il Donati sarà indicato come «quei che più … ha colpa» della rovina di Firenze; ma quando Dante scriverà quel canto, Corso sarà morto.

La prima versione del canto di Ciacco è anteriore al precipitare dello scontro politico fiorentino. Dobbiamo presumere, dunque, che i versi nei quali il goloso risponde alla richiesta di Dante di sapere «a che verranno / li cittadin de la città partita»,80 e cioè: «Dopo lunga tencione / verranno al sangue, e la parte selvaggia [i Cerchieschi o Bianchi] / caccerà l’altra [i Donateschi o Neri] con molta offensione. / Poi appresso convien che questa caggia / infra tre soli, e che l’altra sormonti»,81 siano stati scritti durante il lavoro di rifacimento della prima parte dell’Inferno, dopo il 1306. Di quei versi colpisce l’affermazione che i Bianchi cacceranno i Neri con «molta offensione», perché, come fa notare uno storico del Medioevo, quell’evento «non si verificò mai», e pertanto risulta «strano che, dopo aver accennato a una “cacciata”, che, collettiva così come viene prospettata, non ebbe mai luogo, Ciacco, e Dante per lui, presenti la rivincita dei perdenti di allora [i Neri] come se fosse consistita nella risalita di un piatto della bilancia, mentre l’altro era andato giù [“Poi appresso convien che questa caggia / … e che l’altra sormonti”], o in un giro della ruota della fortuna, senza alcun riferimento … alla “cacciata” dei Bianchi … che invece, in questo caso, ci fu per davvero». Ebbene, la ricostruzione degli eventi fatta da Ciacco-Dante risulta del tutto comprensibile se ammettiamo che quei versi siano stati scritti da un Dante che, cinque o sei anni dopo l’esilio, giudica gli accadimenti di allora con la prudenza di chi persegue l’obiettivo di ritornare in patria. È con questo spirito di (forzata) pacificazione che egli colloca sostanzialmente sullo stesso piano fatti che sapeva essere stati diversi tra loro e che presenta il colpo di Stato dei Neri come una naturale reazione alla pari violenza che sarebbe stata esercitata dai Bianchi.

Quasi una palinodia: i primi canti del «Purgatorio»

Dante comincia a scrivere il Purgatorio subito dopo l’Inferno, quindi tra il 1308 e il 1309, a Lucca. La continuità di scrittura dà un risalto ancora più forte alla discontinuità politica e ideologica della seconda cantica rispetto alla prima. Nell’Inferno, dell’impero e del suo ruolo universale non si parla o, meglio, se ne parla nel canto II per sostenere che esso era stato voluto da Dio in funzione del papato: «la quale [Roma] e ’l quale [impero], a voler dir lo vero, / fu stabilita per lo loco santo / u’ siede il successor del maggior Piero».82 Se questa formulazione, come sembra probabile, risale alla prima stesura fiorentina del canto, quei versi vanno considerati un residuo del pensiero rigorosamente guelfo del Dante di allora. Tuttavia, durante la composizione di Convivio e De vulgari eloquentia, prima cioè della ripresa della Commedia, egli aveva mutato notevolmente le sue idee intorno all’impero – che comincia a considerare necessario affinché gli uomini possano conseguire la felicità terrena – e aveva espresso giudizi lusinghieri proprio su quelli che la Chiesa considerava i suoi peggiori nemici. Ma di quest’atteggiamento filoimperiale l’Inferno scritto dopo il 1306 non serba tracce. Non che Dante abbia cambiato idea e sia regredito alle posizioni ideologiche anteriori all’esilio, ma, in un certo senso, si è censurato. Diciamo che, per ottenere l’amnistia personale, ha cercato di fornire un’immagine di sé politicamente corretta e, nello stesso tempo, ha ritenuto inopportuno manifestare le nuove convinzioni sul rapporto tra impero e papato che era andato maturando.

Nel Purgatorio, invece, e fin dai primi canti, l’ottica filoimperiale è evidente. È come se Dante, chiusa una parentesi, avesse riannodato il filo della riflessione avviata con i trattati.

Nel canto XVI un personaggio, di cui quasi nulla sappiamo, di nome Marco Lombardo espone la teoria dei due «soli»: un tempo l’impero romano era illuminato da due «soli», uno (l’imperatore) mostrava la strada «del mondo» e l’altro (il papa) quella di Dio, ma poi un sole, il papa, ha «spento» l’altro assommando su di sé il potere spirituale e quello temporale, e questo è ciò che il «mondo ha fatto reo».83 La crisi morale e politica in cui il mondo è precipitato ha una data di nascita: la guerra che il papato ha mosso all’imperatore Federico II. Spiega Marco Lombardo che «In sul paese ch’Adice e Po riga, / solea valore e cortesia trovarsi, / prima che Federigo avesse briga»:84 in altre parole, in Lombardia (ma il discorso vale per l’Italia intera) i valori cortesi erano ancora in auge prima che la Chiesa entrasse in contesa con l’imperatore svevo. Lo spartiacque è quanto mai significativo se si pensa che quell’imperatore, la cui sconfitta si è rivelata così esiziale per il bene pubblico, nella cantica precedente era stato relegato all’Inferno come eretico.

La prima metà del Purgatorio (compreso, forse, il canto di Marco Lombardo) è stata scritta in fretta, entro l’estate del 1310. Dunque, la brusca inversione di rotta non è dipesa dall’aspettativa innescata dalla discesa in Italia di Enrico VII, ma è precedente. In realtà, a riportare Dante alle posizioni ideologiche di due o tre anni prima sono stati eventi di portata storica assai più limitata: non la speranza di una palingenesi dell’umanità, ma la certezza, prodotta dalla morte di Corso e dal fallimento dell’Orsini, che la sua condizione personale non sarebbe cambiata. Crollate sia la possibilità di un’amnistia individuale sia la prospettiva di un rientro dell’intera parte «bianca», è come se Dante si sentisse libero di esprimere le sue reali convinzioni. Ed ecco che egli attacca la nuova cantica con un piglio quasi palinodico.

Nel decimo canto dell’Inferno, come si è detto, Federico II era stato messo tra le arche infuocate degli eretici in compagnia di Farinata, di Ottaviano degli Ubaldini e di Cavalcante Cavalcanti. Sappiamo perché Dante ha collocato il guelfo Cavalcanti accanto a quei suoi avversari politici, così come sappiamo perché ha steso sulla parte ghibellino-imperiale l’ombra inquietante dell’eresia. A partire dagli anni Cinquanta del Duecento, nella pratica politica dei legati e in quella giudiziaria degli inquisitori eresia e ghibellinismo avevano finito per coincidere. Dante, dunque, non faceva che adeguarsi ai luoghi comuni della propaganda antimperiale. Li accettava per marcare la sua distanza dalla parte ghibellina. Ebbene, proprio all’inizio del Purgatorio, nel canto III, compare il figlio naturale di Federico II, Manfredi, nemico della Chiesa quanto e più del padre e ultimo vero baluardo della causa imperiale. Sono evidenti la simpatia che circonda la sua persona: «biondo era e bello e di gentile aspetto»;85 il rispetto e l’ammirazione per la sua famiglia: «nepote di Costanza imperadrice»,86 cioè – come scriverà nel Paradiso – la «gran Costanza / che del secondo vento di Soave [Enrico VI di Svevia] / generò ’l terzo e l’ultima possanza [Federico II]»;87 la condanna del papa Clemente IV e del suo legato Bartolomeo Pignatelli, «pastor di Cosenza»,88 che a «lume spento», secondo il trattamento previsto per i morti scomunicati, aveva fatto esumare il corpo di Manfredi negandogli la sepoltura cristiana. Insomma, una rappresentazione siffatta denota una partecipazione anche emotiva alla causa imperiale che il Dante di soli pochi mesi prima non avrebbe esternato. Riappare adesso lo stesso Dante che nel 1304, nel De vulgari eloquentia, accomunava «Federico imperatore e il suo degno figlio Manfredi» definendoli «eroi luminosi», che «finché la fortuna lo permise perseguirono ciò che è umano, sdegnando ciò che è da bruti».89

Se Farinata era stato il capo carismatico dei Ghibellini di Firenze, dopo la rovina di Manfredi la figura di spicco del ghibellinismo italiano era stata quella di Guido da Montefeltro. Per un quarto di secolo, prima come vicario di Corradino di Svevia, poi come capo militare dei Ghibellini di Romagna e, infine, come capitano generale dei pisani contro i fiorentini, il Montefeltro aveva contrastato l’espansionismo guelfo-angioino. Risponde dunque a una precisa strategia politica la circostanza che, all’estremo opposto dell’Inferno, all’episodio di Farinata ne corrisponda uno incentrato sul Montefeltro, e che vi corrisponda con analogo segno negativo. Guido, che solo poco tempo prima nel Convivio era stato definito «lo nobilissimo nostro latino»,90 forse nel senso di «il più nobile degli italiani», adesso è ridotto a un fraudolento che per tutta la vita aveva operato non da leone, ma da volpe, e che, addirittura, pone le sue arti al servizio del suo nemico Bonifacio VIII. Il fatto poi che il famoso consiglio («lunga promessa con l’attender corto»91) da lui elargito al papa, che gli chiedeva come abbattere Palestrina, roccaforte dei suoi nemici Colonna, possa essere un’invenzione di Dante svela che questi voleva infamare uno dei maggiori nemici ghibellini di Firenze, colpendone deliberatamente l’onorabilità.

Il rovesciamento di giudizio, ma potremmo anche dire la restituzione dell’onore ai Montefeltro, passa anche questa volta, come già per Federico II, attraverso la figura di un figlio, il Buonconte che Dante incontra nel canto V del Purgatorio. Buonconte aveva combattuto a Campaldino tra le file ghibelline, trovandovi la morte, ma anche la salvezza eterna, proprio nello scontro decisivo per il guelfismo fiorentino. L’assoluzione che Dante gli concede è, ovviamente, anche un riconoscimento politico e si riverbera su altri personaggi non nominati nel poema e, soprattutto, viventi; per esempio su quel Lapo degli Uberti, lui pure combattente a Campaldino, con il quale Dante si era trovato a collaborare durante le guerre dei fuorusciti: era proprio da lui e da altri come lui che egli voleva prendere le distanze scontrandosi con il defunto Farinata. A differenza di Manfredi, che si compiace della propria «bella figlia»,92 Buonconte si aggira tra le altre anime «con bassa fronte», con atteggiamento vergognoso, e questo perché – dichiara lui stesso – sulla terra «Giovanna o altri non ha di me cura».93 Non siamo in grado di decifrare a chi e a cosa alluda; nemmeno sappiamo se la Giovanna nominata sia la moglie o una figlia. È indubbio, però, che l’indefinito «altri» rimanda a qualcuno del suo sangue. Una figlia di nome Manentessa aveva sposato il Guido Salvatico di Dovadola di cui Dante era stato ospite un anno o due prima della composizione di questo canto: non sarà allora che egli voglia condire la riabilitazione dell’antico nemico ghibellino con una stoccata contro quella parte dei Guidi, ostile ai Bianchi, a cui era stato costretto a chiedere aiuto e da cui adesso, caduto il progetto di ottenere il perdono, si sente psicologicamente e politicamente lontano?

Gratitudine e risentimento

Se la stoccata è diretta contro i Guidi di Dovadola, Dante ci va leggero: essa può essere percepita solo da chi sia molto addentro alle vicende familiari dei Montefeltro e dei Dovadola. Ci va leggero perché quel ramo dei Guidi era imparentato con i Malaspina di Giovagallo, e mai nella Commedia Dante si mostra irrispettoso nei confronti di questa famiglia. Anzi, Inferno e Purgatorio sono collocati sotto il segno dei Malaspina, così come il Paradiso o, meglio, una parte di esso, sarà posto sotto l’egida degli Scaligeri.

Dante nulla risparmia ai suoi nemici personali o politici, ma è anche largo di riconoscimenti nei confronti di amici e protettori. Tuttavia, siccome la composizione della Commedia si è protratta nel tempo e in questo lungo periodo Dante ha sperimentato protezioni e inimicizie diverse, e ha anche mutato i propri giudizi politici, accuse ed elogi possono cambiare di segno e, addirittura, capovolgersi. Esemplare è il trattamento riservato ai Malaspina e agli Scaligeri.

Dopo il 1316 Dante vivrà per un certo periodo a Verona ospite di Cangrande della Scala, e sarà a Verona che scriverà il canto del Paradiso nel quale Cacciaguida gli profetizzerà l’esilio e le sue traversie di esule. Ebbene, Cacciaguida gli parlerà del suo «primo … refugio» presso Bartolomeo della Scala e dei grandi «benefici»94 che riceverà da Cangrande, ma non spenderà una sola parola per ricordare il lungo e importante soggiorno che Dante farà in Lunigiana e l’appoggio che riceverà dai Malaspina. Quando scrive il canto di Cacciaguida, Dante, però, non aveva solo già scritto, ma anche pubblicato l’Inferno e il Purgatorio, e sappiamo che il canto VIII del Purgatorio contiene sia un altisonante elogio del valore e delle virtù di quella casata sia la predizione che egli avrebbe sperimentato di persona quanto giusta fosse la fama che l’«onora». Sempre nel Purgatorio, invece, l’abate di San Zeno in Verona ha pronunciato parole sprezzanti nei confronti di Alberto (padre di Bartolomeo, Alboino e Cangrande), e quindi dell’intera famiglia scaligera. Il rovesciamento di segno, dunque, è totale.

Dante esprime la sua riconoscenza ai marchesi di Lunigiana in primo luogo attraverso gli elogi del canto di Corrado II e la rappresentazione minacciosa, ma oggettivamente celebrativa, di Moroello che si abbatte come un fulmine sui pistoiesi, e poi mediante una fitta rete di riferimenti orientati in funzione dei Malaspina. Alla citazione onorevole dei loro amici e alleati contrappone le censure e le dure condanne riservate a nemici e avversari. Nello stesso canto in cui dialoga con Corrado, Dante incontra l’anima di Nino Visconti, già signore (giudice) della Gallura. Questi, sfuggito alla congiura dell’arcivescovo Ruggieri, si era rifugiato a Firenze (dove Dante può averlo conosciuto), facendosi promotore della lega contro Pisa. Non a caso il giudice Nino è presentato insieme a Corrado. Tra i Visconti di Pisa e i Malaspina, infatti, a seguito di una complessa vicenda legata ai possedimenti sardi dei Gherardeschi, dei Visconti e dei Malaspina (vicenda nella quale si intrecciavano gli interessi, oltre che delle casate ricordate, dei pisani e della corona d’Aragona), esistevano rapporti molto stretti. Il legame tra il Visconti e i Malaspina è cementato, inoltre, da un insieme di contratti matrimoniali sui quali Dante, che durante il soggiorno in Lunigiana era venuto a conoscenza delle storie familiari e delle reti di interessi dei suoi ospiti, imposta una parte rilevante dell’episodio purgatoriale. Nino parla a Dante con affetto di sua figlia Giovanna («Giovanna mia»95) e in termini duri della moglie Beatrice («Non credo che la sua [di Giovanna] madre più m’ami … Per lei assai di lieve si comprende / quanto in femmina foco d’amor dura, / se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende»96), l’una e l’altra viventi negli anni in cui Dante scrive (Beatrice morirà nel 1334 e Giovanna nel 1339). È un’istantanea di famiglia carica di implicazioni politiche. Beatrice d’Este, la vedova di Nino, si era risposata con Galeazzo Visconti di Milano. Ma agli occhi di Dante e, soprattutto, a quelli dei suoi protettori Malaspina la vera colpa di quella donna era stata non quella di essersi risposata, ma di averlo fatto con un membro di una famiglia ghibellina sodale dei Doria di Genova, loro nemici. Al contrario, la figlia Giovanna (titolare dei feudi sardi del Visconti), che già era stata promessa a Corradino Malaspina (di cui Corrado II era zio), dopo un’intricata trattativa svoltasi proprio negli anni in cui Dante si trovava in Lunigiana, nel novembre 1309 aveva sposato il signore di Treviso Rizzardo da Camino, esponente di una famiglia guelfa amica dei Malaspina di Giovagallo. Come si vede, Dante sta alludendo a vicende accadute solo pochi mesi prima della scrittura del canto.

Mi rendo conto che è faticoso districarsi tra parentele dirette e acquisite, promesse matrimoniali e matrimoni celebrati, eppure per comprendere a pieno le allusioni dantesche è necessario proiettare sui suoi versi questa rete genealogica, tenendo presente che nell’intreccio tra antiche famiglie feudali (come i Malaspina) e nuovi «tiranni» (come i Visconti di Milano) ogni legame allacciato o rotto o negato aveva forti ripercussioni di tipo politico e patrimoniale. Ecco perché le donne hanno un ruolo così rilevante, sia nella realtà storica sia nella rappresentazione dantesca.

Nel Purgatorio Dante mette in scena il papa Adriano V, il quale accenna a una sua nipote di nome Alagia, virtuosa, a differenza del resto della sua famiglia («Nepote ho io di là c’ha nome Alagia, / buona da sé, pur che la nostra casa / non faccia lei per essempro malvagia»97). Non è difficile capire perché solamente Alagia si salvi nel giudizio negativo che colpisce l’intera sua famiglia una volta ricordato che si tratta della moglie di Moroello Malaspina. E gli altri «malvagi» chi sono? Una di loro è proprio Beatrice d’Este. Lei (e il fratello Azzo VIII), infatti, sono figli di una sorella di Adriano V, e quindi zii di Alagia. Ma ancora peggiore per i Malaspina e, di conseguenza, per Dante doveva essere Eleonora, cugina di Alagia, sposata con Bernabò, figlio dell’odiato Branca Doria, genovese.

Questi, insieme al romagnolo Alberico dei Manfredi, è protagonista di una delle più straordinarie invenzioni narrative del poema: le anime di entrambi sono conficcate nel ghiaccio della Tolomea mentre i loro corpi sono ancora in vita, ma abitati da un diavolo (il Doria sopravvivrà allo stesso Dante, morendo nel 1325). Il vivente Doria è collocato tra i peccatori più neri dell’Inferno in quanto traditore degli ospiti. Avrebbe trucidato il suocero, il sardo Michele Zanche, signore di Logudoro (lui pure collocato all’Inferno, nella bolgia dei barattieri), dopo averlo invitato a un banchetto, e ciò per impadronirsi dei suoi domini sardi. Ancora una volta, dunque, una storia legata alla questione della Sardegna. Ma di questa truce vicenda le cronache e i documenti tacciono, sicché le uniche fonti risultano il racconto dantesco e i commenti alla Commedia. Dante ne sarà venuto a conoscenza presso i Malaspina, imparentati alla lontana con lo Zanche. Sarà stata l’efferatezza del delitto compiuto a far sì che Branca venisse eccezionalmente raffigurato da Dante come un «morto vivente»? È poco plausibile; in genere le sue condanne, come le sue assoluzioni, dipendono o da considerazioni di ordine politico o da risentimento (o gratitudine) personale. È probabile, invece, che dietro l’oscuro episodio ci siano implicazioni che a noi sfuggono e che toccavano gli interessi o le alleanze dei Malaspina. È certo, in ogni caso, che nel 1307 proprio Branca Doria aveva occupato militarmente il castello malaspiniano di Lerici: anche in questo caso, Dante scrive a ridosso degli eventi, a distanza di pochi mesi da un fatto che aveva gravemente danneggiato i suoi protettori.

Più in generale, allusioni malevole e accuse infamanti vanno inquadrate nell’ambito delle difficili relazioni tra i Malaspina dello Spino secco e la confinante Genova, ed è proprio in quest’ottica che acquista il suo pieno significato l’apostrofe ai genovesi che chiude il canto di Branca Doria: «Ahi Genovesi, uomini diversi / d’ogne costume e pien d’ogne magagna, / perché non siete voi del mondo spersi?».98 Un discorso simile andrebbe fatto anche per Pisa, altra storica nemica dei Malaspina: del resto, non è casuale che questo canto ospiti anche il racconto della tragedia di Ugolino della Gherardesca, strettamente collegato al giudice Nino, e che, con perfetto parallelismo, quel racconto si chiuda con la celebre invettiva: «Ahi Pisa, vituperio delle genti / del bel paese là dove ’l sì suona, / poi che i vicini a te punir son lenti, / muovasi la Capraia e la Gorgona, / e faccian siepe ad Arno in su la foce, / sì ch’elli annieghi in te ogne persona!».99

Una questione delicata

Tra i protettori di Dante non possiamo certo annoverare i Donati. Semmai essi o, meglio, il loro ramo più importante, vanno elencati tra i suoi più aspri avversari politici: lo hanno combattuto durante gli anni fiorentini; con Corso sono stati tra i maggiori responsabili del suo esilio; insieme ai Della Tosa hanno fatto fallire il tentativo di pacificazione del cardinale Niccolò da Prato. A buon diritto, dunque, Dante avrebbe potuto considerarli nemici, alla stessa stregua di Bonifacio VIII. E invece nella Commedia sono trattati diversamente da Bonifacio.

Come comportarsi nei confronti dei Donati, per Dante doveva essere un nodo particolarmente difficile da sciogliere. Non poteva dimenticare che Gemma era una Donati e che, grazie a quel matrimonio, lui, figlio di un piccolo uomo d’affari, si era legato con uno dei più nobili e potenti clan cittadini. Insomma, era una questione spinosa, da affrontare, comunque, con delicatezza.

Il suo atteggiamento è complessivamente improntato a un grande rispetto, reso ancor più significativo dal tono sprezzante con il quale parla dei Cerchi, che pure erano stati i capi della sua parte politica e ai quali era debitore del suo cursus honorum. Nel Paradiso, in anni nei quali le passioni che lo animavano ai tempi degli scontri fiorentini e durante la guerra civile dovevano essere, se non spente, molto attenuate, ancora li bollerà di «fellonia», di viltà. Nel corso del poema, poi, insiste sulle loro umili origini e sull’essere immigrati dal contado solo in tempi recenti, a differenza dei Donati, famiglia di antico insediamento cittadino e di indiscutibile preminenza sociale.

Il nodo più intricato, ovviamente, era quello di Corso. Solo nel Purgatorio Forese ne predice la morte e la dannazione. L’anima di Corso non poteva che precipitare all’Inferno, e però è molto significativo il contesto della predizione. Che a pronunciarla sia il fratello non va inteso come una sorta di contrappasso; al contrario, la figura amica di Forese con la sua presenza sembra smussare ogni astiosità di quella pur giusta e inevitabile condanna. Al Corso dannato all’Inferno fanno da contrappeso il fratello salvo e purgante e, in Paradiso, prima delle anime incontrate da Dante, la sorella Piccarda, beata nientemeno che insieme a Costanza, la madre di Federico II. È stato scritto che fra Purgatorio e Paradiso Dante tesse una «vera e propria apologia della famiglia di Forese e di Corso». Se parlare di apologia può essere forse eccessivo, è corretto sottolineare come nei suoi incontri con i fratelli Donati egli esibisca una familiarità che sembra alludere a qualcosa di più dell’amicizia. Amichevole e fraterno è l’incontro con Forese; amichevole e fraterno sarà pure quello con Piccarda: il rievocare una passata consuetudine, addirittura un trascorso compagnonaggio («Se tu riduci a mente / qual fosti meco, e qual io teco fui»100 dice Dante all’amico), stempera le pur inevitabili accuse al capo della famiglia (nascoste dietro un reticente «uomini poi, a mal più ch’a bene usi»101), stende sul nucleo malvagio dei Donati un velo di bontà, fraternità, amicizia.

Forese si abbandona a una violenta invettiva contro «le sfacciate donne fiorentine»102 e loda, per contrasto, la pudicizia di sua moglie Nella («Tanto è a Dio più cara e più diletta / la vedovella mia, che molto amai, / quanto in bene operare è più soletta»103), ancora in vita nel 1300 e, forse, anche quando Dante scriveva. Come interpretare l’elogio di Nella? Come una sorta di ritrattazione e di risarcimento del ritratto poco lusinghiero che tanti anni prima Dante ne aveva fatto nella tenzone di sonetti ingiuriosi scambiati con il marito? L’aveva descritta come una povera donna sfortunata, raffreddata anche in piena estate perché non riscaldata dal consorte. È possibile che l’elogio purgatoriale abbia anche questo significato, ma si tenga presente che pure Cacciaguida bollerà con parole di fuoco l’impudicizia delle donne di Firenze citando come esempio supremo di licenziosità una certa «Cianghella» («Saria tenuta allor tal meraviglia / una Cianghella»104). A noi questo nome dice poco, il passare del tempo lo ha ridotto a simbolo, ma ai contemporanei di Dante, soprattutto fiorentini, diceva molto: Cianghella – vivente anch’essa come la vedova di Forese – apparteneva infatti alla potente famiglia dei Della Tosa, i quali erano gli avversari più acerrimi dei Donati e fra i più decisi sostenitori del bando contro i Bianchi. Insomma, anche dietro a ciò che a noi, oggi, può sembrare nient’altro che un tardivo risarcimento amicale (Nella) o il ripescaggio di una figura quasi da proverbio (Cianghella), in realtà si celano le strategie politiche di Dante e gli sferzanti giudizi che egli riserva agli avversari.

La stesura del Purgatorio procede in modo spedito fin verso l’estate del 1310, dopo di che rallenta notevolmente e, per qualche periodo, dà pure la sensazione di fermarsi. Rallentamenti e pause coincidono con la stagione del pieno coinvolgimento dantesco nell’avventura di Enrico VII.