In queste parole Galileo esprime la sua ammirazione per Copernico e per Aristarco, la cui ragione era in grado di far forza sui loro sensi e di imporsi alla loro credulità (Dialogues concerning the two Great Systems of the World, 1661, trad. Salisbury, p. 301).
Democrito, dopo aver affermato che il bianco, il nero, l’amaro, il dolce sono mera apparenza, aggiunge: «Povero intelletto, tu trai i tuoi argomenti dai sensi per poi frustrarli. La tua vittoria è la tua disfatta» (cfr. Diels, Fragmente der Vorsokraitiker, 4a ed., 1922, fragm. B 125).
La stretta relazione tra la fiducia nei sensi e la fiducia nella ragione nel concetto tradizionale di verità fu riconosciuta chiaramente da Pascal che scrisse: «Questi due principi di verità, la ragione e i sensi, oltre al fatto di mancare entrambi di sincerità, si fanno reciprocamente violenza. I sensi fanno violenza alla ragione presentandole false apparenze, e questa stessa frode fatta alla ragione la ricevono a loro volta dalla ragione che si prende la sua rivincita. Le passioni dell’anima turbano i sensi suggerendo loro false impressioni» (Pensées, ed. Pléiade, Paris 1950, n. 92, p. 849). La famosa «scommessa» di Pascal, per cui vi sarebbe minor rischio nel credere a ciò che il cristianesimo insegna circa una vita ultramondana che nel negare questa credenza, è una dimostrazione sufficiente del rapporto tra la verità razionale e sensibile e la verità della rivelazione divina. Per Pascal, come per Descartes, Dio è un Dieu caché (ibid., n. 366, p. 928) che non si rivela, ma la cui esistenza e il cui carattere divino costituiscono la sola garanzia ipotetica che la vita umana non sia un inganno divino.
Max Weber, che nonostante i diversi errori di dettaglio è il solo tra gli storici ad aver affrontato la questione dell’età moderna con quella profondità che il problema impone, sapeva anche che non fu soltanto una mancanza di fede a causare il rovesciamento nella valutazione dell’opera e del lavoro, bensì la perdita della certitudo salutis. Nel nostro contesto risulterebbe che questa certezza fu soltanto una tra le molte certezze che andarono perdute con l’età moderna.
È certo notevole che nessuna delle principali religioni, con l’eccezione di quella di Zoroastro, abbia mai incluso la menzogna tra i peccati mortali. Non soltanto non esiste un comandamento che imponga di non mentire (il comandamento: non dir falsa testimonianza ha naturalmente un carattere completamente diverso), ma sembra anzi che prima dell’affermarsi di una morale puritana nessuno abbia mai considerato la menzogna un delitto.
Questo è il punto chiave dell’articolo di Bronowski, Science and Human Values, in «Nation», 29 dicembre 1959.
Da una lettera di Descartes a Henry More, riportata da Koyré, nell’opera citata.
Nel dialogo La recherche de la vérité par la lumière naturelle, ove Descartes espone le sue concezioni fondamentali prescindendo da ogni formalismo tecnico, la posizione centrale del dubbio è messa ancor più in evidenza che nelle altre opere. Infatti Eudosso, che rappresenta Descartes, dice: «Voi potete ragionevolmente dubitare di tutte le cose che potete conoscere soltanto per opera dei sensi; ma potete dubitare del vostro dubbio ed essere incerti se dubitate o no? Voi, che dubitate, siete, e questo è tanto vero che non potete più dubitare» (Pléiade, p. 680). [R. Descartes, Oeuvres et lettres, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1952]
«Je doute, donc je suis, ou bien, ce qui est la même chose: je pense, donc je suis» [Dubito, quindi sono, oppure, ed è la stessa cosa: penso quindi sono] (ibid., p. 687). Il pensiero ha quindi in Descartes un carattere puramente derivato: «Car s’il est vrai que je doute... il est également vrai que je pense; en effet douter est-il autre chose que penser d’une certaine manière?» [Infatti, se è vero che io dubito... è altrettanto vero che io penso; in effetti dubitare è forse diverso che pensare in un certo modo?] (ibid., p. 686). L’idea direttiva di questa filosofia non è certamente che sarei incapace di pensare senza essere, ma piuttosto «che non potremmo dubitare senza essere, e questa è la prima conoscenza certa che si possa acquisire» (Principes, ed. Pléiade, parte 1, sez. 7). L’argomento in se stesso naturalmente non è nuovo. Lo si trova per esempio, quasi parola per parola, in Agostino, De libero arbitrio (cap. 3), senza però la conseguenza che sia questa la sola certezza contro la possibilità di un Dieu trompeur, e senza che esso rappresenti propriamente la base di un sistema filosofico.
Non ci occupiamo qui dell’eventuale errore logico che Nietzsche ha ritenuto di poter individuare nel cogito, ergo sum, secondo cui l’espressione dovrebbe suonare invece: cogito, ergo cogitationes sunt, in quanto la consapevolezza espressa dal cogito non proverebbe che io sono bensì soltanto che la coscienza è (cfr. Nietzsche, Wille zur Macht, n. 484).
La qualità di Dio, come deus ex machina, unica soluzione possibile al dubbio universale, è particolarmente esplicita nelle Meditazioni di Descartes. Nella terza meditazione egli sostiene che, per eliminare la causa del dubbio, «devo esaminare se v’è un Dio... se trovo che ve ne è uno devo anche domandarmi se può essere un Dio ingannatore: infatti senza la conoscenza di queste due verità non vedo come potrei mai essere certo di alcunché». E nella quinta meditazione: «Così riconosco chiarissimamente che la certezza e la verità di ogni scienza dipendono dalla sola conoscenza del vero Dio: così che, prima di averlo conosciuto, non avrei potuto sapere perfettamente nessun’altra cosa» (ed. Pléiade, pp. 177, 208).
Questo trasferimento del senso comune nell’interiorità è caratteristico di tutta l’età moderna; nella lingua tedesca esso è indicato dalla differenza che sussiste tra la parola dell’antico tedesco Gemeinsinn [«senso comune»] e l’espressione più recente: Gesunder Menschverstand [ «buon senso», ma letteralmente «intelletto sano» ndt] che l’ha sostituita
Descartes operò in piena coscienza questo spostamento del punto di Archimede nell’uomo: «Poiché a partire da questo dubbio universale, come da un punto fisso e immobile, mi sono proposto di far derivare la conoscenza di Dio, di noi stessi e di tutte le cose esistenti nel mondo» (Recherche de la vérité p. 680).
P. Frank, in Philosophical Uses of Science, in «Bullettin of Atomic Scientists», vol. XIII, n. 4 (aprile 1957), definisce la scienza in base al suo obiettivo «di produrre i fenomeni osservabili desiderati».
A.N. Whitehead, The Concept of Nature (Anna Arbor ed.), p. 32 [trad. it. Il concetto di natura, Bollati Boringhieri, Torino 1975].
Ibid., p. 43. Il primo a commentare e criticare la mancanza del «senso comune» in Descartes fu Vico (cfr. De nostri temporis studiorum ratione cap. 3).