Ora i fenomeni venivano salvati solo nella misura in cui si lasciavano ridurre a un ordine matematico, e questa operazione matematica non serve a preparare la mente dell’uomo alla rivelazione del vero essere, guidandola verso le misure ideali che appaiono nei dati sensibili, ma serve, al contrario, a ridurre questi dati alla misura della mente umana.
H. Arendt, Vita activa
Anche se ammettiamo che l’età moderna cominciò con un’improvvisa e inesplicabile eclissi della trascendenza, della fede in un aldilà, da ciò non consegue affatto che questa perdita abbia rigettato gli uomini nel mondo. Al contrario, l’evidenza storica mostra che gli uomini moderni non furono proiettati nel mondo, ma in se stessi. Una delle tendenze della filosofia moderna a partire da Cartesio, e forse il suo più originale contributo alla filosofia, è stato un interesse esclusivo per l’io, in quanto distinto dall’anima o dalla persona o dall’uomo in generale, un tentativo di ridurre tutte le esperienze, nei confronti del mondo come di tutti gli altri esseri umani, a esperienze tra l’uomo e se stesso. La grandezza della scoperta di Max Weber sulle origini del capitalismo risiede precisamente nella sua dimostrazione che un’attività enorme, strettamente mondana, è possibile senza che ci si curi affatto o si goda del mondo, un’attività la cui profonda motivazione, al contrario, è la preoccupazione e l’interesse per se stessi. [VA p. 187]
«Da quando un bimbo nacque in una mangiatoia, c’è da dubitare che sia accaduto qualcosa di così grande con così poco clamore.» Con queste parole Whitehead introduce Galileo e la scoperta del telescopio sulla scena del «mondo moderno».1
E in queste parole non c’è alcuna esagerazione. Come la nascita in una mangiatoia, che non segnò la fine dell’antichità ma l’inizio di qualcosa di tanto inaspettato e imprevedibile che né la speranza né la paura avrebbero potuto anticipare, questi primi sguardi gettati nell’universo attraverso uno strumento, allo stesso tempo adattato ai sensi dell’uomo e destinato a scoprire con certezza ciò che esiste di eterno al di là di essi, posero le basi di un mondo completamente nuovo, determinando il corso di altri eventi, che con molto maggior clamore dovevano introdurre nell’epoca moderna. All’infuori di un numero relativamente piccolo di uomini di cultura, privi di influenza politica — astronomi, filosofi e teologi — il telescopio non provocò molta emozione; l’attenzione pubblica fu attratta piuttosto dalla sensazionale dimostrazione di Galileo delle leggi della caduta dei gravi, considerata come primo passo della moderna scienza della natura (benché si possa pensare che da sola, senza che Newton la trasformasse più tardi nella legge di gravitazione universale, che è tuttora uno degli esempi più grandiosi del moderno amalgama di astronomia e fisica, ben difficilmente avrebbe portato la nuova scienza sulla via dell’astrofisica). Infatti, ciò che più decisamente distinse la nuova visione del mondo non solo da quella dell’antichità o del Medioevo, ma anche dalla grande sete di esperienza diretta del Rinascimento, fu l’assunto che lo stesso tipo di forza esterna si manifesta nella caduta dei corpi terresti e nei movimenti dei corpi celesti.
Inoltre, la novità della scoperta di Galileo fu offuscata dalle sue strette relazioni con i suoi predecessori. Non solo le speculazioni filosofiche di Nicola Cusano e di Giordano Bruno, ma anche l’immaginazione formatasi nella matematica degli astronomi, Copernico e Keplero, avevano mutato la visione finita e geometrica del mondo che l’uomo seguiva da tempo immemorabile. Non Galileo, ma i filosofi furono i primi ad abolire la dicotomia tra una terra e un cielo sovrastante, elevando, come essi pensavano, la terra «al rango di stella nobile» e scoprendo in essa una dimora in un universo eterno e infinito.2 E, a quanto pare, gli astronomi non avevano bisogno del telescopio per affermare che, contrariamente a ogni esperienza sensibile, non è il sole che si muove intorno alla terra, ma la terra che gira intorno al sole. [VA pp. 190-191]
Tuttavia, né le speculazioni dei filosofi né l’immaginazione degli astronomi hanno mai costituito un evento. Prima delle scoperte telescopiche di Galileo, la filosofia di Giordano Bruno ebbe poca risonanza anche presso i dotti, e senza la conferma empirica che quelle scoperte conferivano alla rivoluzione copernicana, non solo i teologi ma tutti «gli uomini sensibili... l’avrebbero imputata di una grave colpa... una sfrenata immaginazione».1
Nella sfera delle idee esistono certamente solo originalità e profondità, entrambe qualità personali, ma non novità oggettive e assolute; le idee vanno e vengono, hanno una permanenza, persino una immortalità loro propria, legata al loro implicito potere di illuminazione, che è e dura indipendentemente dal tempo e dalla storia. Le idee, inoltre, diversamente dagli eventi, non sono mai senza precedenti, e le speculazioni non confermate empiricamente sul movimento della terra attorno al sole non erano prive di pretendenti più di quanto lo siano le moderne teorie dell’atomo, indipendentemente dalle loro basi sperimentali e dalle loro conseguenze pratiche nel mondo.2 Ciò che Galileo fece, e che nessuno prima aveva fatto, fu di usare il telescopio in modo tale che i segreti dell’universo si offrissero alla conoscenza umana «con la certezza della percezione sensibile»;3 pose cioè alla portata di una creatura terrestre, e del suo corpo legato ai sensi, ciò che in precedenza era sembrato al di là delle sue possibilità, aperto tutt’al più alle prospettive incerte della speculazione e dell’immaginazione. [VA pp. 191-192]
Recando una «conferma» ai suoi predecessori, Galileo stabilì un fatto dimostrabile dove prima erano solo speculazioni ispirate. L’immediata reazione filosofica a questa realtà non fu l’esaltazione ma il dubbio cartesiano con cui nacque la filosofia moderna — questa «scuola del sospetto», come Nietzsche la chiamò una volta — e che sfociò nella convinzione che «solo sul solido fondamento di un’ostinata disperazione si può d’ora in avanti costruire una sicura abitazione dell’anima».4
Per molti secoli, le conseguenze di questo evento, non diversamente dalle conseguenze della Natività, rimasero contraddittorie e incerte, e anche oggi il conflitto fra l’evento in se stesso e le sue quasi immediate conseguenze è lungi dall’esser risolto. Il cammino delle scienze naturali è confortato da un sempre più rapido progresso della conoscenza e del potere umano; appena prima dell’età moderna, le conoscenze dell’umanità europea erano inferiori a quelle di Archimede nel III secolo a.C., mentre i primi cinquant’anni del nostro secolo hanno assistito a scoperte più importanti di tutte quelle della storia conosciuta. Tuttavia, lo stesso fenomeno è criticato con egual diritto per l’aggravarsi non meno evidente della disperazione umana o per il nichilismo tipicamente moderno che si è diffuso in strati più vasti della popolazione; l’aspetto forse più significativo di queste condizioni spirituali è di non risparmiare nemmeno più gli scienziati, il cui ben fondato ottimismo poteva ancora opporsi, nel diciannovesimo secolo, all’egualmente giustificabile pessimismo di pensatori e poeti. La moderna visione astrofisica del mondo, che cominciò con Galileo, e la sua capacità di smentire l’adeguatezza dei sensi nel rivelare la realtà, ci hanno lasciato un universo dalle qualità ignote, proprio come ci è ignoto il modo in cui esse si fanno registrare dai nostri strumenti di misurazione. «Quest’ultimo» secondo le parole di Eddington «somiglia tanto a quelle come un numero di telefono a un abbonato.»5 Invece di qualità oggettive, in altre parole, troviamo strumenti, e invece della natura e dell’universo — secondo le parole di Heisenberg — l’uomo incontra solo se stesso.6 [VA pp. 192-193]
A ogni modo, mentre l’alienazione del mondo determinò il corso e lo sviluppo della società moderna, l’alienazione della terra divenne ed è rimasto il segno distintivo della scienza moderna. Sotto il segno dell’alienazione della terra, ogni scienza, non solo la scienza fisica e naturale, cambiò così radicalmente il suo contenuto da far dubitare che prima dell’età moderna sia mai esistita una scienza. Ciò risulta evidente nello sviluppo del più importante strumento intellettuale della nuova scienza, l’algebra, mediante la quale la matematica «riuscì a liberarsi dalle pastoie della spazialità»,1 cioè dalla geometria, che, come indica il suo nome, dipende da misure e misurazioni terrestri. La matematica moderna liberò l’uomo dalle angustie di un’esperienza legata alla terra, e la sua facoltà di conoscere dai limiti della finitudine. [VA pp. 195-196]
Con l’avvento della modernità, la matematica non si limita a estendere il proprio contenuto o la propria portata all’infinito, diventando applicabile all’immensità di un universo infinito e in infinita espansione, ma cessa di riguardare le apparenze. Non è più la condizione di possibilità della filosofia, della «scienza» dell’essere nella sua apparenza vera, ma diventa invece la scienza della struttura della mente.
Quando la geometria analitica di Cartesio trattò lo spazio e l’estensione, la res extensa della natura e del mondo, in modo «che le sue relazioni, per quanto complicate, fossero sempre esprimibili in formule algebriche», la matematica riuscì a ridurre e tradurre tutto ciò che l’uomo non è in schemi che si identificano con le strutture della mente umana. Quando, inoltre, la stessa geometria analitica provò «all’inverso che le verità numeriche... possono essere pienamente rappresentate spazialmente», venne elaborata una scienza fisica che non richiedeva altri princìpi per la sua costruzione oltre a quelli della pura matematica, e in questa scienza l’uomo poteva muoversi, avventurarsi nello spazio, ed essere sicuro di non incontrare che se stesso, nulla che non potesse essere ridotto a schemi presenti in lui.2
Ora i fenomeni venivano salvati solo nella misura in cui si lasciavano ridurre a un ordine matematico, e quest’operazione matematica non serve a preparare la mente dell’uomo alla rivelazione del vero essere, guidandola verso le misure ideali che appaiono nei dati sensibili, ma serve, al contrario, a ridurre questi dati alla misura della mente umana, che, a una distanza sufficiente, può osservare e manipolare la molteplicità e la varietà della realtà materiale secondo i propri schemi e simboli. Questi non sono più forme ideali dischiuse all’occhio della mente, ma sono i risultati dell’allontanamento degli occhi della mente (proprio come gli occhi corporei sono allontanati dai fenomeni), della riduzione di tutte le apparenze mediante le forza della distanza. [VA pp. 197-198]
Sarebbe follia ignorare la corrispondenza anche troppo precisa della moderna alienazione del mondo umano con il soggettivismo della filosofia moderna (da Descartes e Hobbes al sensualismo, empirismo e pragmatismo inglesi), come con l’idealismo e il materialismo tedeschi, fino ad arrivare al recente esistenzialismo fenomenologico e al positivismo logico o epistemologico. Ma sarebbe altrettanto folle credere che a distogliere la mente del filosofo dalle vecchie questioni metafisiche, indirizzandola verso una gran varietà di introspezioni — introspezioni nel suo apparato sensibile e conoscitivo, nella sua coscienza, nei suoi processi psicologici e logici — sia stato un impulso scaturito da uno sviluppo autonomo delle idee; o, in una variazione dello stesso tema, credere che il nostro mondo sarebbe stato differente se solo la filosofia si fosse attenuta alla tradizione. Abbiamo già osservato che non le idee ma gli eventi cambiano il mondo; l’idea di un sistema eliocentrico è vecchia quanto la speculazione pitagorica, e persistente nella nostra storia quanto la speculazione neoplatonica, senza, per questo, aver mai cambiato il mondo o la mente umana, e l’autore dell’evento decisivo dell’età moderna è Galileo piuttosto che Descartes. Questi ne era perfettamente consapevole, e quando seppe del processo a Galileo e della sua ritrattazione, fu tentato per un momento di bruciare tutte le sue carte, perché, «se il movimento della terra è falso, sono false anche tutte le basi della mia filosofia». 1
Ma Descartes e i filosofi, dopo aver elevato ciò che era accaduto al piano di un pensiero scevro da compromessi, registrarono con insuperabile precisione l’enorme portata dell’evento; essi anticiparono almeno parzialmente le fondate difficoltà inerenti alla nuova posizione dell’uomo — difficoltà di cui gli scienziati, presi nelle loro occupazioni, non si davano pensiero — finché, nel nostro tempo, non cominciarono ad apparire nella loro opera e a interferire con le loro ricerche. Da allora, la curiosa discrepanza tra il modo di sentire della filosofia moderna, fin dagli inizi tendenzialmente pessimistico, e quello della scienza moderna, fino ai tempi più recenti così pervicacemente ottimistico, è stata superata. All’una e all’altra è rimasto ben poco di che compiacersi. [VA pp. 201-202]