Da Platone e Aristotele fino all’età moderna la filosofia, nei suoi maggiori e più autentici rappresentanti, è stata l’articolazione dello stupore di fronte a ciò che è, così la filosofia moderna, da Descartes in poi, è consistita nelle articolazioni e ramificazioni del dubbio.
H. Arendt, Vita activa
Il dubbio del pensiero sull’affidabilità dell’esperienza dei sensi, il suo sospetto che le cose potessero essere completamente diverse da come appaiono ai sensi dell’uomo, era tutt’altro che raro nell’antichità. Gli atomi di Democrito non erano solo indivisibili, ma invisibili, si muovevano in un vuoto, in un numero infinito e solo mediante tale configurazione e svariate combinazioni producevano impressioni sui nostri sensi. A sua volta, nel III secolo a.C., Aristarco avanzò per primo l’ipotesi eliocentrica. È degno di nota che le conseguenze di tale audacia fossero alquanto spiacevoli: Democrito fu sospettato di pazzia, Aristarco minacciato dell’accusa di empietà. Ma ciò che ovviamente più conta, tuttavia, è che nessun tentativo fu compiuto per dimostrare tali ipotesi e che nessuna scienza ne scaturì. [ VM p. 137]
Cartesio divenne il padre della filosofia moderna per aver generalizzato l’esperienza della propria generazione e di quella precedente e averne elaborato un nuovo metodo del pensiero, diventando così il primo pensatore completamente educato a quella «scuola del dubbio» che, secondo Nietzsche, è la filosofia moderna. Il sospetto gettato sulle capacità effettive dei sensi rimase il nocciolo dell’orgoglio scientifico finché, ai nostri giorni, si è trasformato in una fonte d’inquietudine. [TP p. 87]
La filosofia moderna cominciò con il de omnibus dubitandum est di Descartes, con il dubbio, ma con il dubbio non come autocontrollo della mente umana per guardarsi dagli inganni del pensiero e dalle illusioni dei sensi, non come scetticismo verso le morali e i pregiudizi degli uomini e dei tempi, e nemmeno come un metodo critico di ricerca scientifica e di speculazione filosofica. Il dubbio cartesiano ha una portata tanto più vasta ed è troppo fondamentale nel suo intento per essere determinato da tali contenuti concreti.
Nella filosofia e nel pensiero moderni, il dubbio occupa la stessa posizione centrale che occupò per tutti i secoli prima il thaumàzein dei greci, la meraviglia per tutto ciò che è in quanto è.
Descartes fu il primo a concettualizzare questo dubitare moderno, che dopo di lui divenne il motore evidente e dato per scontato che ha mosso tutto il pensiero, l’asse invisibile sul quale si è incentrato ogni pensare. Proprio come da Platone e Aristotele fino all’età moderna, la filosofia, nei suoi maggiori e più autentici rappresentanti, è stata l’articolazione dello stupore di fronte a ciò che è, così la filosofia moderna, da Descartes in poi, è consistita nelle articolazioni e ramificazioni del dubbio. [VA pp. 202-203]
La forma più innocua di questo dubbio dà origine all’empirismo inglese, nel quale la significatività del dato sensibile si polverizza in dati di percezione sensoriale che rivelano il loro significato soltanto attraverso l’abitudine e gli esperimenti ripetuti, cosicché, per il risultato ultimo di un soggettivismo portato all’estremo, l’uomo rimane imprigionato in un «non-mondo» di sensazioni prive di significato, impenetrabili a qualunque realtà e a qualunque verità. L’empirismo è una vendetta dei sensi solo in apparenza; in realtà poggia sul presupposto che solo le argomentazioni del buon senso possono dare ai sensi stessi un significato, e parte sempre da una dichiarazione di sfiducia nella capacità dei sensi di rivelare la verità o la realtà. Il puritanesimo e l’empirismo, infatti, non sono che le due facce di una sola medaglia. La stessa fondamentale sfiducia ispirò infine il gigantesco sforzo di Kant di riesaminare le facoltà umane in modo tale da lasciare in sospeso il problema della Ding an sich, ossia della capacità dell’esperienza di rivelare la verità in modo assoluto. [TP p. 88]
Il dubbio cartesiano, nel suo significato radicale e universale, fu originariamente la risposta a una nuova realtà, una realtà non meno reale anche se era rimasta ristretta per secoli alla piccola e politicamente irrilevante cerchia dei letterati e dei dotti. I filosofi compresero subito che le scoperte di Galileo non implicavano semplicemente una sfida alla testimonianza dei sensi e che non era più la ragione, come in Aristarco e Copernico, ad aver «commesso una tale violenza sui loro sensi», nel qual caso sarebbe bastato agli uomini scegliere tra le proprie facoltà e permettere alla ragione innata di «padroneggiare la loro credulità».1
Non era la ragione ma uno strumento artificiale, il telescopio, che praticamente cambiava la visione del mondo fisico; non erano la contemplazione, l’osservazione e la speculazione che conducevano alla nuova conoscenza, ma l’attivo procedere dell’homo faber, del fare e del fabbricare. In altre parole, l’uomo si era ingannato nel confidare che la realtà e la verità si rivelassero ai suoi sensi e alla sua ragione, se solo egli rimaneva fedele a ciò che vedeva con gli occhi del corpo e della mente. La vecchia opposizione di verità sensibile e verità razionale, della capacità inferiore di cogliere la verità propria dei sensi e di quella superiore della ragione, sbiadì davanti a questa sfida, davanti all’implicazione evidente che né la verità né la realtà sono date, che né l’una né l’altra appaiono come sono, e che solo la sospensione dell’apparenza, abolendo le apparenze, può offrire la speranza di una vera conoscenza.
Fino a che punto la ragione e la fede nella ragione dipendevano non da singole percezioni dei sensi, ognuna delle quali può essere un’illusione, ma dall’assunto acritico che i sensi come un tutto — tenuti insieme e governati dal senso comune, il sesto e più alto senso — adeguano l’uomo alla realtà che lo circonda, è stato scoperto solo ora. Se l’occhio umano può tradire l’uomo al punto che tante generazioni furono indotte a credere che il sole gira attorno alla terra, allora la metafora degli occhi della mente non può più reggere; essa in definitiva si basava — benché implicitamente, e anche se usata in opposizione ai sensi — sulla fiducia nella visione corporea. Se l’essere e l’apparenza sono uniti indissolubilmente (e questo, come osservò una volta Marx, è l’assunto fondamentale di tutta la scienza moderna) allora non rimane nulla da accettare sulla fiducia; di tutto si deve dubitare. È come se si fosse avverata l’antica profezia di Democrito che una vittoria della mente sui sensi poteva finire solo nella disfatta della mente; solo che ora i fenomeni stessi sembrano aver conseguito una vittoria sia sulla mente sia sui sensi.2 [VA pp. 203-204]
Eminente caratteristica del dubbio cartesiano è la sua universalità, il fatto che nulla, nessun pensiero e nessuna esperienza, possa sottrarvisi.
[...]
La sua universalità si propaga dalla testimonianza dei sensi alla testimonianza della ragione e a quella della fede, perché questo dubbio risiede in definitiva nella perdita dell’evidenza immediata, e tutto il pensiero ha sempre preso le mosse da ciò che è evidente in sé e per sé, evidente non solo per chi pensa ma per chiunque. Descartes non mise semplicemente in dubbio che la comprensione umana potesse essere aperta a ogni verità o che la visione umana potesse essere in grado di vedere qualsiasi cosa, ma che l’intelligibilità del mondo da parte della comprensione umana costituisse una dimostrazione di verità, proprio come la visibilità non costituiva una prova di realtà. Questo dubbio dubita addirittura che qualcosa come la verità esista, e scopre quindi che il concetto tradizionale di verità, sia che fosse basato sulla percezione sensibile o sulla ragione o sulla credenza nella rivelazione divina, si era fondato sul duplice presupposto che ciò che veramente è debba manifestarsi per disposizione propria e che le facoltà umane siano adeguate a riceverlo. 1 Che la verità si riveli fu credo comune dell’antichità pagana ed ebraica, della filosofia cristiana e di quella profana. Questa è la ragione per cui la filosofia moderna si volse con tanta violenza — di fatto con una violenza che rasentava l’odio — contro la tradizione, facendo penitenza per l’entusiastico rinnovamento e la riscoperta dell’antichità nel Rinascimento. [VA p. 204]
Diventa chiaro che, senza la fiducia nei sensi, non potevano più essere sicure né la fede in Dio, né la fiducia nella ragione, poiché la rivelazione delle verità, divine o razionali che fossero, era sempre stata implicitamente modellata sulla semplicità, carica di timore reverenziale, del rapporto tra l’uomo e il mondo: se apro gli occhi contemplo la visione, se ascolto sento il suono, se muovo le membra posso palpare il mondo in quanto realtà tangibile. Se si comincia a mettere in dubbio la verità e attendibilità di questo rapporto che, naturalmente, non esclude gli errori e le illusioni ma, al contrario, costituisce semmai la condizione per correggerli, nessuna delle metafore tradizionalmente usate per esprimere verità soprasensibili (gli occhi della ragione che possono vedere il cielo delle idee, o la voce della coscienza che il cuore umano può sentire) può conservare il suo significato. [TP pp. 85-86]
Scomparsa ormai la convinzione che le cose appaiono quali sono in realtà, il dubbio s’insinuava nel concetto di verità come rivelazione (e anche nella fede indiscussa in un Dio rivelato). La nozione di «teoria» mutava significato: non indicava più un sistema di verità in logica connessione reciproca, che di per sé erano «date» alla ragione e ai sensi, e non venivano «fatte». [TP p. 68]
Poiché la nostra religione tradizionale è essenzialmente una religione rivelata — che concorda con la filosofia antica classica nel sostenere che la verità è quel che si rivela, che verità «è» rivelazione — per la religione la scienza moderna è diventata un nemico molto più temibile di quanto potesse mai essere la filosofia tradizionale, anche nelle forme più razionalistiche. [TP p. 58]
Ci si rende pienamente conto di tutta l’acutezza del dubbio cartesiano solo se si pensa che le nuove scoperte infersero alla fiducia umana nel mondo e nell’universo un colpo anche più disastroso di quanto non sia indicato dalla netta separazione di essere e apparenza. Qui infatti la relazione tra essere e apparenza non è più statica come nello scetticismo tradizionale, come se semplicemente le apparenze celassero e coprissero un essere vero destinato a non venir mai afferrato dall’uomo. Questo Essere, al contrario, è tremendamente attivo ed energico: crea le proprie apparenze, sennonché queste apparenze sono illusioni. Tutto ciò che i sensi umani percepiscono è prodotto da forze invisibili, segrete, e se con certi accorgimenti e ingegnosi strumenti queste forze sono colte nell’atto piuttosto che scoperte — come un animale è catturato e un ladro preso contro la sua volontà e intenzione — avviene che questo Essere così terribilmente efficace è di natura tale che le sue rivelazioni devono essere illusioni e le conclusioni tratte dalle sue epifanie devono essere fallaci. [VA pp. 204-205]
La filosofia cartesiana è pervasa da due incubi che, in un certo senso, diventarono gli incubi dell’età moderna, non perché quest’età sia stata così profondamente influenzata dalla filosofia cartesiana, ma perché fu quasi inevitabile che emergessero quando furono le vere conseguenze della visione del mondo. Questi incubi sono molto semplici e noti. Uno riguarda la realtà, la realtà del mondo come quella della vita umana, che è oggetto di dubbio: se non ci si può fidare dei sensi né del senso comune né della ragione, può darsi allora che tutto ciò che prendiamo per realtà sia solo un sogno. L’altro riguarda la situazione umana generale come fu rivelata dalle nuove scoperte, e l’impossibilità per l’uomo di fidarsi dei suoi sensi e della sua ragione; in tali circostanze sembra possibile che uno spirito maligno, un Dieu trompeur, inganni volontariamente e spietatamente l’uomo, così che Dio non è più l’ordinatore dell’universo. [VA p. 205]
Il diabolico trucco di questo spirito maligno consisterebbe nell’aver creato una creatura che alberga in sé una nozione di verità, ma solo per conferirle facoltà tali da non riuscire mai, attraverso di esse, a raggiungere alcuna verità e a essere certa di nulla.
Quest’ultimo punto, la questione della certezza, doveva diventare decisivo per tutto lo sviluppo della moralità moderna. Ciò che nell’età moderna andò perduto non fu, naturalmente, la capacità di verità, di realtà, di fede né la concomitante inevitabile accettazione della testimonianza dei sensi e della ragione, ma la certezza che prima le accompagnava. Nella religione non fu la credenza nella salvezza o in un aldilà che andò immediatamente perduta, ma la certitudo salutis; e questo accadde in tutti i paesi protestanti dove, con la Chiesa cattolica, fu eliminata l’ultima istanza tradizionale che, ovunque mantenesse la sua autorità, si frapponeva tra la forza d’urto della modernità e le masse dei credenti. Proprio come la conseguenza immediata di questa perdita della certezza fu un nuovo zelo a far bene — come se questa vita fosse un transitorio periodo di prova,1 — così la perdita della certezza della verità finì in uno zelo senza precedenti per la veridicità, come se l’uomo potesse mentire solo a condizione d’essere certo dell’irrefutabile esistenza della verità e della realtà oggettiva, destinate in ogni caso a sopravvivere e a smentire tutte le menzogne.2 [VA pp. 205-206]
Il radicale mutamento dei criteri morali che si verificò nel primo secolo dell’età moderna fu ispirato dalle necessità e dagli ideali del suo più importante gruppo di uomini, i nuovi scienziati; e le moderne virtù cardinali — successo, industriosità e veridicità — sono nello stesso tempo le più grandi virtù della scienza moderna.3
Le società dei dotti e le Accademie Reali divennero centri moralmente influenti dove gli scienziati si organizzarono per trovare modi e mezzi per assoggettare la natura a esperimenti e strumenti, così da costringerla a cedere i suoi segreti. E questo compito gigantesco, al quale non era adeguato l’uomo ma solo lo sforzo collettivo delle migliori menti del genere umano, prescriveva le regole di comportamento e i nuovi criteri di giudizio. Mentre la verità si era identificata in precedenza con la «teoria», che dai greci in poi aveva significato visione contemplativa dello spettatore che percepisce la realtà che gli si scopre davanti, ora la questione del successo prevalse e il banco di prova della teoria divenne «pratico», divenne cioè la capacità o meno di operare. La teoria divenne ipotesi, e il successo dell’ipotesi divenne verità . Questo importantissimo criterio di successo, tuttavia, non dipende da considerazioni pratiche o dagli sviluppi tecnici che possono o no accompagnare le specifiche scoperte scientifiche. Il criterio del successo è inerente all’essenza e al progresso della scienza moderna, indipendentemente dalla sua applicabilità. Il successo qui non è l’idolo vuoto in cui degenerò nella società borghese; fu — e nelle scienze lo è sempre stato — un autentico trionfo dell’ingegnosità umana contro le predominanti circostanze sfavorevoli. [VA p. 206]
La soluzione cartesiana del dubbio universale o la sua protezione dai due incubi connessi tra loro — che tutto sia sogno e non esista alcuna realtà, e che non Dio ma uno spirito maligno governi il mondo, prendendosi gioco dell’uomo — assomigliarono, nel metodo e nel contenuto, alla svolta dalla verità alla veridicità e dalla realtà alla credibilità. La convinzione di Descartes che, «se la nostra mente non è la misura delle cose o della verità, deve sicuramente essere la misura delle cose che affermiamo o neghiamo»,1 echeggia ciò che gli scienziati avevano scoperto in generale e senza formularlo esplicitamente: che se anche non c’è verità, l’uomo può essere veritiero e se anche non c’è fondata certezza, l’uomo può essere creduto. Se c’è una salvezza, doveva trovarsi nell’uomo e se c’era una soluzione alla questione sollevata dal dubbio, doveva venire dal dubitare. Se ogni cosa è divenuta dubitabile, allora almeno il dubitare è certo e reale. Qualunque sia lo stato della realtà e della verità quali si danno ai sensi e alla ragione, «nessuno può dubitare del suo dubbio e rimanere incerto se dubita o non dubita».2 Il famoso cogito ergo sum non scaturì per Descartes da una qualche certezza immediata del pensiero come tale — nel qual caso, certo, il pensiero avrebbe acquistato una nuova dignità e significato per l’uomo — ma fu una semplice generalizzazione del dubito ergo sum.3 In altre parole, dalla mera certezza logica che, quando dubito di qualcosa, io rimango consapevole di un processo di dubbio che si svolge nella mia coscienza, Descartes concluse che i processi che si svolgono nella mente dell’uomo hanno una loro propria certezza e possono diventare oggetto di un’indagine introspettiva. [VA p. 207]
Ovviamente l’introspezione — non come riflessione della mente dell’uomo sullo stato dell’anima o del corpo ma come puro interesse cognitivo della coscienza per il suo contenuto (che è l’essenza della cogitatio cartesiana, dove cogito significa anche cogito me cogitare) — deve dar luogo alla certezza, perché nulla conta eccetto ciò che la mente produce da sé; nessuno interferisce se non il produttore del prodotto, e l’uomo è posto di fronte a nient’altro e a nessun altro che a se stesso. Molto prima che le scienze naturali e fisiche cominciassero a chiedersi se l’uomo è capace di incontrare, conoscere e comprendere alcunché tranne se stesso, la filosofia moderna aveva scoperto nell’introspezione che l’uomo si interessa solo di se stesso. Descartes credeva che la certezza prodotta dal suo nuovo metodo dell’introspezione fosse la certezza dell’Io-sono.1
L’uomo, in altre parole, porta la propria certezza, la certezza della propria esistenza, dentro di sé; il puro funzionamento della coscienza, anche se forse non può assicurare una realtà mondana data ai sensi e alla ragione, conferma oltre ogni dubbio la realtà delle sensazioni e del ragionamento, cioè la realtà dei processi che si svolgono nella mente. Questi non sono dissimili dai processi biologici che si svolgono nel corpo, e quando cominciamo a esserne consapevoli possono anche convincere della propria realtà operante. In quanto i sogni sono reali, perché presuppongono un sognatore e un sogno, il mondo della coscienza diviene reale. Il problema è che, proprio come sarebbe impossibile dedurre dalla consapevolezza dei processi corporei la struttura effettiva del corpo, compreso il proprio, così è impossibile passare dalla mera coscienza delle sensazioni — in cui i propri sensi vengono avvertiti e anche gli oggetti sentiti diventano parte della sensazione — alla realtà con le sue configurazioni, forme, colori e costellazioni. L’immagine dell’albero sarà abbastanza reale per la sensazione della visione, come l’albero sognato lo è per il sognatore finché dura il sogno, ma entrambi non coincideranno con l’albero reale. [VA pp. 207-208]
È per uscire da questa difficoltà che Descartes e Leibniz sentirono il bisogno di provare non l’esistenza di Dio, ma la sua bontà, l’uno dimostrando che nessuno spirito maligno governa il mondo e si prende gioco dell’uomo, e l’altro che questo mondo, comprendente l’uomo, è il migliore dei mondi possibili. Il punto critico di queste giustificazioni esclusivamente moderne, note da Leibniz in poi come teodicee, è che il dubbio non concerne l’esistenza di un essere superiore, che, al contrario, è tenuta per certa, ma concerne la sua rivelazione, com’è data nella tradizione biblica, e le sue intenzioni rispetto all’uomo e al mondo, o piuttosto l’adeguatezza del rapporto tra l’uomo e il mondo. Per quanto riguarda questi, il dubbio che la Bibbia o la natura contengano una rivelazione divina è immediato, una volta chiarito che la rivelazione in quanto tale — lo schiudersi della realtà ai sensi e della verità alla ragione — non costituisce una garanzia né per l’uno né per l’altro. Tuttavia, il dubbio sulla bontà di Dio, la nozione di un Dieu trompeur scaturì dall’esperienza reale dell’inganno inerente all’accettazione della nuova visione del mondo, un inganno particolarmente tormentoso data la sua inevitabile ricorrenza; infatti nessuna conoscenza circa la natura eliocentrica del nostro sistema planetario può modificare il fatto che ogni giorno il sole è visto girare attorno alla terra, sorgere e calare nella sua sede preordinata. Solo quando apparve che l’uomo, se non fosse stato per la sua scoperta fortuita del telescopio, avrebbe potuto rimanere per sempre nell’inganno, le strade di Dio divennero realmente imperscrutabili; più l’uomo apprese intorno all’universo, meno comprese le intenzioni e gli scopi per i quali sarebbe creato. La bontà di Dio nelle teodicee, quindi, è una specie di deus ex machina; l’inesplicabile bontà è l’unica cosa che, in ultima analisi, salva la realtà nella filosofia di Descartes (la coesistenza dell’intelletto e dell’estensione, della res cogitans e della res extensa), come salva l’armonia prestabilita tra l’uomo e il mondo in Leibniz.1 [VA pp. 208-209]
La vera trovata dell’introspezione cartesiana, e quindi la ragione per cui questa filosofia divenne tanto importante per tutto lo sviluppo spirituale e intellettuale dell’età moderna, consiste in primo luogo nel fatto che si servì dell’incubo delle non-realtà come di un mezzo per sommergere tutti gli oggetti mondani nella corrente della coscienza e dei suoi processi. La «visione dell’albero» trovata nella coscienza e nell’introspezione non è più l’albero offerto alla vista e al tatto, un’entità in sé dotata di una propria inalterabile configurazione. Trasformato in un oggetto di coscienza, allo stesso livello di una cosa meramente ricordata, o del tutto immaginaria; diviene parte essenziale di questo processo, cioè della coscienza che si conosce solo come una corrente sempre in movimento. Nulla, forse, può disporre la nostra mente alla dissoluzione finale della materia in energia, e degli oggetti in un turbine di fenomeni atomici, meglio di quanto possa questa dissoluzione della realtà oggettiva negli stati soggettivi della mente, o piuttosto nei processi mentali soggettivi. [VA p. 209]
Se il pensiero ritorna su se stesso e trova come unico oggetto la propria anima, se diventa riflessione, allora conquista comunque, nella misura in cui rimane razionale, un’apparenza di potere illimitato perché si isola dal mondo, se ne disinteressa e, proteggendolo, si pone di fronte all’unico oggetto «interessante»: la propria interiorità. [...] Poiché l’esterno non lo turba più, non è richiesta più alcuna azione, le cui conseguenze limiterebbero anche la persona più libera. [...] La realtà non può portare niente di nuovo, la riflessione ha già anticipato tutto. [RV p. 18]
La convinzione che la verità oggettiva non è data all’uomo, ma che egli può sapere solo ciò che fa lui stesso, non è conseguenza dello scetticismo ma è una scoperta dimostrabile, e quindi non conduce alla rassegnazione ma, o a un’attività ancora più intensa, o alla disperazione. La perdita del mondo nella filosofia moderna — la cui introspezione scoprì la coscienza come il senso interiore con cui si accertano gli altri sensi e come la sola garanzia di realtà — è differente, non solo per intensità, dall’antico sospetto dei filosofi verso il mondo e verso gli altri con i quali lo condividevano; il filosofo non si volge più dal mondo della caducità ingannevole a un altro dominato da una verità eterna, ma si distoglie da entrambi e si ritira in se stesso. Ciò che scopre nella ragione interiore è, di nuovo, non un’immagine la cui permanenza possa essere ammirata e contemplata, ma, al contrario, il movimento costante delle percezioni sensibili e l’attività non meno costantemente in movimento del pensiero.
Dal xvii secolo, la filosofia ha prodotto i risultati migliori e meno controversi quando ha investigato, mediante un supremo sforzo di auto-ispezione, i processi dei sensi e della mente. Da questo punto di vista, la filosofia moderna è certo soprattutto teoria della conoscenza e psicologia, e nei pochi casi in cui le potenzialità del metodo di introspezione cartesiano furono realizzate pienamente da uomini come Pascal, Kierkegaard e Nietzsche, si è tentati di dire che i filosofi hanno condotto esperimenti con se stessi non meno radicali, e forse anche più impavidi, che gli scienziati con la natura. [VA pp. 217-218]
Ciò che ora gli uomini hanno in comune non è il mondo ma la struttura delle loro menti, ciò che, rigorosamente parlando, non possono avere in comune; può solo darsi che la facoltà di ragionamento sia la stessa.1 Dato il problema «due-più-due», tutti produrremo la stessa risposta, «quattro»: questo è il vero modello del ragionamento di senso comune.
La ragione, in Descartes come in Hobbes, diventa una delle «conseguenze», la facoltà di dedurre e concludere, cioè un processo che l’uomo in qualsiasi momento può lasciar operare dentro di sé. La mente di quest’uomo — per restare nella sfera della matematica — non considera più «due-più-due» come un’equazione in cui due parti si equilibrano in un’armonia di evidenza immediata, ma intende l’equazione come l’espressione di un processo nel quale due e due diventano quattro, nella tendenza a generare ulteriori processi di addizione che possono condurre all’infinito. Questa facoltà è chiamata dal mondo moderno ragionamento di senso comune; è il gioco della mente con se stessa, che si verifica quando la mente è tagliata fuori dalla realtà e «sente» solo se stessa. I risultati di questo gioco sono «verità» obbligatorie perché si suppone che la mente di un uomo non differisca da quella di un altro, come non ne differiscono le loro figure corporee. Qualsiasi differenza sarà una differenza di potenziale della mente, che può essere accertata e misurata come si fa con i cavalli a vapore. Qui la vecchia definizione dell’uomo come animal rationale acquista una terribile precisione: privati di quel senso «comune» che adegua i cinque sensi animali dell’uomo al mondo comune a tutti gli uomini, gli esseri umani non sono più che animali capaci di ragionare, di «calcolare le conseguenze».
La difficoltà inerente alla scoperta del punto di Archimede fu, ed è ancora, che il punto fuori della terra fu trovato da una creatura legata alla terra, che scoprì di vivere in un mondo non solo diverso, ma rovesciato, nel momento stesso in cui tentò di applicare la sua visione universale del mondo al suo proprio ambito. La soluzione cartesiana di quella difficoltà fu di spostare il punto di Archimede nell’uomo stesso,2 di scegliere come ultimo punto di riferimento la struttura della mente umana, che cerca di afferrare la realtà e la certezza nell’ambito del complesso di formule matematiche che sono il suo prodotto specifico. Qui la famosa reductio scientiae ad mathematicam permette di sostituire i dati sensibili con un sistema di equazioni matematiche in cui tutti i rapporti reali sono dissolti in relazioni logiche tra simboli artificiali. È questa situazione che permette alla scienza moderna di realizzare il suo «compito di produrre» i fenomeni e gli oggetti che desidera osservare.3 E il presupposto è che né Dio né uno spirito maligno possono cambiare il fatto che due e due fanno quattro. [VA pp. 210-211]
In altre parole, il mondo dell’esperimento sembra essere sempre suscettibile di diventare una realtà fatta dall’uomo; e ciò, se anche accresce il potere umano di fare e agire e anche di creare un mondo, ben oltre i limiti a cui le età precedenti avevano osato avvicinarsi nel sogno o nella fantasia, ricaccia purtroppo ancora una volta l’uomo — e questa volta con violenza maggiore che mai — nella prigione della sua mente, nelle angustie degli schemi da lui stesso creati.
Nel momento in cui vuole ciò che tutte le età prima di lui erano capaci di raggiungere, cioè l’esperienza della realtà di ciò che egli non è, l’uomo troverà che la natura e l’universo «lo sfuggono» e che un universo costruito secondo il comportamento della natura nell’esperimento — e in conformità di princìpi che l’uomo può tradurre tecnicamente in una realtà operante — manca di qualsiasi possibile rappresentazione. Nuovo qui non è il fatto che esistano cose di cui non possiamo formare un’immagine — «cose» del genere si sono sempre conosciute, fra le quali, per esempio, l’«anima» — ma che le cose materiali che vediamo e rappresentiamo, e sulle quali avevamo misurato le cose immateriali non traducibili in immagini, debbano a loro volta essere «inimmaginabili». [VA p. 213]
Dopo la dissociazione dell’essere e dell’apparire e la constatazione che la verità non appare, non si rivela né si dischiude all’occhio mentale di uno spettatore, scaturì un’autentica necessità di stanare la verità dalle apparenze ingannevoli. Non c’era niente su cui si potesse contare meno, per acquistare la conoscenza e avvicinare la realtà, dell’osservazione passiva o della mera contemplazione. Per essere certi occorreva accertarsi e, per conoscere, fare. Una conoscenza certa poteva essere raggiunta solo a una duplice condizione: in primo luogo, che la conoscenza concernesse solo ciò che si era fatto da se stessi (l’ideale divenne così la conoscenza matematica dove si ha a che fare solo con entità create dalla mente) e in secondo luogo, che la conoscenza fosse di natura tale da poter essere verificata solo dal fare. [VA p. 215]
Benché sembri incapace di riconoscere il mondo dato, che non è stato fatto da lui, l’uomo dev’essere tuttavia in grado di conoscere almeno ciò che è effettivamente opera sua. [...] Nell’età moderna la storia si rivelò per qualcosa che mai era stata: non più formata dagli atti e dalle sofferenze degli uomini, non narrava più lo svolgersi degli eventi connessi alla vita degli uomini, ma diventava un processo fatto da mano d’uomo, l’unico processo a carattere universale che dovesse la propria esistenza all’esclusiva opera della razza umana. [TP pp. 88, 90]
Il metodo cartesiano di assicurare la realtà contro il dubbio universale (e in questo rivestì anche maggior importanza per i primi stadi dell’età moderna) corrispose esattamente alla conclusione più immediata che si doveva trarre dalla nuova scienza fisica: se non gli è consentito conoscere la verità come qualcosa di dato e rivelato, l’uomo può conoscere ciò che fa da se stesso.
Questo divenne l’atteggiamento più generale e più generalmente accettato dell’età moderna, ed è questa convinzione, piuttosto che il dubbio universale, a imprimere da una generazione all’altra, da più di trecento anni, un ritmo sempre più accelerato di scoperta e di sviluppo.
La ragione cartesiana è interamente basata «sull’assunto implicito che la mente umana può conoscere solo ciò che essa stessa ha prodotto e trattiene in un certo senso in se stessa».1
Il suo ideale più alto deve essere quindi la conoscenza matematica come l’intende l’età moderna, non cioè la conoscenza di forme ideali date fuori dalla mente ma di forme prodotte da una mente che in questo caso particolare non ha nemmeno bisogno dello stimolo — o piuttosto dell’irritazione — prodotta sui sensi da oggetti diversi dai sensi stessi. Questa teoria è certamente, come la chiama Whitehead, «effetto del ritrarsi del senso comune».2
Infatti il senso comune, quello da cui una volta tutti gli altri sensi, con le loro sensazioni intimamente private, venivano adeguati al mondo comune, proprio come la visione adattava l’uomo al mondo visibile, diventa ora una facoltà interna senza alcuna relazione con il mondo. Questo senso veniva chiamato ancora senso comune solo perché, per caso, era comune a tutti. [VA pp. 209-210]