VII

IL TOTALITARISMO

Il dominio totale non consente libertà di iniziativa in nessun settore della vita, non può ammettere una attività che non sia interamente prevedibile.

H. Arendt, Le origini del totalitarismo

La trasformazione della natura umana

L’ideologia totalitaria non mira alla trasformazione dell’esistenza umana né al riassetto rivoluzionario dell’ordinamento sociale, bensì alla trasformazione della natura umana che, così com’è, si oppone al processo totalitario.

I lager sono i laboratori dove si sperimenta tale trasformazione, e la loro infamia riguarda tutti gli uomini, non soltanto gli internati e i guardiani. Non è in gioco la sofferenza, che ha sempre abbondato sulla terra, né il numero delle vittime. È in gioco la natura umana in quanto tale; e anche se gli esperimenti compiuti, lungi dal cambiare l’uomo, sono riusciti soltanto a distruggerlo, non si devono dimenticare le limitazioni di tali esperimenti, che richiederebbero il controllo dell’intero globo terrestre per produrre risultati conclusivi. [OT p. 628]

L’esempio totalitario

Il pericolo delle invenzioni totalitarie è che oggi, con la popolazione e lo sradicamento in rapido aumento dovunque, intere masse di uomini sono di continuo rese superflue nel senso della terminologia utilitaristica. È come se le tendenze politiche, sociali ed economiche dell’epoca congiurassero segretamente con gli strumenti escogitati per maneggiare gli uomini come cose superflue. La tentazione implicita è bene intesa dal buon senso utilitario delle masse, che nella maggior parte dei paesi sono troppo disperate per aver ancora paura della morte. C’è da temere che i campi di concentramento e le camere a gas — che rappresentano indubbiamente la soluzione più sbrigativa del problema del sovrappopolamento, della superfluità economica e dello sradicamento sociale — rimangano non solo di monito, ma anche di esempio. Le soluzioni totalitarie potrebbero sopravvivere alla caduta dei loro regimi sotto forma di tentazioni, destinate a ripresentarsi ogni qual volta appare impossibile alleviare la miseria politica, sociale o economica in maniera degna dell’uomo. [OT p. 629]

L’uccisione del soggetto

Il primo passo decisivo verso il dominio totale è l’uccisione del soggetto di diritto che è nell’uomo. Ciò è stato fatto, da un lato, ponendo certe categorie di persone fuori della protezione della legge e costringendo, mediante la snazionalizzazione, il mondo non totalitario a riconoscerne l’illegalità; dall’altro, ponendo i lager al di fuori del sistema penale ordinario, scegliendo gli internati contro qualsiasi regola della procedura normale, che stabilisce una pena per un reato commesso.

Così i criminali, che per altre ragioni sono un elemento essenziale nella società dei campi di concentramento, sono di solito inviati in un lager solo dopo aver scontato la loro condanna. In ogni caso, il regime fa sì che le categorie internate — ebrei, portatori di malattie, esponenti delle classi in via di estinzione — abbiano già perso la loro capacità di azione, sia normale sia delittuosa.

Propagandisticamente ciò significa che la «custodia protettiva» viene trattata come una «misura preventiva di polizia», cioè come una misura che priva gli individui della possibilità di agire. Le deviazioni da tale norma nella Russia staliniana devono essere attribuite alla disastrosa scarsità di prigioni e forse anche al desiderio, rimasto irrealizzato, di trasformare l’intero sistema giudiziario in un sistema di campi di concentramento.1 [OT pp. 612-613]

L’annullamento della libertà di iniziativa

La conseguente persecuzione di ogni forma superiore di attività intellettuale da parte dei moderni capi delle masse ha ragioni più profonde della naturale avversione per ciò che essi non capiscono. Il dominio totale non consente libertà d’iniziativa in nessun settore della vita, non può ammettere una attività che non sia interamente prevedibile. Ecco perché i regimi totalitari sostituiscono invariabilmente le persone di talento, a prescindere dalle loro simpatie, con eccentrici e imbecilli [...]. [OT p. 470]

L’uomo di massa

Dall’inizio del XIX secolo in poi, eminenti studiosi e statisti europei avevano profetizzato l’avvento dell’era della massa. Tutta una letteratura sul comportamento e sulla psicologia di questa aveva divulgato la conoscenza dell’affinità, ben nota agli antichi, fra democrazia e dittatura, fra olocrazia e tirannide. Senza dubbio, alcuni settori politicamente sensibili della cultura occidentale erano preparati all’apparizione dei demagoghi, al diffondersi dei pregiudizi, della crudeltà, della brutalità. Pur avverandosi in una certa misura, tali predizioni persero molto del loro significato, data la comparsa di fenomeni imprevisti e inattesi come il radicale disinteresse per la propria persona, 1 la cinica o annoiata indifferenza di fronte alla morte e ad altre catastrofi naturali, l’appassionata tendenza per le idee più astratte come norma di vita, il generale disprezzo per il più comune buon senso.

Contrariamente alle profezie, le masse non furono il prodotto della crescente eguaglianza di condizioni, della diffusione dell’istruzione, del conseguente abbassamento del livello della cultura, della popolarizzazione dei suoi contenuti. (Malgrado tutti i suoi difetti, l’America, il classico paese dell’eguaglianza di condizioni e della istruzione generale, ha conosciuto forse meno di qualsiasi altro paese del mondo la moderna psicologia di massa.)

Divenne ben presto evidente che la gente colta era particolarmente attratta dai movimenti delle masse e che, in genere, la sofisticazione e lo spiccato individualismo, lungi dall’impedire l’abbandono di se stessi e della propria peculiarità nell’abbraccio di questi movimenti, talvolta addirittura lo favorivano. Poiché non ci si era aspettati che la raffinatezza e la spiritualità si conciliassero con l’assunzione di atteggiamenti di massa, se ne diede spesso la colpa allo stato patologico o al nichilismo dell’ intelligencija moderna, a un presunto tipico odio intellettuale contro se stessi, all’ostilità dello spirito verso la vita. Ma in realtà gli intellettuali non erano che gli esempi più vistosi, i portavoce più abili di un fenomeno generale. Essendo stati preceduti dall’atomizzazione sociale e da un’estrema individualizzazione, i movimenti di massa attrassero, prima e molto più facilmente dei membri dei partiti tradizionali, che erano inclini all’associazione, gli elementi completamente disorganizzati, i tipici «astensionisti» che per il loro individualismo avevano sempre rifiutato di riconoscere vincoli e doveri sociali.

La verità è che le masse si formarono dai frammenti di una società atomizzata, in cui la struttura competitiva e la concomitante solitudine dell’individuo erano state tenute a freno soltanto dall’appartenenza a una classe.

Le principali caratteristiche dell’uomo di massa non erano la brutalità e la rozzezza, ma l’isolamento e la mancanza di normali relazioni sociali. [OT pp. 438-439]

La logica del totalitarismo

Il tentativo di rendere superflui gli uomini riflette l’esperienza delle masse moderne, costrette a constatare la loro superfluità su una terra sovrappopolata. La società dei morenti – in cui la punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto senza un prodotto — è un luogo dove quotidianamente si crea l’insensatezza. Eppure, nel contesto dell’ideologia totalitaria, nulla potrebbe essere più sensato e logico: se gli internati sono dei parassiti, è logico che vengano uccisi col gas; se sono dei degenerati, non si deve permettere che contaminino la popolazione; se hanno un’«anima da schiavi» (Himmel), non è il caso di sprecare il proprio tempo per cercare di rieducarli. Visti attraverso le lenti dell’ideologia, i campi hanno quasi il difetto di aver troppo senso, di attuare la dottrina con troppa coerenza.

Mentre distrugge tutte le connessioni di senso con cui normalmente si calcola e si agisce, il regime impone una specie di supersenso, che in realtà le ideologie avevano in mente quando pretendevano di aver scoperto la chiave della storia o la soluzione degli enigmi dell’universo. Al di sopra della insensatezza della società totalitaria è insediato, come su un trono, il ridicolo supersenso della sua superstizione ideologica. Le ideologie sono opinioni innocue, acritiche e arbitrarie solo finché nessuno vi crede sul serio. Una volta presa alla lettera la loro pretesa di validità totale, esse diventano il nucleo di sistemi logici in cui, come nei sistemi dei paranoici, ogni cosa deriva comprensibilmente e necessariamente, perché una prima premessa viene accettata in modo assiomatico.

La follia di tali sistemi non consiste tanto nella prima premessa, quanto nella logicità con cui sono costruiti. La curiosa logicità di tutti gli «ismi», la loro fede ingenua nell’efficacia redentrice della devozione caparbia, senza alcun riguardo per i vari fattori specifici, racchiude già in sé i primi germi del disprezzo totalitario per la realtà e la fattualità. [OT pp. 626-627]

Il disprezzo per il dato

Il buon senso educato al ragionamento utilitario è impotente contro il supersenso ideologico appena il regime procede a creare da questo un mondo funzionante. Il disprezzo puramente ideologico per la realtà del mondo dato conteneva anche l’orgogliosa presunzione dell’uomo di poter dominare e modificare questo mondo per scopi umani; è dopotutto il disprezzo della realtà esistente che rende possibile modificare le cose, edificare l’edificio umano. Quel che distrugge l’elemento dell’orgoglio nel disprezzo del regime per la realtà (distinguendo nettamente il movimento totalitario dal movimento rivoluzionario da cui spesso è uscito) è il supersenso, che dà a tale disprezzo la sua logicità e coerenza. Totalitaria non è la pretesa della Russia rivoluzionaria che, nelle condizioni esistenti, la dittatura del proletariato sia la migliore forma di governo, bensì la catena di deduzioni, tratta soltanto dal dittatore totalitario, in base alla quale risulta logicamente che senza tale sistema non si può costruire una metropolitana, che chiunque sa dell’esistenza della metropolitana di Parigi è sospetto perché potrebbe dubitare della prima deduzione e che quindi, se fosse possibile, bisognerebbe distruggere questa metropolitana, che invero non sarebbe mai dovuta esistere.

Con queste nuove strutture politiche, fondate sulla forza del supersenso e spinte dal motore della logicità, si è in realtà alla fine sia dell’era borghese che dell’era imperialistica. L’aggressività del totalitarismo non deriva dalla sete di potenza; e se esso cerca febbrilmente di espandersi, non è né per smania di espansione né per profitto, ma solo per ragioni ideologiche: per dimostrare su scala mondiale che la propria ideologia aveva ragione, per edificare un mondo fittizio coerente non più disturbato dalla fattualità. [OT pp. 627-628]

La propaganda totalitaria

L’insistenza della propaganda totalitaria sulla natura «scientifica» delle sue affermazioni è stata paragonata a certe tecniche pubblicitarie che pure si rivolgono alle masse. È vero che la pubblicità di ogni giornale è un esempio di questa «scientificità» in virtù della quale un fabbricante prova con dati e cifre e l’ausilio di un laboratorio di «ricerche» che il suo è «il miglior sapone del mondo».1

Ed è altresì vero che vi è un certo elemento di violenza nelle immaginose esagerazioni dei reclamisti; dietro l’affermazione che soltanto questo particolare tipo di sapone elimina i foruncoletti e consente di trovare un marito si nasconde naturalmente il confuso sogno del monopolio, il sogno del fabbricante di avere un giorno il potere di privare del marito tutte le ragazze che non usano il suo sapone. In entrambi i casi, nella pubblicità commerciale come nella propaganda totalitaria, la scienza è ovviamente soltanto un surrogato del potere monopolistico.

L’ossessione dei movimenti totalitari per le prove «scientifiche» cessa appena essi giungono al potere: I nazisti licenziarono persino gli studiosi che erano disposti a servirli, e i bolscevichi usarono la reputazione dei loro scienziati per scopi assolutamente non scientifici costringendoli a far la parte di ciarlatani.

Ma le analogie spesso sopravvalutate fra pubblicità e propaganda di massa si fermano qui. Gli uomini d’affari non si atteggiano di solito a profeti e non fanno rilevare di continuo la giustezza delle loro predizioni. La scientificità della propaganda totalitaria è caratterizzata dalla sua insistenza pressoché esclusiva sulla profezia, mentre le vecchie forme di propaganda politica si richiamavano al passato.

L’origine ideologica —il socialismo in un caso, il razzismo nell’altro —appare chiaramente quando i portavoce dei movimenti pretendono di aver scoperto le forze nascoste che porteranno loro immancabilmente fortuna nella catena di fatalità. Esercitano naturalmente un profondo fascino sulle masse i «sistemi assolutisti» che, come osservava Tocqueville, «presentano tutti gli avvenimenti della storia come se dipendessero dalle grandi cause prime unite dalla catena della necessità e che, per così dire, eliminano gli uomini dalla storia della razza umana». [OT pp. 476-477]

 

 

La propaganda totalitaria ha perfezionato la tecnica, propria della scientificità ideologica, di dare alle proprie affermazioni la forma di predizioni, portando al massimo l’efficienza del metodo e l’assurdità del contenuto, perché dal punto di vista demagogico non c’è un modo migliore, per evitare la discussione, che svincolare un argomento dal controllo del presente dicendo che soltanto il futuro può rivelarne i meriti. Tuttavia, essa non ha inventato questo procedimento, e non è stata la sola a usarlo. La scientificità della propaganda di massa ha invero svolto un ruolo così importante nella politica moderna da essere interpretata come un sintomo di quell’ occasione per la scienza che ha caratterizzato il mondo occidentale a partire dall’ascesa della matematica e della fisica nel XVI secolo; così il totalitarismo appare soltanto come l’ultimo stadio di un processo durante il quale «la scienza diventa un idolo capace di eliminare magicamente tutti i mali dell’esistenza e persino di trasformare la natura dell’uomo».2 In effetti, c’è stata una connessione fra la scientificità e l’ascesa delle masse. [OT p. 478]

I campi di concentramento

I campi di concentramento e di sterminio servono al regime totalitario come laboratori per la verifica della sua pretesa di dominio assoluto. Rispetto a questo, tutti gli altri esperimenti (e tali laboratori sono stati usati per esperimenti d’ogni genere) rivestono un’importanza secondaria, non esclusi quelli compiuti nel campo della medicina, i cui orrori sono stati riferiti per esteso nei processi contro i medici del Terzo Reich.

Il dominio totale, che mira a organizzare gli uomini nella loro infinita pluralità e diversità come se tutti insieme costituissero un unico individuo, è possibile soltanto se ogni persona viene ridotta a un’immutabile identità di reazioni, in modo che ciascuno di questi fasci di reazioni possa essere scambiato con qualsiasi altro. Si tratta di fabbricare qualcosa che non esiste, cioè un tipo umano simile agli animali, la cui unica «libertà» consisterebbe nel «preservare la specie».1 Tale fine viene perseguito sia con l’indottrinamento ideologico delle formazioni d’élite sia col terrore assoluto dei lager, e le atrocità, a cui le formazioni d’élite sono adibite senza riguardi, diventano, per così dire, l’applicazione pratica dell’indottrinamento ideologico, il suo banco di prova, mentre lo spaventoso spettacolo dei campi dovrebbe fungere da verifica «teorica» dell’ideologia.

I lager servono, oltre che a sterminare e a degradare gli individui, a compiere l’orrendo esperimento di eliminare, in condizioni scientificamente controllate, la spontaneità stessa come espressione del comportamento umano e di trasformare l’uomo in un oggetto, in qualcosa che neppure gli animali sono; perché il cane di Pavlov che, com’è noto, era ammaestrato a mangiare, non quando aveva fame, ma quando suonava una campana, era un animale pervertito.

In circostanze normali ciò non può essere ottenuto, perché la spontaneità non può mai essere interamente soffocata, connessa com’è non solo alla libertà umana, ma alla vita stessa in quanto semplice rimaner vivo. Solo nei campi di concentramento un esperimento del genere diventa possibile; e perciò essi sono, oltre che «la société la plus totalitaire encore réalisée» (David Rousset), l’ideale sociale che guida il potere totalitario. Come la stabilità del regime dipende dall’isolamento del suo mondo fittizio dall’esterno, così l’esperimento di dominio totale nei campi richiede che questi siano ermeticamente chiusi agli sguardi del mondo di tutti gli altri, del mondo dei vivi in genere. Tale isolamento spiega la peculiare irrealtà e incredulità che caratterizza tutti i resoconti su di essi e costituisce una delle principali difficoltà che si frappongono all’esatta comprensione del dominio totalitario, le cui sorti sono legate all’esistenza dei campi di concentramento e di sterminio; perché questi, per quanto inverosimile possa sembrare, sono la vera istituzione centrale del potere totalitario. [OT pp. 599-600]

L’«inutilità» dei campi

Non ci sono paralleli con la vita nei campi di concentramento. Il suo orrore non può mai interamente essere percepito dall’immaginazione, perché rimane al di fuori della vita e della morte. Esso non può mai essere pienamente descritto, perché il superstite ritorna al mondo dei vivi che gli impedisce di credere completamente nelle sue esperienze passate. È come se egli avesse da raccontare la storia di un altro pianeta, perché gli internati sono simili a individui mai nati nel mondo dei vivi, dove nessuno presumibilmente dovrebbe sapere se essi sono ancora in vita o già morti. Perciò ogni parallelo crea confusione e distrae l’attenzione da quanto è essenziale. Il lavoro forzato, la proscrizione, la schiavitù sembrano tutti offrire per un attimo la base per utili raffronti, ma a un esame più accurato si rivelano troppo lontani e diversi.

Il lavoro coatto come pena è limitato nel tempo e nell’intensità. Il forzato conserva i diritti del suo corpo; egli non è assolutamente torturato né dominato. La proscrizione si limita a esiliare una persona da una parte del mondo in un’altra, pure abitata da uomini; non esclude affatto dal consorzio umano. Attraverso la storia la schiavitù è stata un’istituzione nell’ambito di un ordinamento sociale; gli schiavi non erano, come gli internati dei campi di concentramento, sottratti alla vista e quindi alla protezione dei loro simili; in quanto strumenti di lavoro, avevano un determinato prezzo e, in quanto proprietà, un determinato valore. L’internato non ha prezzo, perché può sempre essere sostituito; nessuno sa a chi egli appartenga, perché non lo si vede mai. Dal punto di vista della società normale egli è assolutamente superfluo, benché nei periodi di grave penuria di manodopera, come in Russia e in Germania durante la guerra, venga usato per il lavoro.

I campi di concentramento come istituzioni non sono stati creati in vista di una possibile prestazione produttiva, dato che la loro unica funzione economica permanente è stata quella di finanziare l’apparato della sorveglianza; quindi, per quanto concerne l’economia,, essi esistono principalmente per se stessi.

 

[...]

 

Specialmente nel regime staliniano, i cui campi di concentramento erano per lo più descritti come campi di lavoro coatto perché la burocrazia aveva voluto nobilitarli con tale nome, era chiaro che non si trattava di questo; il lavoro coatto era la condizione normale di tutti i lavoratori russi, che non avevano libertà di spostamento e ad ogni istante potevano essere arbitrariamente mobilitati per l’invio in qualsiasi luogo.

L’incredibilità degli orrori è strettamente legata alla loro inutilità economica. I nazisti portarono questa inutilità dall’esterno, fino alla aperta anti-utilità, quando nel bel mezzo della guerra, malgrado la scarsezza di materiale edilizio e rotabile, costruirono enormi e costose fabbriche di sterminio trasportando milioni di persone avanti e indietro.1 Agli occhi di un mondo rigorosamente utilitarista l’evidente contrasto fra queste azioni e le necessità militari dava all’intera impresa un’aria di folle irrealtà. [OT pp. 607-609]

La morte

Il mondo occidentale, anche nei suoi periodi più tenebrosi, aveva fino allora concesso al nemico ucciso il diritto al ricordo come evidente riconoscimento del fatto che tutti siamo uomini (e soltanto uomini). Solo perché lo stesso Achille si preparava per la sepoltura di Ettore, solo perché i governi più dispotici onoravano il nemico morto, solo perché i romani permettevano ai cristiani di scrivere i loro martirologi, solo perché la Chiesa manteneva i suoi eretici vivi nella memoria della gente, solo per questo non tutto era perduto e non poteva esserlo. Rendendo anonima persino la morte (con l’impossibilità di accertare se un prigioniero era vivo o deceduto), i lager la spogliavano del suo significato di fine di una vita compiuta. In un certo senso, essi sottraevano all’individuo la sua morte, dimostrando che a partire da quel momento niente più gli apparteneva ed egli non apparteneva più a nessuno. La sua morte non faceva altro che suggellare il fatto che egli non era realmente mai esistito. [OT pp. 618-619]

La produzione dell’oltretomba

Questa atmosfera irreale, prodotta da una palese insensatezza, è la vera cortina fumogena che nasconde tutte le forme di campi di concentramento. Visti dall’esterno, essi e le cose che vi accadono possono essere descritti soltanto con immagini tratte da una vita dopo la morte, cioè una vita avulsa da scopi terreni. Li si può suddividere in tre tipi, corrispondenti alle tre immagini occidentali della vita nell’aldilà: Ade, purgatorio e inferno. All’Ade corrispondono le forme relativamente miti, una volta di moda persino nei paesi non totalitari, usate per togliere di mezzo gli elementi indesiderabili di ogni specie, rifugiati, apolidi, asociali e disoccupati; come campi profughi, adibiti alla raccolta delle persone diventate superflue e noiose, esse sono sopravvissute alla guerra. Il purgatorio era rappresentato dai campi di lavoro staliniani, dove la mancanza di cure si associava al caotico lavoro forzato. L’inferno nel senso più letterale della parola era costituito da quei tipi di campi perfezionati dai nazisti, in cui l’intera vita era sistematicamente organizzata per infliggere il massimo tormento possibile.

Tutti tre i tipi di campi hanno una cosa in comune: le masse umane segregate in essi sono trattate come se non esistessero più, come se la sorte loro toccata non interessasse più nessuno, come se fossero già decedute e uno spirito maligno impazzito si divertisse a trattenerle per un po’ fra la vita e la morte prima di ammetterle alla pace eterna.

Non è tanto il filo spinato, quanto l’irrealtà abilmente creata dagli individui da esso circondati che provoca crudeltà così enormi e alla fine fa apparire lo sterminio come una misura perfettamente normale. Tutto ciò che si è svolto nei campi ci è noto dal mondo delle fantasie malvagie e perverse. La cosa difficile da capire è che, al pari di tali fantasie, questi crimini mostruosi avvengono in un mondo spettrale, peraltro materializzatosi, in un mondo privo di quella struttura di conseguenze e responsabilità senza la quale la realtà rimane per noi una massa di dati incomprensibili; di modo che alla fine né il torturatore né il torturato, e ancor meno l’estraneo, possono rendersi conto che quanto sta accadendo è qualcosa più che un gioco crudele o un sogno assurdo.1

I film che gli alleati hanno messo in circolazione in Germania e altrove dopo la guerra hanno mostrato che questa atmosfera di follia e irrealtà non è dissipata dal documentario puro e semplice. Per l’osservatore spregiudicato tali immagini possedevano la stessa forza persuasiva delle fotografie di sostanze misteriose fatte nelle sedute spiritiche. Il buon senso reagiva agli orrori di Buchenwald e Auschwitz con l’argomento plausibile: «Che cosa deve aver commesso questa gente per subire una simile sorte!»; oppure, in Germania e in Austria, in mezzo alla fame, al sovraffollamento e all’odio generale: «Peccato che non ne abbiamo uccisi di più col gas!»; e dappertutto con la scettica scrollata di testa che accoglie la propaganda inefficace.

La propaganda della verità non riesce a convincere la persona normale perché tale verità è troppo mostruosa, ma ha un effetto pericoloso su coloro i quali sanno dalle proprie fantasticherie di esser capaci di fare qualcosa di simile e sono quindi fin troppo disposti a credere nella realtà di quanto hanno visto.

Improvvisamente si scopre che quanto per millenni la fantasia aveva relegato in un regno al di là della competenza umana può essere realmente prodotto qui sulla terra, che l’inferno e il purgatorio, e persino un riflesso della loro durata eterna, possono essere instaurati coi più moderni metodi di distruzione e terapia.

A tali individui (e in ogni grande città ce ne sono di più di quanti vorremmo ammettere) l’esperimento totalitario dimostra soltanto che il potere dell’uomo è maggiore di quanto osassero supporre e che si possono realizzare le fantasie infernali senza che il cielo cada o si spalanchi la terra. [OT pp. 609-611]

La mancanza di fede nel giudizio finale

Nulla forse distingue le masse moderne da quelle dei secoli precedenti come la mancanza di fede in un giudizio finale: i peggiori hanno perso la paura, e i migliori la speranza. Incapaci di vivere senza timore e speranza, queste masse sono attratte da ogni sforzo che sembra promettere un’instaurazione del paradiso sognato e dell’inferno temuto. Come gli aspetti volgarizzati della società senza classi hanno una strana somiglianza con l’era messianica, così la realtà dei campi di concentramento corrisponde in modo sorprendente alle immagini medioevali dell’inferno.

L’unica cosa irrealizzabile è ciò che rendeva sopportabili le concezioni tradizionali del castigo: il giudizio universale, l’idea di un principio assoluto di giustizia associato all’infinita possibilità della grazia. Perché nella valutazione umana non c’è delitto o peccato che sia commisurabile con le pene eterne dell’inferno. Di qui il turbamento del buon senso, che si chiede: che cosa devono aver commesso queste persone per soffrire in modo così inumano? Di qui anche l’assoluta innocenza delle vittime: nessun uomo l’ha mai meritato. Di qui infine la grottesca casualità della scelta degli internati dei lager nel perfetto stato di terrore: una simile «pena» può, con eguale giustizia e ingiustizia, essere inflitta a chiunque.

In confronto del folle risultato finale, la società dei campi di concentramento, il processo con cui gli individui sono preparati e adattati a tali condizioni è trasparente e logico. La folle produzione in massa di cadaveri è preceduta dalla preparazione, storicamente e politicamente intelligibile, di cadaveri viventi. L’impeto e, quel che più conta, il tacito consenso a condizioni così inaudite sono il prodotto di quegli avvenimenti che, in un periodo di disintegrazione politica, hanno improvvisamente fatto di centinaia di migliaia, e poi di milioni, di uomini degli individui senza patria, senza Stato, al bando della legge, indesiderati, economicamente superflui, socialmente gravosi. Ciò è potuto avvenire perché i diritti dell’uomo, che non erano stati filosoficamente giustificati né politicamente garantiti, hanno perso ogni validità nella loro forma tradizionale. [OT pp. 611-612]

La speranza dell’inizio

Le condizioni della nostra esistenza politica sono oggi minacciate da tali tempeste di sabbia devastatrici. Il pericolo non è che possano creare qualcosa di durevole. Il dominio totalitario, al pari della tirannide, racchiude in sé i germi della propria distruzione. Come la paura e l’impotenza, da cui quella deriva, sono principi antipolitici e gettano gli uomini in una situazione contraria alla azione politica, così l’estraneazione e la deduzione logico-ideologica del peggio, ad essa legata, rappresentano una situazione antisociale e contengono un principio distruttivo per ogni convivenza umana.

Cionondimeno, l’estraneazione organizzata è infinitamente più pericolosa dell’impotenza disorganizzata di tutte le persone soggette alla volontà tirannica e arbitraria di un singolo. Essa minaccia di devastare il mondo così come lo conosciamo — un mondo che dovunque sembra giunto alla fine — prima che un nuovo inizio nascente da questa fine abbia avuto il tempo di affermarsi.

A tali considerazioni — che come predizioni sono di scarsa utilità e ancor meno di conforto — rimane il fatto che la crisi del nostro tempo e la sua esperienza centrale hanno portato alla luce una forma interamente nuova di governo che, in quanto potenzialità e costante pericolo, ci resterà probabilmente alle costole per l’avvenire, al pari di altre forme che, apparse in momenti storici diversi e basate su diverse esperienze di fondo, hanno accompagnato dopo d’allora l’umanità a prescindere dalle temporanee sconfitte: monarchie e repubbliche, tirannidi, dittature e dispotismo.

Ma rimane altresì vero che ogni fine nella storia contiene necessariamente un nuovo inizio; questo inizio è la promessa, l’unico «messaggio» che la fine possa presentare. L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana — «Initium ut esset, creatus, creatus est homo», «affinché ci fosse un inizio, è stato creato l’uomo», dice Agostino.1 Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo. [ OT p. 656]