PROFILO BIOBIBLIOGRAFICO

Hannah Arendt nacque nel 1906 a Hannover.1

I suoi genitori, entrambi di idee socialdemocratiche, appartenevano alla borghesia ebraica ma non avevano legami particolari con il movimento e le idee sioniste. Precoce negli studi, la Arendt finì giovanissima quelli secondari a Königsberg, dove la famiglia si era nel frattempo trasferita, conseguendo nel 1924 l’Abitur, il nostro diploma di maturità.

Durante gli anni della scuola superiore aveva trascorso due semestri di studio come uditore all’Università di Berlino. Nel periodo della sua permanenza, oltre alle lezioni di greco e latino, aveva seguito anche il corso di teologia cristiana tenuto dal filosofo e teologo Romano Guardini. In quell’occasione sentì parlare per la prima volta di Søren Kierkegaard, un autore che suscitò subito in lei un grande interesse.

Conseguito l’Abitur, la Arendt decise di iscriversi all’Università di Marburg dove le sembrò di trovare le condizioni ideali per lo studio della filosofia. In quella sede si stava facendo strada, infatti, la tendenza più interessante di quegli anni, la fenomenologia di Husserl, ed era appena arrivato Martin Heidegger. Questi, oltre a essere un professore emergente nel panorama accademico tedesco, sarebbe potuto anche diventare un ottimo maestro per gli studenti di filosofia.

Nell’anno che trascorse a Marburg, la Arendt subì il fascino di Heidegger sia come filosofo sia come uomo: i due, infatti, oltre alla frequentazione intellettuale, ebbero anche una intensa relazione sentimentale.

Partì l’anno successivo per andare a studiare un semestre a Friburgo con Husserl, ma a Marburg non sarebbe più tornata: Heidegger decise infatti di mandarla a Heidelberg, dove il suo amico Jaspers aveva la cattedra di filosofia. Hannah arrivò proprio mentre questi stava iniziando la stesura definitiva della sua opera principale, i tre volumi della Filosofia, e a Heidelberg rimase fino al 1929, anno in cui, sotto la guida proprio di Karl Jaspers, terminò la sua dissertazione, intitolata Der Liebensbegriff bei Augustin.2 Nel 1929, trasferitasi a Berlino, ottenne una borsa di studio per portare a termine una ricerca sul romanticismo tedesco dedicata alla figura di Rahel Varnhagen.3

Nello stesso anno sposò Günther Stern, un filosofo ebreo che aveva conosciuto qualche anno prima ai seminari di Heidegger. Subito dopo il matrimonio i due, a causa dei loro impegni di ricerca, vissero in varie città tedesche, tra cui Heidelberg e Francoforte. Questi sono anche gli anni in cui la Arendt legge Rilke e inizia, di qui, una impresa che durerà per tutta la sua vita, una impresa distinta, ma in qualche modo complementare alla sua riflessione filosofico-politica: sottrarre l’opera dei poeti al monopolio degli specialisti per restituirla a un uditorio più ampio.

Poesia e letteratura, secondo lei, aiutano chiunque a vivere, sono cose troppo importanti per essere lasciate solo ai critici: la parola poetica attraverso il linguaggio delle immagini, del simbolo e della metafora è in grado di farci percepire, anche solo per un istante, il senso del mondo e della vita.4

I primi anni Trenta, in concomitanza con i primi problemi che la comunità ebraica cominciava ad avere in Germania, segnano anche l’inizio dell’interesse per la politica, un interesse che durerà poi per tutta la vita. Dopo l’avvento al potere di Hitler, quando la situazione stava ormai precipitando, Hannah, che aveva subito anche un arresto, riuscì a fuggire dalla Germania con la madre. Da quel momento fino al 1951, quando le venne concessa la cittadinanza americana, fu un’apolide, una persona priva di diritti politici. Trascorse alcuni anni a Parigi dove conobbe personalità di spicco della cultura europea. Seguì all’Ecole des hautes études i seminari di Kojève su Hegel, incontrò Sartre, col quale non strinse mai grande amicizia, e Koyré, che invece sarebbe diventato un suo grande amico. Il soggiorno parigino fu anche l’occasione per conoscere Bertold Brecht e diventare intima amica di Walter Benjamin. Nel 1940 Hannah si unì in seconde nozze con Heinrich Blücher, al quale la legò un profondo sodalizio anche intellettuale.

Dopo l’occupazione tedesca della Francia settentrionale, la situazione per la comunità ebraica si era fatta difficile anche a Parigi, tanto che Hannah fu internata dal governo di Vichy come straniera sospetta, ma venne poi rilasciata. I coniugi Blücher, con una certa dose di fortuna, riuscirono a ottenere il visto per l’espatrio e raggiunsero Lisbona. Un’organizzazione ebraica per l’immigrazione procurò loro due biglietti per gli Stati Uniti; dopo tre mesi partirono e, nel maggio 1941, giunsero a New York.

Si apriva una nuova fase nella vita e nell’opera dell’autrice, che trascorse negli Stati Uniti la seconda metà della sua vita, scrivendo le opere più importanti e conseguendo anche una grande notorietà pubblica. Il primo periodo non fu facile per i Blücher: basti pensare al problema economico e alla difficoltà di cimentarsi con una lingua che non conoscevano. Tuttavia la situazione, già dopo un solo anno, migliorò: si aprì per la Arendt, come per altri profughi, la possibilità di tenere dei seminari presso importanti istituti culturali di New York, come la Columbia University e la New School for Social Research. Queste opportunità, oltre a farle guadagnare un po’ di denaro, erano anche gratificanti dal punto di vista personale e costituivano una bella vetrina per il mondo culturale americano. Gli anni americani, confrontati al precedente periodo di vita della Arendt, sono relativamente tranquilli.

Non appena le fu possibile, cominciò a ricreare intorno a sé quel tessuto di amicizie che per due volte, in occasione della fuga dalla Germania prima e dalla Francia poi, era stato spezzato. Sul valore dell’amicizia, del resto, l’autrice ha scritto alcune fra le sue pagine più belle in Men in Dark Times (1968),5 dove traccia i profili di maestri e amici come Jaspers, Broch e Benjamin.

La sua casa divenne ben presto uno dei centri di incontro più frequentati e vivaci dell’intelligencija newyorkese. A partire dal 1957, inizia a pieno titolo la sua carriera accademica. Ottiene insegnamenti in varie università americane: a Berkeley, Princeton, Columbia, Brooklyn College, Chicago e, dal 1967 fino alla morte, alla New School for Social Research di New York. Nel 1972 le giunse l’invito a tenere le prestigiose Gifford Lectures all’Università di Aberdeen (Scozia), che erano state tenute in passato da pensatori come William James, Henri Bergson, Karl Barth, Etienne Gilson, Gabriel Marcel: un albo d’oro cui Hannah era orgogliosa di aggiungersi. Queste lezioni furono l’occasione per una sorta di messa alla prova del volume di The Life of the Mind pubblicato, incompiuto, nel 1978, tre anni dopo la morte dell’autrice, avvenuta a New York.

Durante il soggiorno americano la Arendt scrive opere che le conferiscono una grande notorietà pubblica e che la collocano nel novero dei grandi pensatori del Novecento.

Come abbiamo detto in precedenza, gli interessi dell’autrice sono ora indirizzati principalmente alle tematiche politologiche.

Nel saggio On Revolution, del 1963,6 l’autrice sostiene che la libertà è la sola ragion d’essere della politica: essa ha infatti come compito primario proprio quello di preservare le condizioni in cui sia garantito lo spazio per il manifestarsi della libertà.7 In base a questo criterio, il giudizio sulla Rivoluzione francese e su quella russa non può che essere negativo, mentre la Rivoluzione americana, la prima delle rivoluzioni moderne, viene vista come un tentativo sostanzialmente riuscito.

L’attenzione per la storia è sempre coniugata, nella Arendt, con una grande sensibilità per l’attualità. Ne danno testimonianza due scritti sempre di quegli anni.

Nel 1961 Hannah Arendt, come inviata del settimanale «New Yorker», assisté a Gerusalemme alle 120 sedute del processo a Eichmann, il gerarca nazista cui era stata affidata in gran parte l’organizzazione dello sterminio ebraico. Il resoconto del processo e le considerazioni che lo concludevano uscirono a puntate sulla rivista e, in volume, nel 1963.8

Nel 1970 esce invece On Violence, un agile libretto in cui la Arendt prende posizione su una tematica allora di scottante attualità.9 Il movimento studentesco americano, anche in seguito alla diffusione nei campus del Black Power, aveva assunto in quegli anni formulazioni teoriche e un conseguente atteggiamento pratico che lasciavano largo spazio alla violenza: a motivi maoisti e guevaristi si sovrapponevano autori di ascendenza bakuniana o nichilista. Nel suo libro, la Arendt rifiuta nel modo più categorico queste posizioni e denuncia il loro retroterra ideologico del tutto irrealistico nei confronti della condizione umana e della storia.

Le opere più importanti scritte nel periodo americano sono: The Origins of Totalitarianism (1951), The Human, Condition (1958) e The Life of the Mind (1978). Nel volume sul totalitarismo l’autrice denuncia un tentativo di fuga da quei fattori originari della condizione umana di cui la conoscenza e l’attività dovrebbero prendere atto. Oltre a effettuare un’attenta ricostruzione storica della genesi e del dispiegarsi di questo tragico fenomeno, la Arendt si sofferma con una penetrante analisi sull’ideologia, la matrice ideale del totalitarismo, il cui primo passo consiste nello staccarsi dal mondo, dall’esperienza immediata della realtà così come ci viene testimoniata dai sensi. Solo in questo modo si può porre mano al tentativo di estirpare dall’uomo la coscienza e la libertà, fattori supremi dell’imprevedibilità delle vicende umane.

The Human Condition ha come oggetto la vita activa, termine con cui vengono designate tre fondamentali attività umane: il lavoro, l’opera e l’azione. Tutte e tre queste attività sono legate alle condizioni in cui l’esistenza umana si svolge: la natalità, la mortalità, l’essere in comune. Una parte del volume è riservata alla critica del soggettivismo moderno e del dubbio cartesiano, atteggiamenti in cui la Arendt intravede un tentativo di fuga proprio dalla condizione umana.

Nell’opera The Life of the Mind, che segna il ritorno a pieno titolo alla filosofia teoretica, la Arendt si sofferma sulle attività fondamentali della mente: pensare, volere e giudicare. L’autrice in quest’opera avanza anche una proposta per superare la crisi in cui versa il pensiero contemporaneo operando una rivalutazione dei sensi in ambito gnoseologico. Lo stupore torna al centro della filosofia, uno stupore generato dal trovarsi di fronte a un dato, il dato della realtà, e della libertà dell’uomo, nel quale il non-detto si rivela nel detto e interpella, evoca l’uomo alla ricerca del significato.