sorgono i segni della consolazione e della pace105

Una partita a quattro

Era consuetudine che il re di Germania assumesse il titolo di re dei Romani, titolo necessario per procedere all’incoronazione imperiale, su concessione del papa. Al neoeletto Enrico di Lussemburgo mancava la «conferma» (confirmatio) papale, ma questa non tardò ad arrivare. Dopo una breve trattativa – nella quale Enrico aveva fatto molte concessioni al papa, fino al punto di riproporre la tradizionale immagine dei due astri, il più luminoso dei quali, il sole, era equiparato al pontefice, mentre l’imperatore era solo la luna – alla fine del luglio 1309 Clemente V emanava un’enciclica (Exultet in gloria) con la quale non solo gli riconosceva il titolo di re dei Romani, ma fissava già la data dell’incoronazione a Roma per il 2 febbraio 1312, giorno della Purificazione.

Si apriva così una partita a quattro – fra Enrico di Lussemburgo, Clemente V, il re di Francia Filippo il Bello e il re di Napoli Roberto d’Angiò – che per circa quattro anni avrebbe segnato in profondità la vita politica della penisola. Enrico, a capo di un piccolo Stato sprovvisto di mezzi finanziari e militari, per esercitare un ruolo effettivo in Germania aveva bisogno dell’appoggio papale. Appoggio indispensabile anche per poter ristabilire i diritti imperiali sulla porzione d’Italia che ancora, formalmente, faceva riferimento all’impero, cioè quella settentrionale e centrale (con l’esclusione, dunque, dei domini di San Pietro, del regno angioino del Sud e della Sicilia aragonese); un’impresa del genere gli avrebbe conferito un’autorità che dopo Federico II nessuno dei suoi predecessori aveva mai avuto. Anche il papa aveva bisogno di Enrico. Egli progettava, infatti, di svincolarsi dalla tutela del re di Francia: a questo scopo favoriva il nascere di una alleanza tra l’imperatore germanico e il re di Napoli, vassallo della Chiesa e suo tradizionale braccio armato. Sarebbe stato un vero e proprio rovesciamento della consueta politica della Chiesa: fino ad allora, per garantire i suoi possedimenti in Italia e la supremazia del potere spirituale su quello temporale, il papato aveva cercato di deprimere il potere imperiale contrapponendogli il blocco guelfo angioino-francese. Il re di Francia, a capo della più forte potenza europea, avrebbe avuto, invece, tutto da perdere se il disegno di Clemente V si fosse realizzato: il rinascere di un efficace potere sovranazionale avrebbe ridimensionato quello delle giovani monarchie e, in particolare, proprio di quella francese, il cui punto di forza erano il protettorato che esercitava sul papato e l’alleanza con gli Angioini. La posizione di Roberto d’Angiò, da poco succeduto sul trono di Napoli al padre Carlo II (morto il 5 maggio 1308), era la più scomoda: non poteva rompere con il papa, ma, nello stesso tempo, rischiava di perdere il ruolo di capo e tutore dello schieramento guelfo in Italia. A complicare ulteriormente la sua politica estera c’era poi l’annosa questione della Sicilia in mano aragonese, un problema che le nuove prospettive che si profilavano avrebbero potuto, a seconda della piega degli avvenimenti, o risolvere in modo per lui positivo o chiudere con uno scacco irrimediabile. Per questi motivi si muoverà a lungo in modo prudente e ambiguo, e solo in un secondo tempo si opporrà apertamente, anche con le armi, all’imperatore. In realtà il gioco era a cinque, perché della partita era anche Firenze. Firenze e i Comuni guelfi (ma in parte anche ghibellini) della Toscana e dell’Italia settentrionale non avevano dubbi: la discesa in Italia dell’imperatore avrebbe potuto infliggere un grave colpo all’autonomia di cui ormai da molti decenni godevano; Firenze, perciò, si era schierata immediatamente contro l’ipotesi di un ritorno dell’impero e si era subito assunta il compito di guidare l’opposizione.

Nell’estate del 1309, quando presso la curia papale si svolgono gli eventi appena ricordati e a Spira, in agosto, in una dieta appositamente convocata, Enrico comincia a programmare il viaggio in Italia, Dante avrebbe potuto trovarsi ad Avignone, o di passaggio verso Parigi o per restarvi. Dovunque fosse, quegli avvenimenti non devono averlo impressionato più di quanto avevano fatto, sei mesi prima, le notizie sull’elezione del nuovo re di Germania. È vero che adesso si parlava ufficialmente di una incoronazione a Roma, ma questa era stata programmata di lì a tre anni e l’esperienza insegnava che un conto era fare una promessa e un altro mantenerla.

Del resto, i mesi che seguirono sembrarono dare ragione allo scetticismo di Dante. Per quasi un anno Enrico si interessò della Germania e la spedizione in Italia, almeno nell’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, passò in secondo piano. In realtà, il re dei Romani non poteva comportarsi diversamente. Per lui stabilire la sua autorità sui territori tedeschi era assolutamente prioritario. Enrico si mostrò abile, riuscì a trovare un accordo con gli Asburgo, che ormai si erano abituati a ritenere loro quasi per via ereditaria il trono imperiale, e, con un matrimonio, ad attribuire al figlio Giovanni il regno di Boemia. E poi la discesa in Italia non sarebbe stata una passeggiata: non si trattava, infatti, di partecipare soltanto a una cerimonia d’incoronazione (che già di per sé, comunque, rivestiva un altissimo valore simbolico e politico, tanto è vero che per quasi un secolo i papi si erano rifiutati di celebrarla), ma di riaffermare i diritti imperiali su città, territori, giurisdizioni feudali che non li riconoscevano più da tanto tempo o che li riconoscevano solo formalmente. Per arrivare a Roma avendo prima «pacificato» l’Italia in nome della giustizia imperiale erano dunque necessari un lungo e paziente lavoro diplomatico che spianasse il più possibile il terreno e, nello stesso tempo, l’allestimento di una vera e propria spedizione militare.

Agli inizi della primavera del 1310 Enrico VII si sente pronto e accelera i tempi. Una serie di ambascerie ufficiali preannuncia alle città della Valle Padana e della Toscana, visitate a una a una, la decisione del re dei Romani di scendere in Italia con il programma di riportarvi la pace. Pace è la parola centrale della propaganda di Enrico: egli si presenta come l’uomo che Dio ha destinato a porre fine alle contese cittadine e alle guerre tra fazioni, ad abbattere le «tirannidi», cioè i regimi signorili nati con la forza e privi di legittimazione, a restaurare la «tranquillità» dentro e fuori le mura con il metro di una giustizia imparziale. La sua maggiore preoccupazione è di mostrarsi al di sopra delle parti, guelfe e ghibelline. Il constatare che il neoeletto era veramente intenzionato a portare in Italia le insegne imperiali, dopo tanto disinteresse da parte dei suoi predecessori, e, soprattutto, che questo suo progetto godeva dell’appoggio del papa, sulle prime suscita reazioni di meraviglia, alle quali, a volte, seguono manifestazioni di vero e proprio entusiasmo. Particolarmente felici, ovviamente, sono i Ghibellini, sia al governo sia sbanditi, nonché i fuorusciti guelfi. Come è lecito attendersi, c’è anche chi fa buon viso a cattivo gioco. Le città guelfe della Toscana, dell’Umbria e Bologna entusiaste non sono: già nel marzo 1310 danno vita a una lega in funzione antimperiale (che gode del sostegno, non ancora palese, del re di Francia e di Roberto d’Angiò). Firenze, poi, non fa nemmeno buon viso. Nel loro giro toscano gli ambasciatori, dopo aver toccato la ghibellina Pisa (dove sono accolti trionfalmente), Lucca (dove l’accoglienza è formalmente corretta) e San Miniato (antica roccaforte imperiale), il 2 luglio entrano a Firenze, dove tira un’aria completamente diversa. L’accoglienza è più che fredda, al punto che l’oratore incaricato, Betto Brunelleschi, uno dei responsabili della rovina di Corso, risponde addirittura con scortesia alle richieste dei legati di Enrico. Questi lasciano Firenze per Arezzo senza avere ottenuto niente, nemmeno l’impegno a presentarsi a una assemblea plenaria che Enrico intendeva convocare a Losanna (e che effettivamente si terrà in autunno senza i fiorentini). A rasserenare gli animi non avrà aiutato la presenza nella delegazione imperiale, forse con il ruolo di consigliere, di un pistoiese «bianco» bandito dai fiorentini tre anni prima, Simone di Filippo Reali, che ricopriva un ruolo non secondario nella corte di Enrico. Cominciamo a cogliere un piccolo segnale delle contraddizioni in cui sarebbe caduta la politica di un sovrano che, mentre voleva presentarsi super partes, finiva inevitabilmente, dato l’intrico inestricabile degli odi e delle divisioni italiane, per scontentarne una delle due e, a volte, entrambe insieme. Altro membro della legazione imperiale era Ludovico di Savoia (nipote del conte Amedeo V, cognato di Enrico), che si stava recando a Roma per assumervi la carica di senatore, evidentemente in vista della futura incoronazione.

Nemmeno le azioni di Clemente V, comunque, sono esenti da ambiguità e contraddizioni. Il 19 agosto 1310 aveva nominato rettore di Romagna Roberto d’Angiò: era un modo per assicurarsi che quei territori della Chiesa non sarebbero stati toccati. Tuttavia, che lo volesse o no, quella decisione veniva a creare un fronte, anche militare, che, saldando Romagna, Bologna e Firenze, avrebbe impedito il passaggio di gran parte dei valichi appenninici all’esercito imperiale, lasciandogli libero solo il corridoio tirrenico. Si aggiunga che alla fine della primavera Roberto aveva lasciato la Provenza (dove si trovava nei mesi dell’elezione di Enrico e del riconoscimento papale) per ritornare a Napoli e che durante il viaggio aveva stretto accordi con parecchie città piemontesi. Il 30 settembre era entrato trionfalmente a Firenze, dove si era fermato quasi due mesi, e fu proprio qui che ricevette le insegne ufficiali di vicario papale in Romagna. In questa città – nella quale era già stato come duca di Calabria cinque anni prima, chiamatovi in soccorso contro i Bianchi galvanizzati dalla missione di Niccolò da Prato – Roberto fra le altre cose si dedicò a quella che doveva essere una sua passione, la predicazione (di lui ci restano quasi trecento sermoni latini): per ben tre volte salì sul pulpito di Santa Maria Novella. Con malevolo sarcasmo Dante lo definirà re «da sermone»106 (e quindi inadatto a cingere la spada), e non sarà il solo a ironizzare su questa sua mania. A Firenze il novello re di Napoli si sarà dedicato anche a cose più sostanziose del predicare: avrà cominciato fin da allora a organizzare la futura resistenza a Enrico. Ancora, però, con grande circospezione, lasciandosi aperta la strada a possibili accordi.

Aspettando l’imperatore

Le voci, sempre più insistenti nella primavera del 1310, che il re dei Romani si apprestava effettivamente a scendere in Italia questa volta devono avere colpito Dante. Aveva appena finito di lamentare nel Purgatorio il disinteresse degli imperatori per l’Italia e di denunciare la vacanza del seggio imperiale; già da alcuni anni si stava interrogando sulle tragiche conseguenze prodotte sulla cristianità dalla politica sopraffattrice della Chiesa: ebbene, adesso, all’improvviso, i sogni di riforma sembravano concretizzarsi. In ciò Dante non poteva non scorgere il segno della mano divina. E poi un imperatore che dichiarava di voler sedare le discordie e pacificare le città divise, a lui, reduce dal doloroso fallimento del tentativo di ottenere un’amnistia personale, offriva una solida e inaspettata speranza di mettere fine all’esilio. Per tutto ciò, e anche perché Dante era incapace di tenersi lontano dagli avvenimenti, dovunque si fosse trovato deve aver deciso che il suo posto era in Italia. Non sappiamo né da dove sia partito né quale strada abbia percorso e nemmeno in quale preciso momento del 1310 si sia messo in cammino; sappiamo, però, che nel luglio di quell’anno si trovava a Forlì, di cui era ancora signore Scarpetta Ordelaffi.

Biondo Flavio racconta con molti dettagli l’ambasceria dei legati di Enrico VII a Firenze nel luglio 1310, dopo di che riferisce il severo giudizio che Dante, il quale allora (nel luglio 1310 o poco dopo) viveva a Forlì («Fori Livii tunc agens»), avrebbe espresso sulla sprezzante risposta che i fiorentini avevano dato ai legati, da lui tacciata di temerarietà, petulanza e cecità, in una lettera a Cangrande della Scala scritta a nome suo e dei fuorusciti di parte «bianca» («partis Albae extorrum et suo nomine data»). Di questa preziosa testimonianza il dato più sicuro è quello relativo alla presenza di Dante a Forlì nell’estate del 1310; fanno molto discutere, invece, sia la possibilità che allora Dante scrivesse a Cangrande, sia che lo facesse anche a nome dei fuorusciti «bianchi».

Alboino della Scala e il fratello Cangrande erano il più solido puntello del ghibellinismo nell’Italia settentrionale, un equivalente di ciò che Pisa e Arezzo rappresentavano in Toscana. Saranno tra i primi a rendere omaggio a Enrico sul territorio italiano (ad Asti, all’inizio di dicembre 1310), ma già nel luglio in cui si era svolta l’ambasceria a Firenze avevano accolto con grandi onori a Verona i legati imperiali che visitavano le città del Nord. Non sarebbe sorprendente, allora, che Dante scrivesse a Cangrande per informarlo sull’esito dell’incontro che si era svolto a Firenze in parallelo a quello di Verona. Non sarebbe sorprendente, beninteso, a patto che si trattasse non di un’iniziativa personale, ma di un messaggio inviato a nome dei fuorusciti fiorentini e dei loro amici ghibellini. Del resto, perché Dante si sarebbe recato a Forlì, proprio nella città in cui più intensa era stata la sua partecipazione alla vita dell’Università dei Bianchi, se non fosse stato spinto da precisi interessi politici? L’imminente arrivo dell’imperatore in lui suscitava, sì, aspettative di ordine personale, ma doveva essergli chiaro che, passato il tempo delle soluzioni individuali, queste avrebbero potuto realizzarsi solo nell’ambito di un progetto collettivo. È naturale, dunque, che, rientrato in Italia, si dirigesse là dove quel progetto poteva essere sostenuto da gruppi organizzati, i quali si concentravano prevalentemente a Pisa, centro di raccolta del fuoruscitismo soprattutto ghibellino, e fra Romagna e Casentino: Dante non aveva relazioni significative con Pisa (dalla quale, negli anni appena trascorsi, lo aveva tenuto lontano anche il rapporto privilegiato con i Malaspina), ma ne aveva di ampie e radicate tra Romagna e Toscana. Ed è proprio nei luoghi dai quali si era allontanato quando aveva abbandonato la politica attiva che comincia la stagione del suo nuovo impegno e a fianco degli antichi compagni.

Con i vecchi compagni di lotta

Se qualcuno obiettasse che una rottura così netta come quella che aveva diviso Dante e gli altri esuli, e che, per di più, era sfociata in atti di aperta inimicizia, non poteva essere ricomposta tanto facilmente, si potrebbe rispondere sulle generali che, allora come oggi, la vita politica era fatta di rovesciamenti di fronte, di divorzi e di riappacificazioni: la regola che in politica non esiste la parola «mai» valeva, eccome, anche ai tempi di Dante. Per quanto riguarda lo specifico, nell’estate del 1310 era chiaro a tutti, sia a quelli che l’auspicavano sia a quelli che lo temevano, che l’arrivo di Enrico di Lussemburgo avrebbe sconvolto molti equilibri. Già allora le acque della politica italiana si stavano rimescolando, antiche divisioni sembravano sul punto di cadere. La parola d’ordine che circolava in quei mesi tra le corti, le città e i gruppi organizzati era di superare gli steccati tra Guelfi e Ghibellini e tra Bianchi e Neri in vista di un complessivo riordino della società italiana (ci penserà la storia a smentire in fretta queste aspettative).

È più che probabile, dunque, che Dante sia rientrato, per così dire, nei ranghi e che di nuovo abbia messo a disposizione dei gruppi «bianchi» e ghibellini le sue competenze di dictator e di intellettuale. Potremmo dire che aveva ripreso il suo mestiere di segretario e di addetto alle relazioni esterne. Una conferma la fornisce lui stesso nella lettera che nell’aprile 1311 invierà a Enrico: non solo nella salutatio afferma che ai suoi piedi si prostrano Dante Alighieri e «i Toscani tutti, che desiderano pace»,107 ma nel corpo dell’epistola dichiara di scrivere a nome suo e di altri: «io che scrivo per me e per gli altri».108

La Forlì che Dante ritrova dopo sei o sette anni d’assenza non è più la stessa che aveva lasciato. Scarpetta era ancora l’uomo forte della città, ma i Calboli, estromessi dagli Ordelaffi, premevano per rientrare. Quando, in settembre, diventerà effettiva la nomina di Roberto d’Angiò a rettore della Romagna, il suo vicario Niccolò Caracciolo imporrà fra l’altro a Scarpetta di fare ritornare in città i Calboli guidati da Fulcieri. In queste condizioni è improbabile che Dante si sia trattenuto a lungo a Forlì. Il nuovo spirito unitario che stava diffondendosi gli consentiva, però, di riprendere a frequentare, sul versante adriatico dell’Appennino, famiglie ghibelline, come i Guidi di Modigliana-Porciano, i Guidi di Bagno e i Faggiolani, che mai lo avrebbero ricevuto dopo che si era proclamato pentito di aver fatto causa comune con loro. E nel Casentino gli si potevano aprire di nuovo le porte dei castelli dei Guidi di Romena. Si aggiunga che la prospettiva dell’arrivo di Enrico non poteva lasciare indifferenti, e in effetti non li lasciò, neppure quei Guidi, come i Dovadola o i Battifolle, che erano schierati con i Neri di Firenze: erano pur sempre conti palatini, cioè di investitura imperiale, e anche per loro, quindi, era doveroso rispondere al richiamo di un futuro imperatore. È dunque possibile che nella seconda metà del 1310 Dante si sia mosso da Forlì alla volta delle corti feudali della Romagna e del Casentino.

La corona di ferro

Nei primi giorni d’ottobre 1310 Enrico di Lussemburgo parte da Ginevra e, alla testa di un piccolo esercito, attraverso i territori del cognato Amedeo V di Savoia, valica le Alpi. Il 30 del mese entra solennemente in Torino.

Era stato preceduto da una lettera enciclica, indirizzata il 1° settembre a tutti gli ecclesiastici e secolari di qualunque grado, con la quale Clemente V chiedeva ai sudditi del re dei Romani di assisterlo nell’opera di pacificazione che egli avrebbe svolto durante il suo viaggio verso Roma, dove sarebbe stato incoronato imperatore. Il papa, dunque, acconsentiva ufficialmente a che Enrico effettuasse la sua discesa in Italia prima della data prevista, senza però pronunciarsi sull’anticipo dell’incoronazione da lui richiesto.

Da Torino, muovendosi lentamente e facendo tappa a Chieri, Asti, Casale, Vercelli, Novara e Magenta, il corteo imperiale raggiunge Milano due giorni prima di Natale. La marcia attraverso il Piemonte e la Lombardia era stata un successo. Enrico aveva sensibilmente ingrossato le sue truppe, e altrettanto sensibilmente impinguato, con doni e imposte, le sue non floridissime finanze; soprattutto aveva suscitato grande entusiasmo: a ogni tappa si erano presentati a rendergli omaggio non solo i potenti locali, ma anche i rappresentanti di molte altre città o giurisdizioni feudali centro-settentrionali (per esempio, a Vercelli si era recato Moroello Malaspina, che poi si sarebbe aggregato al corteo fino a Milano, e prima lo aveva omaggiato il cugino ghibellino Franceschino) e, ovviamente, delegazioni di fuorusciti di entrambi i colori politici. I primi contatti con la realtà italiana avevano mostrato che la politica pacificatrice che Enrico si riprometteva era effettivamente praticabile: nelle singole città era riuscito ad appianare gravi divergenze tra fazioni e a imporre la sua autorità attraverso la prassi – inaugurata a Chieri e divenuta poi una sua costante – di nominare un vicario regio con pieni poteri, il quale dirigeva i Consigli, governava le finanze, impartiva la giustizia e comandava le forze armate. Si era mosso con accortezza, aveva fatto mostra di non propendere per nessuna delle parti in causa (mentre tutti si aspettavano un trattamento di favore nei confronti dei Ghibellini) e così aveva rafforzato quell’immagine di uomo e di sovrano dedito al bene comune che la sua propaganda già da mesi diffondeva attraverso documenti e ambascerie. Il corteo che entra a Milano, pertanto, è molto più consistente e rappresentativo di quello che era sceso dal Moncenisio. Anche a Milano, tuttavia, deve intervenire negli affari interni della città, costringendo i guelfi Della Torre, signori di fatto, ad accogliere i ghibellini Visconti, che ne erano stati espulsi (Matteo Visconti era entrato in città insieme a lui ed era diventato uno dei suoi uomini di fiducia).

Enrico ha scelto Milano perché, lì, vuole farsi incoronare re d’Italia. Secondo un’antica ma desueta tradizione, agli imperatori dovevano essere imposte tre corone: ad Aquisgrana, quella argentea di re di Germania; a Roma, quella aurea di imperatore; a Milano (oppure a Monza o a Pavia), quella ferrea di re d’Italia. In realtà l’incoronazione a re d’Italia, che non conferiva titolo o diritto alcuno che l’incoronato non avesse già a seguito delle sue investiture a re di Germania e dei Romani, aveva più un significato simbolico che giuridico-politico, tanto è vero che da Carlo Magno in poi pochi imperatori l’avevano richiesta. Era solo un fatto d’immagine, che però consentiva a Enrico di rinvigorire il senso della sua azione restauratrice in Italia.

La data della cerimonia è fissata per il 6 gennaio 1311, giorno dell’Epifania, nella basilica di Sant’Ambrogio. Dall’ultima incoronazione di un re d’Italia (quella di Enrico VI di Svevia nel 1186, ancora vivente e regnante il padre Federico Barbarossa) era passato tanto tempo che nessuno ricordava più quale fosse il cerimoniale dell’evento. E neppure si riusciva a trovare la leggendaria «corona ferrea», tanto che ne venne in gran fretta fabbricata una nuova. Insomma, l’incoronazione milanese è più che altro una grande festa volta a compattare lo schieramento filoimperiale. Vi assistono ambasciatori di tutto il cosiddetto Regnum Italiae, ma non di Firenze e delle altre città guelfe a essa collegate.

Un manifesto politico

Vi assiste anche Dante? Non abbiamo elementi né per affermarlo né per negarlo. Nella lettera che invierà a Enrico in aprile, Dante afferma di avere avuto l’onore di essere ricevuto in udienza. Potrebbe essere accaduto a Milano, nei giorni dell’incoronazione, ma anche in una delle tante località che il corteo del sovrano aveva toccato dopo Torino. Per ottenere un colloquio con il re dei Romani, Dante deve essere stato presentato da qualcuno introdotto a corte. Potrebbe essersi trattato di Moroello – a Vercelli (il 16 dicembre 1310), da dove poi avrebbe potuto seguire la corte fino a Milano – o di uno dei suoi conoscenti prestigiosi (come Uguccione della Faggiola) che attorniavano Enrico durante la sosta milanese. Più che il luogo dove è avvenuto l’incontro, importa stabilire a che titolo Enrico lo abbia ricevuto. L’udienza fu concessa a titolo personale o perché Dante era portavoce di una parte politica?

Dante non si era presentato a mani vuote. Dopo l’enciclica di Clemente V del 1° settembre 1310 e prima che Enrico arrivasse a Torino aveva scritto un’epistola, una sorta di manifesto filoimperiale, indirizzata «a tutti e ai singoli re d’Italia, ai senatori dell’alma città di Roma, ai duchi, marchesi e conti e ai popoli»,109 cioè all’intera classe dirigente della penisola. Nella sostanza era un invito alla pacificazione generale, resa possibile proprio dal sole che già stava spuntando all’orizzonte. L’epistola si colloca esplicitamente sulla linea segnata dall’enciclica papale di settembre, addirittura citata nelle ultime righe. Per sottolineare la necessaria concordia tra i due massimi poteri riprende l’immagine dei due astri, il sole-papa e la luna-imperatore, che Clemente aveva usato nell’enciclica con la quale, nel luglio dell’anno precedente, aveva riconosciuto a Enrico il titolo di re dei Romani. Che papa e imperatore debbano collaborare tra loro resterà un punto fermo negli scritti danteschi per tutta la durata dell’avventura italiana di Enrico.

L’epistola si articola in pochi punti, ma chiari. «Gli empi» e i «malvagi» saranno puniti dal nuovo Cesare, che li «disperderà con la sua spada» e che «consegnerà la sua vigna ad altri agricoltori» – dunque, l’imperatore procederà, dove necessario, a cambiare i governanti in carica –, ma il nuovo Cesare avrà pietà e «perdonerà tutti coloro che imploreranno misericordia».110 Gli «oppressi», cioè tutti «coloro che», come lo scrivente, «hanno sofferto ingiustizia», devono rendersi umili, rompere il cerchio dell’odio e dell’animosità, e «perdonare già da ora».111 L’imperatore potrà fare giustizia perché il godimento dei «beni pubblici» e il possesso di quelli «privati» dipendono dalle sue leggi.112 È evidente che Dante non parla a titolo personale, ma a nome degli esuli. Prospetta un percorso politico – facilmente leggibile se osservato dal punto di vista dei fuorusciti fiorentini – che prevede un cambio di atteggiamento da parte di entrambe le parti: ai vincitori che sono al governo chiede di accettare il nuovo ordine, e quindi di riammettere gli sbanditi, e promette a Enrico, più che a loro, che questi non avrebbero compiuto alcuna vendetta.

Se interpretiamo l’epistola come un messaggio di totale adesione alla linea pacificatrice di Enrico VII da parte dei fuorusciti fiorentini (senza distinzione, sembrerebbe, tra Guelfi e Ghibellini), come un testo, cioè, scritto a nome della collettività di coloro che «hanno sofferto ingiustizia», possiamo ragionevolmente ipotizzare che l’udienza sia stata chiesta proprio per presentare ufficialmente al sovrano questo documento (che probabilmente già circolava) e ribadirgli, a voce, il pieno sostegno degli sbanditi di Firenze. Ciò confermerebbe che nel 1310 Dante aveva ripreso i contatti con i vecchi compagni e, addirittura, assunto di nuovo il ruolo di portavoce e di elaboratore della loro linea politica. I mediatori dell’incontro, allora, andranno cercati nell’ambiente dei fuorusciti o dei loro simpatizzanti inseriti a corte ed è quindi plausibile che l’udienza si sia svolta a Milano.

Un vincitore vinto

I fiorentini non avevano avuto tutti i torti a disertare la cerimonia dell’incoronazione. Attorno a quel re d’Italia, infatti, si erano aggregati in gran numero Ghibellini e Guelfi «bianchi», sia di Firenze sia di Pistoia. Quel mondo di esuli politici che sembrava essersi disperso dopo la sconfitta della Lastra, adesso si era ricomposto. Antiche colleganze si erano nuovamente riallacciate, ma sostanzialmente sotto l’egida ghibellina. Renderà ancor più diffidenti i Neri di Firenze il constatare come molti esponenti di quel composito universo occupassero un gran numero di cariche politiche e amministrative, esercitando un’influenza crescente sul sovrano. Perché tanti esuli si affollassero alla corte di Enrico si capisce facilmente se si considera che tra i primi atti dopo l’incoronazione milanese figura un decreto, in data 23 gennaio, con il quale il sovrano dichiarava «nulli tutti i bandi, sentenze, condanne, esilii, processi contro qualsiasi cittadino, emessi da podestà od altri ufficiali per accusa di ribellione, guerra, ruberia, incendio, ferimento o altro delitto commesso in qualsiasi città venuta alla sua ubbidienza». Ne conseguiva che i beni confiscati dovevano essere restituiti ai legittimi proprietari (e su questa spinosa questione si interrogheranno a lungo i giuristi imperiali). La massiccia presenza di Ghibellini al potere e di esuli «bianchi» e ghibellini rischiava di compromettere l’immagine di arbitro neutrale che Enrico cercava di costruirsi, alla quale, comunque, diedero il colpo definitivo gli eventi che si succedettero nel corso del 1311.

Enrico premeva sul papa perché anticipasse l’incoronazione a Roma, ed era pure riuscito nell’intento, ma l’evoluzione degli affari di Lombardia rese impraticabili sia la prima (30 maggio) sia la seconda data (15 agosto) stabilite da Clemente. Aver ottenuto di anticipare l’evento di parecchi mesi, per Enrico era comunque un successo: nell’enciclica del 1309 Clemente V aveva fissato il giorno della cerimonia a distanza di tre anni con la motivazione che lui avrebbe voluto incoronarlo personalmente, ma che non gli sarebbe stato possibile recarsi a Roma prima della fine del concilio ecumenico da lui convocato a Vienne (il concilio si svolgerà dal 16 ottobre 1311 al 6 maggio 1312). Adesso, accettando di essere rappresentato da cardinali, rassicurava il neoeletto che la cerimonia non sarebbe stata procrastinata. E in effetti in agosto arrivarono i tre cardinali (tra i quali Niccolò da Prato e Luca Fieschi) delegati dal papa a sostituirlo. Ma questi trovarono Enrico nel pieno di operazioni belliche. La situazione in Lombardia impedì al re dei Romani di sfruttare quel successo diplomatico. Non poteva scendere a Roma senza essersi assicurato la fedeltà di quel territorio. Anche qui, come aveva fatto prima di arrivare a Milano, aveva proceduto imponendo alle città il ripristino dei diritti imperiali. Ma la cosa si era rivelata più difficile del previsto. Succedeva, infatti, che molte città, poco dopo essersi piegate alle sue richieste, si ribellassero e ritornassero alla precedente autonomia. Sin dal febbraio era cominciato uno stillicidio di rivolte (Milano, Lodi, Crema, Bergamo), che però Enrico era riuscito a contenere senza ricorrere a eccessivi atti di forza, preservando così la sua immagine di re pacifico e, soprattutto, pacificatore. Ma il suo atteggiamento cambiò quando, tra febbraio e marzo, si ribellò Cremona. Benché la rivolta si fosse esaurita da sola, anche a causa del mancato sostegno da parte dei Neri di Firenze, sostegno che essi si erano impegnati a dare, Enrico, che fino ad allora si era mostrato clemente, fu implacabile. Pensava che una punizione esemplare avrebbe impedito altre rivolte. Entrato in città alla fine di aprile, ne fece atterrare le mura e abbattere le torri (salvando il «Torrazzo»), prese in ostaggio trecento cittadini e impose un duro tributo. Per la propaganda guelfa e angioina si trattava di un grande successo: da questo momento Enrico fu visto non più come un imperatore al di sopra delle parti, ma come il capo dei Ghibellini. Il successo fu ulteriormente accresciuto dal fatto che, poco dopo, Enrico, ormai prigioniero di una logica repressiva, si cacciò con le sue mani nella trappola costituita dalla ribellione di Brescia. In Italia, dunque, si stava rapidamente deteriorando il clima unitario dei primi mesi e si stavano ricostituendo i due schieramenti tradizionali, Ghibellini-imperiali da un lato, Guelfi-angioini dall’altro. A non rendere ancora evidente questo secondo blocco erano la politica apparentemente filoimperiale del papa e il doppio gioco che Roberto d’Angiò stava conducendo.

Enrico, che contava di risolvere in fretta il problema, si impantanò invece per ben quattro mesi, dalla metà di maggio ai primi di settembre, in un assedio a Brescia che logorò il suo prestigio politico, assottigliò, anche a causa di una epidemia di peste, le sue non grandi forze militari e minò definitivamente la fama di uomo mite che lo aveva accompagnato fino ad allora. Un episodio fece scandalo. Durante l’assedio fu catturato casualmente il capo dei Guelfi bresciani, Tebaldo dei Brusati, che pure era stato uno dei fedeli di Enrico. Questi, nonostante le richieste di clemenza che gli venivano da più parti, compresa la regina, fu inflessibile: Tebaldo fu cucito in una pelle di bue e, legato alla coda di un asino, trascinato attraverso l’accampamento, poi decapitato e squartato da quattro tori spinti in opposte direzioni, infine, come se tutto ciò non bastasse, le sue viscere furono bruciate e i brandelli del suo corpo esposti alla vista. Uno storico ha scritto che, quando riuscì finalmente a occupare Brescia, Enrico «fu un vincitore vinto». Non aveva la forza né per attaccare Firenze né per dirigersi a Roma. Stabilì allora di trasferire corte ed esercito a Genova, anche perché il corridoio tirrenico era l’unico che avrebbe potuto percorrere quando avesse deciso di muovere verso sud. Si lasciò alle spalle una Lombardia non sottomessa, nella quale gli erano rimaste fedeli due sole grandi roccaforti: Milano (di cui, dopo alterne vicende, in luglio aveva nominato vicario Matteo Visconti) e la Verona degli Scaligeri.

Un ghibellino a oltranza

Dopo l’udienza Dante si sarà trattenuto presso la corte? Se sì, per quanto tempo? Se no, dove si sarà diretto? È improbabile che sia ritornato a Forlì: i vicari di Roberto d’Angiò controllavano strettamente la Romagna e lui, non si dimentichi, era uno sbandito costantemente a rischio di morte. Risulta invece con certezza che tra il marzo e il maggio 1311 si trova nel Casentino.

Da lì fa partire due epistole-manifesto indirizzate, la prima, agli «scelleratissimi fiorentini» (scelestissimis Florentinis), la seconda, a Enrico di Lussemburgo. La prima è datata «31 marzo, sui confini della Toscana (in finibus Tuscie), alle fonti dell’Arno (sub fontem Sarni), nel primo anno della faustissima discesa del Cesare Enrico in Italia»;113 la seconda, «17 aprile, in Toscana, presso le sorgenti dell’Arno, nel primo anno del faustissimo viaggio dell’imperatore Enrico in Italia».114 Entrambe le epistole sono violentemente antifiorentine. Questo, unito a considerazioni di tipo geografico, è il principale motivo per escludere che esse siano state scritte e spedite, come spesso viene affermato, dal castello di Poppi dei Guidi di Battifolle. Poppi non è vicina alle sorgenti dell’Arno, anzi, ne dista parecchi chilometri; vicino, invece, e collocato proprio al di sotto delle sorgenti del Falterona, non lontano dal crinale, cioè dal confine romagnolo (in finibus), è il castello di Porciano dei Guidi di Modigliana. Mentre da un castello dei Battifolle Dante non avrebbe potuto diffondere epistole di quel tenore, nel ghibellino Porciano non avrebbe avuto simili preoccupazioni.

Il tono quasi profetico e lo stile apocalittico delle epistole non devono impedire di cogliere quanto esse siano saldamente riferite a concreti e attuali problemi politici. A scrivere non è un Dante profeta solitario, ma un Dante che interpreta il pensiero di un intero schieramento e agisce in accordo con esso.

Enrico intendeva imporre alla Tuscia e alla Lombardia una riaffermazione di diritti imperiali che non fosse solamente formale, limitata cioè ad atti d’ossequio e al pagamento di qualche tributo, senza intaccare le autonomie conquistate dalle città comunali o tiranniche in un paio di secoli di lotte. Tutt’altro. Egli coltivava un disegno, ben chiaro ai fiorentini, di vera restaurazione. La sostituzione dei magistrati eletti con vicari che rispondevano direttamente a lui lo dimostrava. Ancor più intollerabile, soprattutto per Firenze, capitale finanziaria grazie al fiorino, era il progetto di riforma monetaria al quale stavano lavorando i giuristi imperiali. Comunque si fosse realizzato (e decreti in merito sarebbero stati emessi nell’agosto 1311), il progetto di coniare monete imperiali in luogo di quelle correnti avrebbe arrecato un colpo durissimo all’economia fiorentina. Il problema più spinoso in assoluto, però, era quello dei diritti che le città si erano arrogati e della prescrizione di quelli imperiali.

Le città dell’Italia centro-settentrionale si erano espanse impadronendosi, o con transazioni economiche o, più spesso, con la forza, di castelli, torri, borghi rurali, feudi immediatamente soggetti all’impero. Dal punto di vista giuridico erano azioni illegittime e prevaricatrici: i feudatari e gli altri detentori di quei diritti soppressi avevano subito una sopraffazione (tanto più che, se resistevano, venivano considerati ribelli o, addirittura, banditi di strada). Ma erano stati questa espansione e i conseguenti fenomeni di inurbamento a fornire alle città la base territoriale che ne garantiva la sicurezza, gli approvvigionamenti e, in definitiva, lo sviluppo economico. Ebbene, il re dei Romani considerava tutto ciò rapina e usurpazione, sosteneva che i diritti dell’impero non decadevano per il fatto di non essere più esercitati da tempo e ne esigeva la restituzione. Un documento della cancelleria imperiale del 1312 elencherà, per la sola Firenze, ben 158 castelli e 60 comunità rurali sui quali l’impero pretendeva di esercitare nuovamente i suoi diritti. Su questo punto Firenze e le altre città (comprese quelle ghibelline, che infatti si ribellavano anch’esse) non potevano che essere intransigenti: quei diritti che i giuristi di Enrico sostenevano essere ancora in vigore, a loro avviso erano decaduti in quanto prescritti.

La questione della inalienabilità o della prescrittibilità dei «diritti imperiali» (publica iura) è per l’appunto l’argomento centrale dell’epistola di Dante ai fiorentini. Con una veemenza che alle nostre orecchie suona quasi da invasato, ma che, invece, va riportata allo stile biblico-profetico proprio di tanta epistolografia medievale, e con la sicurezza di chi si ritiene in possesso della verità, Dante preconizza ai concittadini distruzione, morte, esilio e servitù, a meno che non recedano dalla loro cocciuta e cieca opposizione e, sebbene tardivamente, si pentano. A essere così tragicamente punita non sarà una generica opposizione a Enrico, ma la specifica «follia della ribellione» consistente nel fatto che i fiorentini, «appellandosi al diritto di prescrizione», rinnegano «il dovere della dovuta sottomissione».115 «Ignorate forse» chiede Dante «pazzi disgraziati, che i diritti di sovranità termineranno soltanto con la fine dei tempi, e non sono soggetti ad alcuna ipotesi di prescrizione?» «I diritti di sovranità» assevera «per quanto a lungo dimenticati, non possono mai estinguersi, e, se pur svigoriti, impugnarsi.»116 Dante, dunque, non dà sfogo a umori da intellettuale impaziente e utopisticamente sganciato dalla realtà, ma entra nel vivo di un aspro dibattito giuridico-politico. Esprime posizioni che dovevano essere non tanto dei fuorusciti guelfi, i quali restavano pur sempre dei cittadini formatisi nel culto dell’autonomia, quanto dei gruppi nobiliari e feudali ghibellini. C’è da stupirsi nel constatare come il Dante che solo due o tre anni prima protestava il suo guelfismo e prendeva nettamente le distanze dai Ghibellini, adesso, nel fuoco della lotta, non esiti a dare di sé – come è stato detto – l’immagine di «ghibellino a oltranza».

La difesa dell’imprescrittibilità dei diritti imperiali doveva piacere ai Guidi, conti palatini ridimensionati in possedimenti e giurisdizioni proprio dall’espansionismo di Firenze, la quale, incurante dei diritti regali, con azione costante e sistematica usurpava, anzi, come circa un secolo prima aveva scritto il grande giurista Boncompagno da Signa, succhiava come «sanguisuga» porzioni sempre più ampie dei loro domini comitali. Sicuramente piaceva ai Guidi di Porciano, di Bagno e di Romena, ma non doveva dispiacere neppure a quelli di Battifolle. I quali, però, come si è detto, mai avrebbero accettato che dal loro castello di Poppi partisse una lettera aperta così ostile, nel tono e nella sostanza, a Firenze. E ancor meno avrebbero avallato quella inviata a Enrico il 17 aprile. La dignità di conti palatini li aveva quasi costretti a schierarsi con la parte imperiale, ma la cosa doveva essere loro costata. I Battifolle, che si erano staccati nel 1275 dal ramo di maggior prestigio, quello ghibellino di Bagno, avevano perseguito sempre una politica guelfa e filofiorentina. Guido, poi, era collegato strettamente ai Donateschi (si ricorderà che la congiura del 1300 prevedeva proprio un suo intervento armato) e poi ai Neri tosinghi. Del resto, l’adesione dei Battifolle alla causa di Enrico sarà di breve durata: già nell’inverno tra 1311 e 1312 Guido di Battifolle, insieme a Guido Salvatico di Dovadola, altro ramo guelfo schierato con i Neri, guerreggia nel Valdarno superiore contro gli imperiali; alla fine della parabola, nel 1315, il Battifolle sarà vicario della Toscana per conto di Roberto d’Angiò.

La seconda epistola a Enrico, scritta nei giorni in cui questi si stava muovendo contro Cremona ribelle, è un forte e accorato appello affinché prenda atto di quali siano i suoi veri nemici e si comporti di conseguenza. I Toscani lo vedono attardarsi nella Valle Padana, e si chiedono «con stupore» se abbia «dimenticato» la loro regione, come se «i diritti imperiali da preservare fossero circoscritti ai confini dei Liguri»,117 cioè all’Italia settentrionale. Firenze si avvantaggia di questo suo indugiare «e ogni giorno, alimentando la superbia dei malvagi, accumula nuove forze»,118 acquista alleati. La decisione di trascorrere a Milano, dopo l’inverno, anche la primavera, cercando di domare a una a una le città ribelli come si tagliano le singole teste dell’Idra, non porterà Enrico a nessuna vittoria risolutiva: ripresa una città, se ne ribelleranno altre. Egli sembra non rendersi conto che la «volpe» da cui promana il fetore che ammorba l’Italia non si nasconde né sul Po né sul Tevere, ma presso l’Arno, e che questa volpe «si chiama Firenze».119 Schiacci dunque questa vipera, questa pecora infetta, questa Mirra che rifiuta il legittimo sposo e si accoppia incestuosamente con il papa, padre di tutti. Dante, dunque, incita Enrico ad attaccare con le armi la propria città.

Anche questa epistola non va considerata il gesto isolato di chi, per essere stato ricevuto in udienza, si sente autorizzato a impartire consigli, se non lezioni, a un imperatore: del resto, Dante stesso dice di scrivere a nome suo e di altri. Fa parte di una strategia elaborata proprio in quei giorni dai fuorusciti toscani per convincere Enrico, attraverso pressioni congiunte, a imprimere un corso diverso alla sua spedizione. Il 14 aprile, tre giorni prima che Dante datasse la sua epistola, i priori di Firenze avevano scritto agli ambasciatori napoletani e allo stesso Roberto d’Angiò che «tutti i ghibellini della Toscana e della Lombardia, come pure i consiglieri del re, facevano ogni giorno il possibile per decidere Enrico a entrare in campagna contro Firenze». Forse i fuorusciti toscani avevano ragione a incitarlo a valicare l’Appennino e a colpire frontalmente Firenze: se non altro, Enrico non si sarebbe impantanato nell’assedio di Brescia e non avrebbe disperso ciò che gli rimaneva del credito di sovrano al di sopra delle parti.

Se il Dante ghibellino dell’epistola ai fiorentini può stupire, che dire di questo che incita a muovere guerra contro la propria città? Si legga cosa scriveva di Firenze, da esule appena sconfitto e, per di più, in un contesto critico nei confronti della città materna: noi «amiamo Firenze al punto che, perché l’abbiamo amata, soffriamo ingiustamente l’esilio … per il nostro piacere ovvero per la pace dei nostri sensi non esiste al mondo luogo più caro di Firenze».120 E si pensi che questo innamorato della propria patria solo poco tempo prima si era perfino umiliato a chiedere perdono pur di ritornarvi. Ciò aiuterà a capire quale esplosiva miscela di utopismo intellettuale, astio personale, revanscismo impaziente si sia formata in lui con l’arrivo inaspettato di un imperatore, una figura quasi mitica, relegata nei racconti del passato; una figura che, adesso, miracolosamente si manifestava, come se la storia avesse girato su sé stessa e avesse deciso di ripartire da dove si era interrotta con la rovina degli Svevi.

Durante i mesi trascorsi nel Casentino, comunque, Dante varca anche quella porta del castello di Poppi che gli era rimasta chiusa quando si aggirava nella valle da esule «bianco». Nel maggio lo troviamo ospite di Guido di Battifolle e della moglie Gherardesca (figlia del pisano conte Ugolino). Come al solito, anche a Poppi si guadagna vitto e alloggio facendo da segretario e cancelliere. Esistono tre brevi lettere – o, meglio, tre versioni della stessa – inviate da Gherardesca alla regina dei Romani, cioè a Margherita di Brabante moglie di Enrico, in risposta a una sua missiva. Mentre le prime due non sono datate, la versione definitiva porta la data del 18 maggio, dal castello di Poppi. Dante deve esserne stato l’estensore. Ora, sembra proprio che la stesura della breve epistola abbia dato luogo a non poche discussioni alla corte dei Guidi. Dall’insieme delle minute si intravede in atto una dialettica tra lo scrivente, cioè Dante, che cerca di inserire alcuni tratti specificamente politici e filoimperiali, e i committenti, che invece spingono per eliminarli. La prima versione si chiudeva (si tenga presente che il mittente è la contessa Gherardesca) con un’invocazione affinché Dio, «che sottomise le nazioni barbare e i cittadini all’impero del principato romano, a difesa dei mortali, cambi in meglio la famiglia umana di questa età delirante, con il trionfo e la gloria del suo Enrico».121 Sono concetti tipicamente danteschi e sono concetti politicamente assai connotati. Nella successiva versione resta un accenno alla «celeste Provvidenza» la quale «ha disposto che la società umana avesse un solo Principe».122 In quella effettivamente spedita, di tutto ciò non c’è traccia, o quasi. «Sappia» scrive Dante-Gherardesca «dacché lo chiede, la pia e serena Maestà dei Romani che al momento dell’invio di questa lettera il diletto consorte ed io, per dono del Signore, eravamo in buona salute, godendo della floridezza dei figli, più lieti del solito in quanto i segni del risorgente Impero già promettevano tempi migliori.»123 L’accenno alla spedizione di Enrico non poteva mancare, ma, confinato com’è all’interno di un quadretto familiare e ridotto a motivo di soddisfazione privata, è privo di mordente politico. Guido di Battifolle non voleva correre rischi, sapendo che quella lettera sarebbe finita negli archivi della cancelleria imperiale.

L’amnistia di Baldo d’Aguglione

Nell’anno in cui declina la parabola di Enrico, gli altri attori sulla scena compiono un intenso lavorio diplomatico e qualche importante mossa militare.

Clemente V persegue il tentativo di stringere un’alleanza tra Enrico e Roberto d’Angiò, cementandola con il matrimonio tra il figlio di Roberto, Carlo duca di Calabria, e la figlia di Enrico, Beatrice. Nei piani del papa (ma non in quelli dell’imperatore) Beatrice avrebbe portato in dote il regno di Arles, cioè quell’ampia zona di territorio estesa a est del Rodano e nella quale si trovavano grandi feudi, come le contee di Provenza, di Borgogna e di Savoia, che faceva parte, sì, dell’impero ma sulla quale, ormai dai tempi degli Svevi, l’impero esercitava solo diritti nominali. I signori più potenti della zona erano per l’appunto gli Angioini, conti di Provenza, i quali con quel matrimonio (già tentato in passato con gli Asburgo) avrebbero dominato l’intera regione. Il progetto non poteva che incontrare l’ostilità di Filippo il Bello, che in quei territori stava estendendo, anche con interventi militari, il potere della monarchia francese. E così, nel maggio 1311, Clemente sarà costretto a smentirsi annunziando pubblicamente che mai avrebbe dato l’assenso a che il re dei Romani cedesse a qualunque titolo i diritti del regno di Arles a qualsiasi principe che non fosse la Chiesa romana. E questo sarà uno dei segni più evidenti che il suo atteggiamento nei confronti di Enrico stava cambiando e che i condizionamenti che subiva da parte del re di Francia producevano i loro effetti.

Roberto d’Angiò continua il doppio gioco. Non vuole entrare in urto con il papa, manda ambascerie concilianti a Enrico, prospetta a sua volta alleanze matrimoniali in cambio della nomina del figlio Carlo a vicario imperiale di Toscana. Insomma, si mostra disponibile, a queste condizioni, a lasciar transitare senza problemi il corteo imperiale che si dirigerà a Roma. Ma nello stesso tempo compie gesti quasi ricattatori: d’accordo con Firenze spedisce un sostanzioso contingente di mercenari catalani al soldo della Taglia guelfa a occupare la Versilia, chiudendo così l’unico corridoio terrestre rimasto aperto all’esercito imperiale, e invia a Roma una forza armata al comando del fratello Giovanni conte di Gravina con la giustificazione di voler rendere sicuro il prossimo soggiorno romano di Enrico, ma in realtà (come poi apparirà chiaro) con l’intento di impedire lo svolgimento della cerimonia d’incoronazione.

Firenze opera su due fronti: all’esterno, estende la rete delle alleanze guelfe (risale alla fine di marzo, pochi giorni dopo l’epistola di Dante ai fiorentini, un parlamento delle città guelfe tenutosi proprio a Firenze); all’interno, fortifica la cinta muraria e compatta il più possibile la cittadinanza.

Uno degli aspetti più sconcertanti della vita fiorentina è il fatto che dentro le sue mura la lotta, anche violenta, tra le parti politiche o tra le famiglie rivali non conosce tregua, nemmeno nei momenti più critici per la città. Anche nel 1311 si verificarono vendette private che furono causa di disordini e tumulti. In vista dello scontro sempre più probabile con l’esercito imperiale, il Comune decise di procedere a una pacificazione interna e di varare un’amnistia. Emanata il 2 settembre, è nota come riforma di Baldo d’Aguglione perché questo giurista, in qualità di priore, ne era stato il maggiore responsabile. L’amnistia (condizionata al pagamento di una gabella calcolata in percentuale sulla pena pecuniaria a cui il reo era stato condannato) riguardava sia i reati comuni sia quelli politici, e quindi interessava alcune migliaia di persone tra città e contado. In tal modo il Comune contava di sottrarre ai fuorusciti forze che avrebbero potuto aggregarsi a loro e di rafforzare la coesione interna. Proprio per non mettere a rischio la pace interna i Ghibellini furono esclusi da tale provvedimento. Ma anche una parte dei Guelfi non poté usufruirne. L’atto, infatti, si chiudeva con una lunga lista di circa duecento famiglie e altrettanti individui singoli, divisi per sestieri, che venivano qualificati come ribelli ed espressamente esclusi dai benefici. In essa compare il nome di Dante Alighieri, accanto ai figli del cavaliere Cione di Bello («filii domini Cionis del Bello et Dante Allegherii»). Ignoriamo per quale motivo i nipoti di Geri del Bello furono esclusi dall’amnistia; invece è facile capire, se si pensa all’attiva propaganda filoimperiale e antifiorentina da lui svolta nei mesi precedenti, perché ne fu escluso il condannato politico Dante. Anzi, ci saremmo meravigliati del contrario.

Colpisce, però, che in un lungo e assai preciso elenco nel quale, per lo più, sono compresi interi clan familiari o gruppi consistenti di una stessa famiglia e nel quale, comunque, i nomi dei singoli sono quasi sempre seguiti da aggiunte del tipo: «et filii» (di gran lunga dominante), «et fratres», «et consortes», «et nepotes» e, perfino, da specificazioni del tipo: «et consortes, excepto …», il nome di Dante figuri privo di ogni aggiunta. Ciò colpisce perché Dante aveva figli, e la legge fiorentina era molto rigorosa nei confronti della prole di uno sbandito: al compimento del quattordicesimo anno i maschi dovevano essere cacciati dalla città. Potremmo pensare, allora, che Iacopo e Pietro, a differenza del padre, fossero stati amnistiati, ma la cosa urta contro il fatto che quattro anni dopo, nel 1315, saranno anch’essi colpiti dalla condanna a morte inflitta nuovamente al padre. Non resta che ipotizzare che nel settembre 1311 essi non avessero ancora compiuto quattordici anni, e quindi non potessero essere contemplati dalla provvisione, e che li abbiano compiuti prima del 1315. Diverso è il caso del presunto primogenito di nome Giovanni: se effettivamente figlio di Dante, era già stato colpito dal bando prima del 1308; e se in questo provvedimento non figura, è perché nel frattempo doveva essere deceduto. Da questa ricostruzione si evincerebbe che gli altri due figli maschi sarebbero nati a parecchia distanza dalla data presumibile del matrimonio con Gemma, cioè fra il 1297 e il 1300-1301.

L’ombra del passato

Qualcuno ha ipotizzato che nel secondo semestre del 1311 Dante avrebbe lasciato il Casentino, dove ancora si trovava nella tarda primavera, perché avrebbe cominciato a sperimentare l’inaffidabilità dei Guidi. In effetti, nel castello di Poppi aveva constatato con quanto poco entusiasmo i rami guelfi della famiglia si fossero aggregati allo schieramento imperiale; tuttavia, nell’estate-autunno del 1311 nessuno di loro aveva compiuto gesti di aperta dissociazione o, come avverrà l’anno dopo, di ostilità. E poi, anche se avesse deciso di allontanarsi dal Casentino, dove si sarebbe rifugiato? Enrico stazionava in Lombardia; la Romagna era controllata da Roberto d’Angiò; anche gli accessi alla Lunigiana dei Malaspina erano sorvegliati dai mercenari inviati da Firenze. Gli sarebbe rimasta Pisa, dove si erano concentrati numerosi fuorusciti. A questa città, però, Dante doveva guardare con molta diffidenza. Che i pisani lo avrebbero accolto amichevolmente era poco prevedibile, dopo che lui aveva definito la loro città «vituperio» degli italiani («vituperio de le genti / del bel paese là dove ’l sì suona»124) e che, da guelfo radicale come allora si atteggiava, senza riguardi aveva messo il dito in una piaga ancora aperta come quella della morte del conte Ugolino. È pensabile che Dante non abbia letto quel canto dell’Inferno a Guido di Battifolle e alla moglie Gherardesca, figlia di Ugolino? Che non lo abbia letto in casa di Moroello, lui pure imparentato con un figlio del conte? È credibile, considerando le numerose relazioni che i Gherardeschi avevano in Pisa, che almeno la notizia non vi fosse circolata? E poi, anche a prescindere dall’antipisanità dell’Inferno, su Dante avrebbero pesato i suoi stretti legami con i Malaspina: i pisani come avrebbero considerato un guelfo «bianco» che per più di un anno aveva vissuto indisturbato a Lucca, la loro storica nemica? Non era facile per Dante liberarsi dalle ombre che il suo recente passato proiettava su di lui. È probabile, dunque, che fino all’autunno inoltrato non si sia mosso dal Casentino.

Verso la fine di ottobre 1311, casualmente e dopo non poche peripezie, giunsero ai confini casentinesi alcuni messi che Enrico aveva spedito, mentre era in viaggio verso Genova, alle città della Tuscia. Di quella legazione facevano parte tre vescovi: Pandolfo Savelli – la famiglia romana dei Savelli si schiererà apertamente al fianco di Enrico durante gli scontri armati che precederanno l’incoronazione –, Niccolò di Ligny e il frate domenicano di origine lussemburghese Niccolò, vescovo di Butrinto in Albania (che poi scriverà per Clemente V una dettagliata relazione delle vicende italiane di Enrico VII). A Firenze, raggiunta in modo avventuroso a causa dell’aperta ostilità manifestata loro dai bolognesi, i messi imperiali furono dichiarati nemici pubblici, derubati dei cavalli e dei soldi e imprigionati. Rimessi in libertà, vennero condotti attraverso il Mugello fino a San Godenzo, dove, finalmente, poterono usufruire dell’ospitalità e della protezione di Tegrimo II di Modigliana-Porciano. Nei giorni successivi furono ossequiati dai fratelli del Guidi (Tancredi, Bandino e Ruggero), ghibellini tranne Ruggero, guelfo come Guido Salvatico e Guido di Battifolle. I Guidi proclamarono la loro fedeltà a Enrico, al quale promisero di portare aiuto una volta disceso in Toscana. Nella sua relazione al papa, Niccolò di Butrinto sottolinea che, in quell’occasione, i rami guelfi si mostrarono i sostenitori più ferventi della causa imperiale, salvo poi disattendere le loro promesse e schierarsi infine con Firenze. I legati, comunque, attraversano tutto il Casentino da nord a sud e si recano ad Arezzo presso il vescovo Ildebrandino di Romena. Se tra ottobre e novembre Dante era ancora ospite dei castelli dei Guidi, ha sicuramente assistito a qualcuno di quegli incontri. Una ipotesi azzardata, ma non improponibile, è che egli si sia aggregato alla spedizione imperiale che rientrava a corte e che abbia raggiunto Genova insieme a loro. Per uno come lui, bisognoso di protezione (e forse privo di mezzi di trasporto), viaggiare con quella comitiva (che i Guidi avevano provvisto di cavalcature anche per il seguito) sarebbe stata la soluzione ideale. Se le cose fossero andate così, Dante sarebbe giunto a Genova verso la fine di novembre o ai primi di dicembre, proprio quando la corte di Enrico vi si era da poco installata.

Tra i genovesi «pien d’ogne magagna»

Enrico arriva a Genova verso la fine di ottobre 1311: vi resterà fino al 15 febbraio 1312, giorno in cui la comitiva imperiale si metterà in viaggio alla volta di Pisa. Anche a Genova Enrico chiede (e ottiene, ma non senza resistenze) i pieni poteri. La richiesta è giustificata dalla necessità di mettere fine alla contesa che divideva gli Spinola e i Doria (in quel momento l’uomo forte della città era Bernabò Doria, figlio del «morto vivente» Branca). Ancora una volta, dunque, Enrico si presenta come sovrano pacificatore. Il soggiorno a Genova, però, non è esente da tensioni con la città, alimentate anche dal fatto che l’esercito imperiale vi aveva portato il contagio della peste scoppiata sotto le mura di Brescia (e proprio di quella malattia, ivi contratta, il 14 dicembre muore Margherita di Brabante). Tensioni, comunque, ci saranno di lì a poco anche nella Pisa imperiale. Enrico sarà stato anche l’uomo mite e pacifico che le cronache descrivono, ma agiva con molta durezza, perfino nei confronti degli amici. A Genova, tuttavia, ha modo di riordinare le truppe, di rinsanguare le finanze e di preparare la spedizione militare a Roma. Più simbolico che incisivo, ma tale comunque da segnalare a tutti quali sarebbero state le sue future mosse politiche e militari, è il bando dall’impero emanato contro Firenze la vigilia di Natale del 1311.

Anche Dante, nell’inverno 1311-1312, è a Genova. Lo attesta un testimone d’eccezione. In una lettera a Boccaccio, Petrarca scrive di avere incontrato Dante una sola volta nella sua vita, quando era ancora un bambino. Non specifica né dove né quando, dice solo che Dante e il proprio padre erano amici e accomunati dall’esilio. Da ciò che della sua infanzia racconta in altre lettere possiamo però ricostruire con certezza che ser Petracco e Dante si videro, alla presenza del piccolo Francesco, proprio quell’inverno, a Genova. Petracco aspettava di imbarcarsi con la famiglia alla volta di Avignone. Sarà una traversata resa difficile dalle cattive condizioni del mare, al punto che il battello farà naufragio non lontano da Marsiglia. Ora, che Dante e Petracco fossero grandi amici, forse non è del tutto vero, ma che avessero molte cose da dirsi è certo: le loro vite si erano incrociate più volte negli anni in cui entrambi erano membri dell’Università dei Bianchi, l’arrivo di Enrico aveva suscitato in loro identiche speranze, l’uno e l’altro erano rimasti esclusi dalla recente amnistia fiorentina. Possiamo immaginare, tuttavia, che i due non abbiano parlato solo di politica. Se l’ipotesi del soggiorno avignonese di Dante fosse corretta, Petracco, in procinto di trasferirsi in quella città a lui sconosciuta, avrebbe avuto interesse a che uno che l’aveva lasciata non molti mesi prima gli facesse un quadro dell’ambiente che l’attendeva.

Dante a Genova avrà frequentato i fuorusciti (tra i quali contava amici e conoscenti) che gravitavano intorno alla corte imperiale. È più che dubbio, invece, che abbia stretto rapporti significativi con esponenti dell’oligarchia cittadina; anzi, c’è da credere che i suoi rapporti con i genovesi non siano stati del tutto tranquilli. Alcuni racconti leggendari, per esempio, vogliono che amici e servitori di Branca Doria siano addirittura arrivati a bastonarlo per vendicare l’ingiurioso trattamento riservato loro nell’Inferno (o, in altre versioni, che Dante, nel canto infernale, si sia vendicato di un oltraggio subito a Genova). Leggende alle quali non è possibile dare credito (la seconda versione, del resto, è smentita dal fatto che quel canto era stato scritto prima del 1311), ma che neppure possiamo respingere in toto: episodi di per sé palesemente infondati valgono pur sempre come termometro di un clima. E neppure è risolutivo l’argomento che il Doria non poteva essere così risentito perché, a quella data, l’Inferno non era ancora stato pubblicato. Noi siamo soliti ammirare l’integrità, il coraggio, la sovrana indifferenza alle conseguenze con cui Dante attacca a viso aperto, con giudizi sferzanti e vere e proprie ingiurie, potenti ancora in vita negli anni in cui scrive, ma non ci interroghiamo abbastanza, anche perché sprovvisti di ogni documentazione al riguardo, proprio sulle conseguenze e sulle ripercussioni che quei giudizi hanno potuto avere sulla sua vita. Che reazioni ci siano state lo lascia intendere lui stesso quando nel Paradiso manifesta a Cacciaguida la paura che la verità, pronunciata senza infingimenti, con parole che gli interessati sentiranno «brusche», «a molti fia sapor di forte agrume».125 Gli attacchi ai Doria, ai Fieschi, ai genovesi in generale («uomini diversi / d’ogne costume e pien d’ogne magagna, / perché non siete voi del mondo spersi?»126) non saranno rimasti confinati dentro un libro segreto, in attesa di futura pubblicazione. Nella Commedia Dante è costantemente proiettato sull’attualità, e anche quando parla di cose passate, lo fa nella prospettiva politica dell’oggi o in funzione della sua condizione di vita nel momento in cui scrive. È impensabile che egli tenesse nel cassetto le pagine di quello che ci è capitato di accostare agli odierni instant-book. Dei versi antigenovesi avrà dato lettura almeno ai Malaspina, e nel mondo ristretto dell’aristocrazia medievale, collegato da una rete capillare di rapporti di parentela, notizie dal «forte agrume» come quelle dovevano circolare ampiamente. I Doria non lo avranno fatto bastonare, ma che gli oligarchi ghibellini di Genova facessero festa a quel fiorentino sbandito e, per di più, collegato a famiglie guelfe loro rivali, come quella di Moroello, c’è da dubitare. Insomma, Dante deve aver pagato un prezzo per il suo incessante ricollocarsi su posizioni politiche diverse e perfino contrapposte e per i debiti che contraeva con i protettori. Se nel biennio 1306-1308 ha scontato le conseguenze della sua precedente alleanza con i fuorusciti ghibellini, adesso sono le manifestazioni di guelfismo integrale e la fedeltà ai Malaspina a rivolgerglisi contro. Un esule privo di scudo legale come lui, a Genova ma anche, poco dopo, a Pisa, avrà evitato di incappare in qualche incidente perché protetto dagli ambienti di corte o alla corte vicini. E d’altra parte, se non fosse stata la presenza della corte, quale altro motivo lo avrebbe spinto in quella città?

Verso un’elaborazione teorica

Se non era stato per allontanarsi dai Guidi, cosa aveva spinto Dante a Genova? Una costante della sua vita è che a periodi nei quali egli si butta nell’agone politico ne seguono altri nei quali si ritira a studiare e a scrivere. Dopo che per un paio d’anni aveva combattuto tra le file dei fuorusciti, aveva sentito la necessità di ordinare le nuove esperienze fatte in quel periodo, di sistemare in una cornice concettuale unitaria gli impulsi, le sollecitazioni e le conoscenze che era venuto accumulando. Si era ritirato a Bologna e si era dedicato alla composizione del Convivio e del De vulgari eloquentia. Il bisogno intellettuale di mettere ordine, sistematizzare, salire dai dati di esperienza a livelli di generalizzazione più alti, in lui è sempre vivo. Si fa più impellente, però, nei periodi di passaggio nei quali cambia il panorama sociale intorno a lui e, soprattutto, in lui cambiano le prospettive e i criteri con i quali guardare la realtà. Il 1311 è uno di questi periodi.

Fino al 1310 Dante si era mosso, sia da cittadino intrinseco sia da sbandito, come uomo di municipio. È vero, aveva combattuto contro Firenze, mai, però, gli sarebbe venuta l’idea di privarla della sua autonomia. Anche da fuoruscito Firenze restava il punto focale della sua visione della storia. Con l’avvento di un imperatore, a cambiare era stata proprio la prospettiva da cui osservare il ruolo e il destino della sua città. Da quel momento aveva invocato un potere temporale universale, una pace garantita da una istituzione votata al bene comune, la restaurazione di un diritto imperiale che avrebbe sconvolto una geografia politica e statuale da tempo stabilizzata; insomma, aveva sostenuto con i fatti e con gli scritti il programma politico-istituzionale di Enrico. Ma uno come Dante non poteva esimersi da una profonda riflessione sulla legittimità e sui fondamenti di quel programma. Sulla funzione dell’impero aveva cominciato a meditare fin dal tempo del Convivio; nel corso del 1311, proprio nel fuoco della battaglia, aveva precisato alcune idee al riguardo (per esempio, nell’epistola ai fiorentini aveva affermato a chiare lettere l’origine provvidenziale dell’impero, disposto dal Signore «affinché i mortali avessero pace, nella serenità di una così grande protezione, e ovunque si agisse civilmente, rispettando le leggi naturali»127); non aveva ancora tracciato, però, un organico quadro storico, giuridico e, per certi aspetti, teologico nel quale collocare e giustificare, alla luce di inoppugnabili ragioni di verità, sia le azioni di Enrico sia le sue personali. Questo quadro lo dipingerà compiutamente in un trattato specificamente dedicato alla «monarchia», che egli intende come «uno solo principato e uno prencipe avere».128 È probabile che già nel 1311, nelle valli del Casentino, abbia cominciato a pensarne i contenuti. In un’opera del genere, gli aspetti giuridici rivestivano un’importanza particolare. Dante, dunque, aveva la necessità di procurarsi una biblioteca giuridica per arricchire una competenza che, forse, in parte già aveva, ma che quasi sicuramente non era sufficiente per affrontare argomenti di tanto peso. Nei castelli dei Guidi avrebbe trovato le opere che gli necessitavano, dal Digesto agli scritti di Accursio e Odofredo Denari? La cancelleria di Enrico, centro di una imponente produzione di testi legislativi, era sicuramente fornita di quelle opere. Non solo. Per ovvi motivi la corte imperiale era in costante rapporto con le cancellerie dei sovrani europei e con la sede conciliare di Vienne, e quindi riceveva in anteprima le bozze dei decreti e i documenti prodotti nel concilio. E anche questo genere di testi sarebbe stato prezioso per chi aveva in mente un’opera teorica, sì, ma saldamente ancorata all’attualità.

Incoronazione e catastrofe

Salpato da Genova il 15 febbraio 1312, dopo una lenta traversata Enrico approdò a Porto Pisano il 5 marzo. Il giorno successivo, in corteo, dalla basilica di San Piero a Grado raggiunse il duomo della città tra feste e acclamazioni. Non poteva essere altrimenti, perché Pisa, da sempre, era schierata con la causa imperiale. Il calore dei pisani si raffreddò non poco di fronte alle sue pretese economiche e, soprattutto, alla sua ferma e insindacabile decisione di esercitare i pieni poteri. La sosta a Pisa, dove si erano concentrati in gran numero i Ghibellini di Toscana (per esempio, dal Casentino vi era giunto Tegrimo II dei Guidi di Modigliana-Porciano e da Arezzo il vescovo Ildebrandino di Romena, che lì morirà l’anno dopo), gli permise di riorganizzare le forze in vista della spedizione romana. Il 23 aprile si mosse con l’esercito e, percorrendo la strada di Maremma, giunse a Roma il 6 maggio.

Qui, già da molti mesi, per conto di Enrico agiva il senatore Ludovico di Savoia, spalleggiato dalla famiglia Colonna. Il suo compito sarebbe stato di prendere il controllo della città in vista dell’incoronazione da effettuarsi in San Pietro, ma proprio per impedire ciò il re di Napoli aveva inviato, nel dicembre dell’anno prima, un contingente militare al comando di suo fratello Giovanni. Le truppe angioine, attivamente sostenute dagli Orsini, storici rivali dei Colonna, avevano occupato una parte consistente della città, compreso il cosiddetto Borgo, il quartiere che si estendeva tra il Tevere e San Pietro. Se non si fosse arrivati a un accordo, Enrico avrebbe dovuto aprirsi la strada combattendo. Solo il papa aveva il potere di imporre agli Angioini di ritirarsi, e in effetti Clemente V sembrava intenzionato a compiere questo passo, ma poi, pressato dal re di Francia, vi rinunciò e, anzi, verso la fine di marzo ammonì Enrico che il re di Napoli era figlio diletto e vassallo della Chiesa, e quindi non poteva essere colpito. Da questo momento fu chiaro che il papa aveva ceduto a Filippo il Bello e aveva tolto il suo sostegno al re dei Romani. A Enrico non restava che la via delle armi. Dopo una fase preparatoria durante la quale riuscì a occupare il Campidoglio e altre fortezze baronali, il 26 maggio con l’appoggio dei Colonna assalì le forze angioine nel tentativo di aprirsi la strada verso San Pietro, difeso dalle fortificazioni degli Orsini. E però «la più grande battaglia che abbia mai avuto luogo per le vie di Roma» si concluse con la sconfitta di Enrico, il quale, non essendo riuscito a espugnare il Borgo, decise di rinunciare a San Pietro, sede tradizionale delle incoronazioni, e di ripiegare sulla basilica di San Giovanni in Laterano. Il 29 giugno 1312 Enrico di Lussemburgo divenne il settimo imperatore dei Romani con quel nome.

Dal punto di vista legale la cerimonia, presieduta dai cardinali legati, conferiva al re dei Romani i crismi e i poteri imperiali: nella lettera ai sovrani d’Europa con la quale il giorno stesso annunciava l’avvenuta incoronazione, Enrico VII proclamava solennemente la sovranità dell’imperatore, soggetto a Dio solo, su tutti i monarchi (Filippo IV rispose che la Francia non riconosceva nessuno superiore al suo re). Dal punto di vista simbolico, un’incoronazione non effettuata dal papa e, per di più, non in San Pietro aveva l’aspetto di un’incoronazione mancata, soprattutto in considerazione del fatto che quella era la prima volta da quasi cento anni che un re dei Romani veniva insignito del diadema imperiale (l’ultimo era stato Federico II nel 1220). Anche la basilica di San Giovanni non era proprio il luogo più adatto per conferire solennità all’investitura. Semidistrutta da un incendio quattro anni prima (6 maggio 1308), era ancora in attesa di un adeguato restauro: forse mancava perfino del tetto, crollato tra le fiamme.

I resoconti del banchetto che si tenne dopo la cerimonia forniscono un’idea abbastanza precisa del clima nel quale si svolsero i festeggiamenti. «Il fastoso banchetto fu allestito all’aperto presso il convento di Santa Sabina, sull’Aventino, nel dominio dei Savelli … Ma collocati sui punti più alti dell’Aventino, frombolieri e arcieri nemici molestavano con lanci di pietre il pubblico, che circondava curioso i convitati, e disturbavano il banchetto con clamori di scherno … Il banchetto all’aperto dovette essere interrotto e continuato entro mura protettrici».

L’imperatore si trattiene a Roma e nel territorio circonvicino fin verso la fine d’agosto. In questo periodo subisce la defezione di molti principi tedeschi, rientrati in Germania con le loro poche truppe, e il suo esercito tutt’altro che imponente si assottiglia ancora. Tuttavia egli decide di muovere contro Firenze. Le sue forze gli consentono di vincere i numerosi scontri in campo aperto che si susseguono nel contado e nel territorio fiorentino, ma non sono sufficienti né per assalire la città né per cingerla di un assedio efficace. Da poco dopo la metà di settembre, per una quarantina di giorni, si accampa sotto le mura di Firenze senza peraltro chiuderne tutte le vie di accesso. In quell’inutile assedio logora l’esercito e infligge un grave colpo alla sua immagine imperiale. Verso la fine d’ottobre toglie l’assedio, ma si trattiene per molti mesi nei pressi della città: espugna numerosi castelli e cittadine, ma non riesce a imprimere una svolta a un’azione che si rivela sempre più fallimentare. Ritorna a Pisa solamente ai primi di marzo 1313.

Nel frattempo, però, era successo un fatto clamoroso. Fin dalla seconda metà del 1311 Enrico aveva avviato, in parallelo a quelle con Roberto d’Angiò auspicate da Clemente V, trattative con Federico III d’Aragona, il sovrano della Sicilia. Era dai tempi dei Vespri che gli Angioini cercavano vanamente di rientrare in possesso dell’isola sulla quale i re d’Aragona esercitavano una sovranità a loro avviso illegittima. Pochi giorni dopo la cerimonia d’incoronazione, il 4 luglio 1312, la trattativa era sfociata nella firma di un’alleanza militare tra l’Aragonese e l’imperatore. L’obiettivo era di invadere il regno di Napoli contemporaneamente da nord e da sud.

L’alleanza stipulata con Federico d’Aragona dischiudeva all’imperatore la possibilità di infliggere un colpo decisivo a quello che si era rivelato come il suo vero e più potente nemico. E così, dopo aver emesso nei suoi confronti una condanna a morte per decapitazione come traditore dell’impero (26 aprile 1313), il 1° agosto annuncia ufficialmente l’inizio della spedizione militare. Lo stesso giorno la flotta siciliana salpa da Messina e l’esercito di Federico invade la Calabria. Tutto lascia credere che Roberto d’Angiò resterà stritolato da questa tenaglia e che a Enrico VII riuscirà l’impresa di diventare il padrone dell’intera penisola. Sennonché, durante la marcia verso sud, l’imperatore cade ammalato e, giunto a Buonconvento, presso Siena, vi muore il 24 agosto.

L’esercito imperiale si scioglie, i Ghibellini che si erano uniti all’imperatore ritornano nelle loro città, e si allontanano pure i fuorusciti: a scortare la salma nel viaggio, subito intrapreso, verso Pisa restano solo i cavalieri teutonici. Per evitare che si decomponga, il corpo, tolte le interiora, viene bollito con vino e aromi. A Pisa i funerali sono solenni, la salma di Enrico è tumulata nel duomo, dove ancor oggi si trova in un sarcofago che il Comune farà scolpire a Tino di Camaino. Il clima luttuoso che si respirava in città fu ulteriormente appesantito dalla voce, che subito aveva cominciato a circolare (e che continuerà a circolare per secoli), che Enrico fosse morto non di malattia (forse una forma malarica contratta l’anno precedente durante il soggiorno nell’agro romano), ma per avvelenamento. Si indicava anche il colpevole nella figura del suo confessore, il frate domenicano Bernardino da Montepulciano, il quale gli avrebbe somministrato un’ostia avvelenata. Benché smentita dagli ambienti imperiali, la voce dilagò. In parecchie città i domenicani (forse anche su istigazione dei francescani, loro concorrenti), bersagliati da questa accusa, furono assaliti e feriti, e nemmeno chiese e conventi dell’Ordine furono risparmiati.

Un oscuro passo del Purgatorio, per di più incastonato nel contesto di una oscurissima profezia, quella famosa del «cinquecento diece e cinque», potrebbe suggerire, ma il condizionale è d’obbligo, che anche Dante abbia creduto che Enrico fosse stato soppresso: «Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe, / fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda / che vendetta di Dio non teme suppe».129 Se il termine «suppe» è da intendere come «pezzo di pane intinto in un liquido» e, soprattutto, se la profezia purgatoriale è stata scritta dopo la morte di Enrico VII, Dante alluderebbe alla diceria dell’avvelenamento con le spoglie eucaristiche: i colpevoli della rovina della Chiesa (il «vaso» rotto dal serpente-drago, cioè Satana) non si sottrarranno alla vendetta divina solo perché si erano liberati con il veleno di chi era stato incaricato di compierla.

La «Monarchia»

Quasi certamente Dante è presente alle esequie imperiali. Doveva essersi trasferito a Pisa, al seguito della corte, nei primi giorni di marzo 1312. Per quanto ne sappiamo, era la prima volta che metteva piede in questa città. Quasi un quarto di secolo prima, giovane feditore a cavallo, dopo aver assistito alla resa di Caprona si era spinto con l’esercito fiorentino fin sotto le sue mura, efficacemente difese da Guido da Montefeltro, ma né allora né dopo vi era entrato. Adesso lo faceva non da guelfo nemico, ma da alleato. È probabile che già a Genova avesse trovato una sistemazione, se non proprio nell’entourage più stretto del sovrano, in qualcuno degli ambienti che attorniavano la corte, e che avesse allacciato rapporti con i notai e i giuristi della cancelleria. Non gli mancavano conoscenti, come, per esempio, Palmiero degli Altoviti, che avrebbero potuto raccomandarlo. Qualcosa per lui potrebbe avere fatto anche il cardinale Niccolò da Prato, che il grande intellettuale padovano Albertino Mussato (presente a Genova come ambasciatore) descrive come punto di riferimento dei Ghibellini accorsi in quella città, e in particolare di quelli toscani. Ed è pure probabile che a Pisa abbia continuato a usufruire di quegli aiuti.

Dei tanti eventi succedutisi fuori Pisa, come l’incoronazione, l’assedio di Firenze, la morte di Enrico VII, Dante non sembra essere stato spettatore. Di certo, non era con l’esercito imperiale all’assedio di Firenze. Secondo Leonardo Bruni, «non vi volle essere» perché «il tenne la reverentia della patria».

A Pisa si sarà dedicato a quel trattato filosofico-giuridico sul tema della «monarchia» per scrivere il quale, presumibilmente, aveva lasciato il Casentino.

Il trattato è diviso in tre libri, ciascuno dei quali risponde a una domanda o questio. Nell’ordine: se la monarchia (o impero) «sia necessaria al buono stato del mondo»; «se il popolo romano abbia rivendicato a sé di diritto l’ufficio di Monarca»; «se l’autorità del Monarca dipenda da Dio immediatamente oppure da un ministro o vicario di Dio».130 Con procedimento rigorosamente sillogistico-deduttivo, partendo cioè da principi astratti e universali di ordine etico, filosofico e teologico, e con il supporto di considerazioni storiche, Dante, premesso che «la pace universale è il più grande dei beni che sono ordinati all’umana beatitudine»,131 dimostra: che il governo di uno solo, l’imperatore o monarca, è necessario al buon ordine del mondo perché esso assicura (diversamente da quanto fanno i re, i principi, i regimi oligarchici e quelli elettivi) il più alto grado di giustizia, la massima libertà, la concordia tra le parti e quindi la pace universale (libro I); che il popolo romano non ottenne con la forza e la violenza (come invece fanno i re e i principi) il dominio del mondo, ma che quel privilegio gli fu conferito dalla Provvidenza divina, affinché, sottomettendo tutti i popoli, instaurasse la pace, e che Cristo stesso, avendo scelto di nascere sotto l’impero, ne ha sancito il pieno diritto a governare il genere umano (e pertanto peccano gravemente i cristiani e gli uomini di chiesa che combattono o vilipendono l’impero, benché approvato esplicitamente da Cristo) (libro II). Infine (libro III), in relazione al problema di quale sia il rapporto tra i due grandi «luminari» (il Pontefice romano e il Principe romano) che rischiarano e guidano il mondo, dimostra, contro il parere di molti dottori della Chiesa, secondo i quali «come la luna, che è il luminare minore, non ha luce se non perché la riceve dal sole, così neppure il regime temporale ha autorità, se non perché la riceve dal regime spirituale»,132 che l’autorità del Principe dipende direttamente da Dio e «non dipende per nulla dalla Chiesa». Ne consegue che i papi «non possono sciogliere o legare i decreti dell’Impero, ossia le leggi»,133 e nemmeno possono appellarsi al fatto che Costantino abbia donato alla Chiesa «Roma, sede dell’Impero, con molte altre dignità dell’Impero», perché «Costantino non poteva alienare la potestà dell’Impero né la Chiesa poteva riceverla».134 Gli ambiti dei due poteri sono nettamente distinti: l’uomo persegue «la beatitudine di questa vita» e «la beatitudine della vita eterna»,135 e pertanto, affinché egli possa raggiungere questo duplice fine, la Provvidenza gli ha dato due guide, quella «del Sommo Pontefice, che secondo le cose rivelate conducesse il genere umano alla vita eterna, e quella dell’Imperatore, che dirigesse il genere umano alla felicità temporale secondo gli insegnamenti filosofici».136

«Verità mai da altri tentate»

È stato detto, in riferimento alla sua produzione di lirico in volgare, ma l’osservazione vale per l’intera sua opera, che Dante è «il poeta che più di ogni altro ha saputo emanciparsi dai clichés che la tradizione gli imponeva». Che lavori all’interno di un genere o che scriva un testo non inquadrabile in un genere precostituito, egli si prefigge comunque di essere nuovo e originale. E nuove, in effetti, sono le sue opere, nessuna delle quali si lascia del tutto circoscrivere dentro un genere preesistente. Solo la Monarchia, con il suo andamento così rigidamente consequenziale e il suo esibito carattere di testo che potrebbe essere nato nelle aule di uno Studium, sembrerebbe fare eccezione e collocarsi in un unico ambito omogeneo, rinunciando a mescolare tradizioni e stimoli diversi. Eppure, nemmeno di questo libro Dante rinuncia a proclamare la novità, dalla quale a lui verrà gloria: «mi sono proposto … di palesare verità mai da altri tentate».137

La rivendicazione di originalità è giustificata. È vero che con la Monarchia Dante si inserisce in un ampio dibattito che vede partecipi i maggiori giuristi del Due e Trecento, ma in quale altra opera politico-giuridica «il Digesto sta accanto a Livio, a Virgilio, a Ovidio, a Lucano e a Boezio, accanto ad Aristotele e ai suoi interpreti, accanto a Seneca e a Cicerone» come nella sua? E soprattutto, quale altra opera di questo genere sublima al livello della più alta e oggettiva speculazione formale e filosofica una materia impregnata di passioni, interessi, odi come quella a cui la Monarchia si applica? Oltre alla capacità di Dante di aprire prospettive nuove in ogni campo a cui si dedica, questo libro esibisce in maniera nitida l’impronta più tipicamente dantesca, vale a dire l’intreccio fra l’attualità vissuta e partecipata in prima persona e la riflessione che la ordina in un sistema concettuale stabile e definitivo. La Monarchia ne è un esempio paradigmatico proprio perché il rigore del procedimento logico, la ferrea gerarchizzazione dei valori sulla base di principi generali, il freddo distacco «scientifico» dell’argomentazione nascondono che la sua ragion d’essere scaturisce da una realtà contingente magmatica, contraddittoria, instabile e, soprattutto, impregnata di passionalità. Non a caso, dunque, si discute se gli avvenimenti storici che essa presuppone siano quelli relativi a Enrico VII o non, piuttosto, quelli che hanno a protagonista Cangrande della Scala.

In realtà, numerosi segnali rimandano agli anni di Enrico. E forse si può ulteriormente circoscrivere il periodo di composizione, se non di tutto il trattato, almeno del suo ultimo libro. C’è congruenza tra la sua tesi centrale, cioè che il potere imperiale, stabilito da Dio per garantire la pace fra gli uomini, da Dio deriva direttamente senza mediazione alcuna dei suoi vicari, e lo stato dei rapporti fra Enrico VII e Clemente V dopo l’incoronazione imperiale. Mentre in una prima fase i due sembravano procedere d’accordo – Enrico chiedeva insistentemente la confirmatio papale e il pontefice si mostrava ben disposto a concedere un riconoscimento che ratificava la superiorità del potere spirituale su quello temporale –, nel periodo concitato che precede l’incoronazione, quando il papa si piega al ricatto francese, e ancora più dopo, i due protagonisti si irrigidiscono su posizioni antagonistiche: il neoimperatore rivendica l’autonoma pienezza dei suoi poteri e il papa ne sottolinea invece la subordinazione. Ed è proprio in quei mesi che si manifesta apertamente l’opposizione dei re (Filippo IV di Francia e Roberto d’Angiò), stigmatizzata nel libro con le parole del Salmo 2: «Perché fremettero le nazioni e i popoli meditarono cose vane? Insorsero i re della terra, e i principi congiurarono contro il Signore e contro il suo Unto».138

La Monarchia non presuppone solo un grande bagaglio dottrinale, giuridico, filosofico, storico e teologico; alle spalle ha pure un insieme di documenti, decreti, lettere, atti legislativi, prodotti dall’imperatore, dal papa e dai re appena citati soprattutto fra l’estate del 1312 e quella del 1313: dalle «Costituzioni pisane», emanate da Enrico il 2 aprile 1313 (nelle quali è sancita la soggezione di ogni uomo all’imperatore, premessa alla deposizione e condanna di Roberto), alle varie petitiones al papa nelle quali il re di Napoli non solo chiede di dichiarare illegittima l’incoronazione, ma nega addirittura che in un mondo di monarchie oggi diremmo nazionali un impero universale (nato peraltro dalla forza e non, come argomenta Dante, dal diritto) sia ancora attuale, alle decretali con le quali, dopo il concilio di Vienne, Clemente V annulla la sentenza imperiale ai danni di re Roberto e, soprattutto, ribadisce il suo dovere-diritto di esercitare la paterna potestà sulle nazioni cristiane. Un intrico di documenti (altri se ne potrebbero aggiungere, come la risposta di Filippo il Bello all’enciclica imperiale che annunciava l’avvenuta incoronazione) che si rincorrono e sovrappongono nello stesso giro di mesi, alla luce dei quali molte argomentazioni dantesche sembrano trovare la loro migliore collocazione cronologica nella primavera del 1313.

La filigrana di documenti che la Monarchia lascia intravedere in controluce potrebbe essere assunta come prova che Dante era effettivamente in contatto con la cancelleria imperiale: in quale altro luogo, infatti, epistole, decreti, documenti di varia natura potevano arrivare con tanta tempestività, addirittura, come nel caso delle decretali clementine, ancor prima di essere pubblicati? La domanda è: contatto o collaborazione? La Monarchia ha – o, meglio, avrebbe dovuto avere – un forte impatto propagandistico, e ciò deporrebbe a favore del fatto che ci fosse una qualche collaborazione tra la cancelleria e Dante: è probabile non che questi scrivesse su commissione, ma che consultasse i giuristi di Enrico e ne ricevesse materiali.

Che Dante pensasse a un testo propagandistico è da escludere. La sua mira era molto più alta. È evidente, però, che il trattato poteva prestarsi a quell’uso. L’autore sembra esserne consapevole e sembra pure preoccupato che il libro possa suscitare effetti controproducenti. Nelle battute finali, dopo aver dimostrato l’indipendenza del potere temporale dell’imperatore da quello spirituale del papa (in termini metaforici, che la cristianità è illuminata da due «soli» e non da un «sole» e da una «luna»), sente la necessità di avvertire che questa «verità … non deve essere accolta in senso così stretto, che il Principe romano non sia in qualcosa soggetto al Pontefice romano, dal momento che questa felicità mortale è in qualche modo ordinata a una felicità immortale», e pertanto esorta l’imperatore a tributare al papa «quella reverenza che il figlio primogenito deve usare verso il padre».139 L’invito scaturisce dalla sua profonda religiosità e dal suo indefettibile senso dell’ortodossia (perfino Bonifacio VIII è intoccabile in quanto vicario di Cristo), ma probabilmente riflette anche la preoccupazione che gli assunti radicali sulla divisione dei due poteri possano essere strumentalizzati e inasprire i già difficili rapporti tra Enrico e Clemente. Una preoccupazione forse condivisa anche dalla parte imperiale, che mai si spinse fino a una aperta rottura con il papa. Ciò detto, è un fatto che la Monarchia si prestava, oggettivamente, a essere impiegata come arma propagandistica nella lotta politica. Non a caso, verso la fine degli anni Venti del Trecento essa sarà coinvolta nella diatriba tra il papa e Ludovico il Bavaro. Dice Boccaccio che l’appropriazione fattane in quelle circostanze dalla propaganda ghibellina rese «molto famoso» un libro «il quale infino allora appena era saputo», cioè era noto a stento. Ci si può chiedere, dunque, come mai negli anni in cui fu scritto non ne venne fatto l’uso a cui naturalmente si prestava, tanto da passare quasi inosservato. Forse la risposta è che, se fu portato a termine nell’estate del 1313, e non mesi prima, non fece in tempo a essere divulgato: la morte improvvisa di Enrico, di colpo, lo aveva reso inattuale.

Per diritto ereditario

La Monarchia è forse l’unico libro di Dante privo di squarci palesemente autobiografici. Ma siccome non esiste libro nel quale Dante non manifesti l’esigenza di parlare di sé, gli elementi autobiografici andranno cercati tra le pieghe dei discorsi ideologici, proprio come i riferimenti all’attualità vanno scovati sotto la distaccata trattazione giuridico-filosofica.

La riflessione su cosa sia la nobiltà e su chi siano i nobili percorre le opere dantesche come un filo rosso. Dante usa lo scandaglio della nobiltà (d’animo o ereditaria, cioè di sangue) per misurare i rapporti sociali e per individuare quale possa essere lo stato ottimale di una società ben ordinata, ma è forte il sospetto che in lui agiscano anche motivazioni personali e private. Che il suo, cioè, non sia solo un bisogno intellettuale di definire il nobile, ma anche il bisogno di definire la propria collocazione sociale. Sulla sua riflessione, dunque, influiscono sotterraneamente sia la sensazione di disagio che sembra averlo accompagnato fin da giovane sia la difficoltà di individuare il suo posto nelle gerarchie comunali e, poi, in quelle delle corti feudali.

I numerosi interventi che si susseguono nel corso degli anni sono accompagnati, come da un Leitmotiv, dalla sentenza di Aristotele: «nobiltà è virtù e antiche ricchezze». Negli anni Novanta del Duecento, nella canzone Le dolci rime, Dante aveva duramente e anche un po’ sprezzantemente contestato quella sentenza, che allora attribuiva a Federico II («Tale imperò che gentilezza volse, / secondo ’l suo parere, / che fosse antica possession d’avere / con reggimenti belli»140): a scrivere quei versi era il Dante guelfo-municipale deciso sostenitore della nobiltà d’animo, cioè della nobiltà che prescinde dalla famiglia e dallo stato patrimoniale. Nel Convivio, commentando questi stessi versi, aveva preso le distanze dall’affermazione dell’imperatore, ma con prudenza e con ossequio nei suoi confronti, e aveva cominciato ad aprire la strada per una rivalutazione della componente ereditaria nella nobiltà. Adesso, nella Monarchia, all’inizio del libro nel quale discute del buon diritto del popolo romano di arrogarsi la dignità dell’impero, cita nuovamente la sentenza, attribuendola correttamente ad Aristotele, in questi termini: «Si sa che gli uomini sono resi nobili per merito della virtù, cioè della virtù propria e degli antenati. La nobiltà è infatti virtù e antiche ricchezze, secondo il Filosofo nella Politica, e secondo Giovenale: “Sola e unica virtù è la nobiltà d’animo”. Giudizi, questi due, che danno origine a due diverse nobiltà: quella propria e quella degli antenati. Ai nobili dunque, per ragione della causa, si addice il premio della prelazione».141 Che si tratti di una vera e propria rivalutazione della nobiltà ereditaria lo si deduce anche dal seguito della pagina, nel quale Dante insiste sul fatto che Enea, figura all’origine dell’impero, era nobile per la sua personale virtù ma anche per quella ereditata dagli antenati e in lui affluita dalle mogli. Sia chiaro, Dante non si appiattirà mai sulla tesi che la vera nobiltà sia quella ereditaria e di schiatta, per lui sarà sempre prevalente il principio della virtù personale, e tuttavia, siccome la virtus è una prerogativa subordinata alla nobilitas, ecco che il sangue viene a rappresentare una condizione privilegiata perché, sussistendo il valore individuale, si esplichi una piena nobiltà.

Dante era consapevole di avere fornito, nel corso della sua vita pubblica, nell’azione politica e nel lavoro intellettuale, ampie prove di possedere quelle virtù che segnalano la nobiltà d’animo. Se a ciò egli avesse potuto aggiungere anche un lignaggio, un’ascendenza nobiliare riconosciuta, avrebbe completato sotto ogni aspetto le patenti che davano valore alle sue parole: un Dante non solo virtuoso, ma nobile, come Enea, sarebbe stato legittimato a proclamare la necessità del ritorno a quell’ordine che da Enea aveva preso origine. Il passo dalla rivalutazione teorica dell’ereditarietà alla proclamazione della sua propria nobiltà per via ereditaria Dante lo compirà soltanto pochi anni dopo durante la scrittura del Paradiso. Qui aprirà il canto XVI con un prologo nel quale esprimerà l’orgogliosa soddisfazione da lui personaggio interiormente provata nell’apprendere che il trisavolo Cacciaguida era stato cavaliere, e per di più di investitura imperiale:

O poca nostra nobiltà di sangue,

se glorïar di te la gente fai

qua giù dove l’affetto nostro langue,

mirabil cosa non mi sarà mai:

ché là dove appetito non si torce,

dico nel cielo, io me ne gloriai.142

La nobiltà di sangue sarà anche poca cosa, ma lui si è gloriato di possederla perfino in Paradiso! Il commento dell’autore rincalza il sentimento del personaggio. E si noti che, parlando della nobiltà della sua famiglia, Dante è di una esplicitezza che non ha equivalenti altrove, tanto è vero che questo è l’unico luogo, negli scritti volgari come in quelli latini, nel quale usa l’espressione «nobiltà di sangue».

Il giovane che, come poeta, aveva esordito autoproclamandosi nobile d’animo, e perciò membro di una ristretta cerchia di aristocratici della cultura, finisce la carriera di uomo e letterato arrogandosi un’assai dubbia nobiltà di sangue. L’approdo di quel lungo percorso segnala in modo incontrovertibile che l’uomo di municipio, l’uomo che anche da esule teneva lo sguardo fisso su Firenze e che giudicava gli eventi politici e i movimenti della società con un codice che era ancora, nella sostanza, quello del mondo fiorentino, ha cambiato una volta per tutte i parametri di giudizio e, soprattutto, ha individuato l’ambiente sociale che finalmente sente suo. Dopo oltre un decennio trascorso a contatto con grandi e meno grandi famiglie feudali e, in particolare, dopo che il progetto imperiale di Enrico è sembrato ridare fiato e senso a un’organizzazione della società e del mondo che appariva irrimediabilmente declinante, Dante si sente parte organica di quella vasta porzione di società che aveva la nobiltà ereditaria come perno ideologico, stile di vita e programma politico.